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Il luppolo: un protagonista, tanto ruoli

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IL LUPPOLO: Un protagonista, tanti ruoli

Quantità, qualità e modalità di utilizzo del luppolo, nella realizzazione delle ricette per la produzione di birra, sono i fattori che continuano a tenere banco (si potrebbe dire bancone…) nel mercato della birra artigianale. D’altra parte, il ruolo assunto da questa pianta nell’accompagnare il processo di espansione nel mercato italiano e non solo, delle birre artigianali, è innegabile. Per quantità impiegata, la birra artigianale ha scavato un solco nei confronti dell’industria dove il luppolo viene ancora oggi adoperato, principalmente ed in piccola misura, quasi esclusivamente

durante la bollitura del mosto. In questo ambito produttivo, infatti, questa materia prima è identificata in termini di dotazione in α-acidi; riconoscendogli quindi come unico ruolo sensoriale, quello di equilibrare, tramite l’amaro, l’eccessiva dolcezza del mosto di malto. Per poterlo dosare al meglio viene preferita la forma

di estratto rispetto ai pellets o ad altri preparati commerciali, più largamente utilizzati nelle produzioni artigianali. Queste, di contro, hanno attinto a piene mani dalla disponibilità di nuove varietà ottenute attraverso programmi di selezione che hanno affiancato alla funzione amaricante quella della dotazione in sostanze volatili, permettendo al luppolo di assumere un ruolo di protagonista negli stili birrari che oggi dominano il mercato. L’esempio più evidente di questo cambio di filosofia di utilizzo, è dato dalla proposta di India Pale Ale sempre più muscolose in termini di amaro e l’occupazione del dominio sensoriale olfattivo con profili aromatici, intesi come varietà di sostanze volatili, fruttati e/o floreali sempre più complessi e ricercati. Secondo una stima datata 2017, un quarto degli stili di birra artigianale prodotti negli Stati Uniti erano rappresentati da India Pale Ales (IPA) per la realizzazione delle quali i produttori, nel corso degli anni, hanno incrementato quantità e varietà di luppolo allo scopo di assecondare un mercato sempre più esigente e competitivo. Uno studio di settore aveva a tal proposito certificato una correlazione diretta tra la predisposizione del consumatore a pagare un prezzo maggiore al bicchiere e la luppolatura “percepita”. Una considerazione che non sembra essere sfuggita ad alcuni produttori industriali che su questo componente hanno incentrato la loro strategia di marketing basata sulla identificazione della tipologia produttiva proprio in base ad un numero crescente (tre, quattro, dodici…) di luppoli, in etichetta. Nonostante la loro quota di mercato relativamente piccola i birrifici artigianali, soprattutto oltre oceano, hanno avuto un enorme impatto sull’industria produttiva di questa Cannabinacea. Per avere un’idea di questo fatto basterebbe ricordare l’incremento del 20% nel 2017 rispetto all’anno precedente, ed un trend in continua crescita oltre alla presenza di nuovi luppoleti anche in Paesi storicamente non vocati, con la proliferazione di programmi di ricerca in ogni parte del mondo, Italia compresa. Gli oli essenziali, che sono la risultante dell’estrazione delle resine presenti tra le ratee dei fiori di luppolo, sono il materiale nel quale si concentrano le sostanze caratterizzanti le sensazioni olfattive, variabili in quantità e composizione, in funzione delle singole varietà considerate ma anche delle condizioni geo-pedologiche e ambientali, nelle quali vengono coltivate. In linea generale, sono circa 450 i composti aromatici presenti e identificati negli oli essenziali tra cui mircene e linalolo rappresentano quello che potremmo definire, con buona approssimazione, il profumo tipico del luppolo. Per quanto i mastri birrai facciano ricadere la scelta di una o un’altra varietà anche in funzione delle caratteristiche compositive degli oli essenziali, tuttavia questo rappresenta un’approssimazione di ciò che realmente accade, al loro prodotto, durante le diverse fasi di produzione. È evidente infatti che non solo la quantità di prodotto utilizzata sia importante, ma anche la sua provenienza e la scelta del momento tecnologico nel quale verrà utilizzato. Perciò, le sensazioni dirette derivanti dall’analisi sensoriale del

prodotto o lo studio della sua composizione, possono variare in maniera consistente le caratteristiche del prodotto idealizzato rispetto a quello realizzato. In questo senso il fatto che i composti aromatici del luppolo, identificati nel

momento della scelta varietale, possano sopravvivere alle diverse fasi di produzione è solo una delle sfide accettata dal mastro birraio. Molti produttori riferiscono di cambiamenti non previsti in alcuni parametri in seguito a dryhopping spinto tra i quali registrano ad esempio: un incremento degli zuccheri residui o del pH, o di contaminazioni microbiche dovute alla presenza di lieviti indesiderati, o ancora un inaspettato incremento della gradazione alcolica, cui si accompagna una maggiore produzione di CO2 e dei livelli di diacetile. Queste evidenze, riportate da alcuni ricercatori inglesi nel 1893 indicavano nel dry hopping il responsabile di una più pronta e lunga fermentazione del mosto nelle botti pur tuttavia senza capirne il reale motivo. Ancora oggi il luppolo è considerato, a differenza degli altri ingredienti, incapace di interagire in maniera attiva con le altre materie prime e sono relativamente poche le ricerche che diano conto dell’interazione tra luppolo e lievito al di fuori degli effetti sui composti aromatici. Più in particolare ci si concentra “nell’effetto somma” derivante dagli apporti dei prodotti degli uni e degli altri: la frazione terpenica (dei luppoli) e esterica (dei lieviti) la quale dovrebbe nelle intenzioni, definire l’orizzonte olfattivo finale. Ciò che in seguito era stato solo ipotizzato, è stato poi confermato di recente dalla scoperta di alcuni enzimi amilolitici prodotti dai luppoli stessi, la cui concentrazione risultata correlata alla varietà di luppolo e alla quantità utilizzata. Questi sono capaci di determinare incrementi significativi nel grado plato e nella concentrazione alcolica. In pratica esiste la dimostrazione che una frazione di zuccheri fermentescibili del malto, possano essere resi disponibili dall’azione enzimatica dei luppoli e messa a disposizione di lieviti ancora vitali e capaci perciò di alterare in maniera consistente la qualità del prodotto finale.

Luppoli e lieviti tanto importanti nel determinare i contorni altamente caratterizzanti della birra condividono anche altre interazioni biochimiche e che coinvolgono il fenomeno fermentativo e post fermentativo. A partire da alcune ricerche che riferiscono di quanto i lieviti abbiano responsabilità sui composti volatili del luppolo durante il processo di trasformazione, altri studiosi hanno rivolto la loro attenzione sull’influenza che i diversi ceppi di lievito possono avere sulla composizione della frazione volatile della birra quando utilizzati con diverse varietà di luppolo, e viceversa. In particolare, è stato osservato come i lieviti siano in grado di compiere reazioni enzimatiche capaci di modificare la maggior parte dei composti volatili, o loro precursori, rilasciati nella birra dai luppoli. Non tutti i lieviti hanno equivalenti capacità di azione, mentre l’entità delle trasformazioni a carico di queste sostanze sarebbero da ricercare nella concentrazione della molecola di partenza che è, invece, una caratteristica specifica della varietà di luppolo utilizzata e delle condizioni di coltivazione e post raccolta. Da quanto esposto si evince che la scelta delle varietà di luppolo ormai rappresenta solo uno degli aspetti guida verso l’ottenimento di una determinata birra e che il mastro birraio è chiamato ad un ulteriore sforzo di comprensione delle interazioni tra le diverse materie prime avendo, come sempre, la ricerca dalla propria parte.

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