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Marina Mannucci
Abitare le culture
Antologia degli articoli (2009-2011) pubblicati sulla rivista
Editore
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La pubblicazione è stata realizzata grazie al contributo di:
RAVENNA Via M. Monti, 32 _ Bassette
Sede Legale BAGNACAVALLO Via F.lli Bedeschi, 9
FAENZA Via S. Giovanni Battista, 11
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Abitare le culture testi di Marina Mannucci fotografie di Alberto Giorgio Cassani
Antologia di articoli tratti dalla rivista dell’abitare TrovaCasa Premium - Ravenna settembre 2009 > maggio 2011
è una pubblicazione EDIZIONI E COMUNICAZIONE
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Questo fascicolo è stato ideato e pubblicato in occasione della Va edizione del
Artificerie AlmagiĂ - Ravenna - 3, 4, 5 giugno 2011
Ringraziamo per il sostegno anche:
STUDIO DENTISTICO Dott. Marius Datcu Non piÚ viaggi all’estero per una soluzione economica con la qualità italiana. Via Car. Bezzi 24 - Santerno (RA) Tel. privato: 346 2297191 Per appuntamenti: 393 6616236
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«Tutte le rifiniture in questa casa sono opera di Angelica» di Tahar Lamri
Viaggio nella sua etimologia latina è viaticum, cioè “alimenti necessari per compiere la via”, ciò che si consuma durante il viaggio. Il viaggio, potremmo dire, è ciò che lo alimenta. Partire invece deriva dal sostantivo pars, partis, cioè parte, frazione. Quindi separazione e distacco, termini facilmente applicabili alla morte e alla nascita. Dalla stessa radice si origina il verbo latino parere, cioè partorire. La morte e la nascita. Allo stesso modo la casa del migrante è un punto di arrivo ma anche di partenza. La parola ospitalità deriva dal latino hospitem cioè colui che riceve lo straniero. Parola composta da hostis “straniero” e potis “padrone”. Dalla stessa radice deriva un altro termine italiano di segno diametralmente opposto: ostilità. Hostis è lo straniero che può essere accolto come ricchezza, la ricchezza di chi ha viaggiato e quindi ha qualcosa da raccontare per fecondare la comunità chiusa o temuto come pericolo. Pericolo della parola che ha il potere di destabilizzare un ordine costituito. Viaggiare in lingua araba si dice safara da cui il viaggio safar (safari in italiano), questo termine ha radice comune con sifr, cioè libro, sempre dalla stessa radice safir (= ambasciatore) quindi in definitiva che porta con sé storie e messaggi e al Lo scrittore di origini algerine Tahar Lamri. quale non si può negare l’ospitalità, almeno finVive e lavora a Ravenna dalla fine degli ché non ha finito di narrare le storie di cui è portaanni’80, dove è direttore artistico tore, ospite al quale si deve dire in segno di benevenuto: ahlan wa sahlan, contrazione dell’antica del Festival delle Culture forma: gi’ta ahlan wa wati’ata sahlan (sei approdato fra i tuoi parenti e la tua strada è stata tutta casa è sempre un nido che protegge, mai una conchiglia che pianura). Tutto ciò non è dissimile dall’ambiguità semantica racchiusa isola: «Se la casa risponde al bisogno primario di mettere nella parola italiana “ospite” che rende difficile distinguere ordine in contrapposizione al caos esterno, per Samir la sua colui che riceve e colui che è ricevuto, ambiguità che pone dimora di Piangipane è una superficie artificiale che, se pur sullo stesso piano di valore colui chi narra e colui che ascol- isola la sua famiglia in uno spazio di intimità condivisa, non esclude gli elementi esterni, lasciando anzi che vi penetrino ta. Marina Mannucci ha scelto di intitolare questa serie di artico- sia materialmente che simbolicamente. La sua storia, i suoi li, ora racchiusi in questa unica pubblicazione, “Abitare le cul- ricordi, sono ormai quasi completamente legati all’Italia, ture”. Un titolo che è un autentico dono: io abito in Italia con paese che lo ha accolto ed in cui ha mescolato il passato con la mia cultura e la cultura abita in me come una seconda il presente. I luoghi e quindi la casa per il migrante diventano infanzia. Leggendo infatti questi articoli ci accorgiamo che la spesso cantieri, fucine in cui si forgiano incessantemente i
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«Abitare le culture, andare oltre, cambiare lo sguardo. Approfondire, raccontare la storia e le storie, bypassare la chiacchiera, il pettegolezzo, la maldicenza, demolire i pregiudizi e denunciare le ingiustizie», ci lancia come una sfida Marina. Sfida che può raccogliere soltanto il fotografo discreto che la accompagna, Alberto Giorgio Cassani. ricordi, attraverso il racconto di sé nel tempo, ricomponendo frammenti di mondi che, se pur sommersi, sono sempre emotivamente vigili», dice Marina nella solitudine della scrittura che non è più solitudine dopo aver conosciuto i bambini di Samir. C’è la dolce amicizia di Joanna, le antiche leggi dell’ospitalità di Arijon, l’eloquenza e la spiritualità di Mamadou che si fa chimare Billy, dove l’autrice penetra in un mondo maschile e si meraviglia dell’assenza totale di ostilità. «Abitare le culture, andare oltre, cambiare lo sguardo. Approfondire, raccontare la storia e le storie, bypassare la chiacchiera, il pettegolezzo, la maldicenza, demolire i pregiudizi e denunciare le ingiustizie», ci lancia come una sfida Marina. Sfida che può raccogliere soltanto il fotografo discreto che la accompagna, Alberto Giorgio Cassani. C’è la magia dell’incontro con Carla Indira e come no? Lei che viene dal Brasile, sa che la vita è l’arte dell’incontro come dice Vinicius De Moraes. Lo conferma Oliver, rifugiato dal Camerun, il quale con un sorriso ti dice: «Il Camerun è un mondo in miniatura». Meho che ha il dono di farsi amare a prima vista, giovane tutto italiano e tutto macedone, padrone di casa in un momento di assenza dei genitori, che ti fa capire con lo slancio tipico della sua età che il futuro è già qui. Oppure Timo che dal lontano Bangladesh introduce a Ravenna il badminton e il cricket. A casa di Angelica, Marina trova una donna che è la sintesi della forza e della femminilità. Ha costruito la sua casa di Piangipane con le sue mani, mattone su mattone, pensando, mentre la costruiva, a imparare il mosaico per arredarla e decorarla, tesserla, come facevano gli antichi a Ravenna ma anche perché «l’uomo è soltanto un filo nel tessuto di tutti gli esseri viventi che la Pachamama tesse». Poi ci sono Alina, Mahomi, Margarita e la “casa” dei senza
casa. I greci dicevano che lo straniero è atopos, senza luogo, la sociologia moderna ci dice che è doppiamente assente, eppure queste sono storie di luoghi e di presenza tangibile. Storie di luoghi dell’anima anche, di paesaggi che ci portiamo impressi nei più reconditi recessi dell’anima: come i boschi e le foreste di Alina. Mi sorprende una foto scattata nella mia casa: ci sono due teiere, un libro aperto e un tbag, un cestino per il pane, colorato, fatto più di trent’anni fa, fra una gravidanza e l’altra da mia madre. Lo riconosco come se mi giungesse da un recesso della memoria, lo riconosco come se non fosse mio, ma soltanto simile al mio. Però, vedo, in questa fotografia scattata da Alberto, mia madre comprare la lana grezza, lavarla, cardarla. Mi rivedo aiutarla a fare i fili, colorarli con colori vegetali, vedo il tbag farsi sotto i miei occhi giorno dopo giorno, con l’ago, la lana e l’alfa, una pianta del deserto. Lo rivedo a Ravenna come compagno di una remota infanzia o di una seconda infanzia. «Ma è l’atmosfera a contraddistinguere questi spazi vissuti: la presenza, se pur impalpabile, della storia di questa famiglia», mi dice Marina. Abitare come estensione di un abito nel quale si scivola, come un involucro che ci protegge oppure come ci insegna l’etimologia della parola: habitare, da habere che nel senso proprio vale «continuare ad avere» o domicilio, domicilium da domus, casa, luogo d’abitazione, dimora e cilium dallo stesso tema del verbo celare, nascondere, coprire (cilium, ciglio, che copre l’occhio), dalla radice ki, ci, ossia, giacere, abitare, che è nel latino ci-vis, cittadino, qui-es, quiete, nel gotico hai-mas, villaggio, hei-va, casa, chi-wo coniuge, hi-wa moglie) nell’antico slavo po-ci-ti, riposare, po-koj, lit. pa-ka-jus, riposo. Tutte le declinazioni possibili sono racchiuse in queste storie dove la casa non sono soltanto mura, ma Heim e dove «Tutte le rifiniture in questa casa sono opera di Angelica», ci informa Marina.
Leggendo questi articoli ci accorgiamo che la casa è sempre un nido che protegge, mai una conchiglia che isola
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Trovacasa - settembre 2009
Abitare le culture Parte una ricerca in più puntate sugli spazi domestici privati e di relazione dei migranti che risiedono nel nostro territorio di Marina Mannucci «Forse è questa l’operazione che ci manca: capire che l’altro è uno specchio, non un dannato della terra che viene a distruggere le nostre “radici”, la nostra civiltà». Tahar Lamri
Fin dai tempi delle grandi migrazioni (così viene identificato nei testi scolastici di molti stati europei il periodo che invece da noi, ahimé, troviamo sotto il nome di invasioni barbariche), popoli di culture diverse, oltre ad appropriarsi di alcuni luoghi delle città, hanno usufruito ed usufruiscono tuttora anche di alloggi. Le case di queste persone non sono però costituite solo dai muri e dalle rispettive comunità, ma sono il risultato dell’interazione tra materia e cultura, oltre che dall’insieme delle loro aspirazioni, abitudini e costumi. Questo ciclo di ricerche ha come obiettivo l’abitare a Ravenna di persone originarie di differenti paesi del
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mondo; in particolar modo mi propongo di delinearne le modalità attraverso cui vivono gli spazi privati del territorio. In alcuni articoli, potranno ricorrere riferimenti alla situazione politica ed economica dei paesi di origine, indispensabili ad una maggiore consapevolezza dell’impatto della storia collettiva sulle vicende dei singoli. Lo spazio cui si fa riferimento, in questo caso, viene informato dalla presenza di individui, soggettività fluide, portatori di cultura e di nuove e vivide reti di relazioni. Uno spazio elaborato ed esperito a partire da rappresentazioni fisiche e percezioni mentali: uno spazio vissuto. «Superiorità? Inferiorità? Perché non cercare semplicemente di toccare l'Altro, di sentire l’Altro, di rivelare l’Altro? La mia libertà non mi è dunque data per edificare il mondo del Tu? Qualsiasi problema umano deve essere preso in esame a partire dal tempo. L’ideale infatti è che, sempre, il presente, serva a costruire l’avvenire».? Franz Fanon
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Trovacasa - settembre 2009/Mannucci - A casa di Joanna
A casa di Joanna 70mq. in via Rubicone a Ravenna
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«Ogni lingua che impari è una nuova vita che incominci…» Proverbio polacco A Joanna, sorella del mio cuore
La mia amica Joanna abita da tre anni all’ultimo piano di uno degli alti edifici in cemento armato, ubicati in fondo a via Rubicone. L’appartamento ammobiliato, che ha in affitto, occupa uno spazio di circa 70 mq. Per Joanna, di origine polacca, stabilitasi a Ravenna da ormai nove anni, è stata una scelta importante decidere di vivere in questo appartamento. Il timore di non riuscire ad affrontare il carico economico di un tale impegno, malgrado la serietà nel lavoro che le ha sempre assicurato l’autonomia economica da quando si è trasferita in Italia, le ha fatto trascorrere alcune notti insonni. La mancanza di un familiare a cui poter far riferimento in caso di bisogno e lo status giuridico di cittadina straniera, se pur regolarizzata secondo le normative vigenti sul territorio italiano, le provocano spesso un lacerante senso d’improvvisa paura. «Angoscia e nostalgia sono parte del destino dello straniero che, non conoscendo le strade del paese estraneo, girovaga sperduto.
Alcuni ambienti della casa di Joanna. Nella pagina a sinistra, le foto di famiglia in soggiorno. Sopra, un particolare della stanza da bagno. Tutte le immagini del servizio sono di Alberto Giorgio Cassani.
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Trovacasa - settembre 2009/Mannucci - A casa di Joanna
Se poi impara a conoscerle troppo bene, allora dimentica di essere straniero, e si perde in un senso più radicale perché, soccombendo alla familiarità di quel mondo non suo, diventa estraneo alla propria origine» (Umberto Galimberti, Paesaggi dell’anima). Infine, ha prevalso in Joanna quella forza arcaica che contraddistingue molte delle donne migranti dall’est: donne cariche di emozioni, di speranze e di appartenenze, di paure e di timori. Donne che, nei paesi che le accolgono, diventano spesso promotrici di nuove strategie di vita, avviando così innovative modalità di pensiero e di azioni che a loro volta testimoniamo e documentano il fenomeno migratorio contemporaneo. È utile sapere che, in generale, molte di queste donne che arrivano nel nostro paese hanno già avviato un processo di emancipazione e di affrancamento da situazioni di chiusura e di isolamento entro le mura domestiche, e quindi partono per ottenere una qualche affermazione umana. «L’immigrazione – afferma del resto Tahar Ben Jelloun – è una rottura, una lacerazione dei riferimenti della memoria, è un brutale cambiamento di esistenza. Non si lascia la propria terra, non si intraprende quel viaggio per piacere». Molte donne partono dunque dall’est dell’Europa con una specifica qualifica professionale che in Italia non viene riconosciuta, ma proprio l’elevato grado di istruzione, oltre alla religione prevalentemente cattolica, la similitudine delle caratteristiche somatiche con le donne italiane favoriscono il loro inserimento nel settore assistenziale e domestico. Questa specificità lavorativa ha portato alla nascita di stereotipi diffusi che vedono nelle donne dell’est una predisposizione per i lavori di “cura”, quasi come si trattasse di un’inclinazione naturale di origine “etnica”. In realtà, queste donne diventano, perlopiù, badanti perché questo gli riserva il mercato del lavoro. Ma torniamo alla casa di Joanna: entrando, un singolare ingresso, inutile da un punto di vista pratico, ma creativo per quanto riguarda l’irregolare geometria dello spazio, accoglie il visitatore. Con maestria, Joanna ha neutralizzato l’inevitabile anonimato dei mobili trovati in affitto, circondando di oggetti e piante questo primo locale adibito all’accoglienza. Su questo spazio si affaccia una piccola cucina, illuminata da una finestra orientata ad est, che immette nella stanza un energico ventaglio di luce. Ordine e pulizia – in questo ambiente, come del resto in tutta la casa – regnano sovrani; una stufa a gas anni Novanta, pensili in formica bianca, un piccolo tavolo rettangolare accostato al muro e rifinito da tre sedie scompaiono sommersi dal verde lussureggiante di piante di ogni genere. Se è vero che Joanna non ha un debole particolare per l’arte culinaria, ha sicuramente un’innata predisposizione per la cura delle piante, che realizza con semplici gesti di attenzioni quotidiane e di pazienza verso qualsiasi forma di vita vegetale; la sua e un’inconsapevole disciplina estetica che le permette di evocare sia la forza della natura, che lo scorrere del tempo. La cucina polacca è in ogni caso abbondante e sostanziosa: un detto popolare recita «Jedzcie, pijcie, i popuszczajcie pasa» («mangiate, bevete e allentate la cintura»). Abbondano la carne e la cacciagione, dense zuppe, salse e una grande quantità di patate e ravioli. Gli aromi più utilizzati sono la maggiorana, l’aneto e i semi di cumino. Sull’ingresso si affaccia anche una luminosa sala rettangola-
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Ordine e pulizia regnano sovrani a casa di Joanna... Sopra, la cucina “abitabile”; nella pagina a fianco, l’ingresso dell’appartamento. A pagina 17, due scorci del soggiorno e della camera da letto.
re, con vista panoramica sulla zona est di Ravenna. Oltre ad un tavolo ricevuto in dono, il resto dei mobili d’arredo sono un divano in stile moderno, un mobile basso e lungo su cui poggiano televisore, videoregistratore e componenti Hi-Fi. Gruppi di cornici e di soprammobili riempiono il rimanente spazio d’appoggio del mobile, che con metodica costanza e premura viene spolverato. Le immagini delle fotografie non sono solo dei parenti e dei figli rimasti in Polonia ma anche di persone care conosciute in Italia, a Ravenna; ci sono anch’io, e questo mi ha fatto sorridere. Joanna, però, mi ha spiegato l’importanza di questa sua scelta: queste immagini raccolte e riunite creano un ponte, una continuità tra passato e presente e le danno sicurezza e forza. Gli oggetti, tanti, sono perlopiù pezzi di artigianato polacco, che eccelle per manufatti di legno intagliato, pellame lavorato, incisioni di metallo, icone votive, pizzi e centrini. Introduce alla zona notte un corridoio cieco in cui domina un armadio a muro in legno impiallacciato, probabilmente anni Ottanta. Frontalmente, una porta introduce ad un semplice bagno, non privo però di ogni confort; tra il lavandino ed il muro Joanna ha inserito un mobiletto di bambù laccato bianco, di cui è giustamente molto orgogliosa: perché lo ha scelto, perché è suo e le appartiene, e perché è frutto del suo lavoro.
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Nei cassetti di questo mobiletto si possono ammirare una moltitudine di ampolle, boccettine, tubetti e creme: la passione di Joanna! Anche in questo ambiente regnano ordine, pulizia e profumo di pulito. Infine eccoci arrivati alla camera da letto: è proprio come la camera dei miei genitori, intonsa, da guardare e non toccare, da riordinare in fretta la mattina e non sfiorare più fino a sera e guai a sedersi sul copriletto in pizzo munito di cuscini! Ma il pezzo forte, mi fa notare Joanna, è il televisore piatto, regalo di una cara amica: indispensabile compagnia nelle lunghe serate invernali in cui, stanca, torna dal lavoro.
Joanna è nata ed ha studiato a Sandomierez, una delle città più antiche della Polonia, situata a sud della regione di Swietokrzyskie (Santa Croce). Posizionata in una zona collinare e non lontana da riserve naturalistiche, Sandomierez è bagnata dai fiumi Vistola e San, fonti primarie di prosperità economica e commerciale. L’assetto urbano medievale, i numerosi monumenti che presentano interventi d’arte gotica, i palazzi arricchiti da affreschi bizantini e i musei con collezioni artistiche di notevole interesse hanno reso questa città una piacevole meta turistica. La Polonia, stato dell’Europa centrale, ha un territorio in cui vi sono più di una ventina di parchi nazionali che si estendono dal Mar Baltico a nord fino ai Monti Carpazi al sud. Il paesaggio è molto diversificato: litorali, laghi, paludi, pianure e montagne. La scienza etimologica propone la derivazione del nome di questo paese da polè, che significa campo; ma è presente anche un’altra interpretazione, che fa derivare Polonia dai Polani, i suoi primitivi abitanti. Si trattava di una tribù slava il cui capo, Mieszko I, si convertì al cattolicesimo poco prima del Mille, sottomettendo le popolazioni circostanti.
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«Siamo come uccelli che dormono nei nidi Sui pentagrammi Ci vuole uno che conosca il mistero Del nostro volo». Leszek Dlugosz, Le note
Joanna è nata e ha studiato a Sandomierez, una delle città più antiche della Polonia
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Nel XVI secolo la Polonia era uno dei più ricchi e potenti paesi d’Europa e nel 1791 la Confederazione Polacco-Lituana definì la Costituzione Polacca di Maggio, la prima costituzione scritta d’Europa. Poco dopo, la Polonia cessò di esistere per centoventitre anni e venne spartita tra Russia, Austria e Prussia. L’indipendenza venne riguadagnata nel 1918, in seguito alla Prima Guerra Mondiale, come Seconda Repubblica Polacca. La Polonia attuale deve le sue frontiere alle decisioni dei leader della coalizione antihitleriana, fra il 1943 e il 1945. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, divenne uno stato satellite dell’Unione Sovietica, conosciuto come Repubblica Popolare Polacca (Polka Rzeczpospolita Ludowa o PRL). Bisognerà attendere il 1989 perché i polacchi riprendano in mano il loro destino, sulla scia della rivoluzione di Solidarnosc e con le prime elezioni parzialmente libere. Nel 1999 la Polonia è stata ammessa alla Nato e dal maggio 2004 è divenuta Stato membro dell’Unione Europea. Nell’immaginario collettivo, la Polonia si colloca spesso in una sorta di nicchia per specialisti: grigia, fredda, polverosa e antiquata, con solo un pizzico di fascino mitteleuropeo. Fino a quindici anni fa lo stereotipo del lavoratore era racchiuso nell’immagine “dell’idraulico polacco” che compariva nelle barzellette e negli sketch dei cabaret: ed era simbolo di lavoro mal fatto, disonestà e arroganza. Oggi il lavoratore polacco che si muove verso Occidente se la cava benissimo, e fonda imprese singole, offre i suoi servizi su Internet, trasformandosi in un simbolo dell’espansione, dell’iniziativa, dell’elasticità del libero scambio. Negli ultimi anni la Polonia è divenuta anche un mercato importante, offrendo il vantaggio di un contenuto costo del lavoro che può far prevedere un aumento sia degli investimenti stranieri che delle imprese già presenti sul territorio. Gioca un ruolo favorevole il fatto che il governo abbia recentemente varato un piano di sostegno dell’economia in previsione dell’entrata nella zona euro nel 2012. Un’attestazione di fiducia verso la Polonia è stata la recente elezione di Jerzy Buzek a Presidente del Parlamento Europeo. In Polonia sono nati Henryk Sienkiewicz, premio Nobel per la letteratura e autore del celebre romanzo Quo Vadis, Maria Sklodowska Curie, insignita del premio Nobel per la fisica, i musicisti e compositori Chopin e Feliks Ignacy Dobrzynski, e, naturalmente, Copernico. La Polonia è anche la patria di autori di successo internazionale, protagonisti a pieno titolo della contemporaneità, come Zygmunt Bauman, sociologo e filosofo, Zbigniew Herbert, poeta del dopoguerra, Wislawa Szymborska, poetessa e saggista, premio Nobel per la letteratura, Czeslaw Milosz, poeta e saggista, Stanislaw Lem, scrittore, medico e filosofo, o Ryszard Kapuscinski, giornalista e scrittore (per citare solo alcuni nomi tra i più noti). Sempre polacchi sono i registi di fama internazionale Andrzej Wajda, Krzysztof Kieslowski, Konrad Swinarski, Jerzy Jarocki, Jan Jakub Kolski e Feliks Falk.
È così che è stabilito, il cuore va reso e il fegato va reso e ogni singolo dito. È troppo tardi per impugnare il contratto. Quanto devo Mi sarà tolto con la pelle. […] L’inventario è preciso, e a quanto pare ci toccherà restare con niente. Non riesco a ricordare dove, quando e perché ho permesso che aprissero questo conto a mio nome. La protesta contro di esso la chiamiamo anima. E questa è l’unica voce che manca nell’inventario. Wieslawa Szymborska
Nulla è in regalo
Nulla è in regalo, tutto è in prestito. Sono indebitata fino al collo. Sarò costretta a pagare per me con me stessa, a rendere la vita in cambio della vita.
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Trovacasa - ottobre 2009/Mannucci - Lo scrittore algerino
I bambini che buttano sette sassolini nel Mediterraneo A casa di Tahar Lamri, giornalista e scrittore, nato ad Algeri
e residente a Ravenna
di Marina Mannucci entrambe hanno sottoposto le popolazioni berbere, come i Kabili ed i Tuareg, a forzati tentativi di assimilazione. Algeria (il cui nome deriva dall’arabo al-jazã’ir, “isola”), Marocco, Tunisia e Sahara occidentale costituiscono il vasto Maghreb (in arabo al-Maghrib che significa “occidente”) delimitato a nord dalla costa del Mediterraneo e a sud dal vasto e arido Sahara. Un “Grand Tour” di questo territorio è consigliabile a chi, desideroso di comprensione della storia dei luoghi, dei popoli o più in generale di altre culture, invece di lasciarsi corrompere dai racconti altrui, cerchi di ricucire la propria storia d’individuo nel mondo , la propria geografia dell’anima, incontaminata da filoni di pensiero e da convinzioni precostituite.
«Voglio brutale la mia voce, non la voglio bella, non pura, non di tutte le dimensioni. La voglio lacerata da parte a parte, non voglio si diverta, perché parlo infine dell’uomo e del suo rifiuto, del suo marcio quotidiano, della sua spaventosa rinuncia. Voglio che tu racconti». Sono gli anni della guerra di liberazione dell’Algeria; le parole di Franz Fanon, segneranno le scelte future di molti giovani e in qualche modo anche dello scrittore e giornalista Tahar Lamri, nato ad Algeri e residente a Ravenna. Scontri urbani, attentati di guerriglia e di repressione segneranno la fine della presenza coloniale francese nel Nord Africa e l’inizio dell’indipendenza. La cultura algerina risente sia di una forte influenza islamica che della passata dominazione francese; ed
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Trovacasa - ottobre 2009/Mannucci - Lo scrittore algerino
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«Il segreto della sopravvivenza sta nella mobilità. Per chi avanza nel deserto senza fine, in un immutabile scenario, non si tratta di un lungo vagabondaggio, ma piuttosto di una lunga dissidenza. Il deserto è la terra dei ribelli e dei profeti»: così scrive Tahar nel suo libro I sessanta nomi dell’amore (Fara Editore). Ed ancora, in un’intervista, lo scrittore, racconta che ad Algeri, sua città natale, i bambini in estate trascorrono liberi le giornate al mare e, prima di fare il bagno, lanciano nel Mediterraneo sette sassolini. Questo gesto simbolico racchiude un significato propiziatorio: dando da mangiare al mare, il mare non mangerà loro. Alla sera, le madri, al rientro dei loro figli, leccano le loro braccia per sentirne il sapore del sale; uno dei tanti, degli infiniti modi di esprimere l’amore materno. Il ricordo di questi gesti, inscindibili dai luoghi dell’infanzia dello scrittore algerino, lasciano affiorare in lui una sensazione di malinconica mancanza che viene ben delineata in un racconto in cui scrive di sentirsi simile a un baobab. Questo albero, diffuso soprattutto in Africa, quando è spoglio sembra avere le radici per aria – «anche le sue radici – scrive Tahar – sono in aria», sa di non appartenere a nessun luogo in particolare e di appartenere a tutti i luoghi che ha attraversato e che in un certo senso lo hanno attraversato. Le esperienze dei luoghi percorsi da Thar sono legate profondamente ai sensi, agli odori, ai sapori, ai colori, alle consistenze materiche di ciò che ha toccato e accarezzato e che a volte possono averlo ferito e a volte curato.
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In basso, oggetti d’affezione di chiara impronta araba e nordafricana. Nella pagina a fianco i vassoi-tavolino disposti in soggiorno. Nelle pagine precedenti, il particolare di una cassapanca e uno scorcio dello studio dello scrittore. Tutte le foto di questo servizio sono di Alberto Giorgio Cassani.
Di tutti i luoghi conosciuti dallo scrittore, il Mediterraneo rimarrà probabilmente il più emblematico; una metafora che si impone con forza, e che lo obbliga a riconsiderare di continuo le relazioni umane, gli scambi culturali e sociali che vi si incrociano. Con la mia bicicletta, un po’ scassata, sfreccio veloce per via Canale Molinetto, imbocco una traversa sulla destra ed eccomi giunta da Tahar. La casa, nella forma in cui si esprime all’esterno, nella scelta dei materiali, delle rifiniture, attraverso quindi un racconto formale, tramanda le tradizioni dell’abitare del territorio ravennate, allo stesso modo in cui, una volta, di sera, i vecchi raccontavano le loro storie intorno al focolare. Spesso l’inurbamento cancella questi segreti del costruire, negando ai nuovi quartieri quell’armonia che deriva dall’umiltà (parola che deriva da “humus” ed esprime un’affinità con la terra) e dai bisogni e desideri non tanto individuali quanto familiari. Prima di giungere alla soglia, attraverso un cortile, ed appoggio la bicicletta ad un muretto. Tahar mi fa notare l’importanza dei muretti, piccole frontiere che delimitano le proprietà, che difendono le aree private escludendole dalla fruizione pubblica e che ci obbligano, nel bene e nel male, a pensare a un mio e a un tuo.
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Entrando in casa, un visitatore distratto potrebbe pensare di trovarsi in una delle tante case medio-borghesi ravennati; bei mobili che assecondano la tradizione, tanti libri, soprammobili che definiscono la storia di questa famiglia, confort tecnologici di ogni tipo. Del resto, come mi conferma Tahar, la casa è stata arredata da sua moglie Manuela, che, con maestria, ha curato ogni particolare. A ben guardare, in questi spazi si avverte però la presenza dello sguardo ricco, del fascino di un’altra cultura, di altre tradizioni, che, senza mescolarsi arbitrariamente, si sono affiancate a quelle preesistenti. Queste prossimità hanno dato vita ad un abitare nuovo, creato e non subito. Entro e calpesto tanti bei tappeti – purtroppo mi dimentico di chiederne la provenienza... –, mi siedo su un comodo divano e ascolto, affascinata, i racconti di Tahar. Il mio sguardo, anche se molto di sfuggita, si posa sugli ornamenti da lui scelti e collocati in alcuni punti della casa; oggetti che richiamano riti che si compiono in luoghi a sud del Mediterraneo, un patrimonio di sacralità accennate con estrema discrezione. Il rituale del tè, ad esempio, è molto complesso: occorre la teiera in cui porre il tè verde o erbe aromatiche del deserto per poi versarvi l’acqua; la miscela così ottenu-
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stano con naturalezza il loro significato simbolico di unione tra uomo ed entità estranee, e inducono a riflettere sul perché nell’uomo sia emersa questa esigenza di celare la propria identità dietro l’effigie di un altro essere (uomo, animale, ibrido di animale e uomo, dio).
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ta potrà essere diluita o addolcita nelle fasi successive del rito. Nel deserto, i Tuareg eseguono questo rito seduti a terra, con una precisione assoluta, tenendo le gambe incrociate e la schiena dritta. In una parete sono appese tre maschere, ma molte altre sono riposte in un mobile della sala. Le maschere in questa casa manife-
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Trovacasa - ottobre 2009/Mannucci - Lo scrittore algerino
L’ampia sala della casa di Tahar si affaccia su un giardino in cui non mancano le piante tipiche della macchia Mediterranea
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Accanto alle maschere, un tamburello testimonia la grande tradizione musicale e i diversi stili musicali sviluppatisi in terra algerina: la musica raï, quella degli arabi d’Oriente e d’Occidente, o l’arabo-andalusa, la musica berbera e quella popolare tradizionale e moderna, lo stile chaabi, la musica popolare urbana e la musica religiosa. L’ampia sala si affaccia su un curatissimo giardino in cui non potevano mancare alcune piante tipiche della macchia mediterranea, colori e profumi che forse avvicinano le distanze, che acquietano desideri e nostalgie improvvise. Troppo intense, brucianti. Al piano superiore: la camera matrimoniale, la camera del figlio in cui una bellissima chitarra elettrica e il manifesto del Che contraddistinguono un simbolismo tutto giovanile, poi il bagno e lo studio di Tahar. Varco appena la soglia di questo ambiente creativo, spazio che racchiude la concentrazione spirituale dell’artista, del moderno umanista, una sorta di autoritratto, troppo privato, rivelatore, introspettivo, per andare oltre. C’è qualcosa di sacro in quelle pareti cariche di libri, di video (Tahar è un appassionato cinefilo), di contenitori: testimonianze di una vita dedicata alla ricerca incalzante e imperativa di una e di molteplici verità, lungi dai vasti palazzi della memoria. «Io non so quel che cerco, lo nomino con prudenza, ritratto, ripeto, avanzo e mi tiro indietro. Nondimeno mi ingiungono di dire i nomi, o il nome una volta per sempre. Allora io mi impenno; ciò che ha nome non è già perduto? Posso almeno tentare di dire questo». Albert Camus (nato a Mondovi, oggi Dréan, in Algeria), L’enigma (da L’estate). p
Sopra, un luminoso soggiorno con tappeto, piatti e tavolini etnici, e una finestra affacciata sul giardino. A fianco, nella libreria, il Corano aperto alla lettura, il vassoio del pane e le teiere.
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Trovacasa - novembre 2009/Mannucci - A casa di Arijon
Gëzuar! (auguri di felicità)
Ospitalità tipicamente albanese A casa di Arijon Abdyli, originario dell’Albania, oggi imprenditore ravennate
abitare le culture Un fotogramma dell’attore Timo Flloko nei panni dell’eroe albanese Cerciz Topulli nel film “Liri a Vdekje” (La libertà o la morte) di Marina Mannucci «Stiamo vivendo una situazione che metaforicamente potrebbe essere rappresentata da un campo di calcio in cui le squadre rappresentano le differenti forze politiche che, una volta iniziato il gioco, entrano in campo e giocano la loro partita, mentre noi stranieri siamo il pallone che è in mezzo e viene lanciato da una parte all’altra del campo. Naturalmente ai giocatori delle due squadre
avversarie interessa vincere, mentre del pallone che prendono a calci, spesso non hanno alcun riguardo», mi spiega Arijon Abdyli, portavoce di Ravenna Solidarietà – coordinamento delle associazioni attive nell’ambito dell’immigrazione, il cui scopo è di dare voce ai nuovi cittadini ravennati di origine straniera, che, in quanto tali, contribuiscono ad alimentare l’economia del territorio.
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La credenza del salotto. Particolare con orologio da tavolo [tutte le foto del servizio sono di Alberto Giorgio Cassani].
Arijon, originario dell’Albania, risiede con la famiglia a Ravenna e, da alcuni anni, ha avviato con successo un’impresa sul territorio; quando c’incontriamo per l’intervista, cominciamo a parlare. Il tempo, però, corre veloce, ed è necessario prendere un altro appuntamento. Mentre ci salutiamo, con immediato slancio, Arijon m’invita la domenica a pranzo, affinché il convivio familiare possa permetterci di approfondire, con calma, i temi che c’interessano. Accetto molto volentieri e, tornando a casa in bicicletta, constato con sorpresa di non aver ricevuto un invito così generoso e spontaneo dai tempi in cui abitavo nella mia amata Sicilia. Del resto avevo letto che in Albania il valore dell’ospitalità è una delle leggi del Kanum (diritto consuetudinario di origini arcaiche secondo cui, per il capofamiglia, accogliere con gioia un ospite è un onore). Per giungere a casa di Arijon è necessario percorrere quasi completamente via Tommaso Gulli, e non posso non rilevare, anche oggi che è domenica, quanto l’urbanizzazione di questa strada, a suo tempo, sia stata pensata e realizzata con cura. Gli edifici Ina-Casa, di stampo popolare, se pur datati, non hanno subito un particolare degrado, grazie al lavoro di bravi artigiani e all’utilizzo di materiali di buona qualità. In questa mattina autunnale, la luce è cristallina, ed è veramente piacevole percorrere questa strada incorniciata, su entrambi i
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In Albania il valore dell’ospitalità è una delle
leggi del Kanun Per il capofamiglia è un onore accogliere con gioia un ospite lati, dagli alberi. Anche l’edificio in cui abita Arijon con la sua famiglia è ben costruito: rivestito con mattoni, alto quattro piani, si affaccia sulla strada con ampi balconi; sono inoltre presenti, sul fronte, numerosi posti macchina, mentre, sul retro, si accede ad un piacevole giardinetto. Dopo una calorosa accoglienza da parte di tutta la famiglia, iniziamo a parlare e a gustare un ottimo pranzo preparato da Olimpia, la moglie di Arijon. Le vicende che hanno visto coinvolte Italia e Albania sono state spesso oggetto, da parte dei mezzi d’informazione, d’indagini superficiali, mentre sono almeno tre i momenti, mi dice Arijon, riguardanti i nostri rispettivi paesi, che gli italiani dovrebbero conoscere.
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Il primo concerne il periodo in cui l’eroe nazionale albanese Scanderbeg, opponendo una strenua resistenza all’avanzata degli ottomani, si guadagnò la fama di “difensore impavido della civiltà occidentale”. Segue poi il periodo in cui, nel 1943, dopo l’armistizio, alcune truppe italiane, di presidio in Albania, organizzarono una resistenza armata contro i tedeschi, e, a seguito delle rappresaglie dei soldati di Hitler, molti militari italiani furono nascosti e salvati da famiglie albanesi. Infine, è importante ricordare la decisione da parte dell’Albania, negli anni Sessanta, di interrompere i rapporti con l’Unione Sovietica, con il conseguente smantellamento delle basi militari dalle coste albanesi che ha reso più sicure anche le nostre coste. Se quindi la storia dell’Albania, con i suoi problemi, può risultare a volte di difficile comprensione nel suo insieme, non si può prescindere dal fatto che, spesso, il grande pubblico non è raggiunto da notizie complete ed approfondite sui fatti, mentre purtroppo risulta essere molto influenzato da vicende che trovano ampio spazio riguardo la cosiddetta “cronaca nera”. È perciò necessaria un’osservazione a tutto campo delle cause che condizionano lo sviluppo di un popolo per poter provare a comprenderne i fenomeni attuali. Lo stretto braccio di mare che separa l’Italia dall’Albania ha determinato un’inevitabile osmosi culturale, di cui non possiamo non tenere conto, contaminazioni che nella storia si sono trasformate, a volte in progetti di espansione territoriale, altre volte in fenomeni di penetrazione economica e culturale. La letteratura albanese, con le sue descrizioni sulla tetraggine del passato regime e sull’attuale senso di sradicamento e di delusione, è sicuramente un buon inizio per avvicinarsi alla cultura di questo popolo.
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L’angolo dei soprammobili nella stanza dei figli.
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«L’uomo balcanico è una ricerca pittorica, non sottende nessuna morale, nessuna nostalgia» Artan Shabani
Siamo ormai al caffè, sono le quattro e mezza del pomeriggio, alla televisione albanese passano le immagini dell’attore Timo Flloko che nel film Liri a Vdekje (La libertà o la morte) interpreta la figura dell’eroe albane-
se Cerciz Topulli che nel 1908 guidò una rivolta antiottomana. Il tempo è volato e la figlia di Arijon mi accompagna in visita alla casa; questa giovane donna, dai dolci occhi profondi, puntati con serietà, fermezza e responsabilità sugli importanti traguardi intellettuali che si è proposta di raggiungere, è la testimonianza concreta della necessità, per una società, di investire sui giovani. «L’anima libera è rara, ma quando la vedi la riconosci, soprattutto perché provi un senso di benessere quando le sei vicino» (Charles Bukowski). L’abitazione si articola intorno ad un corridoio dal quale si accede ad una sala moderna, ad una cucina completa di ogni confort, ad una classica stanza matrimoniale, alla camera dei ragazzi e al bagno. Ma è l’atmosfera a contraddistinguere questi spazi vissuti: la presenza, se pur impalpabile, della storia di questa famiglia, vicende in cui si sono alternate necessità, solidarietà e forza d’animo. I mobili e le suppellettili in questa casa sembrano essere “di passaggio”: se ce ne sarà bisogno, senza traumi, tutto verrà spostato per far posto ad un ospite inaspettato o ad evenienze improvvise. Lo spazio, a volte, ha un valore arcaico, mitologico, ed in questi luoghi i mobili, se pur ci sono, hanno le ali e sono sempre pronti a reinventarsi per seguire il corso della storia. Atdheu im Përse kjo dashuri e çmendur për ty Ti më ke lindur për të qenë plagosja jote (Mia patria Perché questo amore folle per te Tu mi hai fatto nascere Per essere la tua ferita) Gëzim Hajdari, Erbamara Barihidhur, Fara Editore, 2001
Il pianoforte nella stanza dei figli. A destra, Guardando indietro, installazione dell’artista albanese Klodian Deda.
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La peculiarità della letteratura dei Balcani affonda, infatti, le sue radici in luoghi di confine tra il reale e l’immaginario, rappresentando i Balcani una delle tante anime dell’Europa. Ed allo stesso tempo, proprio nei Balcani, lo stesso concetto di Europa viene spesso ridotto alla mera apparenza di prosperità economica, che in larga misura viene proiettata, in modo distorto, dallo stesso Occidente. Anche l’arte contemporanea può fungere da interessante periscopio per capire meglio la storia e la cultura dell’Albania. Alla Biennale di Venezia di quest’anno (nella sede di Forte Marghera) in collaborazione con la Galleria Nazionale di Tirana, ad esempio, alcuni artisti di origine albanese, Artan Shabani, Robert Aliaj (Dragot), Klodian Deda, Venera Castrati, Eliza Hoxha (per citarne solo alcuni), attraverso le loro opere hanno indagato il rapporto tra l’arte e temi quali l’emigrazione, l’appartenenza ad una patria e la guerra.
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a casa di Billy
Diagne Mamadou, per gli amici Billy, è nato a Louga una cittadina situata a nord ovest del Senegal, a circa 200 km a nord di Daka e a 30 km dalla costa atlantica; ricopre l’incarico di Consigliere Aggiunto nei Consigli di Circoscrizione per la Sezione di San Pietro in Vincoli e svolge la professione di mediatore culturale. Le attività economiche della regione di Louga sono essenzialmente l’agricoltura, l’allevamento, la pesca, l’artigianato e il commercio. Louga è anche la sede del FESFOP, Festival del Folklore e delle Percussioni, un festival folcloristico di musica popolare molto importante e seguito nel Senegal. Tale manifestazione, che quest’anno si svolgerà a fine dicembre, può essere un ottimo spunto per una vacanza a tempo di musica ed offre un’opportunità unica a chiunque sia interessato a conoscere la ricchezza artistica e musicale del Senegal. Durante il FESFOP si può partecipare a laboratori di danza e di percussione africana tenuti dai musicisti “griot” ed è possibile pernottare presso le famiglie del posto. «Il griot” (termine francese) – mi spiega Billy – è un poeta, un cantore che svolge il ruolo di conservare la tradizione orale degli antenati». Le conoscenze di un griot spaziano dalla storia, alla cosmogonia, alla mitologia, alla storia politica e i repertori possono variare in base al contesto nel quale si trova ad operare. Gli strumenti di cui si avvale sono poliedrici, essendo una figura a metà strada fra l’attore, il musicista, il narratore ed, appunto, il poeta. L’accompagnamento musicale (kora, balafon, m’bira, djambè) riveste un ruolo molto importante ed in alcune circostanze può essere utilizzato anche il canto. In genere il “mestiere” di griot si trasmette di padre in figlio o, in ogni caso, all’interno della stessa famiglia”. È proprio attraverso un gruppo folcloristico che Billy giunge in Italia circa vent’anni fa. Da allora, ha sempre lavorato, acquisendo un’eccellente conoscenza della lingua italiana ed un’incredibile abbondanza
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La “ritualizzazione”
degli spazi
lessicale che, naturalmente, lo facilitano ad una comprensione dei concetti esposti nel loro significato più analitico. Billy mi spiega che i bambini italiani nascono, imparano l’italiano, vanno a scuola e, durante il loro percorso di studi, crescendo, continuano a parlare e ad approfondire la conoscenza della lingua italiana; i bambini senegalesi, invece, nascono, imparano la lingua madre, vanno a scuola, ma la lingua che devono parlare ed anche studiare è il francese. Ciò significa che la conoscenza semantica delle parole si sposta sul francese, proprio perché ogni materia scolastica è studiata in questa lingua. In Senegal, per accedere anche al più elementare dei saperi è necessario quindi passare per una lingua importata, e questo comporta un rallentamento nei processi di acquisizione delle conoscenze. Sappiamo, infatti, che ogni lingua veicola una visione del mondo, una maniera specifica di delineare il reale e che il passaggio da una lingua all’altra non va da sé, perché vi sono una moltitudine di espressioni intraducibili o difficilmente traducibili. Di conseguenza, oltre ad un maggior impiego di tempo per spiegare i concetti, è necessario anche ricorrere di continuo a perifrasi per far comprendere ciò che si è voluto dire nella lingua di partenza. Ed è per questo che la prima sfida della comunicazione in tutte le zone francofone non concerne soltanto i problemi di traduzione e traslitterazione, ma la gestione stessa del plurilinguismo. Condividere in francese la diversità del mondo può andare bene, ma poterla condividere anche nelle lingue locali (fra queste la principale e il wolof) è ancora meglio. Per far questo sono necessarie riforme che creino una relazione reciproca e condivisa tra il francese come lingua veicolare e le lingue locali. Si tratterebbe, in definitiva, di promuovere un multilinguismo che funga da strumento per liberarsi e allo stesso tempo arricchirsi delle particolarità delle differenti lingue, organizzandone il confronto regolato. In tal senso la settima arte, il cinema, è stata un importante strumento di emancipazione socio-culturale e di rivendicazione del diritto d’espressione; intorno agli anni Sessanta del secolo scorso, infatti, i paesi africani si liberano dai sistemi di assimilazione culturale imposti dalle potenze coloniali ed è proprio il Senegal il primo stato ad avere una cinematografia indipendente e di qualità, grazie
Nellla pagina a sinistra il “Kurus”, nome in lingua wolof del rosario islamico; a fianco e a pagina 14, ritratti di marabout . Le foto del servizio sono di Alberto Giorgio Cassani
anche ad una situazione politica abbastanza stabile. Nel 1963, Ousmane Sembène realizza il primo film di finzione diretto da un regista africano: Borom Sarret. Il titolo stesso, una fusione di lingua wolof e francese, racchiude la spinosa questione della presenza-imposizione del francese, una delle tante contraddizioni con cui questo paese si deve costantemente confrontare, da una parte per non perdere una sua identità, dall’altra per poter restare al passo con il resto del mondo. Per mettere a fuoco la cultura del Senegal è indispensabile perciò conoscere e riconoscere l’attaccamento alle radici di questo popolo, la fedeltà alle tradizioni, che spesso si sono dovute scontrare con il “miraggio” di un Occidente che travolge tutto, in nome del progresso.
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Tradizioni che, trasformandosi in icone, nella loro apparente semplicità materica, attutiscono l’inevitabile “violenza” dell’impatto socio-culturale che il migrante deve affrontare. Nel tempo e nello spazio saranno proprio semplici oggetti, immagini, abiti o cibi il terreno su cui costruire i ponti per approdare ad un attivo pluralismo culturale. Quel pluralismo che è una delle caratteristiche delle società moderne, e nel quale si deve riconoscere, sempre più, un elemento propulsore di progresso sia scientifico che economico. La sua tipica struttura di interazioni, che si contrappone a rigidi fanatismi, mostra infatti quanto attraverso il pluralismo si possa parlare di “verità” pur senza ridurre tutta la realtà ad un unico punto di vista. Nell’appartamento che Billy condivide a Lido Adriano con alcuni suoi amici, la prima cosa che salta agli occhi è la quantità di immagini di personaggi (alcuni anziani) che ricoprono le pareti del soggiorno,
alle quali Billy mi dice essere molto attaccato. Sono fotografie che riprendono famosi “marabout”: uomini considerati dai mussulmani senegalesi guide spirituali che vengono consultate per qualsiasi questione e il cui parere è considerato vincolante. Gli scatti fotografici a casa di Billy, oltre ad essere immagini, sono anche impronte che raccontano e che diventano preghiere, perché raccontano ciò di cui si è rimasti privi. Ed è proprio partendo da queste manifestazioni del “divino particolare” che è possibile intravedere l’avvio verso un pluralismo che ci obblighi a lavorare insieme nel dialogo e nel rispetto reciproci, nel rigore e nel superamento dei dogmi. È evidente, infatti, che i legami sociali devono essere ripensati nel mutuo rispetto, e come terreno comune, di una moltitudine di persone accomunate dalla medesima condizione esistenziale.
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Magia
«[...] Il Brasile è la somma meravigliosa di ogni possibile contraddizione: in ogni uomo veramente brasiliano scorre un sangue ricco di fermenti europei, africani, indios, meticci, ed è proprio questo che rende il Brasile così magicamente colmo di luci ed ombre, così fragile, allegro, violento, e tuttavia così impossibile da dimenticare» Jorge Amado
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a passo di Samba a casa di Carla Indira
di Marina Mannucci “Saudade”: è questa la parola che esprime il sentimento struggente che con forza, anche a distanza, fa annusare i profumi, percepire colori, ascoltare la musica, mettendo in moto una foresta di emozioni. Un’attrazione fatale, frutto della coesistenza tra anime e corpi diversi, testimonianza della capacità del popolo brasiliano di fondere ed interpretare, piuttosto che cancellare; “saudade”, infatti, è molto di più del termine italiano “nostalgia”. Solo la parola tedesca “sehnsucht”, forse, arriva ad esprimere lo stesso sentimento. Il Brasile è dunque una terra di magia e per i suoi abitanti è normale stabilire contatti con il mondo invisibile. Per capire come siano nate e si siano sviluppate alcune di queste pratiche è necessario risalire al periodo delle deportazioni di intere popolazioni che, dal Senegal, dall’Angola, dalla Nigeria, dal Congo, dal Mozambico e dal Madagascar venivano caricate e deportate nella nuova terra invasa dai portoghesi nel XVI secolo. Gli schiavi venivano destinati al lavoro in miniera o alle coltivazioni, principalmente quelle della canna da zucchero, del tabacco e del cacao ed erano costretti al battesimo dai missionari gesuiti. Naturalmente ci fu una strenua resistenza a queste imposizioni e molti furono gli africani che, per l’attaccamento ai loro valori spirituali, vennero sterminati. Bahia divenne luogo d’incontro di persone di varie tribù che avviarono un importante interscambio culturale, linguistico, religioso, e le ritualità di questi gruppi etnico-spirituali portarono a nuove forme concettuali di relazione tra la terra e l’universo, determinando la base di una filosofia animistica che, come si sa, attribuisce un principio vitale, un’anima, ad esseri viventi ma anche ad oggetti materiali. Col tempo, l’influenza della simbologia cristiana ha stabilito un sincretismo con le figure delle divinità africane; divinità che avevano come riferimento solo simboli, figure o statuette, ma non un’immagine prestabilita, acquisiscono un volto. Avviene una commistione (spesso forzata) di pratiche e credenze magico-religiose tra il panteismo naturale africano, importato dagli schiavi africani con i riti, e i santi cattolici dei “patrões” europei. La divinità (orixà) Obaluaiê, raffigurata con il corpo ricoperto di ferite, viene paragonata a San Lazzaro, protettore delle malattie e, Jemania, signora delle acque, diventa la Madonna. In queste nuove forme religiose intervengono l’oracolo (Ifà) che lavora per portare agli uomini le pa-
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role degli dèi (orixàs) e l’intermediario tra gli dèi e gli uomini (il messaggero Exu). Ancora oggi gli Ifà durante le loro sedute di divinazione utilizzano come mezzo di comunicazione dalle dodici alle ventuno conchiglie. Il consulto viene effettuato davanti ad un bicchiere d’acqua che rappresenta l’elemento naturale, fonte di vita e catalizzatore di energie negative e ad una candela accesa che serve a dare la giusta concentrazione e la luce necessaria per vedere oltre la forma e per accedere a uno stato superiore di coscienza. La pratica magica segue il consulto e l’Exu al quale viene fatta un’offerta ha il compito di portare i desideri degli uomini al cospetto degli orixàs. Questi culti “meticci” non sono certo meno importanti delle religioni monoteistiche e per meglio comprendere il sincretismo brasiliano non si può non tener conto delle manifestazioni culturali ad esso strettamente collegate. Tra queste, oltre “il Barocco di Sal-
vador da Bahia”, vi sono naturalmente le musiche e le danze che accompagnano i rituali magico-religiosi, che, oltre ad offrire un’interpretazione alternativa della storia brasiliana, favoriscono anche una forma di contro-cultura, elaborata prima dagli schiavi neri e poi dalle classi subalterne, in opposizione allo sfruttamento delle classi egemoni. Un’altra manifestazione corporeo-culturale è la “capoeira”, che, sviluppatasi in epoca coloniale come lotta di liberazione dissimulata nella danza, trae le sue origini dalle tecniche di lotta tribali africane. Gli schiavi, infatti, si esercitavano nella lotta con l’intento di conquistare la libertà; l’apparenza di danza tribale li metteva al sicuro dalla punizione dei padroni. Oggi la capoeira è la danza dello sviluppo fisico, mentale e spirituale.
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Un’originale miscellanea
di geometrie e colori
«...Fu allora che una figura attraversò i cieli, e irrompendo per i sentieri più chiusi, vinse la distanza e l’ipocrisia, pensiero libero da ogni costrizione... Allora s’accese un fuoco sulla terra, e il popolo bruciò i tempi della menzogna» Jorge Amado
Ed è vestita di un magnifico abito bianco usato dalle baiane per le ritualità magiche (macumba) che Carla Indira Andrade Pithon, pedagogista nata a Baia e residente a Fosso Ghiaia da alcuni anni, ha raccontato il suo Brasile attraverso immagini, oggetti e ricordi, il 2 dicembre scorso presso la nuova sede di “CittAttiva”, in via Carducci al civico 14, nel ciclo di incontri organizzati dal Villaggio Globale. Nelle parole di Carla Indira ricorre spesso la parola “mistura” e le fotografie color seppia dei suoi avi testimoniano il suo “metissage”, risultato di una trisavola indios e di un trisavolo portoghese; ascoltandola, mi riaffiora vivido il ricordo delle parole di Jorge Amado quando in un’intervista raccontava: «La mia famiglia è molto mescolata. La nonna materna era una piccola india e un cacciatore portoghese se l’è presa». In un italiano perfetto, arricchito dell’inconfondibile cadenza-melodica tipica delle lingue latino-americane, Carla Indira racconta che il toponimo “Brasile” deriva probabilmente dall’albero “pau brasil” (albero brasil) e dal colore rosso brace (brasa) della resina contenuta nel suo legno. Il “pau brasil”, prima che arrivassero gli invasori, ricopriva interamente la foresta delle regioni litoranee; oggi questa pianta è purtroppo a rischio di estinzione a causa del suo sfruttamento da parte dell’industria tessile che lo utilizza per colorare i tessuti ed anche a seguito dei rovinosi disboscamenti attuati dalle multinazionali. Il Brasile, al tempo dell’invasione portoghese, si stima fosse abitato, sulla costa e lungo gli argini dei fiumi, da circa cinque milioni di indios semi-nomadi che
vivevano di caccia e pesca. Oggi dopo stermini, violenze, malattie e soprusi ne sono rimasti forse duecentoventimila e continuano a diminuire sotto la pressione delle multinazionali minerarie, del legname, e dei grandi latifondisti. L’apertura di nuove strade in territori incontaminati e la creazione di Parchi nazionali per i turisti ha facilitato l’importazione di malattie contro le quali gli indios non hanno difese immunitarie; inoltre lo sfruttamento selvaggio delle risorse, sia minerarie che idriche, ha reso impossibile la sopravvivenza in molti dei territori riservati agli Indios. «I lavoratori delle piantagioni recavano il vischio del cacao molle attaccato alla pianta dei piedi, come una spessa scorza che nessun’acqua al mondo avrebbe mai lavato. Ma tutti avevano il vischio del cacao attaccato all’anima, nel profondo del cuore» Jorge Amado
La casa di Carla Indira, una graziosa villetta su due piani edificata sulla strada che fiancheggia il “fosso ghiaia”, è testimonianza concreta e materica di questa “mistura-mescolanza” che contraddistingue il popolo brasiliano e di cui Lei mi parla con orgoglio. Il risultato è un’originale miscellanea di geometrie e di colori, che permettendo l’incontro di oggetti che simbolicamente rappresentano tradizioni e culture differenti, danno vita “a forme nuove dell’abitare”. Un “nuovo” incontaminato e genuino, ed in quanto tale, carico di energia e di forza. I colori vivaci di oggetti artigianali originari del Brasile oltre a divenire forme che accarezzano gli spazi, emanano armonie ed un phatos di cui, spesso, altre case, se pur lussuose, nella loro scontata omologazione, sono assolutamente prive. Carla Indira, oltre ad essere bella, colta e simpatica, emana un’allewww.trovacasa.ra.it
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gria contagiosa. Con naturalezza mi mostra la sua casa, e rimango affascinata da un magnifico mandala che ha realizzato con semplici elementi naturali; lei si muove con calma per la casa, me ne indica con naturalezza gli spazi intimi e, mentre mi parla, allatta anche la sua bimba: questo gesto, nella sua assoluta semplicità, racchiude qualcosa di divino.
O que serà (À flor da Pele) Chico Buarque «O que será que me dá Que me queima por dentro, será que me dá Que me perturba o sono, será que me dá Que todos os tremores que vêm agitar Que todos os ardores me vêm atiçar Que todos os suores me vêm encharcar Que todos os meus órgãos estão a clamar E uma aflição medonha me faz implorar O que não tem vergonha, nem nunca terá O que não tem juízo...» «Che sarà che mi accade Che mi brucia qui dentro, che sarà che mi accade Che mi turba il sonno, sarà che mi accade Che tutti i tremori che mi vengono ad agitare Che tutti i calori mi vengono a stimolare Che tutti i sudori mi vengono a bagnare Che tutti i miei organi stanno a reclamare E un’afflizione spaventosa mi fa implorare Che non ha vergogna, né mai ce l’avrà Che non ha governo, né mai ce l’avrà Che non ha giudizio...» (traduzione di Ivano Fossati)
Costume da samba e, nella pagina a sinistra, maracas brasiliane. Le immagini del servizio sono di Alberto Giorgio Cassani
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A casa di Maria Angelica
Costruita con mani di donna
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Maria Angelica risiede dal 2006 a Piangipane in via Rubboli. La casa in cui abita l’ha costruita con le sue mani nel vero senso della parola: ha infatti aderito ad un progetto di autocostruzione del comune di Ravenna, diventando presidente della cooperativa “Ventisei ali”, composta da quattordici famiglie italiane e dodici straniere. La metodologia di lavoro dell’autocostruzione rientra in un progetto di Social Housing (edilizia sociale) e rappresenta uno dei temi più attuali a sostegno delle politiche di welfare. Il termine welfare, “benessere“, “star bene”, coniato in Gran Bretagna dopo la prima Guerra mondiale, definisce attualmente in Italia il settore dello Stato che dovrebbe occuparsi delle politiche sociali per il sostegno di varie categorie. L’autocostruzione è un processo di edificazione a cui possono prendere parte utenti che non hanno alcuna esperienza nel settore, utilizzando materiali e tecnologie facilitate. «Il prodotto della costruzione facilitata deve provenire da processi produttivi industriali; deve avere una bassa complessità strutturale; deve essere concepito, progettato e costruito con l’obiettivo di semplificare il montaggio; avere poche funzioni facilmente identificabili, deve essere appetibile economicamente» («Tetto & Pareti», settembre 2008). Lo scopo è quello di trasferire una porzione, anche rilevante, della complessità del costruire in cantiere verso il prodotto industriale. Nata a Lima, in Perù, dopo gli studi Angelica si dedica per un certo periodo al giornalismo, specializzandosi soprattutto in eventi culturali nazionali ed internazionali. Trasferitasi in Italia, studia e si specializza come infermiera professionale e dal 2004 è tra i membri della redazione di “Città Meticcia”. Il nostro primo approccio, in cui le chiedo un appuntamento per un’intervista, è telefonico; il timbro della sua voce ed il tono cordiale mi confortano riguardo alla sua disponibilità; inevitabilmente mi creo una sua immagine ideale, non tanto visiva, quanto mitologica, perché collegata a reminiscenze scolastiche sul popolo Inca. Quando per la prima volta c’incontriamo a casa mia, la conoscenza de visu non smentisce le mie impressioni telefoniche ed Angelica inizia il suo racconto; il suo essere donna, il volto, le parole, i gesti mi fanno capire quanta vicinanza d’esperienze c’è realmente tra noi esseri umani. La sua vita si è sviluppata come un rampicante intorno ad un percorso di emozioni simili alle mie e a quelle di milioni di altre donne ed uomini: la sento sorella, vicina ed amica. Al suo fianco irraggia la presenza della storia del Perù e quindi degli Inca, del dominio degli Spagnoli fino a quando, nel 1820, non fu proclamata l’indipendenza, una storia che dal 1919 è segnata anche da una serie di dittature e colpi di stato, fino al trattato del 1998 che riporterà la pace. Anche le caratteristiche del territorio risaltano di continuo dai racconti di Angelica: le Ande dividono il paese in tre regioni; sulla costa, che si dipana in un’arida striscia di terra che si estende per tutta la longitudine del paese, sono situati i maggiori centri urbani. La zona della Sierra si estende tra due rami della Cordigliera ed è abitata da molti contadini organizzati in ayllus (comunità di origine inca) che praticano un’agricoltura di sussistenza (mais e patate). A sud-ovest di questa regione si trova il lago Titicaca con la superficie lacustre navigabile più
elevata al mondo; in questa zona è presente anche un’intensa attività sismica. L’allevamento di lama e di alpaca, negli ultimi anni, si è spostato verso le zone più elevate a causa dell’avanzare dell’attività mineraria e dell’allevamento commerciale degli ovini. La regione orientale, formata dalle pianure amazzoniche e dalla foresta pluviale, è poco popolata ed ha un clima tropicale. Angelica mi spiega che le differenze del territorio influiscono anche sui costumi degli abitanti: se la fascia costiera è caratterizzata, infatti, da uno stile di vita molto simile a quello europeo, la popolazione andina, che svolge in prevalenza un lavoro di tipo rurale, avendo subìto con violenza il dominio spagnolo e il conseguente stato di abbandono, si distingue ora per quel velo di dolce tristezza che traspira da ogni più semplice azione del vivere quotidiano. Gli abitanti del territorio amazzonico si qualificano invece per il carattere allegro; ed anche se, secondo gli standard economici della nostra società, rientrano nelle categorie definite di “povertà”, bisogna considerare che questo giudizio si basa esclusivamente sulle entrate economiche e sull’accesso ai servizi considerati fondamentali nell’ottica della civiltà occidentale. La realtà di queste popolazioni va però considerata anche dalla prospettiva dell’ambiente in cui vivono; agli indigeni non è mai mancato nulla: benessere, istruzione, cibo ed altre risorse essenziali, ma soprattutto la libertà. Tutto ciò non è poco se confrontato al livello di accesso ai beni e ai servizi di un “povero” di un quartiere urbano dei cosiddetti “paesi sviluppati”. È forse necessario, perciò, rivedere alcuni giudizi in termini di qualità di vita, e cioè in relazione agli standard che queste popolazioni considerano adeguate alle loro necessità. Andrès Nuningo, indigeno Wampis, Presidente del Consiglio Aguaruna Y Huambisa e, sindaco di Rìo Santiago nella Regione Amazzonica, durante uno dei suoi viaggi, ha fotografato alcune persone costrette a cercare del cibo nella spazzatura, ed al ritorno, mostrando le
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foto ai suoi compaesani, ha esclamato: «Guardate il progresso». Dai racconti degli indios traspare spesso l’inevitabile malinconia del com’era prima e com’è adesso: «Nella mia terra la mattina mi svegliavo sereno. Non dovevo preoccuparmi dei vestiti perché la mia casa era isolata, circondata dalle mie “chacras” e dalla montagna. In tranquillità restavo a guardare l’immensa natura del fiume Santiago mentre mia moglie accendeva il fuoco. Mi rinfrescavo nel fiume e con la canoa, alle prime luci del giorno, andavo a fare un giro per cercare qualche cunchis [una specie di pesce gatto] o per catturare qualche mojarra [un altro tipo locale di pesce]. Con il progresso le cose sono cambiate, ora si lavora nelle coltivazioni di riso fino a tardi e torniamo a casa a mani vuote. Già vedo tutti i miei compaesani frugare nelle discariche di Lima». È evidente che gli indigeni aspirano ad avere certe comodità e qualche beneficio dal progresso, ma quel che vogliono soprattutto è di non rimanere travolti dal finto progresso del consumismo esasperato, perché la maggior parte di essi ama la propria libertà e un modo di vivere coerente con la loro visione del mondo. È un dato di fatto inoltre che le popolazioni indigene sono depositarie di buona parte del “ricco tesoro” della selva amazzonica, che fornisce un prezioso ed indispensabile servizio ambientale d’inestimabile importanza per l’intera umanità. Entro in casa di Angelica in una fredda mattina di domenica e obbligo l’intero nucleo familiare ad un traumatico risveglio. L’abitazione, integrata in un nucleo di case a schiera, si articola su due piani: al piano terra, la sala, moderna e confortevole, è come pervasa da un’entità soprannaturale; un genius loci giunto da oltre oceano che si mescola a questo moderno luogo fisico. Sulla libreria è appoggiato un bellissimo retablo; Angelica, accortasi del mio interesse, lo prende e mi permette di osservarlo da vicino. È un “armadietto” di legno, le cui porticine sono decorate con motivi floreali; all’interno, nella parte superiore, sono rappresentate scene celesti ed in quelle inferiore scene terrene. Tali scene variano a seconda delle correnti religiose, o delle credenze di chi commissiona il retablo. I mulattieri portavano con sé questi armadietti durante i loro lunghi viaggi, per assicurarsi la protezione del santo contro i briganti. Dalla sala che si affaccia su un giardino si passa direttamente alla moderna cucina che si apre su un utile giardinetto in cui, quando il clima lo permette, è possibile mangiare all’aperto. Una doppia rampa di scale accompagna alla moderna zona notte; tutte le rifiniture in questa casa sono opera di
Angelica, che oltre ad essere appassionata di svariati generi di bricolage, sperimenta anche la tecnica del mosaico. Le sue mani, la sua forza, oltre ad avere contribuito alla costruzione dei muri della sua abitazione intervengono ora anche “sulle strutture ornamentali” che così, oltre ad essere emblemi estetici, diventano anche simboli delle forti passioni che caratterizzano la natura di questa piccola grande donna. Mentre ci stiamo salutando, Angelica mi si avvicina e, improvvisamente seria, mi sussurra: «Non dimenticare di scrivere che lo spirito degli Inca è sempre presente nel corso dei secoli nella storia del Perù ed è radicato nelle popolazioni indigene perché aspettano ancora che i discendenti Inca vengano a liberarli». Prima dell’arrivo degli spagnoli, l’Inti Raymi era la festa principale dell’impero e si svolgeva durante il solstizio d’inverno, periodo in cui il sole si trova nel punto più lontano dall’equatore. I “figli dell’impero” temevano che il sole, loro dio, fonte di vita, scomparisse nell’universo ed allora, con pianti e lamenti lo imploravano di non allontanarsi dalla terra e gli giuravano eterna fedeltà e amore. Oggi, a Cusco, la Festa del Sole ha uno scopo propiziatorio; viene celebrata in giugno con canti e danze accompagnati dalle melodie delle quenas (flauti) e dai rintocchi del tamburo. In quest’occasione si insegna ai ragazzi che per diventare uomini è necessario ”vivere in armonia con la natura”, e che la peggiore ignoranza è pensare di poter essere padroni della terra, perché l’uomo è soltanto un filo nel tessuto di tutti gli esseri viventi che la Pachamama tesse. Pachamama è il termine quechua, l’antica lingua degli Incas ancora parlata dai popoli andini, che designa la madre cosmica. «La terra è un immenso giardino, e prendersene cura induce a coltivare se stessi e il proprio giardino interiore» Hernan Huarache Mamani
Nelle pagine precedenti: Patchwork su motivo andino e disegno di Angelica in stile Botero; qui sopra uno scorcio del soggiorno e un retablo. Le foto sono di A. G. Cassani.
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Nel 1972, la pensatrice tedesca Hannah Arendt, nel testo La menzogna in politica: Riflessioni sui Pentagon Papers, riflette sulla manipolazione della storia a fini politici, attraverso la ricostruzione delle motivazioni poste a fondamento dell’entrata in guerra degli Stati Uniti contro il Vietnam e scrive: «La manipolabilità umana è diventata una delle merci principali venduta sul mercato dell’opinione pubblica colta». Oltre a denunciare la pratica “eterna” della manipolazione che i poteri dominanti compiono dei fatti, della loro rappresentazione e trasmissione, l’autrice segnala un fenomeno assolutamente nuovo: la nascita di un’opinione pubblica, dotata di peso politico e facilmente influenzabile, e l’avvento del mercato delle notizie, componente dell’industria culturale e nuova fucina della manipolazione da parte dei poteri dominanti della nostra epoca. Dopo aver letto sulla storia contemporanea dell’Iraq ed aver cercato approfondimenti svincolati da visioni eurocentriche che rendono miopi nella comprensione dei fatti, mi sono resa conto che gli studi storici si trovano di fronte ad una chiara sfida: la trasformabilità della memoria e della storia in merce dell’industria culturale. Le verità accertate in sede storica, nel mercato culturale si trasformano spesso in merci obsolete che vengono manipolate affinché riacquistino un carattere di sensazionalità. Sono verità storiche che somigliano sempre più a “news” e, come queste, si pretende che siano sempre nuove e ogni giorno diverse. Ne consegue che «la storia vera, quella che si basa su ricerche non può che riappropriarsi dell’agone pubblico, unico luogo in cui è permesso reinterrogare il passato per poter rispondere a bisogni spirituali e conoscitivi presenti» (www. giornaledistoria.net). La forza della storia, della verità storica, sta proprio nel fatto che è “verità discutibile”, ma le sue narrazioni, per quanto opinabili, si raccordano intorno a principi, valori, dati di fatto, certezze di fondo, che devono rimanere estranee ad un certo genere di polemica politica. Per tenere in vita le verità “discutibili” della storia è imprescindibile valorizzare i presidi culturali, avere una comunità scientifica forte ed “attrezzata”, e soprattutto avere luoghi di formazione non subordinati ad interessi particolari. Sono problemi questi la cui soluzione, oggi, io credo possa arrivare solo attraverso la capacità di una profonda e sperimentata esplorazione della rete e della comunicazione via Internet. Naturalmente non parlerò in questa sede della storia contemporanea dell’Iraq, ma ho ritenuto opportuna tale premessa proprio perché la storia di questo paese è spesso diventata una “merce”; e quindi consiglio a chi volesse andare
oltre di indagare e “navigare” in prima persona. Bagdad viene fondata nel 762 d.C. con un piano urbanistico che dispone gli edifici a cerchio intorno ad uno spazio vuoto al cui centro vengono edificati il palazzo del califfo e la moschee; a delineare il limite della cittadella vengono erette una muraglia e torri cilindriche. I califfi che si susseguono, utilizzando le migliori tecniche ingegneristiche, faranno costruire palazzi, scuole ed università, bagni pubblici, minareti. Al centro delle vie commerciali tra Oriente e Occidente, Bagdad diviene una delle più ricche città del mondo ed i suoi palazzi lussuosi, i quartieri dei mercanti e le banchine affollate concorrono a far da sfondo ai racconti delle Mille e una notte. Nel 1258 i mongoli però la distruggono quasi completamente e gettano nel Tigri oltre un milione e seicentomila volumi della biblioteca di Bagdad. Nelle Mille e una notte si narra di un re persiano che, essendo stato tradito da una delle sue mogli, ha deciso di uccidere tutte le sue spose dopo la prima notte di nozze. Sherazade, andata sposa al re, escogita un trucco per salvarsi: ogni sera racconta al re una storia, rimandando il finale al giorno dopo. Va avanti così per mille e una notte; e alla fine il re, innamoratosi, le rende salva la vita. Le donne irachene usano ancora oggi la stessa astuzia: ingannano, infatti, il destino con racconti che narrano verità spesso trascurate dai mass media di tutto il mondo. Nel libro Parole di donne irachene, a cura di Inaam Kachachi, donne di Bassora e di Baghdad che hanno dovuto combattere contro la censura della dittatura, contro gli ostacoli dell’embargo, che hanno conosciuto la tortura o che sono in esilio raccontano del loro universo e, attraverso la scrittura, oltre ad esprimere sentimenti, svelano un Iraq inedito. «Scrivere non è certamente facile. Ma oggi scrivere in Iraq diventa una vera impresa, quando si conoscono le innumerevoli difficoltà, materiali ed etiche, causate dalla guerra e soprattutto dall’embargo. D’altronde, l’attività dell’editore è quasi una missione impossibile in un Paese dove manca carta, inchiostro, pezzi di ricambio per stampanti. E soprattutto manca quella bella rosa dai petali splendenti, ovunque agognata: la libertà di espressione. Laggiù, dopo aver messo a letto i bambini, le donne scrivono nell’oscurità di eterne interruzioni di elettricità. L’ispirazione raggiunge occhi affaticati e spenti. Occhi che non possono permettersi una matita di kajal importata, perché ha un prezzo esorbitante: come cento biro, tre polli o ottanta gallette di pane. Insomma, l’intero stipendio di un mese! Gli iracheni scrivono su fogli di carta scura, scarti di stampa,
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Nelle pagine precedenti: La facciata e l’ingresso della casa “autocostruita” di Samir, nella frazione a Piangipane; un servizio per bevande; a sinistra, il soggiorno; a destra un disegno del nome in arabo di uno dei bambini. Le foto sono di A. G. Cassani.
fogli già usati, vecchi quaderni di scuola. Scrivono una strofa di poesia o il passaggio di un romanzo su tutto ciò che sia utilizzabile: una vecchia ricevuta, una fattura non pagata, un sacchetto di carta spiegazzato che una volta è servito per portare frutta a casa (per coloro che allora potevano permetterselo). Scrivono anche sul retro delle ricette mediche». Alla fine degli anni ‘70 a Bagdad sono state costruite nuove strade, ponti, centrali elettriche e naturalmente raffinerie di petrolio, ma sarà proprio il tema della competizione globale per l’energia a far sì che Iraq e Afghanistan diventino in poco tempo i due paesi del continente asiatico al centro ininterrotto di conflitti bellici. Nel 1991, durante le sei settimane di bombardamenti americani, le esplosioni distruggono molti quartieri di Bagdad e riducono in macerie scuole, ospedali, industrie, ponti e centrali, con alte perdite di vite umane anche tra i civili. Scompare buona parte del patrimonio e della memoria conservata negli edifici simbolo del popolo iracheno ed il sistema urbano di Bagdad si trasforma in maniera traumatica; ha il sopravvento un’architettura dell’occupazione fatta di barriere, di spartitraffico eretti frettolosamente con terra e macerie, di muri di cemento e torri di guardia, in cui predominano le sfumature del grigio e del marrone. In questo scenario di distruzione, ingegneria e architettura vengono chiamate in causa con soluzioni che dovrebbero tracciare un paradigma progettuale per il recupero di intere porzioni di città. Marc Augé sottolinea come però «oggi anche nei luoghi di guerra la distruzione e la ricostruzione sono parte di uno stesso programma, si pianificano entrambe prima dell’inizio del conflitto» e questo è quanto è avvenuto e sta avvenendo sia in Iraq che in Afghanistan. L’allegra macchina da guerra degli appalti nel martoriato Iraq ha uno sfondo a base di petroldollari e appalti le cui sigle più ricorrenti delle imprese-acchiappatutto sono: Becthel, Berger, Fluor e Parsons, oltre alla tentacolare Halliburton guidata fino al 2000 dal numero due di Bush, Dick Cheney. Si può solo sperare che queste città irachene ferite, la cui caratteristica comune è di avere un’enorme resistenza, in quanto entità fortemente dinamiche, sappiano svincolarsi dalle eccessive manipolazioni dei “portatori di pace e di democrazia”, affrontando la “topografia del trauma
bellico” seguendo due fronti: quello della scala urbana, dell’assetto del territorio e delle città di fondazione, e quello della scala architettonica e della possibilità di integrare nelle nuove progettazioni gli effetti dei disastri bellici. Marcus Samir nasce a Bagdad nel quartiere Dora ed all’età di diciannove anni si trasferisce in Italia, a Ravenna, dove gli viene riconosciuto la stato di rifugiato politico; si specializza come tecnico manutentore antincendio, acquisisce la cittadinanza italiana, si sposa con Susanna, ha due figli, David e Christian, e dopo aver aderito ad un progetto di autocostruzione del comune di Ravenna, abita ora in una casa di sua proprietà a Piangipane. Samir appartiene all’antica chiesa caldea, nata direttamente dalla predicazione degli apostoli, una comunità cattolica che parla l’aramaico e che ha sempre convissuto pacificamente in mezzo ai musulmani. A seguito della guerra del 2004 hanno inizio però le violenze contro questa minoranza religiosa, i cui componenti sono considerati dalle frange musulmane intransigenti, “crociati” ed amici della forza occupante. Da allora i caldei residenti in Iraq vengono costretti a convertirsi all’Islam e a vivere una quotidianità fatta di uccisioni, rapimenti, minacce e soprattutto di fuga dalle città, e quindi dal paese. Se la casa risponde al bisogno primario di mettere ordine in contrapposizione al caos esterno, per Samir la sua dimora di Piangipane è una superficie artificiale che, se pur isola la sua famiglia in uno spazio di intimità condivise, non esclude gli elementi esterni, lasciando anzi che vi penetrino sia materialmente che simbolicamente. La sua storia, i suoi ricordi, sono ormai quasi completamente legati all’Italia, paese che lo ha accolto ed in cui ha mescolato il passato con il presente. I luoghi e quindi la casa per il migrante diventano spesso cantieri, fucine in cui si forgiano incessantemente i ricordi, attraverso il racconto di sé nel tempo, ricomponendo frammenti di mondi che, se pur sommersi, sono sempre emotivamente vigili. Ma quello che più colpisce di Samir, oltre all’energia e alla forza che sprigiona, è la sua allegria, il carattere aperto e gioviale. Durante il servizio fotografico i suoi bambini ci seguono incuriositi ed allegri e, giustamente, si frappongono fra noi adulti, per partecipare all’incontro ed essere anche ascoltati. Susanna la giovane madre è al la-
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voro, e percepisco che Samir, da padre contemporaneo, non è solo un fornitore di materiale genetico, ma è coinvolto con molta scioltezza, e soprattutto molto garbo, nell’educazione e nello sviluppo dei suoi figli. Ancora una volta, non posso non constatare quanto sia importante andare oltre i pregiudizi; infatti in Samir il valore simbolico della figura paterna è un elemento che travalica i confini delle singole culture e rappresenta un carattere universalmente valido al di là dei contesti sociali e culturali differenti. Salendo al piano superiore, sulle porte delle camere dei bambini, sopra due tele rettangolari, spiccano i nomi in arabo di David e di Christian: li ha dipinti Susanna. Quanta profonda e forse inconsapevole saggezza, in un semplice gesto! Ecco, io credo, che, quando riesce ad esprimersi, la forza rivoluzionaria del femminile si manifesta attraverso gesti apparentemente normali che possono persino passare inosservati. I segni-simbolo, realizzati con affetto da questa giovane madre, racchiudono in nuce la volontà di andare oltre, di oltre-passare quel pensiero, che, nel bene e nel male, ha interessato la storia millenaria di Occidente ed Oriente e fungono da ponte che, in modo concreto, guarda al futuro più di tante inutili parole.
«D’un tratto, in piena siesta dei cannoni, tra due guerre, ci siamo incontrati, insieme abbiamo sognato che i cimiteri diventassero piste da ballo. Hai detto: “Ciò che fu distrutto delle nostre speranze si ergerà come un miraggio”. Ho detto: “I cannoni sono morti, le guerre dormono da tempo”. E più in fretta del fischio di una pallottola, un esercito è passato. Oscillavamo tra spaesamento E un sussurrare d’innamorati, rimasti sognatori: “Ah, se i razzi diventassero palme!” Un breve istante E la nostra terza guerra è scoppiata. Niente più posto per i desideri: del mutismo, tu hai fatto la tua professione, e io, della catastrofe, il mio mestiere». Rim Qaïs Kobba, Desideri (in Inaam Kachachi, Parole di donne irachene: Il dramma di un Paese scritto al femminile, Milano, Baldini&Castoldi, 2003)
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Storia di Oliver
Partire, viaggiare e, forse, giungere Oliver Kamela, rifugiato politico del Camerun ai giardini di Ravenna. In alto a destra, la sua bici.
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«Il Camerun è un mondo in miniatura, ci sono tante religioni e circa 260 etnie ed il modo di vivere non è poi così diverso dal vostro, siamo molto più simili di quello che voi immaginate». Così Oliver Kamela risponde sorridendo alla mia domanda di banale curiosità occidentale sul “come si vive in Camerun?”. Oliver ha ventotto anni ed è nato nella capitale del Camerun, Yaoundé; la sua famiglia d’origine era composta dal padre, sposato con tre mogli, commerciante di prodotti alimentari, e da quattordici fratelli. Dopo aver frequentato la scuola primaria e la scuola secondaria fino all’età di diciotto anni, nel 2000 entra anch’egli nel commercio ed avvia un’attività in proprio. Nel 2006, a seguito di uno sciopero per rivendicare dei diritti sindacali, in cui la polizia interviene sparando su alcuni dimostranti ed uccidendo un giornalista, Oliver viene indicato tra i responsabili della dimostrazione ed è costretto a fuggire. Aiutato da un amico, racimola i soldi necessari, il controvalore di circa 700 euro e, senza avere il tempo di salutare nessuno, privo di documenti, il 16 maggio 2008, nascosto all’interno di una stiva di una nave mercantile, lascia il Camerun; dopo circa venti giorni di viaggio giunge a Ravenna. Sceso dalla nave, i suoi piedi calpestano il suolo di un paese sconosciuto, in cui le persone comunicano con una lingua a lui incomprensibile. Mi racconta che quel giorno si avvia verso la stazione e chiede (immagino a gesti) indicazioni per i luoghi d’accoglienza: non ha soldi e, come già detto, nemmeno documenti. Nei giorni successivi fa richiesta di asilo politico alla Questura di Ravenna; nel frattempo trova accoglienza presso la Caritas. Dopo circa otto mesi, nel gennaio 2009, ad Oliver viene concesso l’asilo politico che gli riconosce una copertura di protezione sussidiaria per tre anni. Attualmente, tramite l’Asp (ex Consorzio dei Servizi Sociali) di Ravenna, Oliver usufruisce di vitto e alloggio da dividere con altre persone e di un minimo intervento economico settimanale; non è però riuscito a trovare un lavoro. Ad agosto forse si sposterà in Trentino dove, gli hanno detto, potrebbe esserci qualche possibilità come bracciante. Ascoltandolo, mi accorgo che per quanto io mi sforzi di comprendere la sua situazione, la mia percezione sulla reale precarietà del suo vivere è carente. Per Oliver, spostarsi di qualche centinaio di chilometri significa dover affrontare una spesa, per il biglietto del treno, fuori budget, e rinunciare, a quei preziosissimi, se pur minimi, benefici “materiali” di cui dispone a Ravenna; nel caso, quindi, non trovasse lavoro, la sua situazione potrebbe diventare disperata. Nelle mie considerazioni, non avevo assolutamente valutato sia che il prezzo del biglietto del treno potesse essere un problema, sia lo stato di assoluta mancanza di riferimenti affettivi a cui fare riferimento in caso di un bisogno estremo ed improvviso. E, allora, mi rendo conto che se voglio continuare seriamente il mio lavoro di scrittura sulle vite e sugli spazi delle persone, come sosteneva Ryszard Kapuscinski, devo condividerne ulteriormente la “loro” vita, altrimenti mi sarà impossibile “restituire”, di queste storie, il reale senso del destino, che è poi la parte essenziale di questi racconti. Nessuna denuncia, nessun articolo di giornale sugli abusi e le ingiustizie subite da persone oppresse, potrà avere
l’effetto sperato se non in una prospettiva di empatia e di sentirsi parte di un destino comune. La definizione di rifugiato e la legislazione che lo riguarda ci obbliga a riflettere sulla necessità di non rimanere in un campo “astratto”, perché si argomenta intorno a persone, identità, storie individuali e storia collettiva. Il rifugiato, il richiedente asilo, il clandestino, l’irregolare, il senza documenti, il beneficiario di protezione umanitaria/sussidiaria, il profugo ha un volto ed una fisicità. Queste parole che nell’uso comune vengono spesso pronunciate con leggerezza producono seri effetti istituzionali, politici, giuridici e di percezione sia su chi ne è oggetto sia su chi le pronuncia. Per creare un po’ di ordine con le parole, la prima distinzione da fare è quella tra il migrante, colui che decide, che sceglie di partire, e il rifugiato il cui esodo invece è obbligato; vi sono quindi motivazioni di partenza e condizioni di arrivo concretamente diverse. Dino Frisullo nel libro Con lo sguardo delle vittime ben esprime la condizione del rifugiato: «Sradicato con violenza dal suo ambiente, ridotto a merce nelle anticamere dei trafficanti, a profugo nella stiva di una nave, a postulante nelle questure o nelle mense del volontariato, l’esule vive doppiamente l’esperienza dell’estraniamento. Non ha minimamente scelto di vivere nella società in cui è stato scaraventato. Il suo orizzonte temporale dipende totalmente dall’arbitrio della burocrazia in Europa, ma anche dalle vicende del paese che è stato costretto ad abbandonare, in cui teme di essere rinviato, ma in cui desidera, pure, un giorno ritornare». Parlando di rifugiati, si parla inevitabilmente di luoghi; dei paesi di partenza dai quali sono costretti a fuggire, di un viaggio con mezzi di fortuna attraverso aree di transito e dello stato di arrivo che a volte non è quello in cui ci si ferma.
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È indispensabile tenere insieme questo quadro spazio-temporale per capire le personalità del rifugiato, la sua diffidenza ed il suo disorientamento, i traumi e la complessità della sua condizione. Il principale strumento giuridico relativo alla protezione e all’assistenza dei rifugiati a disposizione della Comunità Internazionale è la Convenzione di Ginevra, approvata in una conferenza speciale dell’ONU nel 1951, alla quale hanno aderito tutti gli stati europei. La convenzione stabilisce chi può essere considerato un rifugiato e le forme di protezione legale, di assistenza e di diritti sociali che il rifugiato dovrebbe ricevere dagli stati aderenti al documento. Al contempo, la Convenzione stabilisce anche gli obblighi del rifugiato nei confronti dei governi ospitanti e di alcune categorie, ad esempio i criminali di guerra, che non possono accedere allo status di rifugiati. Un protocollo del 1967 ha rimosso le limitazioni temporali e geografiche fissate nel testo originario della Convenzione, che consentiva di fare richiesta per lo status di rifugiato esclusivamente ai cittadini europei coinvolti in eventi antecedenti il 1951. L’articolo 1 della Convenzione definisce rifugiato colui che «temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori dal paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo paese; oppure che, non avendo una cittadinanza e trovandosi fuori dal paese in cui aveva residenza abituale a seguito di siffatti avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra». I 140 paesi firmatari della Convenzione, qualora ospitino dei rifugiati, sono i principali responsabili della loro protezione; l’UNHCR, United Nations High Commissioner for Refugees, esercita una funzione di controllo su questi obblighi; l’agenzia cerca inoltre di assistere i rifugiati nel tentativo di ricostruirsi una nuova vita, sia attraverso l’integrazione locale, sia attraverso il ritorno volontario nella propria terra natale, o, se questo dovesse essere impossibile, attraverso il loro reinsediamento in un paese terzo. Naturalmente ai rifugiati è richiesto il rispetto delle leggi e delle regole dei propri paesi d’asilo. È bene sapere che la Libia non ha aderito alla Convenzione di Ginevra, né al protocollo del 1967, ed inoltre non riconosce il Protocollo delle Nazioni Unite per i Rifugiati, rifiutando di conseguenza il “principio di non refoulement”, ovvero il divieto di espulsioni e rimpatrio di profughi verso paesi
dove la loro vita o la loro libertà sia in pericolo. In questo paese sono ripetutamente inoltre violati: il diritto al “giusto processo”, che comprende la possibilità di difendersi e di fare appello contro una decisione amministrativa, il diritto ad ottenere una decisione motivata e di essere informati sui fatti su cui si basa la sentenza, il diritto all’integrità fisica, alla dignità umana e non di rado anche alla vita. Sono molte le organizzazioni umanitarie che hanno raccolto una fitta documentazione su quanto accade a chi viene respinto in Libia una volta intercettato nel Canale di Sicilia: stupri, pestaggi e torture operati dalla polizia libica nei campi di detenzione per chi è senza documenti. Campi che, va detto, sono in parte finanziati dall’Italia ed in parte dall’Unione Europea (in merito, consiglio soprattutto agli insegnanti, affinché sensibilizzino all’argomento gli studenti, la visione del film-documentario Come un uomo sulla terra di Riccardo Biadene, Andrea Segre e Dagmawi Yemer). Ogni mattina, uscendo dall’alloggio in cui condivide una stanza con un altro rifugiato proveniente da un paese con usanze molto diverse dalle sue, Oliver inizia la giornata avvicendandosi a sportelli associativi, comunali, provinciali e di agenzie di lavoro. Finiti questi giri, non ha altro da fare se non passare un po’ di tempo alle postazioni Internet messe a disposizione dalla Casa delle Culture, in Piazza delle Medaglie d’Oro e, quando il bel tempo lo permette, ritrovarsi con alcuni amici sulle panchine “del parco”; pranzo e cena sono assicurati dalle mense sociali. Giornate per lo più noiose “costruite” intorno a lunghe file, ad attese, alla fatica del comprendere le procedure burocratiche, a rimandi fatti di “torna la prossima settimana”. Giorno dopo giorno, nel proprio mondo intimo, le ansie, le preoccupazioni, i desideri e i bisogni inespressi devono abituarsi a fare i conti con la sensazione costante di perdere tempo prezioso: il tempo di una vita che non si riesce a vivere perché la natura assistenziale alla quale il rifugiato deve assoggettarsi, lo priva del controllo diretto dei propri spazi di vita, del proprio tempo, del proprio cibo.
In alto a sinistra, la custodia della carta di soggiorno; particolare della vetrina di un’agenzia interinale frequentata da Oliver. Tutte le foto di questo servizio sono di Alberto Giorgio Cassani
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A casa di Meho Un giovane macedone alla “conquista” del mondo www.trovacasa.ra.it
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Ho conosciuto Meho al Festival delle Culture, in giugno, durante un suo intervenuto in qualità di rappresentante dell’associazione di volontariato per l’immigrazione “Città Meticcia”, nel corso dell’incontro “Generazioni in movimento: le esperienze di Pillole d’identità, Rete TogethER, Crossing TV e Juvenilia a confronto”, al quale sono intervenuti anche Sun Wen Long di Associna e Azeb Lucà Trombetta di Crossing Tv. Il suo volto allegro e il suo modo di fare carico di quella forza che solo la mente incontaminata di un giovane possiedono mi hanno fatto capire che avrei dovuto assolutamente intervistarlo. Meho Sulemanski, nato nel novembre del 1989 a Rostuse, Macedonia, si trasferisce a Ravenna con la madre ed i suoi tre fratelli nell’estate del 2004 per ricongiungersi con il padre che, partito dalla Macedonia nel 2001, regolarizza la sua condizione di soggiorno a Ravenna e di lavoratore straniero con la sanatoria del 2003. Meho appartiene alla cosiddetta “seconda generazione” (quando si parla di seconda generazione d’immigrazione si fa riferimento ai figli di immigrati nati in Italia, oppure arrivati nel Paese in tenera età o in fase adolescenziale); la sua esperienza personale di migrazione gli ha comportato, infatti, il distacco dal suo paese d’origine e l’interruzione di un precedente percorso scolastico quando era già un adolescente. La terminologia attinente alle 2g (seconde generazioni) è stata anche arricchita nel tempo dal concetto di “metissage”, una sorta di ibridazione culturale che si realizza attraverso i processi di incontro tra le differenti culture, che portano il giovane immigrato a ricercare una propria identità all’interno della società che li ospita, per stabilire un approccio con gli abitanti autoctoni della città. Giunto a Ravenna il 17 settembre 2004, il giorno dopo Meho frequenta già il primo anno del Liceo Linguistico e la sera partecipa ad un corso d’italiano per studenti stranieri. Per quanto riguarda l’inserimento nel nuovo contesto scolastico, Meho ha dovuto confrontarsi con due diverse strumentalità linguistiche: la lingua italiana del contesto concreto, indispensabile per comunicare nella vita quotidiana (lingua del comunicare); la lingua italiana specifica, necessaria per comprendere ed esprimere concetti e sviluppare l’apprendimento delle diverse discipline (lingua dello studio). La competenza linguistica è, in effetti, il “requisito minimo” per rendere possibile l’integrazione dello studente straniero, in quanto permette sia le relazioni paritarie fra compagni che le relazioni di autorevolezza fra insegnante e studente. Facendosi beffa di qualsiasi indagine di tipo sociologico, Meho è riuscito, in circa due anni dal suo arrivo in Italia, ad acquisire un’ottima padronanza della competenza linguistica e a superare il suo ciclo di studi nei tempi dovuti. La sua mente fervida e curiosa, la sua prorompente vitalità giovanile, sostenuta sempre da modi educati, è riuscita a coinvolgere positivamente anche i professori del suo corso di studi che hanno saputo trovare tutti quei supporti didattici indispensabili per rendere l’inserimento scolastico di Meho meno periglioso in confronto a quello dei suoi coetanei italiani. Dai racconti di questo ragazzo che, al momento, oltre ad essere iscritto al primo anno di Scienze internazionali e diplomatiche, frequenta anche il servizio civile come volontario al centro emigrati, si ha la netta percezione che il fatto di aver vissuto l’esperienza della migrazione, le difficoltà connesse alla comprensione linguistica, l’essersi dovuto inserire in un nuovo contesto sociale e culturale – con stili di vita spesso dissimili da quelli del proprio nucleo familiare –
non siano stati elementi che abbiano ostacolato o rallentato il suo processo di crescita intellettuale. Da alcuni mesi la famiglia Sulemanski si è trasferita in uno spazioso appartamento di una bella casa costruita probabilmente intorno agli anni ’50-’60, ubicata subito all’inizio di via Tommaso Gulli, ed in questi giorni Meho si gusta la libertà di avere tutto lo spazio domestico per sé, dal momento che i suoi familiari sono in Macedonia a trascorrere le vacanze. Attraverso una scala esterna, che parte da un cortile che si trova nel retro della casa, si giunge ad un luminoso ballatoio dal quale si accede direttamente ad una sala spaziosa e luminosa; da qui, un corto corridoio accompagna sia alla zona del tinello e cucina che alla zona letto, in cui, oltre alla camera dei genitori e a due bagni, c’è la camera dei ragazzi. Nella camera di Meho e dei suoi fratelli spicca “il fatidico” letto a castello; non posso fare a meno di guardarlo con un pizzico d’invidia e di nostalgia: da piccola, quando andavo a trovare alcune mie amiche che avevano la fortuna di averlo nella loro stanzetta, rimanevo sempre affascinata da questo pratico elemento d’arredo per famiglie numerose, ed immaginavo i fantastici arrembaggi notturni che si potevano improvvisare tra fratelli. Mi guardo attorno: computer accesi, chitarre appoggiate sul muro, libri dell’università, sacchetti sul ballatoio pieni di lattine di bibite, sono le spie accese di un mondo di fermento, in movimento, in “costruzione”. Ravenna, Rostusa e il macedone di Meho Sulemanski [estratto da «Città Meticcia», ottobre 2009, periodico di comunicazione interculturale dell’omonima Associazione di Volontariato per l’immigrazione di Ravenna] È finita l’estate. Per molte persone questo vuol dire tornare alla vita di sempre: il lavoro, la scuola e tutti gli altri impegni quotidiani. Per molti immigrati, significa anche lasciare i propri paesi d’origine dopo averci trascorso le vacanze. Come si dice, “home sweet home”, però in questo caso solo per
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un breve periodo, prima di ritornare nella vita da “stranieri” nei paesi ricchi d’Europa e a lavorare, spesso lavori duri, senza nemmeno essere rispettati per questo. Ecco perché, per un immigrato, trascorrere il breve periodo di vacanza “a casa propria” è una cosa di grande importanza. Si sfrutta ogni occasione per farlo, soprattutto se la “casa” è relativamente vicina, come è il caso per noi macedoni [...] Questi giovani italo-macedoni sono quelli che, a differenza dei loro genitori, ancora abbastanza legati alle proprie origini, vivono davvero queste vacanze come qualcosa di passeggero, prima di tornare là dove veramente stanno costruendo la loro vita, e dove vogliono continuare a vivere e a lavorare. Dico a differenza dei loro genitori, perché questi ultimi hanno sempre in serbo l’alternativa del ritorno a casa, magari dopo aver lavorato faticosamente fuori.
La Democrazia Federale di Jugoslavia (in ambito locale denominata Druga Jugoslavija, ovvero Seconda Jugoslavia) nasce nel pieno della Seconda guerra mondiale; nel 1943, il Consiglio antifascista di liberazione popolare proclama l’associazione di sei repubbliche: Slovenia, Croazia, Serbia (con le sue regioni autonome della Vojvodina e del Kosovo), Montenegro, Bosnia-Erzegovina e Macedonia. La Costituzione entra in vigore nel 1946 ed il nome dello Stato viene modificato in Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia. Josip Broz, detto Tito, capo dei partigiani, dopo aver condotto la guerra di liberazione dall’occupazione nazista, nazionalizza vari settori dell’economia e del terziario ed avvia una riforma agraria. Grazie alla sua autorità, che lo porta ad avere anche la leadership dei paesi non allineati all’orientamento filo-sovietico, riesce anche nell’intento di creare un’identità nazionale “ideologica”. Nel 1980, anno della morte di Tito, il processo di unità non è però consolidato: il progetto di autogestione fallisce e riappaiono le differenze socio-economiche tra le regioni che portano ad accentuare le spinte separatiste, facendo sì che il potere delle istituzioni federali si vada affievolendo. All’inizio del 1992, con la proclamazione unilaterale dell’indipendenza di Slovenia e Croazia, ha inizio la guerra civile che terminerà
solo nel 1994. Nel 1995, a Dayton, in Ohio, viene raggiunto l’accordo di pace, ma nel 1996 compare l’Uck, esercito albanese per la liberazione del Kosovo ed ha inizio una guerra civile anche in questa regione; scatta immediatamente l’offensiva dei serbi che verranno attaccati dalla Nato nel 1999. Nello stesso anno, nella base Nato di Kumanovo in Macedonia, viene firmato l’accordo che prevede il ritiro dei militari serbi dal Kosovo. La Macedonia ha ottenuto l’indipendenza nel 1991 ed è quindi uno degli stati creatisi dopo la dissoluzione della ex-Jugoslavia; ha un territorio in gran parte montuoso, con la valle del fiume Vardar che divide le catene più importanti del paese. La terra da cui Alessandro Magno mosse alla conquista del mondo antico nel IV secolo a.C. ed in cui si diffuse l’evangelizzazione portata dai discepoli di San Metodio, è stata anche provincia dell’impero bizantino, bulgaro, serbo e ottomano. Passaggi culturali che spiegano l’eccellenza di alcune produzioni architettoniche, che se pur hanno dovuto sempre fare i conti con la povertà dei mezzi, hanno saputo realizzare monasteri e chiese utilizzando con singolare maestria ed eleganza pietra contornata e laterizi; anche i cicli di affreschi dell’XI e XII secolo della cattedrale di Sveta Sofija e di Sveti Climent a Ohrid e di Sveti Pantelejmon nel villaggio di Nerezi, oltre ad avere una sorprendente libertà narrativa, colpiscono per l’attenzione ai risvolti psicologici e ai dettagli del racconto.
Alcuni scorci della casa del macedone Meho Sulemanski (classe 1989), in via Tommaso Gulli. Nelle pagine precedenti la camera-studio; qui sopra la cucina e il ballatoio sul cortile Le foto sono di Alberto Giorgio Cassani
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A casa di Timo
Imprenditoria
d’Oriente
Tre simboli del Bangladesh: lo shari, il panjabi e la racchetta da badminton. A destra, la sala da pranzo; nella pagina seguente, particolare della credenza. Le foto degli interni sono di Alberto Giorgio Cassani
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Hossain Borat, soprannominato “Timo”, è laureato in Economia ed è nato a Dhaka, capitale del Bangladesh; ha quattro fratelli e tre sorelle, il padre è stato medico e ha lavorato anche nel settore delle assicurazioni, la madre, oltre ad avere cresciuto otto figli, rappresenta per tutti i componenti della famiglia una figura di riferimento molto importante. Il doppio impiego in settori lavorativi così distanti tra loro è una caratteristica che ho riscontrato nei racconti di persone di diversi paesi, è un interessante fenomeno sociale da approfondire perché comincia a riguardarci da vi-
corsi di formazione professionali e universitari in Italia. Nel 2009, attraverso un’agenzia interinale italiana che richiedeva personale specializzato nel settore infermieristico, di cui l’Italia risulterebbe essere completamente sprovvista, appoggiandosi ad un’agenzia del Bangladesh, Timo riesce a far concludere un contratto che vedrà l’inserimento, negli ospedali italiani, di cento infermieri del suo paese natale. Dhaka ha tredici milioni di abitanti, un quarto circa della popolazione dell’Italia; ogni mattina, mi spiega Timo, seicentomila persone povere si avviano
cino: è infatti in via di espansione anche nel territorio europeo. Nel 1989, all’età di vent’anni, Timo lascia la sua città con un gruppo di amici e, attraversando Russia, Bulgaria e Jugoslavia, giunge a Roma dove si accorge che l’aspettativa di trovare facilmente un lavoro in Italia non è poi così semplice da realizzare; si trasferisce a Milano, poi a Vicenza; nel frattempo si specializza nel settore edile e ottiene anche la licenza per lavorare nel settore commerciale. Trasferitosi infine a Ravenna, Timo lavora attualmente come mediatore culturale a livello internazionale ed è anche responsabile dell’inserimento di studenti del suo paese all’interno di
per le strade di tutto il paese a chiedere l’elemosina. Fino a qualche anno fa, questo stato era infatti tra i più poveri al mondo; ultimamente si segnala una lenta ripresa e una lenta espansione di alcune branche dell’economia, come ad esempio il settore operativo dell’informatica, l’ingegneristica, soprattutto nel campo dei cantieri navali, e il settore tessile di cui il paese detiene il terzo posto della produzione mondiale. Timo è presidente dell’Associazione Onlus SUNRISE, con sede presso la Casa delle Culture di Ravenna, un’associazione multiculturale che promuove la solidarietà, la pace, l’integrazione sociale e culturale, il volontariato,
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l’assistenza e la promozione sportiva. L’associazione avvierà quest’anno un corso di badminton, sport in forte espansione e inserito, tra l’altro, dal 1992, fra le gare olimpiche; per il prossimo anno è previsto anche l’avvio di un corso di cricket. Con Timo, oltre a parlare della miseria di cui soffre ancora una buona parte della popolazione, affrontiamo anche il problema dello sfruttamento minorile: per meglio farmi comprendere questa realtà inaccettabile, mi spiega che la situazione non è molto dissimile da quella dell’Italia fino alla Seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra, periodo in cui, anche nel nostro paese, i ragazzini lavoravano (pensiamo al lavoro nelle risaie), a causa dell’inadeguatezza del reddito della famiglia a far fronte ai bisogni primari. Il riconoscimento “dell’infanzia” in Bangladesh è comunque, per ora, ancora lento e graduale, ma, grazie anche a importanti campagne sociali che ne promuovono i diritti, si sta cercando di smantellare anche in questo paese il lavoro clandestino dei minori e di alzare il tasso di alfabetizzazione. Al momento, però, anche se è possibile boicottare le grandi industrie, obbligandole a non assumere bambini se vogliono esportare i loro prodotti, con le piccole imprese il controllo risulta ancora difficile. Un altro dato preoccupante di questo paese è la percentuale altissima di morti collegate alla contaminazione da arsenico delle acque. A tal proposito, l’articolo Arsenic exposure from drinking water, and all-cause and chronic-disease mortalities in Bangladesh, HEALS: a prospective cohort study, pubblicato nel giugno scorso dalla versione on-line della rivista internazionale di medicina «The Lancet», ha aperto uno scenario inquietante definendo la situazione attuale come «il più grande avvelenamento di massa nella storia di una popolazione». Paradossalmente, questa situazione gravissima è anche il risultato dello sforzo del governo e delle agenzie per il sostegno allo sviluppo a partire dagli anni ’70. Nel tentativo di ridurre le malattie collegate all’acqua non potabile, come colera e dissenteria, si sono infatti costruiti almeno dieci milioni di pozzi. Questi, se hanno ridotto la capacità di azione dei microbi che provocano patologie anche mortali, hanno però consentito la concentrazione nell’acqua dell’arsenico, un materiale metallico che si trova in natura nel sottosuolo del paese. Un rimedio sarà costruire pozzi più profondi, almeno oltre i dieci metri nel sottosuolo, una pratica avviata negli anni recenti ma di cui finora beneficiano, secondo gli esperti della Columbia University, soltanto centomila persone. Durante la visita alla casa di Timo, un appartamento spazioso e luminoso di un condominio moderno adiacente ai Giardini pubblici, conosco la sua giovane moglie che per l’occasione ha indossato un magnifico abito tradizionale dai colori accesi. Farhana resta dapprima rispettosamente e silenziosamente in disparte, poi, dopo che i nostri sguardi s’incontrano ripetutamente, comunicando il linguaggio muto dell’intesa, che, appunto tacitamente, da secoli noi donne ci tramandiamo, pian piano si avvicina; io le sorrido, e dopo averle rivolto alcune domande, Farhana corre a prendere dalla sua camera l’album di fotografie del suo matrimonio e, orgogliosa, me lo porge. È un magnifico dono poter sfogliare e osservare in silenzio gli scatti che riprendono un evento della sua vita così “intimo”, e che ora, mi accorgo, lei è così felice di condividere con me. Le foto ritraggono una bellissima donna-bambina pudicamente seduta ed avvolta da uno shari dai colori unici ed indescrivibili delle sete indiane. Timo e Farhana hanno una bimba di sette anni; il suo nome è Nafisa, che significa “Donna di Valore”. La zona dell’odierno Bangladesh era conosciuta anticamente con il nome
di Bengala, una terra in cui la popolazione buddista e quella induista si sono contese per secoli il predominio e il controllo territoriale, e in cui, sotto la dinastia imperiale moghul, l’arte e la letteratura fiorirono e il commercio aumentò considerevolmente aprendosi anche al traffico marittimo mondiale. Verso il XV secolo giunsero i primi commercianti europei e la Compagnia inglese delle Indie Orientali cominciò a tassare le province della regione impostando, di fatto, un meccanismo di egemonia coloniale a caratterizzazione prettamente economico-finanziaria. Nella prima metà del XX secolo, il Congresso Nazionale Indiano, supportato da altre organizzazioni politiche, avvia una lotta per l’indipendenza a livello nazionale, fino a che, nel 1947, l’India ottiene l’indipendenza dalla Gran Bretagna. È in quest’occasione che il Bengala Unito viene diviso: la parte occidentale diventa uno stato dell’India, e la parte orientale si unisce al Pakistan, malgrado le due “regioni” fossero separate da 1600 chilometri attraverso l’India. Negli anni successivi, discriminazioni linguistiche, politiche ed economiche conducono ad agitazioni popolari contro il Pakistan Occidentale e inizia così una sanguinosa guerra che vede, tra l’altro, l’uccisione sommaria di numerosi studenti del campus della Dhaka University. A seguito di questi violenti disordini l’India interviene contro il Pakistan in quella che si ricorda come la terza guerra indopakistana che porta, nel 1971, all’indipendenza ed alla costituzione dello Stato del Bangladesh. Nel 1991, le prime elezioni democratiche avviano una fase di democratizzazione che è tuttora in bilico tra autoritarismo militare e la concessione di maggiori libertà. Dalla metà degli anni ’90, l’emergenza climatica, le carestie e le inondazioni provocano ingenti
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danni economici e strutturali all’interno del paese generando scontenti e scontri sociali, spesso sfociati nel banditismo rurale e nella criminalità urbana. Ed è proprio in questi anni che Muhammad Yunus fonda la Grameen Bank, una banca rurale (“grameen” in bengalese significa contadino) che concede prestiti e supporto organizzativo ai più poveri, altrimenti esclusi dal sistema di credito tradizionale. Fino ad oggi la banca ha concesso prestiti a più di due milioni di persone, il novantaquattro per cento delle quali donne, ha inoltre 1.048 filiali ed è presente in 35.000 villaggi e in diverse città nel mondo. La particolarità della banca non è solo quella di prestare denaro ai poveri ma anche di essere di proprietà di questi ultimi, che nel tempo ne sono diventati azionisti. I clienti di Grameen riescono via via ad avviare attività redditizie (come la vendita di focacce, la fabbricazione di sgabelli di bambù, la coltivazione del riso) che consentono loro di sfuggire sia alla miseria che agli usurai. Molto di più di quanto possano fare i clienti “normali” delle banche tradizionali, i clienti della Grameen rimborsano puntualmente i prestiti ricevuti; secondo Yunus questo è dovuto a un motivo molto semplice: «I più poveri dei poveri lavorano dodici ore al giorno e per guadagnarsi da mangiare devono vendere i loro prodotti. Non c’è ragione perché non ci rimborsino, soprattutto se vogliono avere un altro prestito che consenta loro di resistere un giorno di più. È la miglior garanzia che possiate mai avere: la loro vita!». Raccontare il Bangladesh, parlare della sua capitale Dhaka ci induce inevitabilmente ad accennare al palazzo del Parlamento progettato dal grande architetto Louis I. Kahn; ci sono voluti ventitre anni per realizzare quest’imponente complesso, proprio come per il Taj Mahal. Realizzato completamente a mano da operai che si arrampicavano portando i sacchi di cemento in testa, è ora il luogo più bello del Bangladesh e rappresenta l’Istituzione stessa della democrazia.
Il palazzo del Parlamento del Bangladesh a Dhaka, progettato dall’architetto Louis I. Kahn.
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A casa di Alina
«À la lisière des bois» (Ai margini del bosco) Artur Rimbaud, Les illuminations www.trovacasa.ra.it
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di Marina Mannucci
La Moldova è un paese di cui, oltre a ricordare la sua collocazione geografica all’oriente dell’Europa, ben poco si conosce. Confina a ovest con la Romania e la restante parte con l’Ucraina; la sua superficie è di circa 40.000 kmq (circa un decimo del territorio italiano) ed è situata tra due fiumi: il Nistro e il Prut. Nel primo secolo d.C. il territorio allora chiamato Dacia fu trasformato dall’imperatore Traiano in provincia romana; nella Colonna traiana, eretta a Roma, si trovano incise le gesta della guerra che hanno poi portato alla romanizzazione del po-
stato ricco di pianure e colline è resa esplicita dal suo stesso nome, molis-dava, morbida-città.
polo della Dacia, che prende appunto il nome di popolo romeno. Nei secoli successivi, il territorio romeno viene scisso in tre nuovi stati: la Romania, la Moldova e la Transilvania. La Moldova è occupata successivamente per lungo tempo dai turchi e, durante la seconda guerra mondiale, dai russi che la rinominano Moldavia. Nel 1988, con la Perestrojka, la Moldova torna ad essere uno stato autonomo e nel 1991 dichiara la propria indipendenza. La conformazione del territorio fisico di questo
periodo di circa otto anni con la famiglia del fratello di suo padre che abita in una casa vicino ad una foresta. Se ognuno di noi porta con sé un paesaggio della memoria idilliaco, nei ricordi di Alina sono molto presenti le immagini dei luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza, spazi agresti popolati da piante e da animali che scorazzano nell’aia, di boschi e foreste il cui profilo degli alberi lungo la strada attraversa le pianure di notte.
Alina Patrasco, originaria della Moldova, trascorre i suoi primi nove anni di vita con i suoi genitori, al numero 24 di una strada di Telenesti; 24 è anche il numero del giorno della sua nascita ed è il numero d’iscrizione sul registro scolastico. Dopo questo primo periodo, sua madre si trasferisce in Italia alla ricerca di una sistemazione lavorativa ed Alina trascorre un
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Iartà-ma Mamà «Iartà-mà Mamà Cà Ti-am spus cuvinte moarte Iartà-mà mamà Cà din umbrà te-am privit departe Cà somnul nu ti-e linistit Iartà-mà mamà Pentru tut ce am gresit Nu plinge mamà Cà soarta ne-a fàcut sà nu fim alàturi si dorul-l càutàm in deserturi Cà viata ne-a faclit a suferi Sà speràm cà depàrtàrile noastre odatà se vor alipi» Alina Patrasco
Perdonami madre «Perdonami madre se ho pronunciato parole morte Perdonami madre se nell’ombra ti ho guardata lontana se il tuo sogno non è silenzioso perdonami madre per tutto quello che ho sbagliato non piangere madre se il destino ci ha costrette a non essere vicine la nostra mancanza l’abbiamo cercata nei deserti e se la vita ci ha costrette a soffrire speriamo che in futuro le nostre distanze si ricongiungano»
Un racconto che riporta ad un’atmosfera pastorale e agli scenari “vagamente surreali” della poesia bucolica, in cui si respira un senso di quiete profonda, di intima comunione con la natura e di edenica serenità. Sono anni in cui Alina deve però fare i conti anche con la lontananza delle persone a lei più care: il padre lavora lontano e riesce a vederlo ogni tanto, mentre la mamma è in Italia. Se il pianto e la nostalgia le tengono compagnia per alcuni mesi, gli impegni scolastici e quel senso di abitudine alla sopportazione in previsione di un futuro migliore che forgia il carattere delle donne dell’est, la aiutano ad “andare oltre” ad “affrontare” un’inevitabile realtà. Nel 2009, all’età di diciassette anni, Alina, emozionata, parte
dall’aeroporto di Chisinau, capitale della Moldova, e si ricongiunge con la madre e con la zia. Giunta a Ravenna, città in cui la madre abita e lavora, inizia subito a frequentare, con ottimi risultati, la mattina, il Corso per Operatore Amministrativo segretariale presso il Centro di Formazione Professionale Engim, e, il pomeriggio, la scuola Media Statale Ricci Muratori. Trascorsi pochi mesi dal suo arrivo a Ravenna, vince il 1° Premio del Concorso “Scegliere. In una società complessa”, promosso dal Punto di incontro “Ai Cappuccini” di Ravenna e sostenuto dall’Assessorato alle Politiche Giovanili del Comune di Ravenna. Dopo aver conseguito la licenza della terza media anche in Italia, attualmente è iscritta sia al secondo anno del Corso per Operatore Amministrativo segretariale che al Corso serale di Ragioneria. Alina, sua mamma e sua zia abitano in via Alfredo Badiali ed alloggiano in una casa a schiera di una signora, la cui cura è affidata da alcuni anni alla zia di Alina. I racconti di questa ragazza moldava, le sue riflessioni sull’affetto profondo che prova sia nei confronti del padre che della madre, figure che, pur nella forzata distanza, hanno modellato il suo percorso di crescita, inducono a riflettere intorno ai modelli socio-culturali dei paesi dell’est che a volte fatichiamo a condividere. Nello specifico, mi riferisco a come in occidente percepiamo il modello femminile delle donne ed il modello maschile degli uomini dell’est. Gli stereotipi tendono a racchiudere entrambi in ambiti di giudizio spesso negativi, in cui l’uomo risulta essere tendenzialmente un debole, con poca voglia di lavorare, spesso dedito al vizio del bere, mentre alla donna, costretta a farsi carico della conduzione materiale della famiglia, vengono attribuiti tratti di durezza, alterandone gli aspetti femminili, e mostrandola solo interessata ad una mera sistemazione economica. Ed è per questo, per non rimanere vittime di giudizi legati all’ignoranza, che credo sia importante sfogliare alcune pagine della storia. Mi riferisco, ad esempio, al piano di emancipazione della donna e della famiglia realizzato dallo stato sovietico subito dopo la rivoluzione d’Ottobre, che, tenendo conto del contesto e del tempo in cui fu scritto, costituisce ancora oggi una punta avanzata della legislazione sulla donna e sulla famiglia e la cui influenza ha interessato anche tutte le “allora” repubbliche socialiste. L’attuazione del piano di emancipazione della donna e di so-
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stituzione della forma di famiglia patriarcale-feudale con una struttura familiare che non fosse in contraddizione con la più ampia rivoluzione in atto nei rapporti economici e sociali è stato sicuramente uno dei compiti più difficili e ambiziosi del governo rivoluzionario bolscevico. Nei primi anni di governo sovietico, fu avviato il “Soviet-style affirmative-actions program”, ed alcune leggi abolirono formalmente la discriminazione sessuale sul posto di lavoro e in famiglia; maggiori opportunità professionali e d’istruzione aprirono alle donne spazi e carriere nuove riservate, prima, solo al sesso “forte”; agevolazioni permisero loro di conciliare meglio l’attività lavorativa con quella domestica e familiare. Furono concessi congedi di maternità e istituite precise norme sui luoghi di lavoro a protezione delle donne in stato di gravidanza; nella vita politica e lavorativa molti furono i reclutamenti al femminile in posizioni dirigenziali. Negli anni Venti, le donne potevano già contare su questi diritti e su una rete di consultori pubblici. Dopo aver conquistato l’istituto del divorzio con il codice del matrimonio e la famiglia del 1918, le donne poterono infine godere, nel 1926, di una legge che autorizzava l’aborto. Nel contempo, la dirigenza sovietica non ha saputo, però, avviare un reale confronto sociale sul ruolo dell’uomo e della donna all’interno di una società i cui cambiamenti economici e sociali erano in veloce evoluzione, lasciando così irrisolte importanti problematiche. Nodi tematici che segnano in ogni caso anche la vita e la cultura delle donne dei paesi occidentali, come ad esempio le contraddizioni tra emancipazione e ruolo coniugale familiare, spesso non risolte sul piano dell’organizzazione sociale. Per quanto riguarda il problema dell’alcolismo, se ne può trovare una spiegazione socio- psicologica, tenendo conto sia delle condizioni climatiche abbastanza rigide che di quelle economiche di estrema povertà e di carenza di servizi sociali. I piccoli centri abitati autonomi ed autosufficienti, costituiti per lo più da poche case, sono spesso provvisti di un unico negozio che è anche il punto d’incontro in cui ci si ritrova a bere vodka. L’abuso di questa bevanda nei paesi dell’est ha una lunga storia alle spalle ed i diversi governi che si sono succeduti, approfittando del monopolio sul commercio delle bevande alcoliche, ne hanno sempre tratto enormi profitti. Questa brevissima e non esaustiva disamina intorno a queste problematiche vuol quantomeno invitare a riflettere sulla necessità di conoscere ed essere informati sugli argomenti intorno ai quali si esprimono spesso giudizi superficiali, al fine di evitare di incorrere in pregiudizi che il più delle volte sono il risultato dell’ignoranza.
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Il rito della vita
Conversando con Mahomi www.trovacasa.ra.it
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di Marina Mannucci
Mahomi Kusutani nasce e cresce ad Osaka (grande collina), città situata nella regione del Kansai, nell’isola di Honshu, alla foce del fiume Yodo. Storica capitale commerciale, Osaka ancora oggi è uno dei maggiori distretti industriali e portuali del Giappone. Mahomi è cresciuta in un quartiere tranquillo della sua città e con entusiasmo mi racconta di alcuni momenti di vita serena trascorsi circondata dall’affetto dei suoi cari ed anche dei vicini. I genitori ed i nonni materni gestivano un negozio di abbigliamento con adiacente, e comunicante, l’appartamento di residenza di tutta la famiglia. Superata la porta di casa scorrevole che separa l’esterno dall’interno, la “casa giapponese” si affaccia su un ingresso in cui solitamente c’è un piccolo gradino che indica il punto in cui si devono lasciare le scarpe. Gli ambienti che si susseguono sono due camere da bagno, una con lavandino, bidet e water ed un’altra adibita all’ofuru, il rito del bagno, una tradizione importata dalla Cina insieme al Buddhismo. Dopo essere entrati nella stanza da bagno, i giapponesi si siedono su uno sgabbellino, si insaponano, si risciacquano con l’acqua di un catino, ed entrano poi nella vasca da bagno, dove non usano mai il sapone; immergersi nell’acqua calda e pulita è un modo per rilassarsi, distendersi e scaricare lo stress accumulato durante il giorno. Una volta usciti dalla vasca, non la si svuota, perché la stessa acqua sarà utilizzata dagli altri componenti della famiglia per fare il bagno; ed è per questo che ci si deve lavare molto accuratamente prima di entrarvi. Le camere, a parte la cucina, sono pavimentate con tatami, pannelli rettangolari fatti con paglia di riso intrecciata e pressata. Il tatami è utilizzato come unità di misura degli ambienti; così, se si dice che una stanza è di dieci tatami, o di quattro, l’interlocutore ne ha ben chiara la dimensione. I margini sono squadrati e i due lati più lunghi sono orlati con una fettuccia larga di lino nero o cotone; quelli delle case nobiliari hanno, intessuti nella fettuccia, dei motivi ornamentali in bianco e nero. In Giappone il tatami accompagna tutta la vita familiare; anche la tradizionale cerimonia del tè si svolge sui tatami – o con un braciere appoggiato o con una modifica di uno dei tatami –, ricavando, in un angolo, una buca quadrata (ro) con cornice laccata detta robuchi. Le camere da letto hanno armadi a muro che contengono i futon, tipici materassi giapponesi confezionati secondo antiche tecniche orientali utilizzando materiali naturali come ad esempio strati di fibre di cotone grezzo racchiusi con fodere di tessuto. Nella casa tradizionale giapponese si avverte uno stretto rapporto tra abitazione e natura, un’atmosfera intima e raccolta tra materiali naturali come il legno, il bambù, le porte shoji (i pannelli mobili che formano le pareti interne) e i giardini zen di natura contemplativa. Ed è anche per questo che il Giappone ha da sempre influenzato le idee di numerosi architetti, a partire dagli esponenti del Movimento Moderno e del-
Uno scorcio del soggiorno della casa di Mahomi a Ravenna; a sinistra, origami.
«Immaginiamo l’architettura come una sorta di parco; perché nei parchi si trovano persone di tutte le età. In questo spazio alcuni vengono soli, altri in gruppi più numerosi per ballare e i bambini per giocare. È un tipo di spazio in cui ognuno può godere della compagnia degli altri o anche starsene da solo continuando a sentirsi parte della società» Kazuyo Sejima, Direttore della 12a Biennale di Architettura di Venezia
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I nomi dei due figli di Mahomi in caratteri giapponesi: Isamu (Samurai) e Akimi (Raggio di sole)
l’Architettura Organica fino a molti architetti contemporanei. dianamente offerte di riso, sakè, pesce frutta e verdura. «Quando Primo fra tutti Frank Lloyd Wright che così descrive il suo in- torno a casa – mi racconta – la prima cosa che faccio è andare alla contro con la cultura nipponica: «L’arte e l’architettura giap- credenza-altare e salutare i miei nonni morti». Sono circa cento ponesi hanno un carattere organico. L’arte dei giapponesi è milioni i giapponesi che praticano una combinazione di Shintoivicina alla terra, è un prodotto autonomo generato dalle più au- smo e Buddhismo. Lo Shintoismo (da shinto, “via degli dei”) è la toctone condizioni di vita e di lavoro, quindi a mio avviso si ac- religione autoctona del Giappone e nasce come pratica di crecosta al moderno assai più che non l’arte di qualsiasi altra denze frutto della mescolanza di riti, miti, e tecniche divinatorie profondamente radicate nella vita quotidiana del popolo giappociviltà europea o tramontata». Oltre la facciata altamente tecnologizzata delle grandi metro- nese. La filosofia di vita shintoista ruota intorno all’idea che vi sia poli giapponesi, dove più evidente appare il fenomeno dell’ur- un’armonia profonda tra gli esseri umani, la natura e le numerose banizzazione contemporanea, emerge in mille modi l’anima divinità che popolano l’universo. Gli esseri divini si chiamano tradizionalista del Giappone che, nonostante le infinite solleci- kami, sono generalmente benigni e proteggono coloro che si ritazioni alla globalizzazione, mantiene solidi gran parte dei va- volgono a essi. I kami si identificano con numerosi oggetti natulori originali, non rinunciando ai riti millenari del passato, in rali (montagne, ruscelli, animali, alberi, ecc.), con alcuni totale antitesi con le più avanzate e futuristiche tecnologie. personaggi mitici o storici e con gli antenati. Tutto il moderno sistema economico e sociale si basa sul la- Mahomi mi parla anche dell’importanza del giardino che nella voro di ogni singolo individuo in totale e piena dipendenza dal tradizione Zen è inteso come luogo che si trasforma seguendo gruppo o “famiglia” a cui appartiene; un lavoro incessante e il costante mutamento dell’universo, creando uno spazio di comunitario che pone la collettività al di sopra di ogni altro in- pace tranquilla e di grande armonia. Il giardino Zen in stile kateresse. Ogni azione, in Giappone, deve tener conto dell’altro: resansui è composto di due elementi: grani di sabbia bianca si usa la mascherina, quando si è raffreddati, per non propa- rastrellata che rappresentano l’oceano, pietre e rocce per deligare la propria virulenza ai vicini e si usano i guanti alla guida neare le montagne e gli animali marini sacri. Dopo aver posidi un’auto che potrà essere utilizzata da zionato le rocce secondo la propria altri. L’inchino è un dovere, sentito e prosensibilità, occorre rastrellare la graniglia «Né un fiore, né un’ombra fondo, è un segno della tradizione e di di sabbia in modo continuo senza mai ferDov’è l’uomo? grande rispetto con cui si sottolinea la mare il “rastrello“. A differenza del giarNel trasporto di rocce, scala gerarchica. dino occidentale, che è concepito come nella traccia del rastrello, Mahomi mi parla dell’importanza riservata spazio aperto e fruibile per trascorrere monel lavoro della scrittura» all’interno delle case ad un luogo-altare dementi di relax, il karesansui è concepito Poesia Zen dicato al culto ed in cui si depongono quoticome giardino di meditazione. Lo si os-
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«Quando si preparano le foglie di tè, sono necessarie un’affinità particolare con l’acqua e il calore, una tradizione di ricordi da evocare, un modo tutto personale di offrire una storia»
serva e contempla da un unico lato esterno al suo perimetro, svuotando la mente per meglio percepire le sensazioni che comunica attraverso la sistemazione di pochi elementi dai significati simbolici. Attraverso i Kakuzo Okakura racconti di Mahomi, accompagnati da una sua personale aura di tranquillità, traspare ancora una volta l’atavica caratteristica dei giapponesi “di non litigare mai” che, d’altra parte, presuppone un sistema molto rigido di autocontrollo e di adesione al dovere. Inevitabilmente ci soffermiamo a confrontarci sul grave fenomeno sociale che pone il Giappone al primo posto per numero di suicidi, un problema che gli ultimi governi hanno cercato di combattere con leggi che però si sono rivelate inefficaci. Le motivazioni che spingono a questo gesto estremo hanno radici storiche nel seppuki, il suicidio rituale con il quale gli eroi sconfitti, i samurai, si uccidevano piantandosi una corta spada, tantoo, nello stomaco. All’interno delle moderne megalopoli giapponesi, in cui si mescolano armoniosamente grattacieli dalle vertiginose altezze e quartieri le cui strade sono bordate da botteghe e ristorantini, si percepisce quanto profonda e viscerale sia la combinazione tra antiche tradizioni e modernità. Uno stile di vita che, malgrado i maxischermi pubblicitari pulsanti di pixel, trasuda ancora del codice d’onore del samurai: un senso di obbligo, il bushido (via del guerriero) che accompagna i giapponesi per tutta la loro esistenza, fino alla morte; un senso di autodisciplina e del dovere che se non viene mantenuto può appunto portare al suicidio. Mahomi ed io non potevamo concludere la nostra lunga ed amichevole chiacchierata se non parlando della cerimonia del tè (cha no yu) che per i giapponesi non è un passatempo per sorseggiare in compagnia una bevanda conversando, e nemmeno un modo raffinato di dissetarsi, ma un rito dal profondo significato filosofico, estetico ed anche artistico. Gli ospiti che partecipano a questa “cerimonia” sono consapevoli di soddisfare un antico ed umano bisogno di serenità, che permetterà loro di meditare e riflettere sulle umane vicende. Alla base della filosofia della cerimonia del tè vi è l’armonia con la natura; utensili e tazze utilizzati sono in materiale naturale e variano durante i diversi mesi dell’anno per essere sempre in accordo con la stagione. L’ambiente in cui si svolge il rito è quasi spoglio di arredi; tutto è semplice ed il “maestro” che esegue la cerimonia nutre un assoluto distacco dai suoi gesti: la loro raffinatezza ed eleganza sono rappresentazioni della calma interiore raggiunta.
Le foto sono di Alberto Giorgio Cassani
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Il piacere della
“tertulia”
Il mondo di Margarita www.trovacasa.ra.it
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di Marina Mannucci
È in un freddo pomeriggio di gennaio che incontro Margarita Sanchez, avvocatessa specializzata in diritto civile e penale, nata in Colombia, a Cartagena, allegra città caraibica ricca di storia e, dopo aver affrontato qualche veloce preambolo su come organizzare l’intervista, mi sento immediatamente invadere da una marea di buonumore. Margarita, attraverso i suoi lineamenti femminili, la sua voce, il suo sguardo e le sue movenze, trasmette inconsapevolmente uno studio antropologico della Colombia, di popoli – indios, spagnoli e africani – che s’incontrano e che mescolano la loro storia e le loro vite; con un entusiasmo travolgente inizia la sua narrazione e lentamente scivolo all’interno dei suoi racconti, completamente assorbita da situazioni e luoghi che mi affascinano e che sento vicini. L’ascolto delle biografie delle persone, sorseggiando un caffè, un tè, una tisana o bevendo una birra, si trasforma spesso in un’opportunità per approfondire la conoscenza di se stessi, per scoprirsi e ri-scoprirsi, oltre ad essere un’occasione unica per meglio imparare a leggere la storia dei popoli e la geografia dei loro territori. Margarita mi racconta di aver conosciuto Gabriel García Márquez a Barranquilla, quando era ancora un giornalista poco conosciuto, durante la tertulia. In Colombia con il termine tertulia si indica una riunione, informale e periodica di persone interessate ad un tema o ad un ramo concreto dell’arte o della scienza, per discutere, informarsi o condividere idee ed opinioni. A Cartagena, tutti i venerdì pomeriggio, verso le sette di sera, le persone giunte alla fine della settimana lavorativa, s’incontrano e, su sedie di legno, intorno ad alcuni tavoli disposti all’aperto, all’ombra di un grande albero, intrecciano dei racconti, si scambiano opinioni su interessi culturali, parlano dei fermenti che animano la vita sociale, leggono alcune pagine di un libro che sono rimaste impresse e ne condividono il senso in un gruppo aperto, non precostituito. Al gruppo con cui Margarita s’intratteneva a parlare di libri e di cultura capitava si aggiungesse Gabriel García Márquez con alcuni suoi amici e mentre tutti fumavano (tantissimo) e bevevano birre (una dopo l’altra), man mano che la birra (a bassissimo contenuto alcolico) cominciava ad invadere pacatamente i corpi, gli improvvisati partecipanti del convivio di strada, inarrestabili, iniziavano a raccontare interessanti aneddoti e racconti impregnati di realismo magico. Una sorta di magia caleidoscopica trasuda del resto da tutti i romanzi di Gabriel García Márquez; i leggendari protagonisti delle sue opere vivono in luoghi fisici che si trasformano spesso in impalpabili ed affascinanti spazi mitologici dell’immaginazione, creati da
«Poeti e mendicanti, guerrieri e malandrini, tutte noi creature di quella realtà eccessiva abbiamo dovuto chiedere molto poco all’immaginazione, perché la sfida maggiore per noi è stata l’insufficienza delle risorse convenzionali per rendere credibile la nostra vita. È questo, amici, il nodo della nostra solitudine» Gabriel García Márquez
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un’inedita miscellanea di saggezza popolare e patrimonio onirico. Il tenzione i semi della vostra cultura e mi piace, ascolto, imparo, agrealismo magico della figura del colonnello Aureliano Buendia, nato giungo. “Guardare con gli occhi dell’anima”: quest’insegnamento, a Macondo, che dopo avere promosso trentadue insurrezioni fal- che noi colombiani riceviamo fin da piccoli, ci segue tutta la vita. Mio lendole tutte e i cui diciasette figli maschi vengono tutti uccisi, padre mi ripeteva spesso: “È molto importante stare bene con gli altri, sfugge a svariati attentati finendo i suoi giorni in una bottega a fab- ed allora bisogna stare attenti quando si parla, perché le cattiverie bricare pesciolini d’oro, si insinua così, senza trovare alcuna resi- sono molto veloci a dirsi: è importante crescere imparando a dire le stenza accanto a Margarita e a me, tra le tazze colme di liquido cose, magari anche più dure del mondo, ma senza ferire”». fumante che stiamo sorseggiando sempre più a nostro agio. «Se ad I detti popolari in Colombia svolgono un’importante funzione peun lettore straniero il modo di scrivere di Gabriel Garcia Marquez dagogica in quanto racchiudono il senso di esperienze comuni, elepuò sembrare complesso, non lo è per noi» – mi spiega Margarita – mentari ed inevitabili e cercano di svelarne, attraverso una visione «che conosciamo tutti i luoghi e le situazioni a cui lo scrittore fa ri- del mondo arcaica ed essenziale, i meccanismi che nei secoli si riferimento. Del romanzo L’amore ai tempi del colera, epopea di una petono nell’agire umano. Ed è interessante verificare come alcune passione narrata in modo fiabesco, con continue descrizioni di luo- di queste riflessioni siano più o meno simili in tutto il mondo: “las paghi caraibici e delle genti che li abitano, conosco tutti i riferimenti e redes tienen oidos”, insegnano i genitori ai figli in Colombia per rile situazioni». Il piccolo quartiere Manga di Cartagena citato nel libro cordare loro che è importante riflettere prima di parlare e che –mi spiega ancora Margarita – è per lei un luogo familiare perché vi comunque dire delle sciocchezze può essere pericoloso; situazione è nata sua zia. che si può aggravare e diventare drammatica in re«Yemayà la saggia, la Dopo quattordici anni di permanenza a Ragimi totalitari in cui il gusto di spiare è grande generosa, madre di tutto e venna, Margarita è orgogliosa di aver conser- di tutti, decise di dare delle quanto la paura di esprimere un’opinione, come vato e preservato nel suo modo d’essere la vene alla terra e creò i fiumi ci ricorda in un reportage del 1997 Joseph Roth, «struttura originaria di significati» che caratte- di acqua dolce e potabile, che scrive: «Anche i muri hanno orecchie. Prima di rizza la sua cultura, perché, mi dice, «la cultura perché Olofi potesse creare parlare, qui sparano». è l’arte del coltivare – noi in spagnolo diciamo gli esseri umani. Fu così che Mentre ascolto con attenzione Margarita e penso cultivo; la mia cultura è il risultato di ciò che ho nacque Ochun. Le due si che sono stata fortunata ad averla conosciuta, lei seminato e coltivato lungo l’arco della mia vita e unirono in un abbraccio di interrompe bruscamente i miei pensieri dicendomi che ora aspetta solo di essere raccolto, ed è per amicizia che diede al mondo allegramente: «Vedi, noi adesso stiamo facendo questo che, quando mi chiedono di dove sono, un’inestimabile ricchezza» tertulia, siamo sedute intorno ad un vecchio tavolo con orgoglio rispondo: colombiana di Cartadi legno, siamo rilassate e ci stiamo regalando dei gena». racconti»; appoggio la tazza e la guardo: è proprio Natalia Bolívar Aróstegui, Poi continua: «Ora sono qui è sto imparando a vero, stiamo facendo tertulia, peccato, penso, non Opolopo Owó: Los sistemas conoscere la cultura romagnola e osservo con atpoter godere anche del paesaggio caraibico. Ma, adivinatorios de la Regla de Ocha
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«Ci sentiamo in diritto di credere che non sia troppo tardi per iniziare a creare l’utopia contraria. Una nuova impetuosa utopia della vita»
per ora, accontentiamoci. Non ricordo come, ma, arrivate a questo punto dell’intervista, ci soffermiamo a parlare della distanza e della solitudine Gabriel García Márquez fisica e mentale che in qualche modo caratterizza il vivere contemporaneo, lontananze che a noi migranti da territori in cui ogni incontro è onorato da un abbraccio, riflettono a volte, improvvise, un senso di saudage, una dolce nostalgia di quel luogo e di quel tempo in cui attraverso l’abbraccio quotidiano si trapassano gli umani corpi e per pochi attimi si arriva all’essenziale; poi, naturalmente, la vita riprende, ma con un senso diverso di condivisione.
«Noi, costeños colombiani – mi dice Margarita – gente che vive sulla costa in una zona portuale, non siamo “incuriositi” dai diversi colori della pelle delle persone; la Colombia è l’essenza della multicultura, gli incroci sono la nostra normalità, non siamo un popolo di emigranti, o per lo meno non lo eravamo e, nel bene e nel male, abbiamo sempre accolto gli stranieri. Gli italiani, invece, hanno alle loro spalle un’importante storia vissuta da emigranti e, nel corso dei loro viaggi forzati, hanno sperimentato sulla loro pelle forme di razzismo nei loro confronti. Da alcuni anni l’Italia, a seguito anche della strategica posizione geografica che occupa al centro del Mediterraneo, si è però trasformata anche in nazione ospitante immigrati, rifugiati politici e richiedenti asilo; purtroppo, però, a causa anche di una cattiva informazione, alcuni italiani si stanno riscoprendo razzisti. Quando mi presento come colombiana gli stereotipi più comuni che mi sento ripetere riguardano il narcotraffico e la prostituzione, ed allora credo che sia molto importante lavorare su queste forme di pregiudizio». Rispondo a Margarita che il senso di questa rubrica – “abitare le culture” – è proprio questo: andare oltre, cambiare lo sguardo, approfondire, raccontare la storia e le storie, bypassare la chiacchiera, il pettegolezzo, la maldicenza, demolire i pregiudizi e denunciare le ingiustizie. Infine, affrontiamo anche il discorso della situazione politica ed economica della Colombia, ci scambiamo opinioni riguardo al narcotraffico, alla contaminazione economica che ha pervaso la guerriglia attraverso l’inarrestabile insinuarsi nel territorio delle multinazionali; su questi argomenti ci sarebbe molto da scrivere, ma mi accorgo di non avere più battute a disposizione. Sono molti, in ogni caso, i siti che riportano notizie reali in merito alla situazione governativa della Colombia. Trascorsi alcuni giorni dall’intervista, mi reco a Casalborsetti a far visita a Margarita per realizzare il servizio fotografico, in quest’occasione conosco la bella figlia Laura del Mar; poi la mia amica colombiana mi prende la mano e mi accompagna a visitare la casa, mi stringe con forza tutto il tempo, è un contatto profondo e mi piace, perché è un modo tacito di confermare che sentiamo le nostre vicinanze, è un modo semplice, antico, per onorare il nostro incontro e la nascita della nostra amicizia.
Le foto sono di Alberto Giorgio Cassani
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Homeless Una “struttura di accoglienza a bassa soglia” a Ravenna
«Homeless, homeless Moonlight sleeping on a midnight lake» Paul Simon, Homeless www.trovacasa.ra.it
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di Marina Mannucci
Sono le 16 e un quarto quando giungo in via Mangagnina al centro di accoglienza notturna e diurna “Il re di Girgenti”, convenzionato con Asp-Azienda Servizi alla Persona; ho un appuntamento per un colloquio-intervista con la gerente del centro, Carla Suprani. L’edificio che accoglie il centro è dell’Istituto Autonomo delle Case Popolari, ente morale istituito il 10 novembre 1905 e trasformatosi successivamente in Azienda Casa Emilia-Romagna A.C.E.R., ente pubblico economico con funzioni operative nel campo dell’edilizia residenziale pubblica che opera attraverso la costruzione e gestione di alloggi sul territorio della provincia. Suono il campanello: mi accoglie un operatore spiegandomi che Carla è appena uscita per andare a mangiare un boccone fugace. Il martedì (oggi) ed il giovedì dalle 12 alle 15 vengono distribuiti alle famiglie segnalate dai servizi sociali i pacchi alimentari; questo servizio comporta un notevole impegno organizzativo e manuale nel gestire l’arrivo e la consegna delle derrate alimentari, nonché la loro distribuzione agli aventi diritto, e, così, la tabella di marcia di Carla, come spesso succede, è slittata. Mi accomodo in cucina; un ospite del centro sta preparando la prima parte dei pasti serali che, dopo essere stati confezionati e deposti in buste, tra circa un’ora, verranno distribuiti gratuitamente alle persone che intendono consumarli nelle loro abitazioni (Take Away: “Portare Fuori”); a seguire, vengono preparati i pasti per gli ospiti esterni ed interni che invece cenano nella mensa pubblica del centro. Mi guardo attorno: alcuni ospiti mi scivolano
accanto, ci guardiamo in silenzio, con rispetto, accenniamo dei sorrisi, non sappiamo nulla l’una degli altri, condividiamo uno spazio conviviale nella sua essenzialità rassicurante; per ora è sufficiente, le parole sarebbero di troppo. Trascorso un quarto d’ora, giunge Carla, una donna minuta, i capelli bianchi ed un’aura potente di forza, esperienza, coraggio ed ironia; mi mostra i locali di questa “Struttura di accoglienza a bassa soglia” ed infine ci sediamo in ufficio. Aperto dall’8 febbraio del 2003, il centro di via Mangagnina, in cui lavorano operatori e volontari, offre ospitalità ad un massimo di ventun persone, tutte maggiorenni. L’ospitalità è articolata secondo tre differenti tipologie: pronta accoglienza, accoglienza breve, accoglienza lunga. Hanno accesso al servizio dell’alloggiamento gratuito notturno uomini e donne che si trovino in stato di necessità, cittadini comunitari, stranieri extracomunitari con permesso di soggiorno, richiedenti asilo, rifugiati. Nel centro diurno è possibile usufruire di alcuni servizi, come ad esempio: accoglienza ed ascolto, colloqui di segretariato sociale, attività laboratoriali, corsi d’italiano, piccola colazione, utilizzo della doccia e della lavanderia. Gli ospiti sono tenuti a mantenere un comportamento adeguato alla vita comunitaria, in stretta osservanza delle norme igienico-sanitarie e di ordine pubblico; sono inoltre obbligati al rispetto di un regolamento interno. Il termine inglese homeless – in italiano senza tetto, senza casa, senza dimora – si riferisce a persone prive di una sistemazione convenzionale che vivono nei parchi o che comunque dormono all’aperto in condizioni di precarietà; situa-
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zione che li distingue dalle persone appartenenti ad una cultura nomade (come il popolo Rom) per le quali questa condizione è un fatto normale legato ad una storia antica. Le esperienze degli homeless sono quindi individuali, e le risposte devono essere flessibili e capaci di adattarsi a bisogni vari e complessi. Le circostanze che obbligano o inducono a queste scelte di vita possono essere: la disoccupazione, improvvise situazioni di precarietà, crisi finanziarie, accumulo di debiti, sfratti, alto costo delle abitazioni, carente costruzione di alloggi pubblici, vicende di esclusione sociale, abusi, mancanza di
controllo sugli spazi, la sensazione di non essere accettati nella comunità di appartenenza, situazioni di svantaggio quali disabilità e malattie croniche, vedovanza, mancanza di un luogo dove andare dopo anni di carcere, dipendenza da sostanze, traumi. All’interno della popolazione dei senza fissa dimora esistono gruppi distinti, famiglie, donne, giovani, rifugiati che necessitano di servizi specifici. Alcune di queste persone, i senza tetto, scelgono deliberatamente di non avere una residenza permanente, come i viandanti a piedi o quelli che hanno forti convincimenti spirituali personali e non ac-
In questa pagina due immagini del centro di accoglienza notturna e diurna di via Mangagnina, capace di accogliere ventuno ospiti che si trovino in stato di necessità
Le foto del servizio sono di Alberto Giorgio Cassani
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cettano le condizioni delle strutture assistenziali, promosse dalle amministrazioni pubbliche. Il tempo trascorso in strada modifica profondamente le abitudini e la visione di queste persone che preferiscono la strada, libera da vincoli e costrizioni, ad un sicuro posto letto in un dormitorio. Anche a Ravenna vi sono persone che hanno fatto la scelta di trovare soluzioni abitative provvisorie (in grado cioè di essere montate e smontate in tempi celeri) inventandosi spazi privati all’interno dei luoghi pubblici, vivendo la città con regole e ritmi spesso sconosciuti ai più e riscoprendo nuove prospettive urbane contraddistinte da una costante mobilità all’interno della città. Passando di mattina all’alba in uno dei due passaggi pedonali di Porta Adriana potreste imbattervi in un simpatico cittadino del mondo che mentre ricompone il suo rifugio notturno vi augura una buona giornata: lo saluto mentre mi sorride, ci scambiamo qualche battuta sulla giornata, scesa dalla bicicletta resto un po’ accanto a lui ed insieme guardiamo via Maggiore in silenzio. Allora, decido che in questo caso un’intervista sarebbe un’inutile curiosità. Sean Godsell (www.seangodsell.com), nativo di Melbourne, progettista new wave, si contraddistingue per la sua particolare sensibilità sociale ed è famoso anche per il motto «Tutti possono trarre beneficio dal buon design». Tra le sue soluzioni abitative, La casa rifugio Future Shack, una scatola di compensato con bagno, cucina e mobili a scomparsa, completamente riciclabile; si può montare e smontare in 24 ore ed è destinata a”persone in stato di emergenza”; ed è interessante anche il progetto La casa-panchina che cambia funzione a seconda dell’ora: di giorno è appunto una panchina; di notte si apre trasformandosi in ricovero per i senzatetto. Anche il team abruzzese di Zo-Loft Architecture & Design ha realizzato un progetto di modulo abitativo per senzatetto: Whelly, un carrello strutturato per fornire un rifugio mobile. Basato sul sistema del cuscinetto a rullo, è una ruota realizzata in gomma, alluminio e cartone pressato per essere riciclabile al 100%, montata su un carrello di circa 150 x 40 cm, delle dimensioni giuste per attraversare qualsiasi soglia. Grazie a due tende pieghevoli in poliestere, il carrello diventa un rifugio sicuro ed intimo, provvisto di uno spazio isolato dal terreno per dormire ed uno per poter stipare gli oggetti. La chiusura del rifugio è doppia: da una parte, il disco di gomma funge da isolante rispetto al terreno; dall’altra, l’apertura si blocca con il sacco studiato per contenere gli effetti personali. L’ultimo rapporto sulla povertà risalente all’ottobre 2010 attesta la presenza in Italia di oltre otto milioni di poveri ed un aumento del 25% delle richieste d’aiuto da parte di persone impoverite che vivono in condizioni di fragilità economica e che hanno dovuto modificare in modo sostanziale il proprio tenore di vita. Si è fatto buio, e per strada il numero delle persone che aspettano di entrare per consumare il pasto serale sta aumentando. Saluto Carla, e, inaspettato, ricevo un graditissimo invito alla mensa di questo luogo d’accoglienza di Ravenna.
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La Musica della Terra A casa di Dave l’australiano
«We don’t own the land / the land owns us The land is my mother / my mother is my land» [«Noi non siamo proprietari della terra / la terra è la nostra padrona La terra è la nostra madre / mia madre è la mia terra»] Dreamtime (L’era dei sogni / Il momento della Creazione)
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Un aspetto particolarmente interessante della mitologia aborigena australiana riguarda la percezione del territorio e, più in generale, del mondo (per gli aborigeni, le due cose sostanzialmente coincidono) come di un grandissimo corpo vivente, caratterizzato dal legame inscindibile fra le rocce, le piante, gli animali e gli esseri umani: tutte creature del Sogno e tutte viventi di una vita cosmica interconnessa. «In quel bel giorno un raggio di sole illuminò quella pianura infinita. La terra cominciò a tremare, a sussultare, a ingobbirsi e infine ad aprirsi in squarci sparsi qua e là. Fu da quelle aperture che uscirono Loro. Loro erano le “creature sognanti” i capostipiti di tutti gli uomini e le donne e di tutte le specie animali e vegetali che avrebbero in seguito popolato il mondo». La tradizione aborigena prevede inoltre che determinati racconti non possano essere rivelati che a particolari individui. Vi sono, per esempio, storie del Dreamtime che solo le donne conoscono, o solo gli uomini; molte storie che gli aborigeni si rifiutano di raccontare ai bianchi sono legate a luoghi vietati ai turisti e solo una minima parte della mitologia aborigena è effettivamente nota agli antropologi. Secondo quanto riportato da Bruce Chatwin in Le vie dei canti, i racconti del Dreamtime tramandati sotto forma di canti; descrivono i percorsi delle creature ancestrali nei loro viaggi originari e hanno una struttura musicale che corrisponde, come una sorta di mappa, alla morfologia del territorio attraversato da tale percorso. Quando, nel XVIII secolo, giunsero i colonizzatori europei, i nativi australiani erano prevalentemente popoli di cacciatori-raccoglitori in possesso di questa ricca cultura orale basata sulla venerazione della terra e sulla fede nel “sogno”. Una combinazione di malattie, perdita della terra e omicidi ridusse però la popolazione aborigena di circa il 90%. Anche l’indipendenza dell’Australia dal Regno Unito cambiò poco nelle relazioni tra bianchi ed aborigeni rifugiatisi nell’arido centro del continente; nel contempo divennero però una rilevante fonte di forza lavoro, solitamente su base volontaria, ma a volte, di fatto, in condizioni di schiavitù. Durante la prima metà del XX secolo, diversi stati si dotarono di istituti di assistenza sociale per i nativi; questo fece sì, tuttavia, che circa centomila
bambini aborigeni, soprattutto meticci, vennero sottratti con la forza alle loro famiglie e fatti crescere sotto la custodia dello stato, delle missioni cattoliche, o affidati a genitori adottivi bianchi, con la motivazione di una più adeguata “protezione morale”, per essere educati come bianchi e inseriti negli stereotipi della civiltà occidentale: la Stolen Generation, la “generazione rubata”. Tale “protezione morale” includeva l’imposizione religiosa, lo sfruttamento ed il lavoro obbligatorio, maltrattamenti fisici e lo stupro, praticato su quasi il novanta per cento delle ragazze aborigene uscite dalle missioni. Solo il 13 febbraio 2008 il neo-primo ministro Kevin Rudd ha presentato le scuse ufficiali alle popolazioni aborigene: «Chiediamo scusa per le leggi e le politiche di successivi parlamenti e governi, che hanno inflitto profondo dolore, sofferenze e perdite a questi nostri fratelli australiani. Chiediamo scusa in modo speciale per la sottrazione di bambini aborigeni e isolani dello stretto di Torres dalle loro famiglie, dalle loro comunità e dalle loro terre. Per il dolore, le sofferenze e le ferite di queste generazioni rubate, alle madri e ai padri, fratelli e sorelle, per la distruzione di famiglie e di comunità chiediamo scusa. Per le sofferenze e le umiliazioni inflitte su un popolo orgoglioso e una cultura orgogliosa chiediamo scusa. Noi parlamento d’Australia rispettosamente chiediamo che queste scuse siano ricevute nello spirito in cui sono offerte come contributo alla guarigione della nazione. Noi oggi compiamo il primo passo nel riconoscere il passato e nel rivendicare un futuro che abbracci tutti gli australiani. Un futuro in cui questo parlamento decide che le ingiustizie del passato non debbano accadere mai, mai più». Finiti gli studi, nell’anno 1999, all’età di ventitre anni, Dave Kaye, nato a Perth (Australia Occidentale), giunge in Europa per fare un anno sabbatico nel Regno Unito; dopo essere andato a trovare la sorella in Gran Bretagna, si trasferisce in Irlanda dove incontra Laura, una ragazza di Ravenna in vacanza studio per imparare la lingua: i due giovani s’innamorano. Trascorso circa un anno, Dave si trasferisce a Ravenna per vivere con Laura; l’idea era di rimanerci qualche
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perdere facilmente lavoro, lo si trova anche abbastanza agevolmente e l’alto tasso di mobilità si bilancia con un buon grado di lealtà nei rapporti tra datore di lavoro e lavoratore. Attualmente Dave esercita l’attività da libero professionista come docente di lingua inglese e si dedica alla sua vera passione: la Musica.
«Gli Uomini del Tempo Antico percorsero tutto il mondo cantando; cantarono i fiumi e le catene di montagne, le saline e le dune di sabbia. Andarono a caccia, mangiarono, fecero l’amore, danzarono, uccisero: in ogni punto delle loro piste lasciarono una scia di musica. Avvolsero il mondo intero in una rete di canto» Bruce Chatwin, Le vie dei canti [The songlines], Adelphi, 1988
mese, dopo di che i due giovani avrebbero dovuto trasferirsi in Australia. Dave e Laura sono rimasti invece a Ravenna, lavorano ed hanno due incantevoli bambini. Giunto in Italia con l’idea di esercitare la professione di musicista, ricordando le prime esperienze di lavoro, Dave mi racconta di quanto sia stato difficile adattarsi ai nuovi modelli lavorativi. In Australia il mondo del lavoro, puntando su una meritocrazia legata ai risultati, offre molte opportunità, ma presuppone anche la capacità di adeguarsi alla flessibilità richiesta dal mercato; chi ha qualità e si dà da fare può quindi raggiungere qualsiasi traguardo lavorativo. Questo modello, legato al settore finanziario, produttivo ed anche culturale, si avvicina a quello degli Stati Uniti nell’eliminare con una certa brutalità i punti deboli riscontrabili all’interno di un’organizzazione aziendale; del resto, come si può
Durante l’intervista, Dave mi spiega di come, negli anni trascorsi in Italia, la sua professione di musicista abbia vissuto «diverse fasi di crescita, di metamorfosi, di letargo, di evoluzione» e di come, negli ultimi due anni, questa sua passione «si sia arricchita di nuovi significati capaci di cogliere e trasmettere con più intensità e magia sentimenti di ogni colore, dalla gioia più vivida alla tristezza più cupa e profonda». «La musica», mi dice, è per lui «un veicolo plasmabile, manipolabile, in grado di assumere anche grandezze diverse; questo anche grazie a sonorità particolari create da strumenti di varie provenienze (didgeridoo, tablas, dobro, birimbau, cornamusa), una ricerca legata, forse in modo inconscio, ad un atavico bisogno, tipicamente australiano, di unire, mescolare e far uscire suoni e armonie che vengono da mondi mai incontrati». Negli arrangiamenti delle sue composizioni il suono della chitarra acustica si combina in modo fluido e naturale con altri suoni e, nell’album This Functional, uscito nel febbraio del 2010, le influenze folk ed etniche (ma non solo) si mescolano armoniosamente creando un suono unico e riconoscibile. In questo ultimo lavoro, Dave ha raggiunto una raffinatezza e una maturità musicale molto apprezzate da intenditori e fans sia italiani che australiani. Nella scia di questa rinnovata Nella foto in apertura, lo studio con tre didgeridoo, strumento tradizionale degli aborigeni australiani; in questa pagina, in alto a destra, la foto di copertina del prossimo cd di Dave, “Cruise Control”, e, a fianco, Frank O. Gehry, University of Technology di Sydney, plastico.
Le foto del servizio sono di Alberto Giorgio Cassani
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vena artistica è in uscita il suo ultimo lavoro, Cruise Control, in cui il musicista attinge anche ai suoni del jazz, del rock e del funk. Nei suoi cd, tutti autoprodotti, Dave segue di persona tutti i passaggi del lavoro; questa cura di tutti i dettagli si riscontra nei prodotti musicali, tutti di altissima qualità e disponibili su iTunes e sul sito www.myspace.com/davekaye. Parlando con lui, Dave mi spiega che un aspetto del vivere sociale del territorio italiano che apprezza molto è il diffuso senso di appartenenza ad una comunità, inteso non solo come rete di protezione, ma anche come luogo dove sviluppare obiettivi di solidarietà. «Sono rimasto particolarmente colpito dai laboratori sulla pace avviati in questi giorni da alcune scuole del comune di Ravenna; in Australia le scuole non possono gestire autonomamente iniziative di questo genere, la programmazione didattica di tutto il territorio è completamente curata da un’amministrazione centrale; questa rigidità, pur garantendo un’uniformità formativa, ha, come puoi immaginare, dei limiti». Un’altra particolarità della scuola australiana, in questo caso di segno positivo, è l’importanza dedicata al gioco, sia nel rapporto tempo-studio-gioco, sia nella sua dimensione legata allo spazio. In Australia, l’orario scolastico prevede molto tempo da trascorrere in spazi aperti (a partire dalle scuole secondarie di primo grado) nei cortili ampi e privi di recinzioni; sulle panchine si consuma il pasto che gli studenti portano da casa, si gioca, si fa sport, alternando il tempo dello studio al tempo del rilassamento. E a proposito di edifici scolastici mi piace chiudere con il progetto di Frank Gehry della University of Technology di Sydney, un edificio di undici piani avvolto in un involucro frammentato e asimmetrico, pensato per ospitare le attività degli studenti. Un edificioalbero nel quale coesistono un tronco con il nucleo centrale delle attività e i rami per consentire alle persone di mettersi in contatto e svolgere le proprie occupazioni. «L’edificio avrà due distinte facciate esterne, una composta di mattoni ondulati, con riferimento alla pietra arenaria e all’importante tradizione del laterizio nella città di Sydney, e un’altra con ampie inclinate superfici di vetro per rifrangere e riflettere l’immagine delle costruzioni circostanti» (architectureanddesign.com.au).
L’aborigeno raccoglie una manciata di terra e dice: «La terra è il nostro cibo, la nostra cultura, il nostro spirito e la nostra identità. Noi non abbiamo confini o recinzioni come i contadini, noi abbiamo solo collegamenti spirituali fra noi e la terra perché noi siamo la terra come lei è parte di noi». Dreamtime (L’era dei sogni / Il momento della Creazione)
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INDICE DEGLI ARTICOLI
PAG_5. “Tutte le rifiniture di questa casa sono opera di Angela”. Introduzione di Tahar Lamri.
PAG_7. Abitare le culture. Parte una ricerca in più puntate sugli spazi domestici privati e di relazione dei migranti che risiedono nel nostro territorio. A casa di Joanna in «Trova Casa», V, n° 52, settembre 2009, pp. 12-16.
PAG_12. I bambini che buttano sette sassolini nel Mediterraneo. A casa di Tahar Lamri, giornalista e scrittore, nato ad Algeri e residente a Ravenna in «Trova Casa», V, n° 53, ottobre 2009, pp. 10-14.
PAG_17. Gëzuar! (auguri di felicità). Ospitalità tipicamente albanese. A casa di Arijon Abdyli, originario dell’Albania, oggi imprenditore ravennate in «Trova Casa», V, n° 54, novembre 2009, pp. 11-15.
PAG_21. Icone-Immagini a casa di Billy. La ritualizzazione degli spazi in «Trova Casa Premium», n° 55, febbraio 2010, pp. 12-14.
PAG_24. Magia a passo di Samba. A casa di Carla Indira in «Trova Casa Premium», n° 56, marzo 2010, pp. 22-25.
PAG_28. Costruita con mani di donna. A casa di Maria Angelica in «Trova Casa Premium», n° 57, aprile 2010, pp. 12-14.
PAG_31. “Se i razzi diventassero palme...”. Nella casa “autocostruita” di Marcus Samir in «Trova Casa Premium», n° 58, maggio-giugno 2010, pp. 16-19.
PAG_35. Storia di Oliver. Partire, viaggiare e, forse, giungere in «Trova Casa Premium», n° 59, luglio-agosto 2010, pp. 14-16.
PAG_38. A casa di Meo. Un giovane macedone alla “conquista” del mondo in «Trova Casa Premium», n° 60, settembre 2010, pp. 14-16.
PAG_41. A casa di Timo. Imprenditoria d’Oriente in «Trova Casa Premium», n° 61, ottobre 2010, pp. 14-17.
PAG_45. Nostalgia che fa crescere. A casa di Alina in «Trova Casa Premium», n° 62, novenbre-dicembre 2010, pp. 14-17.
PAG_47. Il rito della vita. Conversando con Mahomi in «Trova Casa Premium», n° 63, gennaio-febbraio 2011, pp. 14-17.
PAG_53. Il piacere della “tertulia”. Il mondo di Margarita in «Trova Casa Premium», n° 64, marzo 2011, pp. 14-17.
PAG_57. Homeless. La “Struttura di accoglienza a bassa soglia” a Ravenna in «Trova Casa Premium», n° 65, aprile 2011, pp.14-17
PAG_61. La Musica della Terra. A casa di Dave l’australiano in «Trova Casa Premium», n° 66, maggio 2011, pp.14-17
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Testi e foto sono proprietà degli autori e dell'editore © Tutti i diritti riservati Trovacasa è una testata Reclam edizioni e comunicazione srl Redazione: viale della Lirica 43 - Ravenna tel. 0544 271068 - email. redazione@trovacasa.ra.it Direttore responsabile Fausto Piazza Editore Reclam edizioni e comunicazione srl Sede e direzione commerciale: viale della Lirica 43 - Ravenna tel. 0544 408312 - email. info@reclam.ra.it Direttore generale Claudia Cuppi
In copertina: l’angolo studio nel salotto di Marina Mannucci In ultima di copertina: particolare della cucina, dove si sono svolte gran parte delle interviste (le foto sono di Alberto Giorgio Cassani)
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