![](https://assets.isu.pub/document-structure/230317121050-22ec58419485c00699080c1db4b9fdd0/v1/eb55c68294788af0fc2b3225bbe710fe.jpeg?width=720&quality=85%2C50)
10 minute read
I DOLORI del giovane publican
❱ l’impianto di spillatura e i frigoriferi per le bottiglie con la relativa manutenzione ordinaria e straordinaria;
❱ la fornitura delle birre in fusto e bottiglia (e spesso anche di bibite, vini, acqua minerale);
❱ bicchieri e sottobicchieri contrassegnati con il logo e i colori delle birrerie prescelte;
❱ complementi d’arredo, anch’essi “griffati”, come tavoli, sedie, ombrelloni e posacenere;
❱ gadget e altra oggettistica come apribottiglie, magliette, grembiuli e così via.
?
Che c’è di nuovo? Che hai alla spina? Che IPA hai? La birra più forte che hai?
Tante domande che alludono ad una sola entità, la tap list o, come si diceva una volta, la carta o lista delle birre: biglietto da visita, per non dire vero e proprio documento di identità per il locale che la propone, l’elenco delle referenze proposte alla spina e in bottiglia può dare, ad un occhio smaliziato, parecchie informazioni su quali siano le preferenze e le priorità di chi gestisce il pub e addirittura se la scelta delle birre sia o meno farina del suo sacco.
È possibile individuare, almeno a grandi linee, nella dinamica delle birre proposte dai locali specializzati, delle tendenze definite e individuabili e provare a capire come la situazione si stia evolvendo nell’ultimissimo periodo? Proviamo a ripercorrere un po’ di storia recente.
C’era una volta il comodato d’uso
Agli albori dei pub in Italia il mercato era costituito da pochi, forti e ben strutturati distributori che proponevano agli aspiranti titolari e gestori di bar dei veri e propri pacchetti “chiavi in mano” comprendenti:
In sostanza, l’aspirante publican accettava di pagare la birra qualche spiccio in più alleggerendosi, in cambio, da un bel po’ di preoccupazioni: per qualunque guasto o malfunzionamento all’impianto bastava una telefonata al proprio distributore (all’epoca spesso chiamato grossista), idem per eventuali esigenze di prodotti o accessori in momenti di emergenza.
Sicurezza e affidabilità in cambio di una personalizzazione dell’offerta estremamente ridotta, in quanto limitata alle birre proposte dal grossista di turno, erano dunque alla base del patto commerciale che portava con sé, quale importante effetto secondario, anche un’impronta identitaria decisamente forte e costante: nel pub Alfa si trovavano, invariabilmente in ogni giorno dell’anno, le birre Beta, Gamma e Delta, senza alcuna possibilità di sorpresa salvo qualche specialità stagionale.
La coerenza tra contenitore e contenuti in ogni minimo dettaglio aveva in questo modello un’applicazione maniacale e un’importanza che oggi potrebbe sembrarci decisamente esagerata: se si parla, ancora ai nostri giorni, con titolari e gestori che hanno vissuto questa epoca si scoprirà come per loro, paradossalmente, fosse preferibile servire una birra in un bicchiere ad essa poco appropriato o addirittura dalla forma penalizzante per lo stile ma riportante il giusto logo del produttore rispetto al servire la birra Delta nel bicchiere migliore per lo stile birrario ma con il logo del birrificio Gamma! Anche utilizzare un semplice sottobicchiere di un marchio non corrispondente a quello della birra servita era ed è, per questi publican della prima generazione, sintomo di sciatteria e superficialità nel servizio. Il modello del locale “vincolato” ha vissuto il suo massimo trionfo negli anni Novanta con la diffusione in tutta Italia degli Irish pub marchiati Guinness e non è ancora del tutto scomparso, specie nelle località costiere e turistiche: non è peraltro affatto una prerogativa italiana, se si pensa al sistema britannico, ove la stragrande maggioranza dei pub è tied, ovvero legata a un birrificio (e Oltremanica furono la stessa Guinness, per il lancio della Harp, e Canadian Breweries, in origine proprietaria del marchio Carling Black Label, a investire massicciamente a inizio anni Sessanta nell’acquisto di pub e birrifici locali contribuendo in maniera determinante a trasformare i britannici in bevitori di lager) o a una grande catena a gestione centralizzata come Wetherspoon o Nicholson.
Proprio per evitare una tale situazione, in cui la varietà dell’offerta è giocoforza limitata, negli Stati Uniti si è optato per un sistema chiamato three tiers in cui produzione, distribuzione e mescita sono ciascuna in mano a soggetti diversi, con l’ovvia eccezione delle tap room (punti vendita dei microbirrifici) che sono però soggette a vincoli diversi rispetto ai pub e bar veri e propri.
Il pub indipendente
La rivoluzione portata dalle microproduzioni artigianali e, prima ancora, la volontà di alcuni publican illuminati di rifornirsi di prodotti di qualità direttamente nei paesi di tradizione birraria portò alla nascita di questo modello: all’opposto rispetto al pub vincolato, proprietà e manutenzione dell’impianto sono qui di pertinenza del titolare o gestore, che ha totale libertà nella scelta degli approvvigionamenti ma deve provvedere in prima persona a tutte le incombenze che in passato venivano scaricate sul grossista.
United Indi Pubs, un movimento promosso nel primo decennio degli anni Duemila da publican italiani che avevano compiuto scelte radicali come Michele Galati, Nino Maiorano, Manuele Colonna, Alessandro Belli, Claudio Capelli e Andrea Ambrosini, promosse anche festival e convegni aperti a contributi di analoghe realtà estere come il Moeder Lambic di Bruxelles o l’Homo Sibaris di Barcellona e diventò un punto di riferimento per le nuove leve che volevano affacciarsi al vecchio mestiere del publican
![](https://assets.isu.pub/document-structure/230317121050-22ec58419485c00699080c1db4b9fdd0/v1/b136471ad460a23f00f7d30a8c741db8.jpeg?width=720&quality=85%2C50)
Un fenomeno in crescita crea inevitabilmente un indotto e, altrettanto ineluttabilmente, attira anche persone più interessate al risultato economico che al prodotto e al servizio in quanto tali: gli anni Dieci del XXI secolo videro così da un lato la nascita e la crescita delle prime piccole distribuzioni esclusivamente vocate alle birre artigianali e di qualità ma dall’altro il proliferare di una serie di personaggi che, al motto de la birra artigianale tira, si improvvisarono titolari o gestori di pub e beershop senza avere piena consapevolezza di cosa stessero servendo e vendendo e, specie nel caso di molti beershop che, a Roma più che altrove, videro una vera e propria esplosione, senza scelte fondate e razionali in tema di posizionamento e prezzi dei prodotti.
Nel giro di un lustro, infatti, il modello del beershop senza mescita si rivelò per lo più insostenibile sul piano economico portando chi lo aveva adottato a trasformarsi a sua volta in pub o piccolo distributore o a chiudere; sul versante dei locali di somministrazione invece l’ingresso nel settore di titolari o gestori senza la necessaria cultura della birra artigianale (e senza nemmeno la motivazione ad ac- quisire conoscenza) portò alla diffusione di nuovi pub con tap list che parevano fotocopiate una dall’altra perché basate sui cataloghi degli stessi distributori specializzati in craft a cui non di rado l’improvvisato publican diceva semplicemente “fai tu, dammi qualcosa di particolare e che piaccia alla gente”: il cliente si ritrovava in una situazione per certi versi analoga a quella del passato pre rivoluzione craft e anche il sedicente publican si ritrovava legato mani e piedi ai suoi fornitori al pari dei suoi predecessori ma senza nemmeno avere i vantaggi in termini di assistenza capillare e fornitura di arredi e gadget garantiti dai grossisti di birra industriale. L’amara scoperta che la birra artigianale ha margini operativi decisamente più ridotti rispetto ad altri prodotti ha presto allontanato dal settore gli illusi che vi avevano erroneamente scorto una gallina dalle uova d’oro e la pandemia da Covid-19, di cui a breve si parlerà, ha poi completato l’opera.
![](https://assets.isu.pub/document-structure/230317121050-22ec58419485c00699080c1db4b9fdd0/v1/4e390a11d90ccd9ad8ad849f5d37e230.jpeg?width=720&quality=85%2C50)
![](https://assets.isu.pub/document-structure/230317121050-22ec58419485c00699080c1db4b9fdd0/v1/a5fe4d5de35076ba8d319496080371c1.jpeg?width=720&quality=85%2C50)
La personalità e la cultura del publican, al pari di quella del birraio in sala cotte per i birrifici, tornarono così ad essere la principale garanzia per la validità della tap list e il vero fattore di fidelizzazione del cliente, con tutti i rischi comuni alle imprese eccessivamente individualizzate. Avvicinandosi agli anni Venti del nuovo secolo, però, altri fattori sono cambiati: in primo luogo sempre più birrifici hanno compreso l’importanza sul piano economico di detenere un canale di vendita diretta.
Il modello del brewpub (produzione e mescita nel medesimo luogo), in precedenza minoritario in Italia al contrario di quanto accaduto negli USA, è così stato sempre più adottato dalle nuove aperture mentre birrifici già consolidati si sono attrezzati con tap room o locali di proprietà, a volte non adiacenti al birrificio ma collocati in aree urbane commercialmente più promettenti: per i pub vicini alla tap room o al nuovo locale di un birrificio che magari trovava sovente spazio nel loro menù si sono così imposte scelte magari difficili ma necessarie per differenziare la propria offerta e continuare ad esercitare appeal sui clienti.
![](https://assets.isu.pub/document-structure/230317121050-22ec58419485c00699080c1db4b9fdd0/v1/bc47be43b6b97e9a54e35622fd3e723d.jpeg?width=720&quality=85%2C50)
Pandemia e rincari
Anche il Covid-19, con la sospensione delle attività di somministrazione nei mesi di chiusure forzate, ha dato un’ulteriore spinta alla vendita diretta da par- te dei birrifici ai clienti finali tramite consegna a domicilio nel vicinato o grazie a piattaforme di e-commerce. Nel maggio 2022, al momento della definitiva riapertura senza restrizioni e distanziamenti, dunque, pub, distributori e birrifici hanno dovuto fare i conti con questa maggiore incidenza del canale diretto produttori-clienti privati così come con due assai poco gradevoli novità: la sempre più forte difficoltà nel reperire personale (pare che nessuno voglia più lavorare nei locali e nei ristoranti in cui tutti vogliono andare a divertirsi nel fine settimana) e i rincari di materie prime ed energia dovute sia al conflitto russo-ucraino che alle solite disdicevoli manovre speculative messe in atto da qualche soggetto senza scrupoli a monte delle filiere.
La tanto attesa euforia per la fine dell’emergenza pandemica è stata dunque diluita da uno scenario complicato per tutti gli attori che si sono trovati ad avere priorità diverse e non sempre conciliabili: ❱ i birrifici, gravati dai rincari energetici, hanno dovuto inevitabilmente ritoccare verso l’alto i propri listini e, per difendere la propria marginalità, hanno dato un’ulteriore spinta alla vendita diretta andando sempre più a scavalcare i distributori non solo con e-commerce e locali di proprietà ma anche cercando un contatto diretto con i publican, con l’obiettivo di garantirsi, tramite opportune scontistiche, una maggiore costanza negli acquisti: la “spina fissa” in un locale di successo è diventata così un obiettivo particolarmente ambito;
❱ i distributori, dopo due anni di pandemia trascorsi non di rado in sofferenza finanziaria, causata anche dal pernicioso vizio tutto italiano di pretendere e concedere pagamenti su tempistiche follemente dilazionate (il famigerato “a babbo morto”), si sono di nuovo trovati nella posizione scomoda di intermediari che birrifici e publican cercano, quando possono, di scavalcare per difendere i propri margini. Le aziende distributive si trovano anche nel “letto di Procuste” costituito dall’esigenza di ampliare sempre più il catalogo delle birre per allettare i titolari dei locali, contrapposta al malcontento dei birrifici che, ad ogni nuova etichetta inclusa nel portfolio del proprio distributore, temono di vedere ridotte le proprie vendite;
❱ i pub, quasi tutti con carenza di personale e quindi con minor tempo a disposizione del titolare o gestore per selezionare i prodotti e a loro volta colpiti dai rincari, si sono trovati sempre più spesso nell’esigenza di cercare intese-quadro con birrifici o distributori per ottenere prezzi più vantaggiosi in cambio di una certa costanza nella fornitura. Sempre più spesso capita così di vedere tap list che sono contraddistinte dal rapporto vincolante con un birrificio e un distributore e tale scelta non è più causata, come una dozzina di anni fa, dalla mancanza di conoscenza dei prodotti da parte di publican improvvisati ma da ineludibili ristrettezze economiche e gestionali.
A farne le spese, ovviamente, è la varietà dell’offerta, che il cliente più esigente può però recuperare appoggiandosi a due-tre locali di fiducia anziché uno solo, mentre se vogliamo trovare un aspetto positivo in tutta la faccenda è che il periodo di vacche magre sta probabilmente contribuendo a estinguere le tap list costruite seguendo i punteggi dei siti birrari di rating come Untappd e Ratebeer, che sono notoriamente il modo migliore per rinchiudersi nell’autoreferenzialità e ostacolare l’avvicinamento di nuovi clienti al mondo artigianale.
? Ma come si costruisce, dunque, una buona tap list?
![](https://assets.isu.pub/document-structure/230317121050-22ec58419485c00699080c1db4b9fdd0/v1/a5a92761283648623ec37cae58a5104c.jpeg?width=720&quality=85%2C50)
Dopo tanti anni al bancone, mi permetto di redigere un breve vademecum:
1. Sii un trapezista
Ovvero in perfetto equilibrio e bilanciamento: una buona tap list rappresenta più tipologie possibili considerando il numero di spine a disposizione. La “chiara base”, sia essa una Pils, una Helles o una Keller non può mai mancare e deve essere sempre in forma perché è il traino per tutti gli altri consumi; in un locale dedicato alle birre artigianali è poi indispensabile offrire in spina almeno una Ipa in qualche declinazione, una birra a tendenza più dolce e dal buon tenore alcolico (Bock, Strong Ale, Tripel), una scura (Porter, Stout o Schwarz), magari una birra di frumento in primavera ed estate e una sour. Questa è la base, poi c’è spazio per la fantasia del publican
Solo il titolare o gestore ha il polso dei consumi e può decidere il corretto dimensionamento della batteria di spine: per fortuna la moda del più è meglio che aveva contrassegnato la metà degli anni Dieci sembra essere definitivamente tramontata e probabilmente non vedremo più locali con 50 spine, una buona metà delle quali occupate da birre zombie pronte ad addentare le papille gustative del malcapitato avventore. Gli stili con più breve shelf life come lager chiare e birre luppolate necessitano di stazionare il meno possibile nei tubi e quindi ancora una volta: meglio proporre una sola IPA sempre fresca che tre che si fanno concorrenza tra loro e restano troppo a lungo nei fusti.
![](https://assets.isu.pub/document-structure/230317121050-22ec58419485c00699080c1db4b9fdd0/v1/f0689256d9d42e0726ba4b248d635dc3.jpeg?width=720&quality=85%2C50)
3. Se ci credi tu, ci credono i clienti Ovvero, quando un publican propone una birra o un birrificio che gli stanno a cuore e in cui ha piena fiducia (basata sulle caratteristiche organolettiche del prodotto e non solo sul basso prezzo d’acquisto, ovviamente) il cliente lo percepisce ed è più propenso ad ordinarla.
4. Il cliente va aiutato ad avere ragione
Una Golden Ale a pompa? Buonissima, ma riesci a venderla? A me chiedono solo IPA!
Un collega di un’altra città mi presentò questa considerazione qualche anno fa davanti a una pinta di Sleck Dust di Great Newsome che gli avevo appena spillato. Ciò che gli risposi è che il cliente spesso chiede solo IPA perché è l’unica tipologia artigianale che conosce, padroneggia e sa con certezza che, più o meno, gli piace, però così come il marketing non è banalmente “dare alla gente ciò che vuole”, fare il publican non è solo servire al cliente le birre che chiede: instaurare una relazione di fiducia e proporre un assaggio porta le persone a scoprire nuove tipologie e anche a chiarire meglio i propri gusti, allargando il proprio raggio di bevute. La stessa Golden Ale dello Yorkshire appena citata, proposta a un bevitore compulsivo di IPA che era inizialmente renitente all’assaggio suscitò come reazione una dilatazione delle pupille e l’esclamazione: oh, ma di queste me ne bevo sessanta!
5. Locale è bello
Per un pub che ambisca al massimo livello possibile di autonomia costruire rapporti di fiducia con i più validi birrifici presente sul suo territorio provinciale o regionale è assolutamente cruciale: non è solo una questione biecamente legata ai costi, la conoscenza dei processi produttivi e delle persone che li mettono in atto permettono di capire meglio le birre e la loro evoluzione, presentandole meglio ai propri clienti e tornando così al punto 3).
6. Collaboration not litigation
Ovvero: darsi una mano tra colleghi! Principio sempre valido ma che troppo spesso viene miopemente dimenticato bollando come “concorrenti” gli altri locali che propongono birre artigianali e di qualità nello stesso territorio: la “concorrenza” che tutti insieme dovremmo combattere è quella rappresentata dai locali che offrono birre scadenti e per giunta spillate male!
Tra colleghi sarebbe più proficuo aiutarsi e parlarsi, magari cominciando proprio dalla diversificazione delle tap list e delle forniture in modo tale da invitare i clienti a frequentare più locali, ma sempre di qualità, e magari a passare la voce e portare altri amici. ★