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BIRRA E CAFFÈ: uno strano confronto durato due secoli
La birra, come è noto, è una delle bevande più antiche del mondo; in pratica la sua invenzione corrisponde alla trasformazione dell’uomo da cacciatore ad agricoltore, diciamo grossomodo 10.000 anni fa e forse anche qualcosa di più, in una regione che possiamo individuare tra la Mesopotamia e l’Egitto. Il caffè, inteso come bevanda, è invece molto più recente: anche se le notizie certe sono poche, possiamo presumere che i primi consumatori di caffè siano stati gli arabi nella prima metà del XV secolo. Quindi, quando il caffè divenne di uso comune, la birra era già diffusa tra gli esseri umani di tutte le latitudini da almeno 9.000 anni. Eppure, nonostante questa evidente differenza di età e questo differente radicamento nella cultura alimentare di molti popoli, quando il caffè arrivò in Europa, si sviluppò, tra queste due bevande che oggi stenteremmo a considerare alternative, una sorprendente contesa che durò quasi due secoli.
Tutto ebbe inizio nel 1657… ...quando un giudice gallese di nome Walter Rumsey, che era stato allievo nientepopodimeno che di Francis Bacon e di William Harvey, diede alle stampe un curioso libro dal titolo Divers new experiments of the virtue of Tobacco and Coffee. In questo breve testo ad un certo punto, quasi con noncuranza, l’autore si permette di fare un’affermazione che nell’Inghilterra del XVII secolo era destinata a diventare una bomba: “coffee had the power to cure drunkards”, insomma il caffè riesce a curare gli ubriaconi. Questa teoria ebbe talmente tanto successo che ancora oggi risulta molto diffusa la convinzione, del tutto errata, che una tazza di caffè possa rendere sobri. Per comprendere la portata del testo di Rumsey, bisogna partire dai dati spaventosi sull’alcolismo nell’Inghilter- ra del Seicento. Il consumo di birra in particolare era diffuso tra tutte le classi sociali e in tutte le fasce di età. Oltre ad essere consumata in occasioni di eventi e festività, esattamente come oggi, o per stordirsi nei momenti di baldoria, era anche una fonte primaria di alimentazione, seconda soltanto al pane nella dieta comune. I dati in nostro possesso, derivanti dalle testimonianze di molti cronisti dell’epoca, attestano un consumo quotidiano, per una tipica famiglia inglese del XVII secolo, di tre quarti di gallone a testa, inclusi i bambini, vale a dire circa 3 litri e mezzo. La piaga dell’alcolismo non riguardava solo le isole britanniche. Un po’ in tutta l’Europa centrale e del nord i consumi di birra rimasero altissimi per tutto il medioevo e l’età moderna. Nel 1551, ad esempio, il medico tedesco Johann Bretschneider notava come le classi popolari si mantenessero “più con la birra che con il cibo. Gente di entrambi i sessi e di ogni età, sani e infermi la reclamano”. Un consumo tanto alto e diffuso dipendeva anche dal fatto che in tutta l’area mitteleuropea la tipica colazione dei ceti urbani consisteva generalmente in una zuppa di birra. Non solo, ma la preparazione della birra rientrava a pieno titolo tra i doveri comuni di una casalinga.
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Alcol e religione
Il consumo delle bevande alcoliche continuò ad aumentare durante tutta l’età moderna, tanto che nel XVIII secolo, in Europa e nelle colonie inglesi del nord America, si moltiplicarono i casi di ubriachezza in pubblico e, a poco a poco, il vizio del bere cessò di interessare unicamente la salute degli individui e la pace familiare, per divenire un problema più grave, una minaccia per la società, a cui furono addebitati i furti e i crimini, la dissoluzione dei costumi e la rovina delle famiglie.
Proprio per questi aspetti legati alla sfera pubblica, la lotta contro l’ubriachezza divenne uno dei temi di predicazione nelle chiese. Ma è importante rilevare come essa sia stata affrontata prima nelle confessioni protestanti, in particolare con l’inizio dell’azione di John Wesley (1703-1791), il fondatore della chiesa metodista, nel XVIII secolo. A partire da questo periodo si intensificò tra i protestanti la lotta contro i bevitori e contro i tavernieri che spingevano la gente a bere, mentre il clero cattolico cominciò a seguire moderatamente questa strada soltanto qualche decennio più tardi. La spiegazione di questa differenza di atteggiamento tra cattolici e protestanti storicamente viene attribuita alla cosiddetta geografia della vite, che, come si sa, viene maggiormente coltivata nell’Europa meridionale, proprio quella parte rimasta legata alla chiesa di Roma. Ma questa teoria è smentita dall’ovvia constatazione che anche molti protestanti coltivavano la vite in Francia e non solo; di conseguenza, le differenti posizioni intorno al consumo degli alcolici vanno ricercate in una opposta concezione della gioia e del peccato. Nell’etica protestante, poiché il bere è un piacere, doveva essere bandito allo stesso titolo del gioco o della danza, in quanto rappresentava un’offesa a Dio. Il cattolicesimo era invece più indulgente e anche se l’intemperanza e la gola costituiscono dei peccati capitali, fu necessario attendere la fine del XIX secolo perché, per esempio, in Francia i preti facessero dell’ubriachezza un argomento di predica. Nel frattempo, l’influenza dei medici aveva trasformato lo stato alterato dovuto al consumo di alcol non solo in un vizio da bandire per ragioni morali, ma anche nella causa scientificamente dimostrata di malattie fisiche e soprattutto di numerosi disturbi mentali.
Un antidoto all’ubriachezza
Proprio l’ingresso dei medici nel dibattito contribuì a creare un altro effetto paradossale: con la presa di coscienza acquisita progressivamente dall’Europa dei pericoli insiti nelle bevande alcoliche, venivano messe sotto accusa le bevande distillate piuttosto che le altre, quelle che venivano definite bevande “igieniche”, come il vino e birra. Tali alcolici erano ritenuti bevande il cui consumo può solo essere benefico; in questo caso sarà necessario attendere addirittura l’inizio del XX secolo per veder abbandonata un’idea così clamorosamente errata. Nel contesto dell’ubriachezza, che potremmo definire pandemica, dell’Inghilterra del XVII secolo, si può quindi comprendere meglio perché la teoria di Rumsey, che vedeva nel caffè un antidoto contro l’ubriachezza, ebbe un’immediata eco in tutto il Paese e successivamente divenne un testo fondamentale anche a livello continentale.
Alla base delle convinzioni del giudice gallese c’era l’osservazione diretta; coloro che bevevano caffè o tè nel corso della giornata erano più sobri ed efficienti di quanti bevevano birra. Rumsey aveva già intuito, in maniera empirica, gli effetti temperanti ed energetici delle sostanze caffeinate. Tali effetti sono stati progressivamente enfatizzati da tutti gli studiosi, soprattutto in contrasto con l’indolenza e l’inettitudine legate al consumo delle bevande alcoliche. Ma come detto, vista la presenza pervasiva di vino, distillati e birra nella vita degli europei a partire dal Medioevo e per tutta l’età moderna, l’istituzione di quella che potremmo chiamare una sobrietà cronica rappresentò un radicale cambiamento di vita.
Con i primi segnali di una incipiente moderna società industriale, in Inghilterra prima e in Europa poi cominciò a imporsi un atteggiamento nuovo verso l’alcol, ben rappresentato dal giudice Rumsey. Nel contesto dell’ubriachezza pandemica, alcune delle difese più accanite degli effetti salutari del caffè ci sembrano del tutto razionali, anche se basate su analisi poco solide dal punto di vista scientifico. Ma le vecchie abitudini sono dure a morire e l’ascesa del caffè a scapito della birra suscitò occasionali rimostranze. È il caso, ad esempio, di Liselotte von der Pfalz
(1652-1722), una principessa tedesca che si trasferì a Parigi dopo il matrimonio con il duca di Orléans. Nella sua corrispondenza criticava spesso il consumo di caffè che si faceva alla corte di Versailles: “Il caffè mi fa pensare alla fuliggine o ai semi di lupino e mi dà il voltastomaco. Quanto preferirei una zuppa di birra, che di certo non mi rivolterebbe lo stomaco.” Altre testimonianze di questo tenore ci arrivano dalle colonie inglesi in America, dove la popolarità del caffè era già visibile nel 1670, appena sei anni dopo che gli inglesi erano subentrati agli olandesi a New Amsterdam, sostituendo il caffè alla birra come bevanda preferita a New York.
Caffè e capitalismo
Ma fu sicuramente Linneo, il grande botanico svedese del Settecento a intuire che la caffeina avrebbe favorito la transizione da un mondo dipendente dall’al- col a un altro dipendente dal lavoro: “Potremmo dunque considerare il caffè utile per quanti stimano più importante salvare il loro tempo che conservare la vita o la salute o che sono costretti a lavorare di notte”. Questo suo commento rivela una lucida comprensione di ciò che oggi consideriamo il beneficio più importante della caffeina, prevenire il sonno, e la sua applicazione più importante, in quanto ci aiuta a lavorare quando ci è richiesto di farlo. Linneo, per altro, si dimostra anche consapevole del pericolo che l’uso di stimolanti o il super-lavoro possono comportare.
Ci vorrà un filosofo come Jules Michelet (1798-1874), per comprendere la reale portata dei cambiamenti apportati dal caffè nella vita degli uomini. Scrivendo dell’Europa seicentesca e rappresentando la nera bevanda proveniente dall’Arabia come l’elisir di lucidità mentale, mise fortemente in contrasto i vecchi eccessi dell’alcol con la nuova sobrietà del caffè: “Dunque la taverna è stata spodestata, dove ancora cinquant’anni prima i giovani barcollavano tra le botti di birra e le donnacce. (…) Il caffè, la sobria bevanda, il potente nutrimento del cervello, che, solo, accresce chiarezza e lucidità; il caffè, che disperde le fosche nubi dell’immaginazione e d’improvviso, illumina la realtà con l’empito della verità.”
Alla fine, la vittoria del caffè fu schiacciante. La birra venne relegata a un consumo limitato e circoscritto solo ad alcuni momenti della giornata. A ben guardare è stata la vittoria del sistema di produzione capitalistico, sulle fosche nubi dell’immaginazione, che non erano più compatibili con un modello di vita che chiede agli uomini di essere sempre produttori, anche quando non sono direttamente produttivi. ★
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