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BIRRA & RICERCA

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Testa, cuore e... BRACCIA!

Lo studio del luppolo parte dai laboratori e non, come si potrebbe pensare, dai campi. Quello che oggi è conosciuto come il luppolo di Marano è frutto di una collaborazione tra l’Università di Parma e il comune di Marano sul Panaro per una coltivazione di luppolo autoctono. «Una collaborazione nata ufficialmente nel 2012» spiega il professor Tommaso Ganino, ricercatore e docente del Dipartimento di Scienze degli Alimenti e del Farmaco dell’Università di Parma «dopo una serie di incontri avvenuti l’anno prima insieme con l’allora sindaco Emilia Muratori ed Eugenio Pellicciari, un ex studente dell’Ateneo oggi fondatore di Italian Hops Company. Che il progetto fosse interessante io e il mio collega e superiore prof. Andrea Fabbri, lo abbiamo capito subito anche se in effetti io al tempo nutrivo anche un interesse personale oltre che professionale dato che ero un homebrewer che usava i fiori dei luppoli selvatici per aromatiz-

Il campo sperimentale di Marano

zare una mia birra dal nome evocativo di ET». La validità del progetto si è così trasformata in una collaborazione con il Comune che ha dato in concessione gratuita un appezzamento di terreno dove è nato l’embrione del campo di collezione. Al progetto nel 2013 si unisce Margherita Rodolfi che, fresca di laurea in Scienze e Tecnologie Alimentari, inizia il suo percorso di ricerca sul luppolo in Italia andando così a formare il team che oggi si occupa sia della parte agronomica sia di quella di analisi chimiche e genetiche. «Il ruolo dell’Università nel progetto» prosegue Ganino «è stato quello di individuare, caratterizzare e valorizzare dei luppoli selvatici presenti nel territorio Maranese; ma ci abbiamo messo

Tommaso Ganino, ricercatore e docente del Dipartimento di Scienze degli Alimenti e del Farmaco, Università di Parma

poco a capire che il territorio modenese ci stava stretto e così abbiamo iniziato a collezionare luppoli provenienti da varie regioni del Nord Italia come: Lombardia, Trentino e Veneto ma anche del centro, la Toscana o del sud come la Calabria. Oggi l’Università seleziona luppoli, ma segue anche diverse attività legate al luppolo come la tecnica agronomica, agricoltura 4.0, l’utilizzo degli scarti della filiera del luppolo e dei suoi sottoprodotti. Insomma, tante cose bollono in pentola e siamo sempre più convinti che questa pianta possa dare tanto all’Italia e alla filiera brassicola». Il progetto prosegue nel suo sviluppo e superata la fase di selezione oggi è molto orientato sulla tecnica agronomica e su alcuni punti della filiera del luppolo anche a causa della scarsità di fondi a favore della ricerca. «Alcune novità a “DNA italiano” sono state selezionate» spiega Margherita Rodolfi «ma ci restano da fare alcune valutazioni in merito ad aspetti agronomici delle piante selezionate e degli incroci. Al momento è ancora tutto top secret!». Il gruppo di ricerca di Parma ha imparato che ogni realtà scientifica e ogni azienda agricola può contribuire alla causa della ricerca sul luppolo e quindi non mancano collaborazioni nazionali ed estere con soggetti pubblici e privati. Oltre alla già citata Italian Hops Company anche l’Azienda Agricola di Ludovico Lucchi a Modena, la Cooperativa Luppoli Italiani a Ravenna; le collaborazioni di ricerca guardano a Porto Conte Ricerche in Sardegna e al Centro per le Attività Vivaistiche a Faenza. Con ognuna di queste realtà le collaborazioni e le attività di ricerca sono ovviamente sempre nate davanti da un boccale di birra! Infine merita di essere citata anche la collaborazione più “strana” e recente ossia quella con la chef Beatrice Maria Petrini con cui l’Università ha ideato un olio al luppolo chiamato Hopium: quest’olio, sapientemente dosato dalla chef, dona ai piatti un’esplo-

sione di sapore in grado di sorprendere i sensi e i palati. Il luppolo italiano esiste, anzi ne esistono tre nuove varietà dal 2017 a DNA completamente italiano. «Ne abbiamo isolate tre» precisa il professor Ganino «Humulus lupulus cv. M/P Futura, Humulus lupulus cv. M/P Aemilia e Humulus lupulus cv. M/P Modna; questi luppoli sono frutto della selezione che abbiamo avviato nel 2012 e l’acronimo M/P, che precede il nome di ogni varietà, sta ad indicare Marano sul Panaro, cioè il luogo dove tutto ha avuto inizio. Humulus lupulus cv. M/P Futura è un luppolo dagli aromi equilibrati, non ha prevalenza dell’una o dell’altra molecola aromatica e caratterizza la birra in modo elegante. Humulus lupulus cv. M/P Aemilia è un luppolo il cui nome è

stato dedicato al Sindaco di Marano sul Panaro, Emilia Muratori. È un luppolo deciso, graffiante ma mai aggressivo. Humulus lupulus cv. M/P Modna è un luppolo il cui nome è in onore della provincia che ci ospita, Modena. Il nome è volutamente in dialetto perché in questo modo viene accentuato il legame con il territorio. Modna è un luppolo da aroma, ha un bouquet aromatico importante e una concentrazione di acidi amari (alfa acidi) vicini a 7. È un luppolo che caratterizza bene uno stile APA. Purtroppo queste varietà in Italia non possono essere registrate in un registro varietale perché quest’ultimo non esiste. Questo però non ci deve impedire di coltivare piante nuove e italiane». Inevitabile a questo punto chiedersi cosa in realtà differenzi, dal punto di vista organolettico, un luppolo autoctono da uno importato. «Nelle zone miti a clima mediterraneo come quel-

Margherita Rodolfi, parte del team di ricerca dell’Università di Parma

Hopium, l’olio al luppolo creato dalla collaborazione tra l’Università di Parma e lo chef Beatrice Maria Petrini

le italiane» precisa Ganino «i luppoli sintetizzano una buona quantità di molecole che si chiamano selineni; si tratta di molecole che danno al luppolo un aroma fresco ed erbaceo che quindi tende a caratterizzare anche quelli italiani anche se poi ogni luppolo ha un suo bouquet aromatico; nel campo collezione abbiamo circa 300 genotipi e gli aromi variano dallo speziato al fruttato. Non mancano i cosiddetti “aromi indesiderati”, come per esempio i composti solforati (aglio e cipolla), ma esistono anche interessantissimi aromi; a me piacciono molto due luppoli, uno a prevalente aroma di cedro e l’altro a prevalente aroma di geranio. Non mi dispiace neanche la varietà che abbiamo chiamato “Zero”: è un genotipo a zero alfa acido, quindi ha un amaro quasi impercettibile. Date le particolarità del nostro belpaese come terroir, qualità, caratterizzazione delle produzione e differenziazione del prodotto, inevitabile che i birrifici italiani guardino alla produzione di luppolo casalinga per i loro prodotti «anche perché dai nostri studi» conferma Ganino «il clima e l’orografia italiana non pregiudicano la qualità del prodotto ma anzi a volte si tratta di prodotti di qualità più alta o semplicemente diversa». Certo pensare di riuscire a soddisfare le esigenze dei microbirrifici con una produzione made in Italy non è reale «ma non dovrebbe neanche essere un obiettivo secondo me» precisa Ganino «perché questo vorrebbe dire appiattire le produzioni birrarie. Credo invece che dovremmo puntare ad arricchire le possibilità produttive di quegli artisti che vengono definiti semplicemente mastri birrari. L’immissione sul mercato di un solo ingrediente nuovo come ad esempio una sola varietà di luppolo, porterà a innumerevoli nuove ricette di birre e già questo sarebbe un successo. Bisognerà puntare anche ai mercati esteri e magari alla ricerca di uno stile birrario italiano legato proprio al luppolo, come già hanno fatto negli Stati Uniti. I tempi? Forse ci siamo o forse no. Mediamente per la selezione di una nuova varietà sono necessari dieci lunghi anni di ricerche, analisi e prove… se facciamo due conti forse…».

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