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GESTIONE EMERGENZIALE

La pandemia come stress test dell’azienda alimentare

Con delibera del 31.01.2020, pubblicata in Gazzetta il giorno seguente, il Consiglio dei Ministri ha dichiarato, sulla scia delle prolusioni dell’OMS - che il 30.01.2020 a sua volta aveva annunciato lo stato di emergenza internazionale di salute pubblica -, lo stato di emergenza sanitaria per sei mesi, ovvero fino al 31.07.2020, a causa della diffusione del virus denominato COVID-19. Da questo esordio, in tempi sempre più compressi e rapidi, si sono susseguiti

provvedimenti normativi e amministra

tivi che hanno portato l’intera penisola, vessata da contagi in costante crescita e morti in vertiginoso aumento, all’attuale situazione di lockdown del Paese, posto davanti alla prima pandemia dell’era moderna. Insieme alla vita quotidiana, l’intero motore produttivo nazionale ha subito un brusco rallentamento, quando non addirittura una totale interruzione. Tra le attività la cui prosecuzione non è mai stata messa in dubbio vi sono tutte quelle del settore agroalimentare e relative filiere, che devono e dovranno garantire, anche nella ormai prossima Fase 2, la costanza del flusso di produzione e fornitura di generi alimentari alla popolazione (nell’ultimo DPCM vengono individuate le attività attraverso l’elencazione dei codici ATECO di appartenenza, tra i quali sempre sono stati inseriti i codici 10 – industrie alimentari – ed 11 – industria delle bevande). A fronte di questo quadro del tutto nuovo ed imprevisto, fin da subito si è palesata la necessità di affrontare un duplice e rilevantissimo problema, che riguarda sì l’attività imprenditoriale privata, ma che è altresì strettamente connesso con la salute pubblica, ovvero come garantire da un lato la sicurezza degli operatori e dall’altro la sicurezza del prodotto. Nell’eccezionalità del contesto, le due problematiche si sono ampiamente avvicinate e, complice la natura respiratoria del virus, trasmissibile attraverso secrezioni personali, la sicurezza del prodotto passa inevitabilmente e in massima parte per la sicurezza dell’operatore. Da questo punto di vista a livello interno è stato adottato in data 14.03.2020 un Protocollo condiviso tra le parti sociali su invito del Governo, che ne ha dapprima promosso la sottoscrizione con il DPCM 11.03.2020 e successivamente rafforzato la portata con D.L. 25.03.2020 n°25, inquadrandolo finanche quale conditio sine qua non della apertura o ri-apertura delle attività consentite.

Avv. Ingrid Riz Studio legale avv. Gaetano Forte

Diritto penale agroalimentare e sicurezza alimentare

Il COVID-19 costituisce un rischio di natura biologica per l’intera collettività, tanto che è necessario che le misure primarie siano adottate in egual modo da tutti: le stesse misure sono state declinate e adeguate dal Protocollo condiviso del 14.03.2020 nell’ambito lavorativo aziendale, allo scopo di minimizzare il rischio di contagio secondo il principio di precauzione.

GESTIRE IL RISCHIO CONTAGIO

Il primo punto sul quale focalizzare l’attenzione aziendale è senza dubbio l’informazione del personale e di chiunque entri in azienda circa le disposizioni dell’autorità, affiggendo o consegnando specifici dépliant informativi che devono specificare l’obbligo di permanenza domiciliare in caso di febbre o sintomi influenzali e l’onere di tempestiva dichiarazione della sussistenza di pericolo alle autorità sanitarie competenti, l’impegno al rispetto delle disposizioni dell’autorità sanitaria o del datore di lavoro per poter accedere all’azienda (che devono comprendere il mantenimento della distanza e le regole igieniche, che attengono in primis al lavaggio accurato delle mani con acqua e sapone o detergenti messi a disposizione dal datore di lavoro), l’informativa tempestiva e responsabile al datore di lavoro circa l’insorgenza di sintomi influenzali. Resta in capo alle persone presenti in azienda il dovere di adottare le precise precauzioni igieniche personali citate e al datore di lavoro la messa a disposizione degli strumenti per consentirne la concretizzazione (detergenti sanificanti, sapone, …). Per il contenimento del contagio è altresì richiesta una rigorosa organizzazione interna per quanto riguarda gli spazi comuni quali mense, sale comuni e spogliatoi, dove devono crearsi regole di accesso calmierato e soste contingentate nel tempo, oltre a ventilazione continua e mantenimento delle distanze interpersonali e dove vanno garantite la pulizia giornaliera e la sanificazione periodica dei locali e degli strumenti (ta

L’intero motore produttivo nazionale ha subito un brusco rallentamento, quando non addirittura una totale interruzione

stiere, macchine per la distribuzione di bevande ecc.). Sempre allo scopo primario di limitare i contatti fisici o ravvicinati è prevista anche la chiusura di eventuali reparti aziendali diversi dalla produzione con l’impiego del personale ove possibile in smartworking e un’eventuale rimodulazione dei livelli produttivi. Il Protocollo mira ad evitare che il contagio entri nell’azienda sia attraverso il personale che attraverso i fornitori, regolamentando le modalità di accesso degli esterni. Per gestire questo segmento è richiesta l’adozione di procedure di ingresso, transito e uscita al fine di ridurre le occasioni di contatto, è previsto che gli autisti rimangano a bordo del loro mezzo vietando comunque l’accesso all’interno degli uffici aziendali e mantenendo, in fase di preparazione delle attività di carico e scarico, la rigorosa distanza di almeno un metro. Al personale esterno va garantita la disponibilità di servizi igienici dedicati con pulizia quotidiana. Per la protezione collettiva in azienda va garantita la pulizia giornaliera e la sanificazione periodica che deve estendersi a locali e arredi e che va intensificata secondo le indicazioni ministeriali in presenza di eventuali positività al COVID 19; per la specifica protezione individuale invece è incentivato il rispetto della misura di distanziamento sociale e, qualora questo non sia possibile, l’impiego obbliga

torio di mascherine e altri dispositivi

di protezione. Le mascherine, peraltro, non sempre sono di agevole reperibilità in commercio e pertanto è stata adottata specifica normativa che ne consente la produzione in deroga (in assenza di marcatura CE ma con presenza dei relativi requisiti di conformità alle norme tecniche) con autorizzazione dell’ISS. Tale è la rilevanza riconosciuta a questo dispositivo che il Governo ha ritenuto di equiparare le mascherine chirurgiche ai Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) previsti dall’art. 74/1 TU 81/2008.

ALIMENTI E CORONAVIRUS

Sempre nel periodo emergenziale e sul versante più strettamente legato all’alimento sono intervenuti sia l’EFSA, sia la Commissione Europea, sia l’OMS. Già ad inizio marzo l’EFSA ha ritenuto di specificare che in precedenti epidemie di natura respiratoria quali Sars e Mers non si è mai verificata la trasmissione tramite il consumo di cibi e che non vi sono ragioni per ritenere che per il coronavirus la situazione sia differente. Risalgono invece rispettivamente al 7 e 8 aprile gli interventi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità con una guida orientativa per le imprese alimentari (che si autodefinisce transitoria per la durata di due anni, salvo nuovi interventi modificativi) e della Commissione europea con un documento più snello sotto forma di Questions and Answers per dirimere alcuni dubbi degli operatori alimentari, dalla produzione alla distribuzione. Entrambi questi documenti partono dal presupposto – rassicurante - che fino ad oggi non vi è stato alcun rapporto sulla trasmissione di COVID-19 attraverso il consumo di cibo. Pertanto, come affermato dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare, non esistono

prove che gli alimenti rappresentino un rischio per la salute pubblica in relazione a COVID-19: pare infatti che i coronavirus non possano moltiplicarsi nel cibo, ma necessitino di un ospite animale o umano per moltiplicarsi. In entrambi i documenti, peraltro, si precisa che vi sono studi recenti che in vece documentano invece la possibilità che il virus permanga su imballi e su perfici per qualche ora o giorno e che, anche in tal caso, la strategia vincente è quella di incrementare le buone prassi igieniche e rafforzare la gestione igie nicamente corretta della produzione, fornendo un ruolo di rilievo ai referenti del sistema HACCP aziendale che do vrebbero essere coinvolti nelle decisioni relative alla gestione emergenziale più complessiva potendo interagire al tresì con le autorità sanitarie. È su questo nodo che si incrociano, anche per l’OMS, la sicurezza del prodotto con la sicurezza dell’operatore: l’informa zione del personale, le corrette prassi igieniche (già perfettamente previste in Italia fin dal 14 marzo col protocollo condiviso, finanche più stringente delle indicazioni dell’OMS), con particolare riguardo alle sanificazioni di strumenti

e operatori, il distanziamento tra lavoratori, la ventilazione dei locali, la gestione degli ingressi degli esterni, l’uso corretto di dispositivi di protezione non

possono che garantire sia l’operatore che il prodotto alimentare. Che possa questa faticosa gestione emergenziale costituire per le aziende, segnatamente quelle alimentari, una sorta di stress test per valutare la tenuta del sistema sicurezza (alimentare e del lavoro) aziendale?

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