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L’OPINIONE

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IN PRINCIPIO FU L’AMARO

Un piccolo test di autovalutazione per misurare la propria anzianità da appassionati birrari (e di conseguenza recuperare la datazione del proprio alcolismo) consiste nel cercare nella memoria le tracce del primo viaggio all’Ange Gardien e del conseguente incontro con la Petit Orval o Orval Vert: se si ricorda di averla trovata un po’ sbilanciata e sopra le righe sul versante dell’amaro, allora si è decisamente bevitori anziani, battezzati dalla cervogia ben prima che il luppolo vivesse la sua stagione da principe degli ingredienti birrari. Nel caso in cui non si sia, colpevolmente, mai visitato il luogo di nascita di una delle birre più celebri al mondo, ricordare la Chouffe Houblon come un esperimento tanto ardito da essere in odore di eresia è un buon test surrogato. Se poi si rimembra anche di aver deliberato questa moda non può durare di fronte alle prime bevute di Sierra Nevada Pale Ale, con il loro lungo e deciso finale agrumato, allora, oltre alla propria età si ha anche l’opportunità di denunciare una capacità di previsione del futuro a metà strada tra Piero Fassino e il manager di un’azienda cartaria che a fine anni Novanta, sorridendo sotto i baffi, avesse sentenziato ne riparliamo quando questa sbandata per internet sarà finalmente passata. Le luppolature generose, invece, sono ancora oggi orgogliosamente sulla cresta dell’onda e sono state una delle

architravi del movimento craft, con un importante ruolo simbolico di contrasto rispetto alle dinamiche dell’industria: tanto più le major andavano ad abbassare, di anno in anno, il quantitativo di luppolo e le unità di amaro presenti nelle loro etichette, convinti a ciò sia dalle opportunità di risparmio confortate dei panel test aziendali che testimoniavano come il taglio di un 2-3% del quantitativo di verdi coni fosse percepito solo da un’esigua minoranza dei clienti, sia dagli uffici marketing che garantivano come il consumatore, specie in paesi come l’Italia, non gradisse il gusto amaro, quanto più i microproduttori incrementavano la presenza delle infiorescenze femminili del rampicante, vantandosi sempre più spesso di praticare luppolature non più solo generose ma “smodate”. Apparentemente accadde dunque un fenomeno del tutto inedito e che smentì in modo clamoroso i soloni del marketing alimentare poc’anzi citati: se una della linee guida dei prodotti industrializzati, le birre come i formaggi o i salumi, è sempre stata quella di creare flavour sostanzialmente neutri, senza spigoli, per poter abbracciare potenzialmente l’intera platea dei palati, con l’avvento delle prime APA e American IPA si assistette ad un clamoroso successo di birre dal forte impatto aromatico e gustativo e con l’acceleratore decisamente premuto sulla componente amara. Tra i giovanissimi desiderosi di mostrarsi bevitori maschi alfa, addirittura, la richiesta dammi la aipiei più amara che hai sostituì lo storico dammi la birra più forte che hai nelle orecchie di publican e baristi durante i lunghi servizi serali del week-end. È ancora più interessante notare come i bouquet e i sentori agrumati della prima generazione di APA e A-IPA abbiano conquistato alla causa delle birre una vasta platea di pubblico, anche femminile, che in precedenza snobbava la spumosa bevanda perché la riteneva troppo banale o, e ciò ci farà riflettere maggiormente, troppo/solo amara. Nel primo caso, ovvero la maggiore complessità e ricchezza aromatica come fattore di successo, ha avuto anche un ruolo, quantomeno in Italia, il rinnovato interesse per la degustazione vinicola a cui si è assistito negli anni Novanta: trovare anche nelle birre profumi fruttati, speziati e minerali che si era imparato a riconoscere nei vini ha sicuramente avvicinato alle microproduzioni artigianali un pubblico informato, attento e dal notevole potenziale di interesse. Le donne sono poi, saggiamente, più inclini ad annusare e analizzare cibi e bevande prima di ingerirli e non è quindi una sorpresa che una ragazza o una signora provi più soddisfazione a sorseggiare una American IPA o Pacific Pale Ale, specie se caratterizzata da una prevalenza aromatica “fruttata” (termine quanto mai generico su cui andrebbe compiuta una trattazione a parte), che a tracannare una lager industriale dal collo della bottiglia. É il secondo gruppo dei soggetti conquistati dalle luppolature spinte nate oltreoceano che ci fa però compiere importanti passi in avanti nella lettura del fenomeno: com’è possibile che persone che rifiutavano le mass market lager ritenendole “amare” abbia cominciato ad apprezzare, e in alcuni casi ad amare molto, birre con livelli di amaro decisamente più marcati? In primo luogo, esistono varie declinazioni di amaro e accade frequentemente che chi non ama l’amaro erbaceo, tipico delle Pils e della lager, o l’amarezza tostata delle birre scure, apprezzi invece l’amaro agrumato o viceversa. In secondo luogo, nelle birre caratterizzate da un’intensa luppolatura, il gusto

amaro viene sempre e necessariamente contrappuntato da altre componenti che vanno a limare le punte acuminate e generare equilibrio: il fiele, del resto, non è la bevanda preferita di nessuno! Nella prima generazione di APA e American IPA il bilanciamento era operato tramite una buona presenza di malti speciali come i Cara o il Cristal che andavano a colorare di ambrato carico le 60, 90 e 120 minutes di Dogfish Head, vere e proprie leggende liquide dei primi anni Duemila, e le primissime interpretazioni create in Italia dopo la Pioneer (nomen omen) Pale Ale di Mike Murphy come la Re Ale del Borgo, la AFO del Ducato o la eretica Artigianale di BiDu, in cui il Cascade convive con i continentali Perle e Styrian Goldings. Oltre al colore, i malti fornivano corpo e dolcezza che contribuivano ad abbassare la percezione dell’amaro: i più bravi, attenti e socratici publican, con il loro incessante interrogare, spesso finivano infatti a scoprire che ciò che i nuovi clienti amavano in queste birre era proprio la componente dolce, non quella amara. Non a caso, numerosi bevitori compulsivi di American IPA se venivano messi di fronte a una XX Bitter concludevano questa non mi piace, è troppo amara a dispetto di un numero di IBU decisamente inferiore alle loro birre preferite: l’assenza di malti speciali e la minore presenza di zuccheri residui rendevano infatti l’amaro della, a sua volta pionieristica, blond di De Ranke molto più percepibile. La seconda rivoluzione del luppolo, meno rumorosa della prima, giunse agli albori degli anni Dieci del XXI secolo con l’avvento delle American IPA di scuola West Coast: le produzioni di Port Brewing e Russian River, Pliny the Elder in testa, divennero i nuovi totem liquidi mentre in Italia la birra della svolta è stata la Spaceman di Brewfist. Cosa è cambiato nella sostanza? Niente più malti caramellati, solo pils o al massimo pale, quindi colore dorato chiaro, maggiore secchezza e conseguente ri-

schio di una percezione dell’amaro assai più elevata e potenzialmente graffiante. Il rischio di una minore corsa nel sorso venne quindi ovviato con un più contenuto carico di luppoli da amaro a fronte di un maggiore investimento sul late e dry hopping al fine di creare spettri olfattivi ancora più spinti e avvolgenti. Inoltre, la ricerca aromatica si è via via sempre più allontanata dai profumi agrumati per virare su note tropicali e resinose: Citra, Mosaic, Simcoe ed El Dorado, senza dimenticare i luppoli australiani, tasmaniani e neozelandesi con le loro fragranze di frutto a bacca, hanno soppiantato Cascade e Amarillo nella classifica delle varietà più ricercate e vendute. Alcuni di questi luppoli, per un curioso effetto paradosso, forniscono anche in bocca sentori di frutta matura e tropicale (inconfondibile il flavour di kiwi maturo dato dall’El Dorado o quello di guava fornito dall’Ekuanot) andando quindi a bilanciare con l’aromaticità dei loro oli essenziali le componenti amaricanti dei loro fratelli, sempre meno numerosi, usati a inizio bollitura. Le tendenze del più aroma meno amaro e del più frutta matura e tropicale e meno agrume hanno poi subito un’ulteriore accelerazione con l’avvento, nell’ultimo lustro, delle NEIPA e Juicy IPA, originarie della East Coast (“se a Ovest hanno i luppoli noi dobbiamo caratterizzarci con i lieviti” pensarono intelligentemente i birrai della costa atlantica) e contraddistinte, oltre che da quantità inusitate di luppoli aggiunti a freddo, dall’utilizzo di lieviti come il Vermont o il Conan che, al contrario dell’US 05 e dei classici ceppi da American IPA, attenuano meno le birre lasciandovi più zuccheri residui e donando loro dunque un corpo succoso e a volte quasi masticabile. Inoltre, questi ceppi non hanno un profilo fermentativo neutro ma generano, all’opposto, una significativa quantità di esteri, con profumi orientati in particolare alla pesca gialla e all’ananas, che vanno a potenziare gli analoghi aromi rilasciati dal dry hopping. Non si pensi che l’uso di lieviti più caratterizzanti sia una tendenza rimasta confinata nella nicchia delle juicy con il suo correlato di follie, in primis le one shot a carissimo prezzo che generano (o, quantomeno, generavano in epoca pre Covid-19) chilometriche file fuori dai cancelli dei birrifici di oltreoceano: oggi anche chi produce IPA in stile West Coast predilige sempre più l’utilizzo del

Vermont o addirittura di ceppi di lieviti britannici proprio per creare esteri dall’impronta aromatica affine a quella del blend di luppoli utilizzato. Come tutte le evoluzioni, anche quella delle birre molto luppolate porta con sé alcune forzature concettuali che finiscono per a volte sfociare in miti e leggende metropolitane. In principio fu l’amaro, abbiamo detto: ebbene, la sempre più spinta accelerazione sull’aroma a discapito dell’amaro ha portato oggi alla produzione di non poche birre, spesso etichettate come NEIPA, in cui l’aggiunta di luppolo a inizio bollitura è zero (non poco, proprio zero) e tutto si gioca negli ultimi minuti di cottura o a fuoco spento. Conseguenza è che sempre più frequentemente i publican sentono gli hop head della prima ora presentare rimostranze quali se ordino una IPA è perché voglio una birra amara, se volessi una boccetta di profumo andrei in una boutique. Le maggiori ossessioni, a volte ingiustificate, come vedremo, riguardano però shelf life e conservazione. Partiamo dai fatti: ❱ le birre fortemente caratterizzate dai luppoli devono essere consumate il più possibile fresche: vero. ❱ gli aromi da luppoli americani invecchiano peggio e più rapidamente

rispetto alle fragranze dei coni continentali a causa del diverso rapporto tra alfa e beta acidi: verissimo. le più gloriose IPA a stelle e strisce che hanno la sventura di solcare l’Atlantico in nave e surriscaldarsi nei container saranno semplicemente irriconoscibili: vero e tristemente noto. la data di confezionamento è più utile, per queste tipologie birrarie, rispetto a quella di scadenza, specie se un birrificio concede 5 anni di shelf life a una Double IPA in bottiglia (visto con i miei occhi): senza dubbio vero.

Quando però si sente parlare di birre che non sarebbero più in forma a due settimane dal confezionamento o perché spostate di 400 km (fatte salve le corrette modalità di conservazione e trasporto) giunge il momento di armarsi di spirito critico e non cascare in fandonie: la birra non è una mozzarella di bufala, per quanto anche in questo campo alcuni degustatori di formaggio stiano aprendo le porte a una possibile maturazione ed evoluzione organolettica positiva dei formaggi a pasta filata, è un prodotto che grazie al grado alcolico, al pH acido e ad altre componenti ha una sua stabilità per un periodo ragionevole di tempo. Ne consegue che una birra che perda le sue migliori caratteristiche aromatiche e gustative in pochi giorni sebbene sia chiusa nel proprio contenitore e ben conservata o trasportata è semplicemente un prodotto instabile a causa di errori umani o inadeguatezze strumentali in fase produttiva e di confezionamento, pick up di ossigeno in primis. In questo caso, dunque, il produttore avrebbe ben poco di cui vantarsi a riguardo e invece le dinamiche dell’hype spesso infrangono le leggi della logica e vanno a premiare proprio le birre più instabili incolpando di eventuali esperienze gustative deludenti il publican o rivenditore che ha osato spostare il sacro liquido dal suo luogo d’origine o il consumatore che si è illuso di poter

godere appieno del suo sublime gusto senza sobbarcarsi il viaggio. Il successo delle lattine, contenitore sicuramente consigliabile per birre, come le IPA e derivati, da bere poco tempo dopo il confezionamento e che porta con sé pure alcuni vantaggi logistici e ambientali rispetto alle bottiglie, ha aperto la porta anche ad altre leggende legate alla preferibilità del consumo direttamente dal contenitore metallico, senza l’ausilio di un bicchiere. In un’ottica di maggiore diffusione della birra artigianale è sicuramente meritevole e apprezzabile che un birrificio studi la carbonazione per donare godibilità anche al consumo dalla lattina, magari durante un’escursione a piedi o un concerto quando sarà possibile frequentarli di nuovo; quando si arriva però a sostenere che una birra non vada mai versata nel bicchiere dalla lattina perché si rovinerebbe proprio la carbonazione volutamente sottile, problema cui si può naturalmente ovviare versandola lentamente senza “splashare” o, tesi ancora più risibile, perché si genererebbe una dinamica ossidativa, dobbiamo di nuovo rispolverare le nostri capacità logiche e critiche e non berci, oltre alle birre, anche assurdità prive di riscontri scientifici o anche solo empirici. Luppolo sì, volentieri, ma con giudizio...★

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