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Ravenna Festival Magazine

Edizione 2016 EDIZIONI E COMUNICAZIONE

la rivista ufficiale del

UN CANTO PER LA LIBERTÀ Dedicato a Nelson Mandela e a tutti coloro che lottano per i diritti dell'umanità

Edizione 2016

ISSN 2499-0221

all’interno

Classica con Muti, Nagano, Fischer e Harding . Cellolandia Danza: dalla Zakharova a Twyla Tharp e Batsheva Jazz, folk, rock dal Sudafrica, Bollani, Nyman e Joan Baez Omaggio a Guerrini/Stecchetti . Dante e i Vespri


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sommario

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Ravenna Festival Magazine 2016

Un canto per la libertà Rivendicazioni civili

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Plus jamais ça. Donne sul fronte dei diritti umani

Dante ai chiostri e Vespri a San Vitale

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Eventi intorno alla poesia dantesca e canti sacri nella basilica

Sinfonica: grandi maestri e illustri solisti

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Sul podio Muti, Nagano, Harding e Fischer. Al piano Mitsuko Uchida

Fra Rinascimento e Barocco

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Da Palestrina a Pärt passando per Vivaldi. Celesti armonie sulle sacre corde

Avanguardie musicali Il suono del contemporaneo da Luigi Nono a Morton Feldman

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Ravenna Festival Magazine 2016

sommario

Cellolandia

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L’invasione sonora dei cento violoncelli guidati da Sollima

Danza classica e moderna

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Sulle punte con Svetlana Zakharova e sulle linee con Alonzo King

Danza contemporanea

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Il mito Twyla Tharp, l’energia di Batsheva, nanou e l’dentità perduta

Musical per la libertà

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“Mandela Trilogy”, la vita di Madiba in scena con la Cape Town Opera

Jazz e dintorni

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SuperBollani, “lupo solitario” della tastiera

La cantautrice Joan Baez, la voce storica della canzone di protesta

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Ravenna Via C. Ricci, 41 - V.le Alberti, 82


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sommario

Ravenna Festival Magazine 2016

Il centenario

7 80

Olindo Guerrini, erudito burlone, cicloturista e buongustaio

Olimpiadi ‘36, non solo sport

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Federico Buffa racconta il mito Owens

Genius Loci

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Parco Teodorico, quinta verde urbana per il bianco mausoleo del Re dei Goti

Professionalità, qualità e tecnologia per il tuo benessere visivo

Arte grafica

98

Costantini: ritratto di un artista paradossale fra visioni e tempo reale

Ravenna Festival Magazine

RIVISTA UFFICIALE DEL RAVENNA FESTIVAL Autorizzazione Tribunale di Ravenna n. 1426 del 9 febbraio 2016

DIRETTORE RESPONSABILE: Fausto Piazza In redazione: Andrea Alberizia, Federica Angelini, Serena Garzanti, Luca Manservisi - Maria Cristina Giovannini (grafica senior), Gianluca Achilli (grafica). Collaboratori: Roberta Bezzi, Chiara Bissi, Paolo Bolzani, Matteo Cavezzali, Federico Farabegoli, Enrico Gramigna, Anna De Lutiis, Linda Landi, Marina Mannucci, Guido Sani, Serena Simoni, Attilia Tartagni, Roberto Valentino. La rivista è realizzata in collaborazione con la Direzione del Ravenna Festival. Si ringrazia in particolare Fabio Ricci, Giovanni Trabalza, Stefano Bondi, Giorgia Orioli. Referenze fotografiche: Archivio Biblioteca Classense, Ruven Afanador, Rudy Amisano, Satoshi Aoyagi, Richard Avedon, Elian Bachini, Mario Benvenuti, Marco Borggreve, Sharon Bradford, Felix Broede, Daniele Casadio, Valentina Cenni, Marina Chavez, Emanuele Dello Strologo, Tim Dickeson, Shane Doyle, Ian Douglas, Martin Elliott, Andrea Felvégi, Peter Fischli, Alessandra Freguja, Vladimir Fridkes, Francesco Guidicini, Julian Hargreaves, Rikimaru Hotta, Sankai Juku, Maarit Kytoharju, Rocco Lamparelli, Alessio Lavacchi, Luis Leal, Silvia Lelli, Alfonso Malferrari, Roger Mastroianni, Sergey Misenko, Molina Visuals, Maurizio Montanari, Margo Moritz, RJ Muna, Susy Ninni, Valeria Palermo, Sergio Perini, Giuseppe Porisini, Raffaele Puce, Eric Richmond, Todd Rosenberg, Brett Rubin, Christian Ruvolo, John Snelling, Luigi Tazzari, Geert Vandepoele, Krijn van Noordwijk, Hyou Vielz, Quinn Wharton, Manfred Werner, Damir Yusupov, Fabrizio Zani (e altri non rintracciati che si ringrazia). IN COPERTINA UNA FOTO DI SCENA TRATTA DALLO SPETTACOLO MANDELA TRILOGY - CAPE TOWN OPERA Editore: Edizioni e Comunicazione srl - www.reclam.ra.it Viale della Lirica 43 - 48121 Ravenna. Tel. 0544 408312. DIREZIONE GENERALE: Claudia Cuppi STAMPA: Grafiche Baroncini srl - Sede di Imola (BO)


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Rivendicazioni civili

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Plus jamais ça Donne sul fronte dei diritti umani DI

MARINA MANNUCCI

Non voglio combattere nessuno con nessuna arma; io non devo combattere per i miei diritti, i miei diritti devono venire da me Bob Marley

Maya Zankoul è una giovane blogger e graphic designer libanese. Cresciuta in Arabia Saudita e trasferitasi in Libano nel 2005, consegue il Bachelor of Arts in Graphic Design nel 2007. Nel 2009 inizia a pubblicare fumetti satirici sulla sua vita quotidiana, denunciando i mali della società libanese (violenza sulle donne, disservizi tecnologici, malfunzionamento dei trasporti pubblici…). Nasce il suo blog Amalgam che in pochi mesi raggiunge un successo internazionale, seguito poi dalla pubblicazione di due libri (Amalgam e Amalgam 2), editi anche in Italia da “Il Sirente”. Ava Marie DuVernay è una regista e sceneggiatrice statunitense. È la prima donna afroamericana a ricevere una nomination al Golden Globe e al Critics Choice Award come miglior regista per il film Selma. La strada per la libertà. Il film rappresenta una rievocazione delle marce da Selma a Montgomery che dal 1965 segnarono l’inizio della rivolta per i diritti civili negli Stati Uniti. Ava Marie viene dal cinema indipendente e afferma che il suo cinema vuole essere militante e vuole raccontare e fare conoscere delle storie. Si chiama Meysa Abdo, ma il suo nome di battaglia è Narin Afrin. È una delle comandanti della resistenza curda della città siriana di Kobanê. «La resistenza di Kobanê ha mobilitato la nostra intera società, e molti dei suoi leader, compresa la sottoscritta, sono donne. Quelle di noi che stanno sulle linee del fronte sanno bene come lo Stato Islamico tratta le donne. Ci aspettiamo che le donne in tutto il mondo ci aiutino, perché stiamo combattendo per i diritti delle donne ovunque. Non ci aspettiamo che si uniscano alla

nostra lotta qui (anche se saremmo orgogliose se qualcuna lo facesse). Ma chiediamo alle donne di promuovere la nostra causa di far crescere nei loro paesi la consapevolezza rispetto alla nostra situazione e di fare pressione sui loro governi affinché ci aiutino» (da un appello di Meysa Abdo pubblicato sul “The New York Times” nell’ottobre del 2014). Atena Farghadani, vincitrice del 2015 Courage in Cartooning Award del Cartoonists Rights

Network International (CRNI), è stata condannata il 1° giugno 2015 a dodici anni e nove mesi di reclusione per aver disegnato una vignetta raffigurante i parlamentari iraniani con sembianze animali e averla postata sulla sua pagina di Facebook. Atena è stata accusata di «associazione e collusione contro la sicurezza nazionale», «propaganda contro lo Stato» e «oltraggio» alla Guida Suprema, al Presidente, ai membri del Parlamento e ai Guardiani della Rivoluzione. Amnesty Maya Zancoul

Ava Marie DuVernay

International sostiene il suo rilascio e il suo diritto ad avere libertà di obiezione di coscienza. Tawakkul Karman, giornalista e attivista politica yemenita, leader di spicco dell’Arab Spring, la “Primavera Araba”, ha trentatré anni ed è la più giovane donna ad avere ricevuto il Nobel per la pace. Nel 2005 fonda il movimento Women Journalists without Chains (Giornaliste senza catene). È membro del partito politico alTajammu al-Yamanī li-l-Iṣlāḥ (Raggruppamento yemenita per la riforma), branca yemenita dei Fratelli musulmani. Leymah Gbowee è direttrice esecutiva di Women Peace and Security Network-Africa (Rete delle donne per la pace e la sicurezza), associazione che si batte per dare appoggio alle donne nella prevenzione e nella risoluzione dei conflitti. Inoltre, partecipa alla Commissione per la verità e la riconciliazione in Nigeria e ha allargato a tutta l’Africa occidentale il “Programma delle donne per la costruzione della pace” (Women in Peacebuilding Program). Con la sua attività sociale ha contribuito attivamente alla fine della guerra civile liberiana, aprendo la strada all’elezione di Ellen Johnson-Sirleaf (prima donna africana a ricoprire la carica di presidente). A lei va inoltre il merito di aver saputo unire donne musulmane e cristiane in una lotta non violenta per la pacificazione del paese. Patrizia Gentilini, membro ISDE (Associazione Medici per l’Ambiente), è medico oncologa ed ematologa, ha lavorato per oltre trent’anni nel reparto di Oncologia di Forlì. Da molti anni si occupa di problematiche sanitarie legate a cause ambientali in particolare delle conseguenze sulla salute dell’inquinamento atmosferico. Promotrice della “Campagna per la difesa del latte materno dai contaminanti ambientali” si batte quotidianamente per la prevenzione e per la >>


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Rivendicazioni civili Ravenna Festival Magazine 2016

salute delle attuali e future generazioni. È stata perito di parte (in forma gratuita) per associazioni e cittadini in procedimenti giudiziari per cause ambientali. Ha ricevuto il premio in memoria di Lorenzo Tomatis il 24 settembre 2015 e l’8 marzo 2016 è stata fra le vincitrici del premio “Pace, Donne Ambiente”, dedicato a Wangari Maathari. Berta Cáceres era un’attivista per i diritti delle popolazioni indigene dell’Honduras. Appartenente alla popolazione Lenca, era diventata nota per la sua campagna contro la costruzione della diga Agua Zarca sul fiume sacro Gualcarque, progetto portato avanti dalla Compagnia Honduregna per lo sviluppo energetico e l’azienda pubblica cinese Sinohydro, senza consultare le popolazioni indigene, violando così i trattati internazionali. La diga avrebbe impedito al fiume di continuare ad essere fornitore di acqua, cibo e medicine. Per la sua attività, Berta Cáceres ha ricevuto nel 2015 il Goldman Environmental Prize, il “premio Nobel per l’Ambiente”. Il 3 marzo è stata uccisa, ufficialmente durante una rapina, ma tutti la ritengono l’ennesima vittima della guerra contro gli ecologisti da parte dei proprietari di concessioni terriere e minerarie che vorrebbero distruggere le bellezze ambientali e le popolazioni indigene. Gennaio 2016: Gisela Mota, trentatré anni, viene uccisa a Temixo da quattro uomini armati qualche ora dopo aver assunto l’incarico di prima cittadina. Aveva vinto le elezioni, promettendo di combattere la corruzione, la criminalità e il narcotraffico nella città. Era stata eletta nello stato di Morelos, ottantacinque chilometri a sud di Città del Messico, aveva prestato giuramento e si era insediata nel primo giorno del primo dei tre anni del suo mandato. Tantissime sono ancora le donne che stanno lottando per rivendicare i loro diritti, delle quali, per problemi di spazio, non posso raccontare. Pensarsi come titolari di diritti significa avere la capacità di avanzare pretese. Dunque, rispettare una persona, pensarla come titolare della dignità umana significa pensarla come potenziale interprete di rivendicazioni (maker of claims). «Nonostante gli innumerevoli tentativi di analisi definitoria, il

Meysa Abdo

linguaggio dei diritti resta molto ambiguo, poco rigoroso e spesso usato retoricamente» Norberto Bobbio, L’età dei diritti

Atena Farghadani

Tawakkul Karman

L’affermazione storica dei diritti fondamentali dell’uomo parte da molto lontano, alcuni importanti documenti ne tracciano la storia. Per citarne solo alcuni, ricordo: il Cilindro di Ciro, iscrizione persiana del 539 a.C., l’Etica Nicomachea di Aristotele, il De clementia di Seneca, la Magna Carta Libertatum del 1215; Sul diritto naturale delle genti di Giambattista Vico, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino emanata in Francia nel 1789, i primi dieci emendamenti della Costituzione degli Stati Uniti del 1791 (Carta dei diritti), la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite del 10 dicembre 1948, prima testimonianza della volontà della comunità internazionale di riconoscere universalmente i diritti umani. «In un discorso generale sui diritti dell’uomo occorre per prima cosa tenere distinta la teoria dalla prassi, o meglio rendersi subito conto che teoria e prassi camminano su due binari distinti e a velocità molto diverse. [...] Dei diritti umani si è parlato e si continua a parlare [...] molto di più di quel che si sia riusciti finora a fare per riconoscerli e proteggerli effettivamente, cioè per trasformare aspirazioni, nobili ma vaghe, richieste giuste ma deboli, in diritti in senso proprio» (Norberto Bobbio, intervento alla tavola rotonda “Sociologia dei diritti dell’uomo”, Ravenna 1988, citato in Giuseppe Flores D’Arcais, Introduzione ad una pedagogia dei diritti umani, in Pace, diritti dell’uomo, diritti dei popoli, IV, n. 1, 1990). La storia dei diritti coincide con quella del pensiero dell’uomo e, quindi, con quella dei suoi errori. Un percorso che vede l’essere umano interrogarsi oltre che sul suo destino, sui suoi bisogni e sulle sue aspirazioni, anche sulle modalità e qualità dei rapporti con gli altri esseri viventi. Se l’Ottocento è stato il secolo dell’affermazione del principio di uguaglianza formale e dei diritti assoluti di libertà, «le Costituzioni democratiche contemporanee completano e superano l’impostazione liberale, individuando nei diritti un momento >>


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Rivendicazioni civili Ravenna Festival Magazine 2016

Leymah Gbowee

Patrizia Gentilini

di affermazione e sviluppo della personalità e un principio di organizzazione della società». Bobbio si sofferma anche su più contemporanee generazioni di diritti, successive a quella dei diritti civili e politici e a quella dei diritti sociali, citando i diritti all’ambiente non inquinato, alla privacy e all’integrità del proprio patrimonio genetico. La dinamica a cui fa riferimento, prende in considerazione gli «effetti combinati della globalizzazione e del pluralismo culturale», che non generano però solo nuove categorie di diritti. Secondo il filosofo-storico-giurista: «anche alcuni diritti della prima generazione devono essere ridefiniti» e tutelati in forme nuove, come ad

esempio la riservatezza della vita privata e la possibilità di sviluppare la libertà di pensiero e la sua manifestazione e il diritto alla vita che deve prevedere la riduzione della minaccia della guerra. Un processo che richiede modifiche e ampliamenti dei registri tradizionali dei diritti perché necessita «di aprirsi alla sovrapposizione e all’intreccio di diversi cataloghi, scritti in lingue differenti e a volte difficilmente traducibili», probabilmente senza che l’accumulo si risolva in una necessaria convergenza. Tutto questo, in qualche misura, è già avvenuto; come ad esempio l’inserimento dei diritti economici e sociali nella “Dichiarazione universale”, il “Patto sui diritti eco-


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Rivendicazioni civili Ravenna Festival Magazine 2016

Conferenza

La risoluzione dei conflitti e una nuova giustizia riparativa In sintonia con il tema dell’edizione di quest’anno dedicato a Nelson Mandela e alla lotta universale per la libertà e i diritti civile, il Ravenna Festival, nell’ambito del progetto “Via Sancti Romualdi”, ospita una conferenza dal titolo “Conflitti, giustizia, mediazione, riconciliazione”. L’incontro è in programma sabato 11 giugno (alle ore 18) al chiostro della Biblioteca Classense e prevede la partecipazione di Adolfo Ceretti ordinario di criminologia, (Università di Milano-Bicocca) e Danila Indirli, magistrato presso la Corte d’Appello di Bologna. introduce Enzo Morgagni. La conferenza vuole approfondire la riflessione su quelle che sono le esperienze internazionali e nazionali tese alla risoluzione dei conflitti, nella prospettiva della costruzione di una nuova giustizia (“giustizia riparativa”) realizzata attraverso la pratica della mediazione.

Storia di nove donne consapevoli e tenaci nella lotta pacifica per i diritti civili E una breve rilettura della Dichiarazione Universale nomici, sociali e culturali”, che introduce il diritto collettivo all’autodeterminazione dei popoli, il parziale riconoscimento dei diritti collettivi alla terra dei popoli indigeni nella Convenzione 169 dell’International Labour Organization e in alcune Carte Costituzionali. Documento, quest’ultimo, che sancisce il diritto dei popoli indigeni a mantenere e rafforzare le proprie istituzioni, culture e tradizioni nonché il diritto a perseguire la forma di sviluppo più adatta ai loro bisogni e aspirazioni (cfr. Luca Baccelli, “Una rivoluzione copernicana: Norberto Bobbio e i diritti”, in “Jura Gentium, Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale”, vol. VI, n. 1, 2009, pp. 7-25). Nei dibattiti scientifici e in quelli giuridici la questione ambientale ha acquisito nel tempo una centralità crescente, in quanto il degrado dell’ambiente condiziona la qualità della vita con gravi ripercussioni anche sulla possibilità di usufruire di alcuni essenziali diritti della persona. La problematica ambientale è dunque anche un problema di difesa dei diritti fondamentali della persona umana, proprio perché sussiste

una stretta interrelazione tra ambiente e diritti. Del resto, sia nel nostro ordinamento, sia in quelli della stragrande maggioranza dei paesi industrializzati, sono ormai presenti norme che disciplinano la materia ambientale tanto che ormai si può parlare di un diritto dell’ambiente. Sarà compito dei Governi e quindi della Giurisprudenza identificare in maniera ancora più accurata i soggetti titolari dei diritti all’ambiente per poi individuarne e specificarne i contenuti negli ordinamenti nazionali, comunitari ed internazionali (cfr. Flora Vollero, “Diritti umani e diritti fondamentali fra tutela costituzionale e tutela sovranazionale: il diritto ad un ambiente salubre”, tesi di Laurea in Diritto Costituzionale, Università degli studi di Napoli “Federico II”, Facoltà di Giurisprudenza, a.a. 2001-2002). In chiusura, una breve rilettura della Dichiarazione Universale dei diritti umani perché «A chiunque si proponga di fare un esame spregiudicato dello sviluppo dei diritti dell’uomo dopo la seconda guerra mondiale consiglierei questo salutare esercizio: leggere la Dichiarazione universale e poi guardarsi attorno. Sarà costretto a riconoscere che, nonostante le anticipazioni illuminate dei filosofi, le ardite formulazioni dei giuristi, gli sforzi dei politici di buona volontà, il cammino da percorrere è ancora lungo. E gli parrà che la storia umana, per quanto vecchia di millenni, paragonata agli enormi compiti che ci spettano, sia forse appena cominciata» (Norberto Bobbio, “Presente e avvenire dei diritti >>

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Rivendicazioni civili

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Ravenna Festival Magazine 2016

dell’uomo”, in L’età dei diritti, Torino, Einaudi, 1990, p. 44). Art. 1 Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza. Art. 2 A ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella dichiarazione, senza distinzioni di razza, colore, sesso, lingua, religione, opinione, origine nazionale o sociale, ricchezza, nascita. Art. 3 Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona. Artt. 4 e 5 Nessun individuo potrà essere trattato come schiavo o torturato. Art. 6 Ogni individuo ha diritto, in ogni luogo, al riconoscimento della sua personalità giuridica. Artt. 7, 10, 11 La legge è uguale per tutti. Tutti hanno diritto a un’uguale tutela da parte della legge e a un processo giusto e pubblico. Art. 8 Ogni individuo ha diritto ad un’effettiva possibilità di ricorso ai competenti tribunali contro atti che violino i diritti fondamentali a lui riconosciuti dalla costituzione o dalla legge. Art. 9. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato. Art. 12 Tutti hanno diritto alla propria privacy. Artt. 13 e 14 Tutti hanno diritto alla libertà di spostarsi e, se perseguiti, di cercare e avere asilo in altri paesi. Art. 15 Ogni individuo ha diritto alla cittadinanza. Art. 16 Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza

Norberto Bobbio

Berta Caceres

Gisela Mota

alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione. Art. 17 Ogni individuo ha il diritto ad avere una proprietà privata sua personale o in comune con gli altri. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua proprietà. Artt. 18 e 19 Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di religione e di espressione. Art. 20 Ogni individuo ha il diritto alla libertà di riunione e di associazione pacifica. Nessuno può essere costretto a far parte di un’associazione. Art. 21 Tutti hanno il diritto di partecipare al governo del proprio paese, sia direttamente, sia attraverso rappresentanti scelti liberamente in elezioni periodiche. Art. 22 Ogni individuo, in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza sociale e alla realizzazione dei diritti economici, culturali e sociali i indispensabili alla sua dignità. Art. 23 Ogni individuo ha diritto al lavoro e a una retribuzione equa. Art. 24 Ogni individuo ha il diritto al riposo ed allo svago, comprendendo in ciò una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite. Art. 25 Tutti hanno il diritto a pretendere un tenore di vita dignitoso. Art. 26. Tutti hanno il diritto di andare a scuola. L’istruzione deve promuovere la comprensione, la tolleranza e l’amicizia. Art. 27 Tutti hanno il diritto di partecipare alle vita culturale e al progresso scientifico della propria comunità. Art 28 Ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e la libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati. Art. 29 Ogni individuo ha dei doveri verso la comunità, e deve rispettare i diritti degli altri e della cosa pubblica. Art. 30 Nulla nella presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso di implicare un diritto di qualsiasi Stato gruppo o persona di esercitare un’attività o di compiere un atto mirante alla distruzione dei diritti e delle libertà in essa enunciati. ❍ «Credo che avere la terra e non rovinarla sia la più bella forma d’arte che si possa desiderare» Andy Warhol


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Linguaggio universale Ravenna Festival Magazine 2016

Freedom, Oh! Freedom! Parole in Libertà L’invocazione sboccia fra le righe dei grandi scrittori, nei versi dei poeti e delle canzoni, nelle immagini emblematiche prodotte da artisti di tutti i paesi, ieri come oggi della donna o quella della libertà di parola? Di espressione nel campo artistico? Dante Alighieri, nella sua Commedia, spesso induce i personaggi, che incontra nelle tre Cantiche, a parlare di libertà, lui che fu costretto a vivere lontano dalla sua Firenze, cercando altrove la possibilità di esprimere liberamente il suo pensiero. Lo troviamo, nel Purgatorio dove, proprio memore di quanto costa essere liberi, pone Catone che, essendo suicida, avrebbe dovuto avere una diversa sistemazione. Lo riscatta il suo essersi sacrificato per la libertà che ha il valore morale di grazia, anche se non era propriamente quelle cristiana. DI ANNA DE LUTIIS

freedom Freiheit ελευθερία sloboda libertad liberté kebebasan svoboda e così via... Ogni lingua ha nel proprio dizionario questa parola perché ogni popolo aspira ad una società in cui ogni individuo può decidere della propria vita, pur rispettando quella degli altri. Per molti ancora oggi è un sogno e con il sogno «Puoi arrivare da qualsiasi parte, nello spazio e nel tempo, dovunque tu desideri» seguendo la scia del gabbiano Jonathan Livingstone di Richard Bach e con lui essere trascinato in una «entusiasmante avventura di volo, di aria pura, di libertà». O come i gabbiani di Cardarelli che paiono volare senza fermarsi mai, volatili misteriosi che sorvolano mari calmi e in tempesta ad ali spiegate: Non so dove i gabbiani abbiano il nido, / ove trovino pace. / Io sono come loro, / in perpetuo

volo. Senza dubbio ottimiste le parole di Bach «Quei gabbiani che non hanno una meta ideale e che viaggiano solo per viaggiare, non arrivano da nessuna parte, e vanno piano. Quelli invece che aspirano alla perfezione anche senza intraprendere un viaggio, arrivano ovunque, e in un baleno», parole che non si adattano alle migliaia di facce stravolte che attraversano il nostro mare verso una meta certa ma incontro ad un futuro ignoto, eppure nella loro mente il progetto era ben definito, prima di partire. Dall'Africa al Medio Oriente, dall'Occidente all'Est europeo, dagli Stati Uniti all'America Latina, dall'Asia all'Australia, dal Giappone all'India: poeti di tutto il mondo gridano la struggente necessità di conservare e difendere la propria identità, la propria libertà a fronte del dispotismo di ogni genere e sotto qualunque cielo. Questo vuole essere un viaggio non cronologico ma fatto di emozioni, seguendo il pensiero da una parte all’altra della terra, da tempi antichi fino ai nostri giorni. Ma quale libertà? Quella della propria patria? Quella personale, quella

libertà va cercando, ch’è sì cara, Amos Nattini, Purgatorio I canto

come sa chi per lei vita rifiuta. Tu ’l sai, ché non ti fu per lei amara in Utica la morte, ove lasciasti la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara. Ma Dante sa quanto la libertà è preziosa, come sa chi per essa rinuncia alla vita proprio come fece Catone, che in nome di essa si suicidò a Utica. Di atti di eroismo è ricca la storia di tutti i tempi. Erodoto ci racconta la strage delle Termopili, un manipolo di uomini contro un esercito infinito, Sparta contro Serse, Greci contro i Persiani. Il conflitto greco persiano è visto da Erodoto come lo scontro tra due opposte e inconciliabili civiltà fondate l'una sulla libertà e il rispetto per la legge, l'altra sul dispotismo di un monarca assoluto. Si sa che alla fine della


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Linguaggio universale

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Ravenna Festival Magazine 2016

battaglia sul campo degli spartani non c’era più vita. Il mito ce li ha tramandati come guerrieri dalla forza innaturale, sprezzanti della loro sorte, capaci di opporsi a un esercito mille volte più numeroso: 300 uomini alla testa di qualche migliaia di soldati che affrontano un impero così vasto che l’occhio non riesce ad abbracciarlo. E proprio il mito ci tramanda l’epigrafe in onore degli spartani caduti: Va’, straniero, e di’ a Sparta che noi qui cademmo in obbedienza alle sue leggi. È il Romanticismo il movimento letterario e filosofico che propone con grande passione i temi della libertà e della patria. Uno dei romanzi più significativi del poeta e scrittore italiano Ugo Foscolo è Le ultime lettere di Jacopo Ortis. L’opera è considerata il primo romanzo epistolare della letteratura italiana. Si ispira ad un fatto realmente accaduto: la vicenda del suicidio di uno stu-

Eugène Delacroix, La liberté

dente universitario, Girolamo Ortis. Ugo Foscolo prende spunto dal modello letterario de I dolori del Giovane Werher di Goethe e risente molto dell’influsso del poeta e drammaturgo Vittorio Alfieri, tanto che il suo capolavoro è considerato una tragedia alfieriana in prosa. Si tratta anche di un romanzo autobiografico, poiché si ispira alla doppia delusione avuta da Foscolo, da una parte, per l’amore impossibile per Isabella Roncioni che non riuscì a sposare, e dall’altra parte, per la patria, riferendosi al Trattato di Campoformio dove Napoleone decide di cedere all’Austria parte del territorio. Foscolo, nella sua opera, tratta il tema del suicidio considerato come una scelta dell’ultima libertà che il destino non può togliere. Tra gli altri temi trattati troviamo quello della patria, tanto caro allo scrittore, il tema dell’amore inteso come una forza positiva da cui scaturiscono la bellezza e l’arte, quello della morte, della speranza di essere compianto

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Un ristorante davvero unico, perchè propone le specialità della cucina toscana e romagnola, insieme ad una accurata selezione di piatti della cucina vegana e vegetariana. Tutto rigorosamente bio. Un connubio così perfetto, che mette d’accordo tutti (in famiglia), può nascere solo dalla condivisione e passione per il proprio lavoro della gentilissima Marina e del toscanaccio Franco. Anche il luogo è originale, una terrazza unica nel cuore della città, al primo piano dell’edificio dell’orologio di piazza del Popolo.

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Linguaggio universale

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Place de la Republique

Termopili

(«la morte non è dolorosa») e della sepoltura nella propria terra. L'Ortis non è soltanto l'alter-ego di Foscolo, ma il paradigma di tutta una generazione che visse la delusione storica. Dalla delusione all’esaltazione, quella che vediamo nella splendida opera di Delacroix che, nel 1830, realizzò una della sue opere più note La libertà guida il popolo, un quadro politico, forse quello in cui si manifestano con maggiore efficacia i sentimenti dei giovani roman-

tici. Rappresenta l'insurrezione popolare avvenuta a Parigi tra il 27 ed il 29 luglio 1830 che portò alla destituzione di Carlo X. Il quadro raffigura il popolo che avanza armato sulle barricate, incitato da una figura femminile, la personificazione della libertà. Nell’opera l'artista riuscì ad unificare allegoria e realtà, fantasia e storia. L’importanza e la fama dell’opera di Delacroix sono tali che hanno ispirato una copia davvero originale in cui l’ estro di Pierre-Adrien Sollier, pittore parigino 32enne lau-

reato in graphic design, ha prodotto un omaggio a colui che è considerato tra gli artisti più celebri della storia dell’arte: La libertà guida il popolo realizzato con i Playmobil. Mai questa parola è passata in disuso in una Francia che l’aveva esaltata, dove oggi troviamo la statua della Libertà, trionfante, in Place de la Republique. Se la situazione politica nel breve tempo di due secoli ha portato in Europa la consapevolezza di essere liberi, sono ancora tanti i luoghi e i popoli che la libertà la devono ancora conoscere e gustarne la sensazione. Per questo uno degli appuntamenti più importanti del Festival 2016 è Mandela Trilogy, un misto di musical e opera dedicato all’eroe africano. È un’importante produzione di Cape Town Opera, la principale struttura produttiva in ambito operistico attiva nel continente africano, scritta da Michael Williams, che ne è anche regista, con musiche di Allan Stephenson, Mike Campbell e Peter Louis van Dijk. La trilogia, divisa in tre parti, racconta le fasi della vita di Mandela,

con difficoltà che mai l’ha spaventato e fermato: «Non esiste un cammino facile per la libertà e molti di noi dovranno passare attraverso la valle dell’ombra della morte, più e più volte prima di raggiungere la vetta dei propri desideri». (Nelson Mandela) La lunga lotta per rivendicare i diritti del popolo africano l’ha reso un vero e proprio eroe, una figura mitica, punto di riferimento e di speranza, ispiratore di poesie e di canzoni. Ascolta il poeta lontano da te / ma vicino al tuo cuore. / Mandela il leone / Tu non sei solo Mandela / tu sei il Messia / che abolisce la repressione / non per instaurare un'altra / eterno dualismo tra il bianco ed il nero, / bensì per seppellire la sordida povertà / in una terra / libera / per l'amore del cuore e dell'anima. / A quando il tuo ruggito di speranza? / Speranza di una terra senza razzismo / Mandela - il leone Boubacar Traore, Il tuo regno ti domanda

Si soffre nei paesi dell’Africa in cui la guerra e la povertà la fanno da

Joan Baez, Hamburg 1973


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padrone e da cui c’è, lo vediamo ogni giorno, una fuga continua e piena di rischi. Non tanto diversa era, in America, la situazione degli schiavi, proprietà assoluta, oggetti senza valore umano, sofferenza fisica e spirituale, eppure nascosta in fondo all’anima c’era sempre la speranza di essere liberi, un giorno.

Fabrizio De Andrè

We shall overcome, / we shall overcome some day. / Oh, deep in my heart, I do believe / we shall overcome some day Un giorno ci riusciremo. Lo sento nel profondo del cuore che un giorno ci riusciremo La canzone deriva forse da una canzone gospel. Dal 1963, fu legata a Joan Baez che la registrò e la cantò in numerose marce per i diritti civili. I lavoratori agricoli negli Stati Uniti cantarono la canzone in spagnolo durante gli scioperi e i boicottaggi dell'uva alla fine degli anni '60. La canzone fu poi utilizzata anche in Sud Africa durante gli ultimi anni del movimento antiapartheid. In India, la traduzione letterale in hindi Hum Honge Kaamyab / Ek Din divenne una can-

zone patriottica negli anni '80 e cantata ancora oggi. Molte delle canzoni della cantante americana parlano di libertà, sono contro la guerra, contro la violenza; avremo modo di ascoltarla il prossimo luglio, nell’ultimo appuntamento di Ravenna Festival. Non manca la speranza che le cose, un giorno cambieranno, anzi c’è la certezza nella poesia del poeta

americano Langston Hughes: I, too (Anch’io) I, too, sing America. / I am the darker brother. / They send me to eat in the kitchen / When company comes, / But I laugh, / And eat well, / And grow strong. / Tomorrow, / I’ll be at the table / When company comes. / Nobody’ll dare / Say to

me, / “Eat in the kitchen"/ Then. / Besides, / They’ll see how beautiful I am / And be ashamed./ I, too, am America. Anch’io canto l’America, Io sono il fratello nero. Mi mandano a mangiare in cucina quando arrivano gli amici. Ma io sorrido, mangio bene e cresco forte.(qui si allude anche alla crescita intellettuale. ndr). Domani sarò al tavolo con loro e

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Linguaggio universale

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Ravenna Festival Magazine 2016

nessuno oserà dirmi di andare a mangiare in cucina. Allora ovviamente si renderanno conto di quanto sono bello e si vergogneranno, perché anch’io sono e mi sento americano. La storia ci ricorda che erano migliaia gli uomini in catene, caricati come merci sulle navi per un lungo ed estenuante viaggio verso un luogo sconosciuto. Essi sapevano bene che al loro arrivo li attendeva la schiavitù. Molti di loro preferirono gettarsi in mare durante il viaggio, piuttosto che vivere da schiavi. Questo profondo sentimento di sofferenza ci viene ricordato dagli spirituals, canzoni che sgorgano dall’anima e rappresentano lo spirito di libertà di un popolo che, pur nella profonda sofferenza, è riuscito a trovare nella musica e nella fede la forza per sopravvivere. La morte viene vista non come la fine ma come l'inizio di una nuova vita, libera dalle sofferenze e dalle privazioni. Oh freedom, oh freedom over me! / And before I'll be a slave, / I'll be buried in my grave / and go home to my Lord and be free. / No more

10 GIUGNO ore 21 SELEZIONE MISS ITALIA

Courbet, Les demoiselles des bords de la Seine

rituals i versi di alcune canzoni di autori più vicini ai nostri giorni ma ugualmente emozionanti e spunto di riflessione: Il suonatore Jones, di Fabrizio De André, tratto dall’album Non al denaro non all’amore né al cielo (1971), è ripreso dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Libertà l’ho vista dormire nei campi coltivati, a cielo e denaro, a cielo ed amore, protetta da un filo spinato. Libertà l’ho vista svegliarsi ogni volta che ho suonato per un fruscio di ragazze a un ballo, per un compagno ubriaco.

moarning, no more moarning over me / No more shouting, no more shouting over me! / No more crying, no more crying over me! Oh libertà, per me. E prima di diventare schiavo preferisco morire e tornare a casa dal Signore ed essere libero. Non più lamenti non più grida, non più pianti. Sono solo pochi esempi tratti da

30 GIUGNO ore 21 CENTRO PROFESSIONALE DANZA RAVENNA

una tradizione letteraria e musicale davvero infinita e trasversale nel tempo e nello spazio, ieri come oggi. In una società presumibilmente civile il concetto di libertà ha superato i confini andando a coinvolgere altri campi quale quella della donna, della libertà di parola, di espressione in tutti i campi. Meno drammatici rispetto agli spi-

9 LUGLIO ore 18.30 MUSICA DAL VIVO ARY FIVE Jazz e Blues

Per Giorgio Gaber La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione. Poter viaggiare, vestirsi a piacere, cantare a squarciagola, anche questa è libertà. Cat Stevens ce lo conferma con If you want to sing out, sing out (Se vuoi cantare ad alta voce, canta ad alta voce): è una bellissima canzone sulla libertà, una canzone per tutti, adulti e bambini. >>

22 LUGLIO ore 18.30 MUSICA DAL VIVO I POSH Trio Musicale

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Linguaggio universale Ravenna Festival Magazine 2016

Amanda Charchian

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Beh, se vuoi cantare ad alta voce, canta ad alta voce / e se vuoi essere libero, sii libero / perché ci sono un milione di cose che puoi essere. / E se vuoi vivere in alto, vivi in alto / e se vuoi vivere in basso, vivi in basso / perché ci sono un milione di strade da prendere / sai che ci sono / tu puoi fare quel che vuoi / hai varie opportunità / e se riesci a trovare una nuova strada / puoi intraprenderla oggi stesso / puoi far avverare tutto / e puoi anche non far nulla / vedrai… è facile... Ancor più intensa è la dichiarazione, nella poesia Libertà, di Paul Ėluard, considerato tra i più importanti poeti francesi surrealisti: Sur mes cahiers d’écolier / Sur mon pupitre et les arbres / Sur le sable sur la neige / J’écris ton nom... Sui quaderni di scolaro /

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Sui miei banchi e gli alberi / Sulla sabbia sulla neve / Scrivo il tuo nome / Su ogni pagina che ho letto / Su ogni pagina che è bianca /Sasso sangue carta o cenere / Scrivo il tuo nome / Sulle immagini dorate / Sulle armi dei guerrieri / Sulla corona dei re / Scrivo il tuo nome / Sulla giungla ed il deserto / Sui nidi sulle ginestre / Sulla eco dell’infanzia / Scrivo il tuo nome. Gustave Courbet è il pittore francese che per primo usò il realismo pittorico in funzione polemica nei confronti della società del tempo. È la sua dichiarazione di libertà pittorica e nella sua pittura vediamo un diverso modo di vedere la donna, da non intendersi come uso, o se vogliamo, abuso dell’immagine, ma perché il pittore vuole descrivere una maggiore libertà acquisita dalla donna, il suo riconquistato


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Donna sullo scoglio, foto di Amanda Charchian

contatto con la natura, il suo piacere nel completo relax anche nei luoghi pubblici. Les demoiselles des bords de la Seine ne è la testimonianza. Sebbene apparentemente innocuo, questo dipinto fece scalpore per la crudezza con cui l'autore rende la quotidianità di queste due giovani ragazze, che sono sdraiate in modo scomposto in riva alla Senna. L’opera rappresenta anche la novità dei costumi. Ieri era Courbet, oggi è una donna a parlarci, attraverso le immagini, di donne che si lasciano fotografare senza grandi timidezze, libere di mostrare il proprio corpo. Amanda Charchian è scultrice, pittrice, fotografa di grande talento, nata e cresciuta a Los Angeles ma che ha viaggiato in tutto il mondo ritraendo donne in Islanda, a Cuba, in Israele, in Marocco e molti altri

posti. Gli scatti trasmettono indubbiamente una certa sensualità, ma, essendo il frutto di un punto di vista femminile, sono privi di stucchevole vulnerabilità. Guardandoli, si percepisce libertà e potenza. La sua famiglia lasciò la Persia quando questa stava diventando meno libera ma lei, contrariamente alle sorelle, nacque in America. L’artista coltiva sempre, nelle sue opere, la ricerca della libertà, quella che la sua famiglia aveva dovuto raggiungere altrove abbandonando il proprio paese, sempre attraverso l’arte. Ieri come oggi, dunque, la possibilità di poter vivere liberi e con dignità continua a creare spostamenti di masse da un paese all’altro, da un continente all’altro perché la parola Libertà è scritta nell’anima di ogni individuo. ❍

L’Antica Bottega di Felice nasce nel 1968, dalla più autentica tradizione contadina di cui Felice Malpassi è stato erede, capace di trasformare dalla terra e dagli allevamenti in cui è nato e cresciuto, con amore e passione, prodotti della gastronomia romagnola unici ed eccellenti.

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poesia e devozione

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Un Dante inedito nei chiostri e verso sera Vespri a San Vitale DI GUIDO SANI

Ravenna Festival quest’anno espande considerevolmente la programmazione giornaliera oltre gli eventi serali, con ben 120 nuovi appuntamenti, nell’arco di due mesi, dedicati a due icone della storia e della cultura ravennate: Dante – in tarda mattinata nei Chiostri Francescani adiacenti alla tomba del Poeta – e la basilica bizantina di San Vitale – verso sera, ospitando i Vespri, momenti di musica sacra e di devozione, vocale e strumentale. Quella su Dante Alighieri è una rassegna speciale di sessanta eventi che, giorno dopo giorno, (dalle 11 di mattina ) accompagneranno l’edizione 2016 per esplorare l’immaginario legato alla vita e all’opera del padre della lingua italiana, grazie a inedite connessioni fra diverse aree creative e di ricerca capaci di trasformare la divulgazione alta in partecipazione diffusa. Sono state 67 le domande pervenute per il bando lanciato lo scorso dicembre dal Festival per questo progetto promosso a Milano, Firenze e Roma in collaborazione con Università Cattolica del Sacro Cuore, Società Dantesca Italiana e Società Dante Alighieri. L’iniziativa, nell’incoraggiare il confronto e la collaborazione fra diverse realtà unite dal desiderio di creare spettacoli dedicati al Poeta, ha visto veterani dello spettacolo dal vivo accanto a giovanissimi gruppi costituiti per l’occasione, associazioni culturali e rappresentanti del mondo accademico, appassionati dell’opera dantesca e studenti liceali. La geografia dei progetti spazia in tutta Italia da Torino a Messina, da Udine a Venosa, da Bergamo a Napoli, con Roma, Milano e capofila Ravenna, e comprende anche idee di respiro internazionale provenienti da Francia e Germania. La trasversalità caratterizza i linguaggi proposti: dal teatro in tutte le sue declinazioni alla la danza, dalla musica dal vivo al canto. Ma non mancano soluzioni curiose che raccolgono le suggestioni dell’architettura, della scrittura creativa, della video arte... Dei 67 progetti esaminati dalla commissione, che ha visto la Direzione Artistica di Ravenna Festival affiancata dal professor Giuseppe Ledda dell’Università di Bologna, ne sono

Il soprintendente

De Rosa: «Il festival protagonista del turismo culturale a Ravenna» Un notevole impegno per il festival e una vasta e puntuale offerta di eventi per cittadini e visitatori di Ravenna durante il periodo del festival quella dei 120 appuntamenti suddivisi fra Dante e i Vespri a San Vitale «Si tratta di una grande innovazione perché risponde ad una esigenza di turismo culturale non più rinviabile – afferma il soprintendete del Festival Antonio De Rosa –. Significa offrire opportunità in diversi momenti della giornata legando gli spettacoli ai beni culturali. Le brevi performance mattutine ai Chiostri Francescani possono cogliere il massimo flusso di visitatori che potranno approfondire la conoscenza di Dante, con un biglietto simbolico da un euro. Lo stesso vale per i concerti dei Vespri a San Vitale che intreccia la visita alla basilica con un suggestivo momento musicale». «Abbiamo voluto immaginare un’iniziativa che percorresse tutto festival dall'inizio alla fine, addirittura anticipandolo di quasi due settimane – spiega De Rosa –, tenendo conto anche dell’importanza della destagionalizzazione del turismo. Crediamo sia uno stimolo importante anche per quanto riguarda la permanenza del turista, magari incentivato ad arrivare prima dello spettacolo serale per godersi la città e l'evento mattutino per restare anche una parte del giorno dopo. È una formula che rafforza anche il clima festivaliero che si respira nell'arco di quasi due mesi in città e d'altra parte coinvolge energie creative giovani, soprattutto per il progetto dedicato a Dante, che ci piacerebbe proseguire fino alle celebrazioni del 2021. Ma non è l'unica novità – rivela infine il soprintendente –: stiamo preparando un nuovo sito web che vedrà la luce all'inizio del festival. E poi riprenderemo in mano il tema dell'arredo urbano perché vogliamo che i tre eventi giornalieri del festival siano accompagnati da un'adeguata visibilità in centro storico. Che significa far vivere di più il festival alla città. Infine, stiamo lavorando con il sistema alberghiero in regione per facilitare informazioni e prenotazioni degli spettacoli del festival nelle reception di diversi hotel e altri punti di accoglienza fra Bologna e Rimini».

stati selezionati 6 che si sono distinti per l’originalità della proposta artistica e la promessa di reinterpretare la materia dantesca con freschezza. Il primo di questi appuntamenti è Searching for Paradise, il progetto su “due ruote” del collettivo artistico fiorentino inQuanto teatro, che propone un racconto poetico e originale per grandi e piccini sulla nostalgia e sul desiderio di ritrovare il paradiso, portato sulla scena di un piccolo teatro di legno, ispirato ai “teatri di carta” della tradizione giapponese del kamishibai, montato a bordo di una bicicletta che arriverà ai Chiostri dal 20 al 26 maggio. Dalle suggestioni del lontano Oriente a quelle della filologia, con gli appuntamenti di Deh peregrini che pensosi andate, lo spettacolo che dal 27 maggio al 2 giugno vedrà l’ensemble di musica medievale La Lauzeta (di Reggio Emilia) proporre in un suggestivo itinerario le parole del Boccaccio (dal Trattatello in laude di Dante) e brani dal manoscritto di Londra (coeva al testo del Boccaccio). Dal 19 al 23 giugno è invece la Compagnia Raffaele Irace a guidarci, con Daemones, in un viaggio tra demoni, mostri e ibridi dell’Inferno dantesco – dalle Arpie al Minotauro, da Malacoda alla banda dei diavoli Malebranche – con musiche e danze a svelare il meraviglioso mondo di >>


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poesia e devozione Ravenna Festival Magazine 2016

Persefone dove bellezza, dannazione e poesia convivono. Il 13 settembre 1321, data della morte di Dante Alighieri a Ravenna, è il perno attorno a cui ruota la creazione (in scena dal 24 al 30 giugno) di Daf Teatro dell’esatta fantasia, gruppo di Messina che ha collaborato con la scuola del Piccolo Teatro di Milano e portato in scena spettacoli in molti teatri italiani (dal Carignano di Torino all’Eliseo di Roma). Di nuovo l’inferno protagonista con il progetto del gruppo bolognese Kepler452, ma un inferno «che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme» nelle parole di Italo Calvino: L’inferno dei viventi è prima di tutto un laboratorio per giovani under 30, cui sarà chiesto di costruire alcuni spazi infernali e abitarli, a partire dalla propria personale visione. Le creazioni e performance nate da quest’esperienza saranno proposte ai Chiostri dall’1 al 7 luglio. A concludere l’intera rassegna LetteralMente Divina che dall’8 al 13 luglio ripercorrerà alcuni degli incontri chiave della Commedia – quelli con Francesca, Ulisse e Ugolino – trascinando il pubblico nelle parole, nei ritmi e nelle immagini del capolavoro, fino alla creazione di un coinvolgente canto

comune. Ideatore e regista del progetto Marco Di Giorgio, formatosi alla scuola del Piccolo Teatro di Milano, che avrà come protagonista l’arpista Dora Scapolatempore. Il calendario degli appuntamenti ai Chiostri Francescani incrocia, come per quello dei Vespri a San Vitale, prestigiose partecipazioni come quella di Giovanni Sollima e dei suoi 100Cellos e quella del Cape Town Opera Chorus. Il 10 giugno, unica data e quindi occasione imperdibile, si esibiranno ai Chiostri le voci dal Sudafrica del coro impegnato al Teatro Alighieri per la straordinaria produzione di Mandela Trilogy. Dall’11 al 18 giugno saranno invece le incursioni di solisti e gruppi di violoncellisti del progetto Cellolandia ad animare le mattine del Festival con partecipazioni illustri dallo stesso Giovanni Sollima a Ernst Reijseger e Massimo Polidori, ma anche la vivacità di giovani e giovanissimi violoncellisti, tra sonate e improvvisazioni. Il programma della rassegna si completa inoltre con due commissioni dirette ad artisti che hanno già collaborato con il Festival in molte occasioni. L’apertura della rassegna, dal 13 maggio al 19 giugno, è stata infatti affidata ad Elena Sartori e i suoi Melodi Cantores, in questo caso affiancati da

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poesia e devozione

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Ravenna Festival Magazine 2016

Franco Costantini: il percorso di canti e letture Cantica dantesca evocherà le figure femminili amate e celebrate dal Poeta, attraverso i repertori gotici probabilmente ascoltati da Dante stesso a Firenze e Ravenna. Dal 3 al 9 giugno con Nova vita il gruppo Anime Specchianti, nato dall’esperienza dei Danzactori di Ravenna Festival che tante produzioni d’opera e non hanno accompagnato in questi ultimi anni, si lascerà guidare dalle parole di Dante, con quelle di alcuni Santi del nostro tempo, fuori dalla selva oscura, in un’esibizione sospesa fra danza, canto e teatro. Saranno invece accessibili al pubblico per l’intero periodo, dal 13 maggio al 13 luglio, le installazioni ideate dai ravennati Ukiyo-e project e Orthographe. Il primo, un progetto di Luca Maria Baldini e Silvia Bigi, proporrà l’installazione sonora Matelda – un paio di cuffie per condurre lo spettatore in un viaggio simbolico nel mondo dell’invisibile, mentre il secondo, con Ars Umbratica, collocherà un sistema di specchi – ideato e da Alessandro Panzavolta – che con un gioco di luce riflessa comporrà sulle pareti del chiostro terzine scelte dalla Divina Commedia. La rassegna dei Vespri nasce per offri-

La Basilica di San Vitale accoglierà dal 13 maggio sessanta appuntamenti, ogni sera alle 19, con i Vespri: momenti di musica sacra corale e strumentale re quotidianamente, dal 13 maggio al 13 luglio (alle ore 19), ai visitatori della Basilica di San Vitale una nuova prospettiva, quella di poter ascoltare capolavori della storia della musica in un ambiente pensato per la loro esecuzione. Il primo appuntamento vedrà impegnati dal 13 al 19 maggio i Melodi Cantores, diretti dalla ravennate Elena Sartori, che eseguiranno il Vespero delle Cinque Laudate ad uso della cappella di San Marco. Questa composizione venne pubblicata un anno prima della morte del suo creatore, il musicista cremasco Francesco Cavalli, attivo a Venezia nel XVII secolo e pupillo del famoso Claudio Monteverdi, maestro di cappella della basilica marciana. Il secondo appuntamento, dal 20 al 26 maggio, vede il Gioiosa Ensemble cimentarsi nelle sonate a tre op.1 di Arcangelo Corelli, primo esempio di perfezione compositiva del violinista fusignanese. La sospensione dell’aderenza all’esecuzione storicamente informata evidenziata in questa setti-

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mana corelliana, di contro assai osservata in questa rassegna sacra, è da ricondurre ad una valorizzazione dei talenti del Gioiosa Ensemble, cresciuti in seno all’Orchestra Cherubini. Dal 27 maggio al 2 giugno sarà la volta del controtenore lughese Carlo Vistoli, che, insieme al tiorbista Fabiano Merlante, alla gambista Rosita Ippolito e all’organista ravennate Marina Scaioli, riempiranno la basilica con le note di Henry Purcell, di Alessandro Stradella e di Dietrich Buxtehude. Uno spazio tutto al femminile sarà dedicato dal 3 al 10 giugno quando l’Ensembe Korymbos eseguirà tre programmi differenti che vedranno, oltre al coro la partecipazione di arpa gotica e vielle. Questo repertorio sacro è stato recuperato da manoscritti risalenti al XIII e XIV secolo quando animare una liturgia col canto gregoriano non era un evento, ma la prassi. Nella settimana dell’invasione violoncellistica al Festival saranno proprio i 100 cellos, dall’11 al 18 giugno, ad occuparsi dei vespri a San Vitale. Ogni

sera si potrà ascoltare un modo diverso di intendere il vespro, dalle improvvisazioni su temi sacri di Giovanni Sollima ed Enrico Melozzi, alla Sesta suite per violoncello solo di Johann Sebastian Bach eseguita dal faentino Mauro Valli. Nel descrivere i vespri dal 19 al 23 giugno il condirettore artistico del festival Angelo Nicastro usa l’aggettivo «semplicità» giacché in questo appuntamento saranno impegnati i giovani talenti del Coro di voci bianche Ludus Vocalis, diretti da Elisabetta Agostini. Le musiche eseguite spazieranno da Johann Sebastian Bach e Andrew Lloyd Weber. Dal 24 al 30, invece, sarà il coro senior, il Ludus Vocalis, diretto da Stefano Sintoni, ad eseguire brani di compositori attivi a Ravenna tra il XVI ed il XVII secolo. Dall’1 al 7 luglio vi sarà spazio per la devozione mariana grazie al Gruppo Lumen Luminum, nato grazie agli insegnamenti dell’Ensemble La Reverdie, che eseguirà mottetti, laude ed inni di autori del XIII secolo. Chiuderà la rassegna l’impegno, dall’8 al 13 luglio, dell’organista Andrea Berardi, prosecutore della grande scuola organistica ravennate di don Gino Bartolucci. ❍

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Grandi maestri

classica, sacra, contemporanea

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Ravenna Festival Magazine 2016

Sul podio Muti, Nagano, Harding, Fischer e Uchida al piano solo DI ENRICO

GRAMIGNA

Come di consueto, Ravenna si accinge ad ospitare una lunga serie di concerti e performance che la renderanno caput mundi di tutto l’universo musicale. La cifra caratteristica del festival è di aver sempre portato in Romagna artisti di caratura mondiale e, ancor di più, va detto che la vera punta di diamante del festival è sempre stata l’offerta di musica orchestrale. Compagini tra le più prestigiose e bacchette importantissime si sono avvicendate sui palcoscenici del festival ed in questa ventiseesima edizione sarà proprio il padrone di casa, il maestro Riccardo Muti, alla guida dell’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, che darà il la alle celebrazioni, il 4 giugno, dirigendo uno dei programmi da concerto più noti al grande pubblico: la Sinfonia N.8 Incompiuta di Schubert e la Sinfonia N.5 di Beethoven. L’ordine del programma non è certo casuale, infatti, se dalle pagine schubertiane emer-

Riccardo Muti alla guida della Cherubini

ge un’esegesi della vita in continua lotta tra il dolore e l’amore, come afferma l’autore stesso nei suoi diari, nell’opera beethoveniana la dicotomia è ancor più netta, dove a momenti di lirico idillio si contrappongono titanici contrasti che sfociano però nella vittoria della ragione sintomo di quel positivismo che stava già dilagando ad inizio ‘800. Il secondo concerto che vedrà il maestro Muti sul podio ravennate sarà, il 3 luglio, per l’ormai consueto appuntamento Le vie dell’Amicizia: Ravenna-Tokyo. Proprio quest’anno, infatti, ricorre il 150° anniversario delle relazioni tra Italia e Giappone. Dopo i successi nipponici, sarà Ravenna ad ospitare la Tokyo Harusai Festival Orchestra, a cui, oltre alla giovane Cherubini, si uniranno il Coro del Teatro Petruzzelli di Bari, il Coro del Friuli Venezia Giulia ed il Coro di Voci Bianche dell’Accademia del Teatro alla Scala. In questa moltitudine vi sarà spazio anche per il basso

Ildar Adbrazakov che canterà la difficile aria Oltre quel limite dall’Attila di Giuseppe Verdi. Il programma dedicato al maestro emiliano si completerà con le sinfonie dal Nabucco, dalla Forza del Destino, il coro della processione da I lombardi alla prima crociata per concludersi con il prologo dal Mefistofele di Arrigo Boito che tanta parte del successo di numerose opere verdiane ebbe in virtù del suo pregevole lavoro di librettista. La scelta di queste pagine per questo concerto che lega Italia e Giappone sembra oscuro solo in apparenza, tuttavia è bene rammentare che mentre per l’Italia Verdi, e l’opera tutta, sono patrimonio nazionale, emblema vivo del risorgimento, per il Giappone è espressione di vera ed autentica passione. Certo questo sarà un concerto imperdibile per tutti coloro che amano l’opera romantica, diretta dalla migliore bacchetta al mondo nel repertorio verdiano. L’ultimo appuntamento con

l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini e Riccardo Muti, il 5 luglio, vedrà protagonista David McGill, storico primo fagotto della Chicago Symphony Orchestra. Il programma di questo concerto si preannuncia gustoso e sorprendente: il primo brano in programma sarà la Sinfonia N.35 Haffner di Mozart. La genesi di questa composizione è quantomeno peculiare, infatti Mozart ricevette >>


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Grandi maestri

classica, sacra, contemporanea

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Ivan Fischer

l’incarico di scrivere, nel 1782, una serenata per la cerimonia di nobilitazione di Sigmund Haffner, figlio del defunto bürgmeister di Salisburgo, tuttavia da fonti certe è noto che questa commissione non fu completata in tempo; l’anno successivo Mozart rimise mano alla serenata togliendo la marcia iniziale ed il secondo minuetto ampliando, invece, l’organico orchestrale modellando così una delle sue poche sinfonie del periodo viennese, così prolifico, tuttavia, di concerti per pianoforte e musica da camera. A questa sinfonia seguirà il Concerto per fagotto, unica opera per que-

Quartetto Lyskamm

Natsuko Uchida

sto strumento del genio salisburghese, nel quale l’elemento dello stile galante è la cifra caratteristica, essendo egli venuto a contatto proprio nel periodo di composizione di questo concerto con le opere di Haydn e soprattutto Carl Philipp Emanuel Bach, principale esponente di questo stile che tanta fortuna ebbe nella metà del XVIII secolo. Chiuderà il concerto un’opera riscoperta recentemente tra i manoscritti della biblioteca del Conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli. La Fantasia per fagotto su vari temi del Trovatore del Maestro Giuseppe Verdi di Francesco Cappa è quel

genere di composizione che tanto successo ebbe nei concerti di metà ‘800: prendere i temi più fortunati delle opere più note e dar loro una veste orchestrale era una prassi e una buona garanzia di successo. Questa particolare opera debuttò nel Collegio di Musica il 2 febbraio 1854 sotto la direzione del celebre maestro Saverio Mercadante e vide nelle vesti di solista Filippo Acunzo. Sfortunatamente le notizie biografiche riguardo al compositore sono quasi inesistenti, tuttavia altre sue opere dello stesso tipo sono state ritrovate nella Biblioteca del San Pietro a

Majella e la coincidenza che esse siano state scritte sotto la direzione dello stesso Mercadante lasciano pensare che Cappa ne fosse un dotato allievo. Saranno altri 4 gli appuntamenti che il Ravenna Festival 2016 avrà con l’orchestra. Il primo ospite, il 10 giugno, sarà l’ungherese Ivan Fischer alla guida della sua Budapest Festival Orchestra, fondata 33 anni or sono. Il programma della serata vedrà protagonista l’anima orientale della musica europea, incline al nuovo ma con radici profonde nella tradizione: aprirà il concerto la suite Jeu de >>

Daniel Harding


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Grandi maestri

classica, sacra, contemporanea

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Cartes di Stravinskij, opera del periodo neoclassico del compositore russo, che si concluderà con la Sinfonia N.8 di Dvořák, vertice dell’influenza boema nella scrittura sinfonica del compositore. Tra queste due pagine il pianista ungherese Dénes Várjon eseguirà il Concerto N.2 di Liszt, chiamato dal compositore stesso Concert symphonique proprio per la grande rilevanza che l’orchestra assume nell’opera, non semplice corollario al solista, ma vero e proprio essere senziente che con esso combatte e dialoga. Il 19 giugno sarà la volta della Mahler Chamber Orchestra, compagine che si definisce “nomade”, ossia senza una sede fissa, che festeggerà nel 2017 i 20 anni dalla fondazione, diretta dall’inglese Daniel Harding, giovane promessa mantenuta della direzione. Il concerto, come il divino Giano, ha due facce: la prima parte sarà dedicata all’avanguardia con l’esecuzione di Intégrales di Varèse, composizione per percussioni e piccola orchestra, e la prima italiana del Concerto per tromba e orchestra di Turnage, commissionato proprio dall’orchestra ed eseguito da Håkan Hardenberger, magnifico

trombettista avvezzo sia al repertorio tradizionale sia alle nuove composizioni. La tradizione concluderà, invece, la serata con la Sinfonia N.4 di Beethoven, parentesi di serenità nella produzione sinfonica del genio di Bonn, la cui unica deroga alla vivacità si trova nel lungo adagio iniziale, caratterizzato da una continua tensione irrisolta, topos musicale del compositore di Bonn. Il concerto in scena l’1 luglio sarà, invece, un’anticipazione della Trilogia d’autunno. Il Gran Galà del Danubio vedrà l’Orchestra da camera MAV, una tra le più prestigiose compagini ungheresi, affiancare i giovani concorrenti di un talent show sui generis: invece di cuochi o cantanti esso ricerca la bravura musicale tra gli strumentisti classici. Sarà quindi interessante vedere come il direttore Támas Vásáry si districherà tra i giovani talenti e le due belle voci liriche del soprano Eva Lind e del mezzosoprano Andrea Edina Ulbrich che saliranno sul palco del Teatro Alighieri. Ultima compagine orchestrale che si esibirà al festival sarà, l’11 luglio, l’Hamburg Philharmonic diretta dallo statunitense Kent

Nagano. Il giovanissimo Martin Helmchen romperà il ghiaccio con il Concerto N.4 per pianoforte di Beethoven a cui seguirà la Sinfonia N.6 di Bruckner. A ben vedere questo programma, per quanto parto di due esponenti del titanismo ottocentesco, si nutre di quell’ingenua intimità, a tratti rilucente ma mai muscolare, che cesella e non scolpisce, che si nutre del suono dell’orchestra senza esasperarne gli accenti, ma evidenziando la grazia e l’eleganza. Non di sola orchestra, però, vive il festival. In questo solco s’inseriscono i concerti dedicati alle delicate sonorità cameristiche. Il primo di essi sarà il recital pianistico di Mitsuko Uchida, il 1 giugno, nel quale la celebre pianista giapponese eseguirà il Rondo in la minore K511 di Mozart prima di gettarsi sull’autore da lei prediletto, Schubert, nell’esecuzione dell’integrale degli Impromtus, brani musicali di breve durata che si imposero nel movimento artistico chiamato Biedermeier, assai in voga durante il crepuscolo della prima scuola di Vienna. Il quartetto sarà il protagonista del secondo appuntamento

cameristico. Questa formazione è da sempre il banco di prova più arduo sia per i compositori, per l’essenzialità e la necessità di perfezione compositiva che richiede, sia per i musicisti, tanto che si è addirittura arrivati a idealizzare il quartetto come uno strumento unico dotato di sedici corde. I riflettori saranno, quindi, puntati sul Quartetto Lyskamm, gruppo italiano fondato nel 2008 in seno al Conservatorio di Milano che eseguirà il Quartetto N.4 Sz91 di Bartók, vertice della maestria del compositore ungherese nell’utilizzo totale della tavolozza timbrica dei quattro archi, seguito dal celeberrimo Adagio e fuga K 546 di Mozart, saggio di tecnica contrappuntistica derivato direttamente dal profondo studio della vertiginosa produzione bachiana. Chiuderà il concerto il Quartetto di Verdi, unico esempio di questo genere di composizione nella produzione del Cigno di Busseto: in essa riecheggiano i colori operistici delle più note composizioni verdiane ed a buon diritto si può considerare l’anello di congiunzione tra l’opera lirica e la musica da camera italiana. ❍

Kent Nagano


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Ponte culturale

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Lungo le vie dell’amicizia alla scoperta del Sol Levante DI CHIARA BISSI

Come ogni anno nel programma del Festival è possibile seguire percorsi musicali inediti, rintracciare proposte nell’alveo della tradizione e trovare le ragioni di nuove aperture verso il mondo. In quest’ultimo ambito si colloca il Viaggio dell’Amicizia, che ha avuto come meta il Giappone, nell’anno in cui si celebra il 150° anniversario delle relazioni fra Italia e Giappone. Nel mese di marzo Riccardo Muti e l’orchestra Cherubini sono volati a Tokyo per unirsi alla Harusai Festival Orchestra. Gli stessi musicisti si ritroveranno il 3 luglio a Ravenna per il grande concerto nel segno di Verdi. Nel programma da ricordare lo spettacolo di danza butoh Utsushi del coreografo e regista Ushio Amagatsu, il 14 giugno e il recital al pianoforte di Mitsuko Uchida, il primo giugno. Per capire il senso profondo del legame fra Italia e Giappone e le intense relazioni culturali esistenti fra i due paesi, giova ascoltare il racconto del ravennate Marco Del Bene, dal 2008 professore associato di Storia del Giappone moderno e contemporaneo all’Istituto italiano di studi Orientali dell’università La Sapienza di Roma, nonché presidente dell’associazione Italia – Giappone di Ravenna e direttore della rassegna ravennate “Ottobre giapponese”. La sorprende che proprio Ravenna con il festival dia un contributo importante alle celebrazione 150 anni di relazioni Italia Giappone? «La cosa mi rende felice. Festeggiare questo anniversario è un momento importante. Italia e Giappone sono legate da un destino storico». In che senso? «Sono due paesi che ricostruiscono la propria unità e identità nazionale negli stessi anni, 1861 il primo e 1867 il secondo. Ed è in quegli anni che si sviluppa anche un intenso legame commerciale. Sono due paesi giovani, uno ancora in fase feudale sull’orlo di una guerra civile e l’Italia riunificata dalle lotte risorgimentali. In quegli anni l’Europa fu colpita da una epidemia di pebrina, malattia che colpisce i bachi da seta. I setaioli italiani alla ricerca di uova per ripopolare gli allevamenti raggiunsero il Giappone, che

divenne il fornitore principale del cosiddetto “semebachi”. Anche dopo la restaurazione del 1867, tale commercio fu per diversi anni una tra le voci più importanti dell’export giapponese. La prima missione in Giappone dell’Italia unitaria è proprio per tutelare quel commercio. Ma ci sono altri elementi che avvicinano i due paesi». Quali ad esempio? «L’attività missionaria molto diffusa dopo la scomparsa dei bandi imperiali di prescrizione verso la religione cristiana. Da ricordare l’esperienza del missionario faentino don Vincenzo Cimatti che compone un’opera sul martirio dei cristiani. E poi c’è la Costituzione giapponese del 1889, la prima di tipo europeo in Asia, nella struttura assai simile allo Statuto Albertino. Entrambi i paesi si gettano nell’avventura coloniale con ritardo. Poi negli anni Trenta il legame si tramuta in una vicinanza tra regimi tota-

litari di stampo fascista. All’inizio del Novecento maturano influenze culturali anche in campo musicale, si pensi a Puccini, alla dimenticata Iris di Mascagni, autore che studia la melodia e gli strumenti della tradizione giapponese». Come sarà l’incontro con la cultura italiana? «Felice e appassionato, tanto che la diffusione della musica della tradizione colta europea metterà a rischio la sopravvivenza della musica giapponese. L’ascolto delle composizioni e lo studio della “nostra” notazione entrano nei programmi scolastici e come avvenne anche in Italia, la musica divenne un veicolo di costruzione dell’identità nazionale. La prima accademia di belle arti di Tokio ha nel proprio organico insegnanti italiani, tra cui Fontanesi, Ragusa. Un altro italiano, Chiossone, fu assunto alla zecca dello stato del Giappone.

Quest’ultimo realizzerò persino l’immagine ufficiale dell’imperatore Meiji. Ugualmente in Italia negli anni a cavallo della Prima guerra mondiale la cattedra di giapponese all’Istituto Orientale di Napoli, fu tenuta da Shimoi Harukichi, poeta e “mediatore culturale” tra i due Paesi, che divenne amico di D’Annunzio, legionario ad honorem e poi ammiratore del fascismo e del Duce». Si può dire che la musica è stato un elemento importante per la diffusione della cultura italiana? «Sì certo. Tokio è la città con più teatri dedicati alla musica colta europea dell’estremo Oriente. Riccardo Muti rappresenta un’eccellenza mondiale, e in Giappone è naturalmente assai apprezzato. Ne è ennesima dimostrazione il successo della tournée dei mesi scorsi. La passione per la musica classica della tradizione colta europea è tale da oscurare in una certa misura lo studio delle tradizioni locali. Dopo il tragico epilogo della Seconda guerra mondiale, dagli anni Cinquanta le relazioni culturali passeranno anche attraverso il cinema, grazie al lavoro di Giuliana Stramigioli, che farà conoscere l’opera di Kurosawa al mondo, selezionando Rashomon per il festival di Venezia nel 1951 – ma anche il cinema del neorealismo italiano in Giappone – e terrà in seguito la cattedra di Lingua e Letteratura Giapponese a La Sapienza. Impossibile riassumere in poche parole anche l’esperienza di Fosco Maraini, padre di Dacia, che coltivò rapporti profondissimi con il Giappone, dagli anni Trenta del Novecento fino alla morte. Poi la svolta negli anni Settanta e Ottanta con la moda di manga e anime in Italia e il boom della cucina italiana in Giappone. Spaghetti, pizza e pomodori pelati sono entrati di fatto nelle abitudini alimentari dei giapponesi». Ma come è cambiata la percezione dell’Italia invece? «Per lungo tempo ha dominato un’idea un po’ riduttiva dell’Italia come il paese solare della Dolce vita, nel quale tutti sanno godere dell’arte, della cultura e della buona cucina. Una sorta di alter ego del Giappone. Così al contrario l’interesse per i car>>


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Ponte culturale Ravenna Festival Magazine 2016

Danza contemporanea

Con Utsushi, va in scena il nuovo butoh di Amagatsu Ushio Martedì 14 giugno (alle 21.30), sul palcoscenico del Pala De André va in scena la più importante compagnia giapponese di danza butoh, Sankai Juku, fondata nel 1975 e diretta da Amagatsu Ushio, che proporrà lo spettacolo Utsushi. Il butoh è un genere di danza contemporanea nata in Giappone negli anni ‘50 del Novecento, giocata su registri grotteschi e movenze ora ipnotiche ora convulse. Erede di seconda generazione del butoh dei maestri Tatsumi Hijikata e Kazuo Ohno, Amagatsu – con la sua compagnia tutta al maschile – esporta quell’immaginario drammatico del Giappone post-Hiroshima, fatto di crani rasati, corpi talcati e movimenti sinuosi, spaziando dalla prima creazione Kinkan Shonen del 1978 a Toki del 2005, arrivando infine a tessere la nuova trama di Utsushi in cui apre una nuova porta, grazie alla quale si può ammirare e sentire la bellezza della vita, della natura e dell’arte.

toni animati e il fumetto giapponesi e per tutta la sottocultura di quel paese ha prodotto una corrispondente fioritura in Italia, con la diffusione di parole e stili prettamente nipponici come otaku o cosplayer. Rappresentazioni reciproche spesso immaginarie, anche se il confronto con la realtà del Giappone restituisce un’idea diversa, nel bene e nel male…». E infine Ravenna. Come giudica la risposta della città nei confronti delle attività proposte dall’associazione Italia Giappone? «Si è trattato di una scommessa, un’idea di nicchia se vogliamo, ma da 14 anni ci

muoviamo in tutto il territorio provinciale, portando la fascinazione per questa cultura, di fatto distante e allo stesso tempo vicina grazie a profondi elementi di contatto. Con l’aiuto di Ravenna Festival negli anni abbiamo portato una serie di spettacoli importanti come la danza kabuki o la musica imperiale di corte gagaku. Diciamo che nel tempo sono state poste le basi per un interesse che quest’anno raggiunge vette davvero insperate». ❍ Nella pagina precedente, la serie speciale di francobolli dedicati a Muti e Verdi, in occasione della recente tournée in Giappone. In alto, i giovani dell’orchestra Cherubini con i colleghi giapponesi mentre provano a Tokio.

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Trilogia d’Autunno

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Ravenna Festival Magazine 2016

Canti e danze sull’onda del Danubio Il Ravenna Festival 2016 estende, come ormai consuetudine, le sue sonore propaggini grazie alla rassegna d’ottobre Trilogia d’autunno, quest’anno dedicata alla musica nata sulle sponde del Danubio. In questa occasione il pubblico ravennate potrà scoprire i tesori della musica che risuonavano nella Vienna austro-ungarica e che trasformeranno, dal 14 al 20 ottobre, il teatro Alighieri nel Theater an der Wien, storico teatro della capitale imperiale; sarà, infatti, l’operetta la vera protagonista della trilogia. Questo genere musicale, nato in Francia a metà ‘800 anche grazie al genio di Jacques Offenbach, riscosse moltissimo successo, specie tra la borghesia austriaca e parigina di fin de siècle, sia per l’alternanza tra parti cantate e parlate sia per l’argomento sentimentale e di facile godibilità; è, tuttavia, l’aspetto coreogra-

fico che costituisce il vero centro dell’operetta, tanto da risultarne il più importante punto di forza. Il primo dei tre titoli in cartellone sarà Gräfin Mariza (La contessa Maritza), composta nel 1924 dall’ungherese Emmerich Kálmán, la cui trama gioca sull’amore che la contessa nutre per un fattore che si rivelerà essere il conte Tassilo. Del celebre Johann Strauss figlio la seconda operetta in programma, Die Fledermaus (Il Pipistrello), composta in soli 43 giorni per diventare il capolavoro indiscusso del genere. Nonostante Strauss fosse stato avviato ad una carriera da bancario, alla fine egli scelse di seguire le orme paterne e di realizzare la profezia di Offenbach, il quale gli aveva preannunciato fortuna come compositore di operette. Di origine ungherese anche Franz Lehár, compositore dell’ultima ope-

retta in programma, la celebre Die lustige Witwe (La vedova allegra), rappresentata a Vienna nel 1905 con grande successo. Il grande numero di personaggi e situazioni in gioco in questa composizione è specchio della grande orchestra richiesta per l’esecuzione, una vera novità nel genere per l’epoca. Di questa settimana di operetta sarà protagonista assoluto il direttore Daniel SomogyToth che sarà chiamato a gestire le produzioni di tre tra i teatri più importanti dell’Ungheria, il Teatro Operetta Budapest, il Teatro Csokonai di Debrecen ed il Teatro di

Szeged. Come ultimo afflato per questa rassegna autunnale, ci sarà la possibilità, dal 20 al 23 ottobre, di ascoltare in vari luoghi della città musica tzigana eseguita dall’Orchestra Tzigana Ungherese e dalla Banda Cittadina di Ravenna e Banda città di Russi prima del concerto finale il 23 ottobre, al teatro Alighieri, de I 100 violini tzigani che uniranno alla tradizione operettistica pagine tra le più scintillanti della produzione musicale italiana in un concerto che sarà vero emblema dell’universalità del linguaggio musicale. ❍


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Fra Rinascimento e Barocco

classica, sacra, contemporanea

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Da Palestrina a Pärt passando per Vivaldi

Celesti armonie sulle

sacre corde

La Magnifica Comunità

DI

ENRICO GRAMIGNA

Stabat mater dolorosa, iuxta crucem lacrimosa dum pendebat filius. Con queste parole si apre la sequenza attribuita a Jacopone da Todi scritta per le celebrazioni del venerdì santo. Nel corso del Concilio di Trento molte tra le sequenze che adornavano le liturgie subirono un grande ridimensionamento, tuttavia questa non ebbe la stessa sventura tanto da essere, anzi, presa a modello dai musicisti. Tra gli Stabat Mater più importanti, per tacer di quello di Pergolesi, basti pensare all’impegno profuso da Haydn, Rossini, Dvorak, Verdi, solo per citare i più noti. È stato, tuttavia, nel periodo che va dal Rinascimento al Barocco che l’inno riscosse più successo tra i musicisti: in questo periodo assistiamo ad una vera fioritura com-

positiva che vede tra i suoi gigli più belli l’opera di Vivaldi. Lo Stabat Mater RV 621 è manifesto della retorica barocca imperniata su quella che verrà poi chiamata Affektenlehre (teoria degli affetti) e che progressivamente verrà abbandonata nel classicismo, benché sia rintracciabile ancora nelle composizioni mozartiane. Il 29 giugno Soqquadro Italiano sarà in scena sul palco del Teatro Rasi con uno spettacolo nato dall’incontro della musica vivaldiana con la danza come a recuperare l’anima barocca della composizione, volta al maraviglioso. Protagonista indiscusso di questo appuntamento sarà il ballerino e cantante Vincenzo Capezzuto, autentica rappresentazione di eccellenza in entrambe le arti, che danzerà sulle idee del neodirettore del corpo di ballo >>

Soqquadro Italiano


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Fra Rinascimento e Barocco

classica, sacra, contemporanea

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Ravenna Festival Magazine 2016

alla Scala Mauro Bigonzetti per la drammaturgia di Claudio Borgianni. Poco lontano da Ravenna, nella Chiesa di San Giacomo a Forlì il 16 giugno, La Magnifica Comunità diretta dal violinista Enrico Casazza sarà impegnata, insieme al mezzosoprano Romina Basso, in un programma dal titolo evocativo, Sacre Corde, dedicato a tre compositori che fecero la storia del primo ‘700. Il concerto si aprirà con la breve antifona In coelestibus regni di Pergolesi per poi dedicare ampio spazio alle composizioni di Vivaldi. Del compositore veneziano saranno eseguiti il Concerto per violino Per la Santissima Assunzione di Maria Vergine, caratteristico per la sua scrittura orchestrale a doppio coro, il Concerto per violino Per la Solennità della Santa Lingua di Sant’Antonio in Pauda, uno dei vertici massimi del virtuosismo violinistico vivaldiano, e, infine, il mottetto per voce, archi e continuo Longe mala umbrae terrores, composto da un’aria ed un recitativo, come a lasciare sospeso un discorso che può essere chiuso solo con l’esecuzione del Gloria RV 589 per il quale fu pensato come introduzione. Chiuderà il programma del concerto il celebre Salve Regina di Porpora, compositore a torto poco eseguito nelle sale da concerto, che assurge a vero capolavoro del musicista napoletano. In queste pagine la voce della cantante, impegnata in mille volute, viene progressivamente liberata dalla gravità per adempiere alla

funzione di messaggero in grado di collegare l’Uomo a Dio. Evento di grande importanza sarà il concerto di The Tallis Scholars, ensemble vocale inglese tra i più importanti per quel che concerne l’interpretazione della musica rinascimentale. Tra i brani che saranno eseguiti spicca una presenza massiccia di composizioni del contemporaneo Pärt, esponente estone di quella corrente musicale che ricade sotto l’etichetta dei minimalismo, ma vi sarà ampio spazio anche per la musica quattro-cinquecentesca rappresentata da compositori quali Palestrina e gli inglesi Sheppard, Byrd, Taverner e Tallis, da cui il gruppo mutua il nome. Sarà eseguito, inoltre, il celebre Miserere di Allegri, composizione ritenuta talmente sacra dai Papi da prescrivere la scomunica a chiunque facesse trapelare al di fuori della Cappella Sistina anche un singolo foglio dello spartito. La storia diventa qui leggenda quando, nel 1770, un quattordicenne Mozart dopo aver ascoltato un’esecuzione del brano a Roma, lo trascrisse a memoria, dando il via al processo di caduta della minaccia di scomunica che ad esso era legata. Un altro coro inglese sarà protagonista dell’appuntamento del 4 luglio quando i giovani componenti del Westminster Cathedral Boys Choir si esibiranno insieme all’organista Peter Stevens, diretti da Martin Baker. Ormai una consolidata tradizione vuole che questi giovani coristi siano selezionati direttamente in seno alla

The Westminster Cathedral Boys Choir

scuola maschile della cattedrale londinese e ne animino quotidianamente l’ufficio. Il repertorio del concerto spazierà dalla polifonia rinascimentale di Crivelli fino all’avanguardia britannica di Holst. Di particolare rilevanza è l’attenzione per i compositori inglesi che a torto vengono etichettati dai direttori artistici dei teatri come di seconda fascia; Purcell tra tutti ne è un esempio sfolgorante, dimenticato per secoli, solo negli ultimi cento anni è stato riscoperto, dando nuovo slancio alla scuola britannica. Prima dell’avvento di Händel era stato proprio Purcell a cercare, e trovare, una via

inglese per l’opera, tuttavia la sua prematura scomparsa a soli 36 anni ne troncò sul nascere lo sviluppo. Esempio unico di questa produzione pervenuto ai nostri giorni è la celebre Dido and Aeneas, opera in lingua inglese e lontana dal gusto del barocco italiano, le cui ascendenze vanno ricercate nelle sonorità della musica francese e dei consort di viole da gamba, strumento molto in voga sulle sponde della Manica nel XVII secolo. La rassegna In templo Domini permetterà di partecipare ogni domenica, per tutta la durata del festival, a liturgie animate dai più importanti gruppi corali mondiali. Il primo appuntamento sarà il 5 giugno, nella Basilica di San Francesco, con Alessandra Fiori e l’Ensemble Korymbos, gruppo corale composto da sole donne: questo ensemble si pone come obiettivo quello di esplorare il confine tra la musica antica e quella popolare. Saranno eseguite le musiche contenute nel manoscritto Q.11, conservato al Museo delle Musica di Bologna. In esso sono vergati brani risalenti alla fine del XIII secolo dedicati alle voci femminili, documenti di eccezionale rarità, probabilmente composti per monache che accompagnavano col canto i loro momenti di preghiera all’interno dei monasteri. Nel manoscritto si trovano musiche sia monodiche sia polifoniche che si rifanno direttamente allo stile del canto gregoriano, ma che nel


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classica, sacra, contemporanea

Fra Rinascimento e Barocco

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Fra i protagonisti di concerti e liturgie nelle chiese ravennati, con note dall’anno Mille al ‘900: Soqquadro Italiano, Magnifica Comunità, Tallis Scholars, Westminster Cathedral Boys Choir, Capetown Opera Chorus, Ludus Vocalis, Ensemble Korymbos corso del tempo hanno subito modifiche, visibili sui fascicoli che compongono il documento, per essere adattate al gusto ed alle esigenze dell’organico. Il secondo appuntamento sarà il 12 giugno nella grandiosa Basilica di Sant’Apollinare Nuovo con il Cape Town Opera Chorus diretto da Tim Murray. In questa circostanza saranno eseguiti brani provenienti da diverse tradizioni, dallo spiritual alla musica europea, come a creare una corrispondenza tra la musica e la religione, messaggeri per l’umanità di universalità ed unità tra gli uomini. Certamente questo tema è uno tra i più alti che si può ritrovare in moltissime composizioni, la più importante delle quali è senza dubbio alcuno l’Inno alla Gioia all’interno della Sinfonia N.9 di Beethoven, vero e proprio manifesto della fratellanza universale. Il coro Ludus Vocalis sarà protagonista il 19 giugno nella Basilica di Sant’Agata Maggiore. Verrà eseguita la Missa Saepe dum Christi di don Vincenzo Cimatti, compositore faentino e missionario salesiano in Giappone, paese nel quale trascorse gli ultimi quarant’anni della sua vita e dove compose, oltre a 18 messe, la prima opera lirica in lingua giapponese, rappresentata per la prima volta nel 1940. Alla guida del coro ravennate ci sarà il direttore Stefano Sintoni e questo appuntamento vedrà la partecipazione all’organo di Andrea Berardi. Il 26 giugno sarà il turno di The Tallis Scholars che eseguiranno la Missa Papae Marcelli di Palestrina. La genesi di questa messa affonda le radici proprio nella Controriforma voluta dal concilio tridentino: durante i dibattiti sulla musica avvenuti tra il 1561 ed il 1563, vi era la forte idea di ripristinare la monodia gregoriana, in modo da preservare l’intellegibilità dei testi sacri cantati, tuttavia la leggenda attribuisce proprio a questa composizione il merito di aver convinto i vescovi presenti a non abbando-

nare la polifonia, in virtù di un più sobrio modo di conduzione delle parti e secondo un principio di non politestualità, invalso sin dai primi giorni del secondo millennio. In questo la dedica è la cartina di tornasole dei nuovi dettami della musica sacra, infatti giocando sul caso latino, si ha nel titolo papae Marcelli, ovvero di papa Marcello, e non papae Marcello, cioè per papa Marcello, in quanto questo pontefice fu tra i sostenitori di una più sobria polifonia che non togliesse spazio alla sacralità, cercando però di perpetuare la sua complicata architettura formale. Nonostante l’idea di prendere le distanze dalla Riforma fosse forte, la Controriforma quindi scelse di non tornare completamente alle origini con un rigurgito passatista, ma di riorganizzare la struttura musicale unendo alle basi del passato gli splendori del presente permettendo così alla storia della musica di sviluppare in ambito sacro quelle vette musicali che sono ancora oggi presenti nelle esecuzioni. Il 3 luglio, invece, sarà la Basilica di San Vitale ad essere riempita dalle note dei canti gregoriani interpretati dai Westminster Cathedral Boys Choir e dall’organista Peter Stevens, diretti da Martin Baker. L’origine del canto gregoriano affonda nel mito attribuendo a papa Gregorio Magno, intorno alla metà del IX secolo, la prima raccolta di musica liturgica, ma è dal secolo successivo che questo genere musicale vocale cominciò ad affermarsi per diventare in breve ciò che per la Chiesa Cattolica è tuttora, cioè canto proprio della liturgia romana. A completare i brani che saranno eseguiti vi saranno brani di due importanti organisti di scuola franco-belga, César Franck e Jean Langlais. Questo Ravenna Festiva 2016 si dimostra, dunque, molto attento alla dimensione sacra, concedendo ampio spazio a costellazioni di compositori che hanno scritto pagine tra le più importanti della musica rivolta a Dio. ❍

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classica, sacra, contemporanea

Conversando sulle note

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Ravenna Festival Magazine 2016

Il suono del contemporaneo da Luigi Nono a Morton Feldman DI LUCA

MANSERVISI

Continua il viaggio del Ravenna Festival tra i protagonisti della musica del secolo scorso e in particolare tra le avanguardie della seconda metà del Novecento. Un impegno nel campo della musica contemporanea che guarda anche alle vicine esperienze del festival Angelica a Bologna e di un locale come l'Area Sismica di Forlì, in una città invece come Ravenna «che con la contemporaneità ha un rapporto difficile». A parlare è Franco Masotti, condirettore artistico del Ravenna Festival e curatore in prima persona della rassegna nella rassegna, "La tradizione del nuovo", che quest'anno omaggia con due serate consecutive al refettorio di San Vitale (2 e 3 giugno) un personaggio che rappresenta una sorta di unicum nel panorama italiano e non solo, Luigi Nono, celebre compositore impegnato, intellettuale attivo a partire dagli anni cinquanta nella ricerca di rinnovamento politico e giustizia sociale. «Ci è sembrato il compositore italiano che più rappresentasse il tema del festival di quest'anno, che è l'idea di libertà – spiega Masotti –, a partire dalla sua composizione La lontananza nostalgica utopica futura, dedicata al grande violinista Gidon Kremer, tra l’altro in passato ospite del Festival, e che fa parte del ciclo di “Caminantes”, realizzato sulla base dell’idea – nata dopo aver letto la scritta su un muro di un monastero francescano a Toledo – che non è importante il luogo verso cui si cammina, ma il cammino stesso, l’essere in movimento». Dal punto di vista musicale, Nono fu tra i primi a sperimentare con il Live Electronics e alle due serate ravennati l’apporto da questo punto di vista arriverà da Tempo Reale, tra gli storici centri di musica elettronica italiani (fondato da Luciano Berio) con cui il Festival ha intensamente collaborato in questi anni. In una città, Ravenna, che quasi insospettabilmente ha un passato legato proprio alla musica elettronica, come ricorda Masotti, che fu tra i fondatori a inizio anni Ottanta di quello che fu probabilmente il primo corso non di conservatorio organizzato da un ente pubblico. «Prima di diventare la casa delle Albe, il Teatro Rasi

Il compositore Luigi Nono

Chiacchierata con il condirettore del Ravenna Festival, Franco Masotti sulla rassegna “La tradizione del nuovo” Franco Masotti del Ravenna Festival

per due-tre anni è stato una vera e propria scuola di musica elettronica con corsi tenuti da musicisti provenienti direttamente da New York o dalla West Coast, e dove ospitammo anche concerti importanti (addirittura salì a quei tempi sul palco del Rasi Terry Riley, ndr)». Ora per fare elettronica bastano invece alcuni software nella propria cameretta e l’interesse è ormai diffuso, «ma c’è ancora chi vuole avvicinarsi ai maestri o pionieri che siano, o a chi lo fa, diciamo così, in maniera più consapevole». E sull’elettronica in qualche modo il Festival insiste, con un progetto in programma per i prossimi anni – ci anticipa Masotti – sui sintetizzatori analogici, Moog, Buchla o Serge Tcherepnin («quest’ultimo era poi il grande sintetizzatore modulare utilizzato nei corsi al Rasi, ceduto dal chitarrista degli Area Paolo Tofani che preso da raptus mistico raggiunse l’India al seguito degli “arancioni” lasciandosi alle spalle tutte le tecnologie»). E com’è il pubblico della musica contemporanea, spesso sperimentale? «Diciamo che quelli che stiamo proponendo come sperimentalismo o avan>>


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L’intervista

classica, sacra, contemporanea

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<< guardia, in realtà ora sono semplicemente dei classici moderni. Che si prestano a essere ascoltati però forse più che dagli appassionati di musica classica, da appassionati di arte contemporanea, di arti visive, con una certa predisposizione mentale alle visioni, in questo caso sonore. O da amanti di Tarkovskij o Paradzanov», dice Masotti, annunciando per il prossimo anno un progetto dedicato proprio al grande regista autore di Solaris. Tra gli spettatori in questi anni Masotti ricorda comunque anche tante curiosità, tra cui un giovane che ha seguito tutto l’integrale dei quartetti per archi di Bartòk lo scorso anno con la partitura in mano e che poi si è scoperto essere un membro della celebre band indie-rock Calibro 35, o addirittura la presenza in prima fila di Marco Pantani a un ciclo di concerti particolarmente impegnativi dedicati a Olivier Messiaen. «Ma per formare un nuovo pubblico credo sia necessario continuare nella commistione tra varie forme d’arte, come abbiamo fatto e continuiamo a

fare al Festival con cinema e musica per esempio (vedi box qui sotto, ndr), ma non solo – continua Masotti –. Penso a Dante per esempio, alla possibilità di realizzare qualcosa di importante, a installazioni di arte contemporanea da affidare a grossi nomi che porterebbero a Ravenna il grande pubblico. Ma serve il coinvolgimento di tutte le istituzioni cittadine per cambiare rotta in questo senso…». Tornando alla programmazione della “Tradizione del nuovo” («il titolo della rassegna è un omaggio al lavoro del critico d’arte americano Harold Rosenberg ma anche a una figura un po’ dimenticata come Giulio Guberti, che tra gli anni ‘70 e ‘80 organizzò un ciclo di mostre strepitose facendo scoprire l’arte contemporanea a Ravenna anche grazie alla pubblicazione della rivista, appunto, “La tradizione del nuovo”»), la seconda serata dedicata a Nono sarà sulle sue “...sofferte onde serene...”, che rimandano alla dimensione del mondo in cui ha vissuto e lavorato, alla Giudecca, a Venezia, «un’evocazione di un paesaggio sonoro – spiega Masotti – che diventa paesaggio – tormentato – dell'anima».

Cinema e musica

Edison Studio sonorizza il Ricatto di Alfred Hitchcock In prima esecuzione assoluta il 7 giugno al palazzo dei congressi va in scena “The Blackmail Project”, la sonorizzazione dal vivo di quello che viene considerato come l’ultimo film muto e il primo sonoro inglese. Blackmail (Il ricatto) è sia l’uno che l’altro. È il 1929 quando Alfred Hitchcock per la prima volta sperimenta la pellicola parlante, senza però rinunciare ad una versione completamente “silent”, in cui comunque riversa tutto ciò che la più avanzata tecnologia dell’epoca può offrirgli, effetti speciali e trucchi ottici. Così come sofisticate e sperimentali sono le tecnologie impiegate da Edison Studio (quattro compositori da sempre attratti dalla sonorizzazione del muto – nella foto) per reinventare il profilo sonoro del dramma interiore dei protagonisti, combinando campioni vocali e strumentali, suoni concreti e sintetici, frammenti musicali e citazioni da altri film dello stesso regista, che divengono icone sonore. Al loro fianco, Ivo Nilsson (trombone) e Daniele Roccato (contrabbasso), due maestri assoluti della musica senza confini.


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L’intervista

classica, sacra, contemporanea

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Ravenna Festival Magazine 2016

«Il modo di comporre di Morton Feldman è molto visivo: la sua musica quasi psichedelica» L’altro omaggio previsto in questa mini-rassegna è quello a un gigante (lo era anche fisicamente) come Morton Feldman, figura – lo descrive Masotti – «piuttosto isolata, spesso accostato al movimento minimalista pur non essendolo; Feldman è un poeta delle lunghe durate, ha scritto composizioni anche di oltre 4 ore e la sua musica ha una natura contemplativa, rituale». Anche in questo caso, molto vicino nelle sensazioni è il mondo dell’arte contemporanea. «Il suo modo di comporre è molto visivo», sottolinea ancora Masotti, ricordando anche una delle cose di cui va più orgoglioso: il ciclo di concerti su Giacinto Scelsi del Ravenna Festival in cui venne proposta anche – per via di una stretta parentela di estetica e poetica – la composizione di Feldman dedicata non a caso a Rothko, a San Vitale, nel 2008. La serata di quest’anno (5 giugno al refettorio di San Vitale) invece vedrà protagonista una delle composizioni più accessibili di Feldman (della durata “solo” di un’ora e mezza), interpretata da giovani musicisti italiani (il Quartetto Klimt), Piano, Violin, Viola, Cello (1978), l’ultima che ha scritto «un modo per avvicinarsi al mondo di Feldman in maniera lieve, in un luogo molto bello», chiosa Masotti, che poi aggiunge. «Si tratta di una musica in cui bisogna saperci entrare, dopo i primi cinque minuti capisci se fa o non fa per te. Però se ci entri dentro diventa un'esperienza che ha elementi in comune con la psichedelia e non a caso da questi maestri hanno tratto ispirazione anche personaggi dell’artrock noti a tutti come David Bowie, Brian Eno e anche un personaggio di culto come Glenn Branca». Che Masotti non cita a caso, essendo stato quello del chitarrista e compositore newyorkese «il primo concerto organizzato in vita mia», durante quelli che vennero ribattezzati come “I dieci giorni che sconvolsero Ravenna”, nel 1982, con Glenn Branca e Pere Ubu che suonarono in un tendone da circo ai giardini pubblici in un evento che vide protagonisti anche, tra gli altri, un giovane Roberto Benigni e i primi passi del Teatro delle Albe. «Ora l’idea è quella di riportare Branca a Ravenna, magari con Rhys Chatham, per fare al festival, dopo l’invasione di quest’anno dei violoncelli, un anno dedicato alle grandi sinfonie per chitarra elettrica, con 100-200 chitarristi a sconvolgere di nuovo Ravenna...». ❍

Il compositore americano Morton Feldman

Arte e musica contemporanea

Dieci compositori fanno risuonare al pala De André il “Grande Ferro R” di Alberto Burri Venerdì 10 giugno (alle 23) il “Grande ferro R” – la maestosa e spesso dimenticata opera che nel 1990 Alberto Burri (su commissione del Gruppo Ferruzzi) realizzò a rompere il vuoto del piazzale su cui affaccia il Pala De André – diventa una sorta di palcoscenico. A cento anni dalla nascita di colui che è stato uno degli artisti più rigorosi e essenziali della nostra epoca, risuoneranno i lavori di dieci giovani compositori di musica contemporanea chiamati a mettere in musica la sua poetica.


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Cellolandia

eventi speciali

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L’invasione sonora dei cento violoncelli DI ENRICO GRAMIGNA

La potenza comunicativa, unita alla sua capacità unificatrice, è alla base del piacere di fare musica. Questo concetto è, quindi, stato il motore, fin dai tempi remoti, di una ricerca verso la condivisione dell’esecuzione: tuttora la saggezza contadina riporta il detto in due si canta meglio. Questa esigenza di condivisione è intrinsecamente legata alla funzione primaria della musica, cioè l’intrattenimento. Una delle etimologie più accreditate

per la parola concerto è dal latino gareggiare, ma questa gara non è altro che un momento rituale di condivisione dell’esperienza. In questa accezione si presenta la settimana di Cellolandia, vero parco divertimenti musicale per ogni violoncellista, e per tutti coloro che godranno della musica di questa rassegna interna al Ravenna Festival 2016. In questa settimana, dal 12 al 18 giugno, la città sarà letteralmente invasa dal più grave degli strumenti derivati dall’antica viola da braccio, con una serie di eventi e concerti

che soddisferanno il palato di qualsiasi ascoltatore. Il dolce peso dell’inaugurazione della settimana violoncellistica sarà sulle spalle dei Violoncellisti della Scala che, insieme al soprano Ljuba Bergamelli, apriranno il loro concerto con il celeberrimo Lamento di Arianna di Claudio Monteverdi per poi proseguire con l’aria Mein gläubiges Herze (Il mio cuore sempre fedele) dalla Cantata BWV 68 di Johann Sebastian Bach. Lasciando il periodo barocco, l’esibizione proseguirà con un estratto dalla Sonata

n.2 op 58 di Felix MendelssohnBartholdy prima di entrare nel mondo dell’opera con Tutto nel mondo è burla dall’opera Falstaff di Giuseppe Verdi. Di Alfredo Piatti sarà l’aria The Lover’s appeal a cui seguiranno due brani di Richard Wagner, Tempo di Porazzi, Palermo 1882 e il celebre Einleitung da Tristan und Isolde. Si concluderà lo spettacolo con le musiche ispanoamericane di Pablo Casals, di cui sarà eseguita Sardana, e di Hector Villa Lobos e la sua Bachianas Brasileira N.5.


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Cellolandia

eventi speciali

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Giovanni Sollima

Sotto la direzione artistica di Giovanni Sollima i 100Cellos “occuperanno” il festival e l’intera città assieme a illustri ospiti come i Violoncellisti della Scala, Rushad Eggleston, Reijseger / Fraanje / Sylla e Mario Brunello. Con gran finale danzante alla Rocca Brancaleone Trio Reijseger, Fraanje, Sylla

Rushad Eggleston

Il secondo appuntamento vedrà Giovanni Sollima, direttore artistico di questa rassegna, e L’Arianna Art Ensemble impegnati in un programma incentrato totalmente su Giovanni Battista Costanzi, figura di spicco nell’evoluzione del violoncello, che affrancò da una pratica di fondamento armonico per donargli vera e grande dignità come stru-

mento solista. Vale la pena sottolineare l’importanza di questo musicista romano, grande innovatore nel campo musicale, evidenziando il fatto che fu, tra le altre cose, il successore di Arcangelo Corelli come Capo d’istromenti per il Cardinale Ottoboni, ed ancora va ricordato che nel 1757 un giovane Luigi Boccherini fu tra i suoi studenti; importante,

infine, notare che diverse sue composizioni furono attribuite niente meno che a Franz Joseph Haydn, di cui egli fu, se non amico, almeno conoscente. Lo stile compositivo di Costanzi è davvero The Missing Link, come recita il titolo del concerto, tra il barocco napoletano e quel primo classicismo che si stava affacciando in Europa.

Cellolandia non sarà, però, un evento incentrato solo sulla musica classica, ma ci saranno ampi spazi per sperimentazioni. La prima di esse vedrà il grande Rushad Eggleston, eclettico violoncellista che, dopo una formazione tradizionale, compie il primo di molti passi che lo imporranno sulla scena musicale come un autentico one-man-show dal violoncello a tracolla e dal caratteristico cappello, mutuato forse direttamente dal Robin Hood del 1973 prodotto dalla Disney. Il suo spettacolo sarà tutto incentrato sull’improvvisazione e lo vedrà impegnato in una continua ricerca di quella meraviglia che fa della musica gioia. Un appuntamento da non perdere sarà quello del trio Reijseger, Fraanje, Sylla. Questo trio mescola alle sonorità classiche e jazz la voce e gli strumenti della tradizione dei Griot, poeti erranti della tradizione africana occidentale. Ciò che risulta da questa improbabile commistione è una nuova via di interpretazione dei diversi aspetti culturali che legano due mondi così diversi eppure cosi incredibilmente affini, come due facce della stessa medaglia. Non stupirà, quindi, scoprire che questo trio ha collaborato a più riprese col celebre cineasta Werner Herzog, con brani composti per i suoi film. I giovani allievi dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ed il loro maestro, Giovanni Sollima, saranno impegnati, invece, in Effetti collaterali, programma interessante che vedrà l’alternanza di brani della tradizione classica (su tutti spiccano composizioni di Giovanni Battista Cirri, Fryderyk Chopin e Vincenzo Bellini) a canti di diverse tradizioni quali l’armena, la lucana e l’africana, fino alla canzone moderna di Modugno e degli Area. Il 16 giugno sarà votato alla novità,


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Cellolandia

eventi speciali

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CIBO | VINO | MUSICA... E GIN TONIC

partendo dalla presentazione del nuovo lavoro di Giovanni Sollima, Onyricon, che prenderà idealmente il largo nella cornice dell’antico porto di Classe, e concludendo con Il Concerto fiume, una grande esecuzione collettiva che vedrà ospiti a sorpresa calcare il palcoscenico dei Teatro Socjale di Piangipane. In una rassegna votata interamente al violoncello non poteva mancare l’altro grande astro italiano di questo strumento, Mario Brunello: insieme al Coro del Friuli Venezia Giulia proporrà un repertorio diviso in due. Johann Sebastian Bach sarà il protagonista della prima parte, nella quale sarà eseguito il mottetto BWV 230 Lobet den Herrn, alle Heiden (Lodate il Signore, Popoli tutti) e la Partita N.2 BWV 1004 (per la quale il musicista veneto suonerà un violincello) contenente la celebre Ciaccona che verrà eseguita nella versione con coro. La seconda parte sarà completamente conquistata dal Sonnegesang (Cantico del sole di Francesco d’Assisi) di Sofija Gubajdulina per violoncello, coro da camera, percussioni e celesta. L’ultimo giorno di questa rassegna darà spazio alle composizioni che saranno create durante la clausura notturna dentro il Teatro Alighieri

alla quale i partecipanti al Concorso di Composizione saranno chiamati. Gli 8 brani composti, infatti, saranno eseguiti nel concerto finale dei 100Cellos ed il vincitore sarà valutato da una giuria di esperti composta, tra gli altri, dal celebre critico Sandro Cappelletto, dal noto compositore Francesco Piersanti e dall’editore musicale Piero Ostali. Come conclusione di questa rassegna violoncellistica, il concerto finale dei 100Cellos, che si terrà nella bella cornice della Rocca Brancaleone, sarà la dimostrazione della democrazia musicale, cioè della funzione sociale agglomerante che il suonare insieme possiede. In questo evento finale saranno abbattute tutte le barriere culturali, grazie ad un’incredibile mescolanza di stili e culture, che andranno dal repertorio classico alle moderne tecniche di sperimentazione, dalle tradizioni locali più veraci alle sonorità più tipicamente jazzistiche. Questa settimana si rivela, quindi, come una vera e propria ventata di novità nel panorama musicale italiano, distruggendo i limiti che separano i vari stili ed unificando idealmente ogni corrente ed ogni pensiero sotto una stessa grande bandiera chiamata musica. ❍

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Sulle punte

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Svetlana Zakharova, l’étoile erede dei balletti russi DI

ROBERTA BEZZI

«Se Dio avesse pensato alla danza, avrebbe creato Svetlana Zakharova». Così il grande danzatore Michail Baryshnikov rende omaggio alla danzatrice attualmente più richiesta al mondo, considerata all’unanimità una delle migliori interpreti del Lago dei Cigni della storia. Lei è l’étoile russa, ma di origine ucraina, Svetlana Zakharova, sempre aggraziata ed elegante in scena come nella vita di tutti i giorni, che ritornerà sul palcoscenico del Ravenna Festival, giovedì 30 giugno (alle 21.30), nella cornice del Palazzo Mauro De

André. Una serata magica, non a caso intitolata Amore, in cui l’artista sarà in compagnia di altre straordinarie étoile del Teatro Bolshoi di Mosca, come Mikhail Lobukhin e Denis Rodkin, per un bel programma concepito appositamente per Ravenna e che non a caso comprende un omaggio dantesco come Francesca da Rimini. Questo infatti il primo dei tre titoli in programma che racconta la storia di Francesca Da Polenta, sposata con Gianciotto Malatesta secondo la leggenda brutto e con la gobba, ma presto innamorata del fratello più giovane, il bel Paolo. Leggendo insieme la storia di Lancillotto e Ginevra, Francesca e Paolo

cedono alla passione e vengono scoperti dal marito che li uccide entrambi e trascorrono la vita ultraterrena nel secondo cerchio dell’Inferno riservato ai lussuriosi. Le coreografie sono a cura di Yuri Possokhov, incline alle storie drammatiche e romantiche, che definisce la partitura di Tchaikovsky come la più romantica mai letta, con un finale da “apocalisse’”. A seguire, Rain Before it Falls, in cui il coreografo Patrick De Bana confeziona una delle sue miniature per star, questa volta riservata

alle luminose misure della Zakharova, su musiche di George Frederick Handel e Carlos Pino-Quintana. Ciò che si spera di trovare è solo un sogno, un’illusione, una chimera: come la pioggia prima che cada. «Lavorare con Svetlana – rivela De Bana –, nella sala prove, dà l’impressione di camminare nella Città proibita e che l’ultima Imperatrice cinese ti inviti a danzare. È questa la mia sensazione». Nella terza variazione di contemporaneo della serata, Strokes Through The Tail arrivano gli ironici e idissacranti “cigni” della coreografa irlandese Marguerite Donlon, che trova

ispirazione nella sinfonia N. 40 di Wolfgang Amadeus Mozart e nelle personalità dei danzatori. Una creazione che unisce danze virtuose e un piacevole tocco di irriverenza. Incuriosita dalla tecnica di notazione musicale di Mozart, realizza infatti una coreografia in cui i danzatori incarnano la struttura di tale

notazione rivelando il genio e l’umorismo del compositore. L’effetto sul pubblico è assicurato perché le sue creazioni, che sfuggono da qualsiasi ideologia artistica, sono assolutamente incapaci di annoiare, in

quanto la mescolanza di classico e comico, avanguardia e Grand Guignol è molto divertente. Protagonista assoluta di questa sua nuova produzione è Svetlana Zakharova, étoile di due palcoscenici – il Bolshoi di Mosca e la Scala di Milano – che ha maturato le sue linee affusolate e pure nella cornice del Mariinskij. E a quella prestigiosa formazione classica, oggi che la

danzatrice è all’apice della sua carriera, si aggiungono doti di interprete moderna. Stella sin da piccola all’Accademia Vaganova di San Pietroburgo, è passata nel 1996 al Balletto del Teatro Mariinskij, interpretando da subito i principali titoli del repertorio classico e contemporaneo. Dal 2003 lascia San Pietroburgo alla volta di Mosca, nel rassicurante quanto imponente Teatro Bolshoi, allaragando a dismisura il proprio repertorio, toccando l’apice e girando il mondo più volte. Contestualmente alla presenza nei due teatri russi, la Zakharova sin dal 1999 è regolarmente guest artist nelle più prestigiose compagnie di balletto al mondo, fra cui New york City Ballet, Bayerisches Staatsballett, Teatro dell’Opera di Roma, Opéra di Parigi, Nuovo Teatro Nazionale di Tokyo, >>


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Sulle punte

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Teatro San Carlo di Napoli, American Ballet Theatre, Hamburg Ballet, Teatro alla Scala di Milano. Étoile con la valigia sempre in camerino, è anche moglie del celebre violinista Vadim Repin e madre della piccola Ania. Cosa vorrebbe che ereditassero da lei le giovani promesse della danza? «Il modo in cui ho visuto la scuola di balletto – afferma –. Suggerisco ai tanti allievi in giro per il mondo di lavorare sodo ogni giorno, di credere sempre in se stessi e, soprattutto, di credere ciecamente nel lavoro del proprio maestro. Lui, e solo lui, potrà indicare la migliore via per ogni allievo. A me è andata proprio così. L’importante è non credere mai che si smetta di imparare. In secondo luogo consiglio l’umiltà». Queste le sagge parole della Zakharova che, nel suo futuro, vedrebbe anche la direzione di un grande teatro. Ma questa è un’altra storia, perché oggi il suo posto è ancora saldamente sul palcoscenico davanti al pubblico che è sempre in grado di regalarle grandi emozioni. ❍

Considerata la più grande danzatrice classica del mondo, a Ravenna porterà anche coreografie moderne assieme ad altre stelle del Bolshoi

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danza visionaria

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Le linee connettive di Alonzo King DI ROBERTA BEZZI

Il coreografo ha elaborato un linguaggio binario, dove la purezza neoclassica incontra la fluidità sanguigna della danza afroamericana

L’arrivo della compagnia di danza contemporanea Alonzo King Lines Ballet, di base a San Francisco in California, sarà una della pagine più intense e vibranti del cartellone di danza del Ravenna Festival 2016 che si concluderà sabato 9 luglio (alle 21.30) al Palazzo Mauro De André. Quella di Alonzo King è una visione artistica globale, unica nel suo genere, in grado di ispirarsi a un ampio ventaglio di tradizioni culturali, profondamente ancorate alla tecnica del balletto classico e di grande potenziale espressivo, un ponte fra tradizione e modernità. Questo grazie anche alla preziosa collaborazione con compositori, musicisti e visual artist di rinomata fama, quali il mitico saxofonista jazz

mine lines (“linee”, ndr) – afferma il coreografo –, è un’allusione a tutto ciò che è visibile. Non esiste nulla infatti che non sia formato senza una linea. Siamo contornati da linee: le nostre impronte digitali, la forma del nostro corpo, le costellazioni, la geometria. La linea implica connessione, genealogia, progenie e parole. Indica una direzione, un’intenzione di comunicare a un concetto. Il filo di un pensiero. Una frontiera o l’infinito. Una vibrazione o un insieme di punti, una linea è l’organizzazione visibile di ciò che vediamo». Considerato dalla critica un coreografo visionario, di lui William Forsythe avrebbe detto: «È uno dei rari veri maestri della nostra epoca». Grande ammiratore di George Balanchine e danzatore sia per Alvin Ailey che per l’American

Festival: Writing Ground (2010) e Shostakovich (2014). La prima creazione, commissionata dai Ballets di Monte Carlo ispirandosi alla liriche di successo di Colum McCann, disegna paesaggi di danza intimi, rituali dell’anima scanditi da antiche musiche sacre della tradizione ebraica, cristiana, musulmana e del buddismo tibetano che spingono i danzatori al di là dei loro limiti fisici. «Ho fatto mia l’idea degli antichi secondo cui l’arte debba essere al centro di tutto – spiega Alonzo King –. Il primo principio dell’arte è la conoscenza del modo giusto con cui fare le cose. Perché in ciò che è fatto male, non c’è nulla di artistico. Tutte le discipline, tutte le imprese umane, tutte le forme di lavoro sono dei supporti per la creazione e l’immaginazione. Qualsiasi creazione,

che si utilizzano per comunicare delle idee. Nel movimento, le forme sono il risultato del distillato di idee tradotte in simboli, che si utilizzano ugualmente per comunicare. Creando un linguaggio in movimento, diamo una prima forma visibile a pensieri e idee». A seguire, il recentissimo lavoro Shostakovich del novembre 2014, partitura di corpi tesi come frecce di luce. Come una freccia pronta a essere lanciata, una

Pharoah Sanders, il virtuoso di tabla Zakir Hussain, l’attore Danny Glover, i monaci Shaolin. Forte di grandi successi internazionali, la compagnia è presente nelle stagioni e nei festival più importanti e sostine il suo progetto didattico attraverso la Lines Ballet School, fondata nel 2001, programma realizzato con l’Università Dominicana della California e il Dance Center, uno dei maggiori centri dedicati alla danza nella costa ovest degli Stati Uniti. Perché Alonzo King ha chiamato la sua compagnia Lines Ballet? «Il ter-

Ballet Theatre, Alonzo King ha ha impresso alla sua compagnia una duplice eredità coreografica. Dal 1982, anno della formazione di Lines Ballet Company, King ha elaborato infatti un linguaggio binario, dove la purezza neoclassica incontra e sposa con accostamenti vertiginosi la fluidità sanguigna della danza afroamericana. Ne emerge uno stile visionario, fatto per ballerini contemporanei, virtuosi, ma con una qualità drammatica di fondo. Ne sono un perfetto esempio i due pezzi portati in scena per il Ravenna

portata al suo più alto livello, ha qualcosa di poetico. Scrivere, cantare, educare i bambini, coltivare un campo, tessere un paniere, governare un Paese o danzare, è la stessa cosa. La mia esperienza mi ha insegnato che, quando si lavora con creatori artistici di qualsiasi ambito, si fa la stessa cosa. Nel caso di Wrinting Ground, la collaborazione è con lo scrittore McCann, per cui il linguaggio del movimento contiene delle parole. Le parole, che siano scritte o parlate, sono dei suoni e delle forme che hanno un senso e

sorda e inquieta agitazione impregna – infatti – l’ultima creazione di Alonzo King sul quartetto d’archi di Shostakovich. La musica oscilla in uno stato di sospensione cristallina, spingendo i danzatori a resistere alla trazione fino al limite per meglio rivelarsi in uno spazio tra armonia e discordia. Le luci sono di David Finn, mentre i costumi di Robert Rosenwasser. Due coreografie in grado di arrivare dritte al cuore degli spettatori, perfetto esempio del modernismo più sofisticato della danza classica. ❍


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Il protagonista

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DI ROBERTA BEZZI

Se mai ci fosse bisogno di dimostrare quanto l’arte possa essere un grande flusso che tutto compenetra, capace di portare alla massima espressività, il ballerino e musicista Vincenzo Capezzuto ne è un esempio vivente. Grazie alla danza ha sviluppato musicalità e senso del ritmo. E la consapevolezza del corpo acquisita sul palcoscenico, ha consentito alla sua voce di esprimersi in maniera più salda e sicura, rendendo l’esecuzione più forte e incisiva. Sarà lui l’indiscusso protagonista – in quanto interprete vocale e danzatore – dello spettacolo-concerto Stabat Mater – Vivaldi Project, il 29 giugno al Teatro Rasi, per il Ravenna Festival 2016. La drammaturgia è a cura di Claudio Borgianni, personalità eclettica da sempre dedita al teatro, con cui Capezzuto ha fondato nel 2011 Soqquadro Italiano, progetto culturale nato dal comune interesse per la produzione artistica, musicale e teatrale italiana a cavallo tra il XVI secolo e il XVII secolo. Le coreografie invece sono un “omaggio” del neo direttore del corpo di ballo alla Scala di Milano, Mauro Bigonzetti. Il risultato è una performance d’arte fusion fra danza, parole, musica e teatro, sorretta da

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Vincenzo Capezzuto, questa è la sua seconda partecipazione al Ravenna Festival dove ha portato nel 2013 Da Monteverdi a Mina. Come nasce l’idea

di questo lavoro che propone una visione particolare del capolavoro vivaldiano? «Neanche a farlo apposta, esiste un


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Il protagonista

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forte legame tra la prima e la seconda rappresentazione al festival. Proprio tre anni fa, nel pubblico, c’era anche Bigonzetti. A fine spettacolo, è venuto a parlarmi e a propormi di collaborare. Così, è con entusiasmo che ho accolto questa “chicca” che ci ha regalato. Borgianni e io, presentiamo una versione spirituale più che sacrale di Stabat Mater, una riuscita formula di teatro musicale che incuriosisce molto, anche all’estero. Al debutto italiano, lo scorso anno, alla Sagra Musicale Umbra, è seguito quello in Spagna, Germania ed Ecuador. Per tutto l’anno e anche nel 2017, saremo impegnati in una tournée mondiale». Quando è cominciata la passione per la musica, contemporaneamente alla danza o dopo? «Sin da bambino avevo una propensione naturale per cantare e danzare. Erano due interessi imprescindibili l’uno dall’altro, poi la vita ha voluto che esplorassi prima la passione della danza, e credo sia stato un bene». Quanto il suo essere danzatore influisce nell’esecuzione musicale e viceversa? «In maniera totale. La danza esige una profonda conoscenza del proprio corpo poiché diventa, per il danzatore, l’unico strumento con cui raccontare

qualcosa e con cui portare il pubblico nella dimensione che si desidera. Ed è con il corpo che la musica prende forma, traducendo in movimenti le dinamiche, i virtuosismi, le pause, i chiaroscuri, il ritmo e l’espressione. Il canto agisce per me, nella medesima maniera». La musica quanto assomiglia alla danza nella maniera di esprimersi? «Come tutte le arti, direi che sia la danza che la musica hanno un enorme forza espressiva. La difficoltà è nel riuscire a veicolare questa forza e renderla comprensibile a tutto il pubblico. Mi è capitato di ascoltare le opinioni di molte persone che si professavano non amanti di quel tipo di musica o quel tipo di danza: evidentemente niente di tutto ciò che avevano visto o sentito aveva una chiave di lettura facilmente comprensibile. Credo sia molto interessante lavorare al servizio di un pubblico che non ha gli strumenti per poter capire fino in fondo un’opera d’arte e tentare di trasmetterne la bellezza che essa contiene. Non tutti hanno gli strumenti per capire fino in fondo un’opera di Caravaggio, ma chiunque, in un modo o nell’altro ne riceve bellezza ed emozione». Come si è avvicinato alla danza e cosa rappresenta per lei oggi la danza?

Vincenzo Capezzuto rivela il progetto di Soqquadro Italiano: musica, teatro, danza intrecciati dal fascino di Barocco e vocalità

«Ho ricevuto molti stimoli, soprattutto crescendo in un teatro in cui ho avuto la possibilità di studiare con bravissimi maestri e vedere danzare grandi ballerini o sentire cantare grandi cantanti. Attualmente la danza ha un’importanza estrema nella mia vita sia professionale che artistica, ora più che mai. Prima di cantare un’aria barocca del primo Seicento oppure una qualsiasi canzone che racconti una storia, mi immagino, leggendo il testo, come potrei esprimerlo con la danza per renderlo credibile nel migliore dei modi, proprio come quando si prepara un ruolo solistico del repertorio classico». Con Soqquadro Italiano, si sente un divulgatore dell’arte italiana della danza e della musica nel mondo? «Mi emoziono molto quando il pubblico straniero, ma anche italiano, dopo i concerti, esprime la propria commozione per un programma musicale interamente italiano, di qualsiasi epoca. Nella mia umiltà è come se l’Italia si riscattasse un po’ e riacquistasse il merito del paese che ha rappresentato la cultura e l’arte per molti secoli». Un suo sogno nel cassetto? «Continuare a incontrare nel mio percorso artistico, persone che sono generose e che hanno ancora voglia di mettersi in gioco». ❍


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Memorie d’artista

danza

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Ripercorrendo La vie en rose, Van Hoecke rievoca Édith Piaf DI

ROBERTA BEZZI

Quella del maestro Micha van Hoecke è una presenza “storica” del Ravenna Festival con il suo teatro danza musicale. Una perfetta fusione di danza e parola, gesto e musica, un intreccio simbiotico dei diversi linguaggi che muove l’inesausta vena creativa dell’artista di origine belga. La sua nuova creazione Chanteuse des rues – una produzione originale del Festival – è ispirata a Édith Piaf, il “passerotto” della canzone francese, che andrà in scena martedì 28 giugno al Teatro Alighieri di Ravenna. Sarà un susseguirsi di quadri scenici a suggerire il mondo che circondava la chanteuse de rue, affollato di personaggi variopinti e lunari. A cominciare da Jean Cocteau, che l’andava ad ascoltare nel locale notturno dove si esibiva e le dedicò poi la famosa pièce Le bel indifférent. Nel lavoro del coreografo e regista van Hoecke, tutte queste suggestioni confluiscono in un ritratto virtuale di Édith, mai chiamata direttamente in scena. Una rievocazione di affetti e di nostalgia per una stagione intensa, in parte condivisa dallo stesso coreografo che – proprio negli ultimi anni di vita di Piaf – viveva a Parigi e ne respirava umori e atmosfere. Protagonisti sul palcoscenico i DanzActori di Ravenna Festival, accompagnati dalla versatile fisarmonica di Simone Zanchini. Micha, cosa ricorda della Parigi di quegli anni? «Nella capitale francese ho vissuto a lungo, fra gli anni Cinquanta e Sessanta. Arrivai lì che ero appena un bambino e ho avuto l’opportunità di studiare con Olga Preobrajenskaya, prima di entrare a far parte della compagnia di Roland Petit nel 1960, e successivamente in quella di Maurice Béjart. Piaf è morta nel 1963 e non scorderò mai l’atmosfera speciale che ha ispirato anche altri miei spettacoli, fra cui Les mariés de la Tour Eiffel che ho portato al

Il regista e coreografo con il suo spettacolo Chanteuse des rues, traccia gli anni parigini, la grande cantante, l’atmosfera dell’epoca e celebri artisti come Jean Cocteau

MIcha Van Hoecke

Teatro Massimo di Palermo. Sono sempre stato un grande ammiratore di Piaf e di Jean Cocteau, che ascoltavo tutti i giorni in radio, così come di tutti gli artisti che hanno incrociato la sua vita e che lei ha aiutato a emergere, fra cui Gilbért Becaud, Yves Montand, Charles Aznavour e Moustaki». Quando Piaf e Cocteau si conoscono, è l’incontro fra due mondi diversi… «Sì, Cocteau amava definire la voce di Piaf “un’onda altissima di velluto nero”, o ancora “una voce che sconvolgerà il mondo nei secoli dei secoli”. Si conobbero negli anni Trenta quando lei era una giovane di belle speranze che cantava in un cabaret. Da quel giorno, il poeta-intellettuale e la cantante di strada iniziarono un’amicizia e un sodalizio talmente grande, autentico e profondo che neppure la morte riuscì a spezzare. Cocteau, infatti, morì lo stesso giorno di Edith, l’11 ottobre 1963, mentre si preparava a pronunciare alla radio l’elogio funebre della sua grande amica. Nessuno, neanche i benpensanti dell’entourage élitario di Cocteau che guardavano con diffidenza al loro rapporto, riuscì mai a dividerli». Qual è stata la grandezza dei due artisti? «Piaf era in grado di “toccare” l’animo umano, non era solo una cantante ma una creatrice. Prima di lei, parole e melodie andavano insieme, poi l’interpretazione ha cominciato a essere importante. Lei cantava i personaggi, e si ritrovava in ognuno di loro, in maniera autentica. Una perfetta simbiosi tra parole, musica ed espressività, con un grande senso dell’umorismo. Tutti possono cantare Piaf, senza mai essere lei però! Dal canto suo, Cocteau era un genio di grandissimo spessore, in grado di spaziare in tutti gli ambiti, dalla pittura al teatro, dal disegno alla poesia, dal cinema alla danza. Ha influenzato fortemente i Ballets Russes e artisti del calibro di Pablo Picasso e Igor Stravinskij». Come si “traduce” l’incontro Piaf-

Cocteau in Chanteuse des rues? «I due artisti si incontrano in un mondo irreale, in uno spettacolo creato sotto forma di liturgia, per rendere omaggio a lei, alle sue canzoni, a lui, alle sue poesie, con l’accompagnamento della musica di un fisarmonicista e del gruppo di attori e danzatori che collaborano spesso con Cristina Mazzavillani Muti nelle produzioni di cui è regista. L’idea dello spettacolo mi è stata proposta dal Ravenna Festival e spero che il risultato sia qualcosa di diverso dai tanti omaggi fatti soprattutto in Francia, proprio per questa particolare dimensione che dona ai due grandi Piaf-Cocteau l’eternità che meritano…». Si rinnova anche quest’anno il suo sodalizio con il Ravenna Festival… «Sì. Quello che si è instaurato è ormai un rapporto che va oltre il sodalizio artistico, grazie alla forte amicizia che mi lega a Cristina, conosciuta molti anni fa tramite il maestro Riccardo Muti al teatro alla Scala di Milano, dove ero impegnato nelle coreografie di Orfeo ed Euridice di Gluck. Ravenna per me è una città speciale, in cui ancora è possibile lavorare con uno spirito di bottega artigianale, con un pubblico fortemente interessato e in un ambiente caloroso. Cristina ha sempre tenuto a legare al festival gli artisti per far vedere agli spettatori la loro evoluzione nel tempo». Ci può rivelare quali sono i suoi prossimi progetti? «Questo non è un momento facile per la cultura, e in particolare per la danza. Rispetto ad anni passati, tutto è molto più complicato. A maggior ragione mi reputo un privilegiato per avere sempre così tante opportunità per esprimere la mia creatività e la mia esperienza. Sto aspettando l’avvio di un progetto con Riccardo Cocciante, con cui ho un rapporto consolidato da anni, e di altri lavori teatrali. Ma preferisco non dire di più per scaramanzia…». ❍


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Cinquant’anni di carriera

danza

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Twyla Tharp ecco il mito della

modern dance DI LINDA LANDI

Il 24 maggio al Pala De André di Ravenna va in scena Twyla Tharp, un vero e proprio mito della modern dance americana, il cui indiscusso ingegno e la sconfinata creatività ne fanno coreografa di primo piano, con lavori ancora oggi riproposti dalle compagnie di danza di tutto il mondo. Attiva da oltre mezzo secolo, la Tharp ha una innata capacità di spaziare tra i generi che la rende un’artista impossibile da classificare compiutamente: riesce infatti a collaborare con ballerini neoclassici come Baryshnikov e con gruppi contemporanei, passando per le coreografie di Hair di Milos Forman, adattamento cinematografico dell’omonimo musical rock degli Anni ’70. Laureata al Barnard College nel 1963 e coreografa di più di centosettanta opere, ha lavorato toccando teatro, televisione, cinema, balletto, realizzando quattro spettacoli di Broadway, e persino anche due coreografie di pattinaggio artistico. La sua storia comincia nel natio stato dell’Indiana, ma si sposta presto in California dove viene iniziata dalla madre, insegnante di pianoforte, allo studio della musica e della danza alla Vera Lynn School of Dance. Dopo aver intrapreso il college a Pomona si trasferisce a Manhattan dove si perfeziona all’American Ballet Theatre sotto l’egida di Igor Schwezoff, trovando ispirazione anche da Martha Graham e Merce Cunningham e debuttando, dopo la laurea, come danzatrice professionista alla Paul Taylor Dance Company. Al Ravenna Festival la Tharp presenta

una commistione tra l’anteprima mondiale di un suo nuovo attesissimo lavoro, in tour in questa stagione nello Stato di New York, e parte del suo repertorio. Apre il programma Country Dances, nato nel 1976 con musiche che arrivano direttamente nella profondità della cultura americana. È poi la volta di Sinatra Suite, commissionato originariamente proprio da Baryshnikov nel 1983 per l’American Ballet Theatre. Prosegue lo spettacolo Brahms Paganini che, sulla musica di due diverse opere dello stesso Brahms, mette in scena il virtuosismo di sei danzatori, un solista per il libro I e un quartetto e una solista per l’impegnativo libro II. La chiusura è dedicata alla presentazione, in anteprima mondiale, della drammaticità della nuova produzione, dove Matthew Dibble, membro anziano della compagnia (e protagonista tra gli altri di Yowzie, uno dei lavori scelti per il programma del suo cinquantesi-

mo anniversario di attività lo scorso anno) affronterà le note di Beethoven e la sua Opus 130, complesso quartetto d’archi tra le ultime fatiche del compositore tedesco. Artista internazionalmente riconosciuta – parlano per lei le ben diciannove lauree ad honorem, un Tony Award e due Emmy – è ancora oggi attiva sia sulle scene che in ambito editoriale, con alle spalle l’autobiografia Push come to shove del 1992, seguita da The creative habit e The collaborative habit, dedicati a come coltivare i propri talenti ed esprimerli all’interno di un gruppo. Risale al 1965 la fondazione della sua personale compagnia di danza, la Twyla Tharp Dance, con cui la coreografa guadagna il rispetto per la qualità dei suoi lavori, l’eclettismo, l’inventiva, la precisione tecnica, combinando diverse forme di movimento già conosciute e altre da lei reinventate, allargando così i confini della danza classica e moderna.

Danza lei stessa per la sua compagnia fino alla metà degli Anni ‘80, quando decide di dedicarsi anima e cuore alla coreografia. La compagnia nel 1987 si scioglie per un periodo di tempo, durante il quale la Tharp transita per prestigiose tappe, dall’American Ballet Theatre passando per il Boston Ballet fino all’Hubbard Street Dance Company di Chicago. Ma la sua esperienza non si ferma qui, vantando collaborazioni anche con il Joffrey Ballet, il Paris Opera e il Royal Ballet, l’Australian, l’Atlanta Ballet, il Pacific Northwest, il Royal Winnipeg e la lista sembra non avere fine. La sua compagnia riprende poi corpo con il grande successo del tour andato in scena dal 1999 al 2003. A Broadway debutta con When we where very young nel 1980, passando per Singin’ in the rain nel 1985, Movin’out con le musiche di Billy Joel nel 2001 e Times they are a-changin’ sulle note di Bob Dylan nel 2005. Al cinema collabora con registi del calibro di Milos Forman (Hair, Amadeus), Taylor Hackford (White Nights) a James Brooks (I’ll do anything). Arriviamo all’anno passato, il 2015, quando un grandioso tour celebra i cinquant’anni di straordinaria e inimitabile carriera di Twyla Tharp, la versatilità degli stili, il sapersi riscoprire nel tempo, toccando diverse forme d’arte e di comunicazione, lavorando a più livelli con alcuni dei più prestigiosi protagonisti di teatro, cinema, musica, e riuscendo a portare ovunque la creatività della sua impronta con la passione di chi è nato in un contesto artistico e ne ha saputo reinventare le coordinate. ❍


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corpi interattivi

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gruppo nanou alla ricerca dell’identità perduta nello spazio DI LINDA LANDI

Dodici anni di vita e un’attività ininterrotta che, dall’area di provenienza ravennate, li ha portati a calcare le scene nazionali applauditi e premiati: una bella soddisfazione per la città questo gruppo nanou (in programma l’8, 9 e 10 giugno all’Almagià) che, come un’altra eccellenza di area emiliano-romagnola – l’acclamatissimo CollettivO CineticO – arriva dalla fucina del premio GD'A – Giovani Danz'Autori curato a Ravenna da Cantieri Danza, e oggi si muove nell’ambito di una circuitazione teatrale di livello. Nati a Ravenna nel 2004 come luogo di incontro di tre menti – Marco Valerio Amico, Rhuena Bracci e Roberto Rettura – i nanou hanno sempre indirizzato la loro ricerca alla formulazione di un linguaggio organico e comune che fondesse nella coreografia corpo, suono e immagine. Dai tempi di Namoro (2005), “una parabola coreografica sull'incontro di due esseri umani e la costruzione dei primi scambi amorosi” e di desert-inn [il quarto uomo] (2006 - 2008) che rimanda alle atmosfere noir di James Ellroy, un misto di riconoscibileinquietante quotidiano, i nanou nell’evoluzione della loro ricerca non hanno mai abbandonato la densità dei rimandi letterari, cinematografici o i richiami alle arti visive, mantenendo sempre il focus sul corpo, che non termina la sua azione in scena, ma lascia sempre sottendere un altrove conturbante e denso di mistero, in cui vengono proiettate le domande lasciate aperte, destinando a chi osserva una stimolante mancanza di spiegazioni. Dopo l’erotismo e la bestialità di Sulla conoscenza irrazionale dell'oggetto [tracce verso il nulla], Motel – trilogia che propone il tema del cortocircuito ciclico spazio-temporale – e il solo Sport, si arriva ai lavori concepiti in più fasi, e tra questi c’è la matrice comune dell’odierno Xebeche

[csebece], ossia i tre John Doe, Baby Doe e Jane Doe incentrati sulla perdita dell’identità. I nomi dei tre “Doe” si riferiscono infatti al gergo giuridico americano e vengono utilizzati per indicare persone il cui nome è sconosciuto. Xebeche porta di fatto alle estreme conseguenze i temi della trilogia Doe, ma con significative diffe-

dalla ginnastica ritmica e dalla formazione contemporanea; la coreografia è quasi tutta scritta e c’è molto meno spazio per l’improvvisazione rispetto al passato. Tutti i danzatori sono stati scelti per la loro grande capacità atletica rispetto alla richiesta coreografica». Tante presenze in scena dunque che, continua Amico: «Generano

renze: «c’è una deviazione rispetto alla trilogia, nel senso che la perdita di identità in questo ultimo lavoro va a rafforzare la geometria dello spazio. – dice Marco Valerio Amico – Nel corpo non c’è sessualità, né narrazione. Per la prima volta lavoriamo con un ottetto di danzatori, tutti under 35, provenienti dal Balletto di Toscana, dal Balletto di Sardegna,

molti dialoghi sul palcoscenico, tante azioni, una sorta di “continuo parlare” dei corpi e per noi questa è una grossa novità, perché siamo sempre stati molto minimalisti. Tutto è fortemente fondato sulla relazione: i danzatori sono in continuo ascolto rispetto agli elementi scenici, le sequenze stesse sono tutte relazionali. È un lavoro d’ensemble,

come una composizione orchestrale». Anche qui non mancano i riferimenti colti, in questo caso dalla settima arte: «Il mio nome è Xebeche “colui che parla ad alta voce senza dire nulla”. Preferisco essere chiamato Nessuno» così Jim Jarmush, nel suo Dead Man (1995) fa da perfetto contraltare alla ricerca dei nanou, che portano il conflitto Iaddove il corpo è forma antropomorfica che si confronta con un recinto geometrico, nell’esperimento retorico del voler ricreare la perfezione. «La struttura coreografica è una continua mutazione che segue diversamente il passaggio del corpo e la trasformazione che questo da al luogo: un infinito piano sequenza che si intreccia e si riversa su se stesso fino a diventare nodo e quindi a scoppiare. Lo spazio coreografico è una campitura in cui il corpo è una traccia residua, un’impronta»: i labirinti intricati di Xebeche diventano così pure presenze, «corpi tesi oltre la danza verso confini incerti, di ambienti, luci, oggetti, suoni, a formare labirinti intricati o quadri apparentemente tersi, segni essenziali per suonare allarmi sul nostro presente confuso e smarrito nella seduzione delle immagini». E proprio nella fascinazione visiva sta il nocciolo della poetica firmata nanou, un collettivo che sin dal principio ha cercato l’identificazione in una sorta di linguaggio cinematografico dal vivo, in cui il corpo, la luce, il suono, la scena sono elementi della composizione coreografica, che escono dalle gerarchie per creare un progetto comune: «come nel cinema, le figure del regista, del direttore della fotografia, del montatore, del sound designer possono divenire comprimari, così nella nostra idea compositiva coreografica, il suono si fa corpo, la luce si fa tempo e il corpo si fa traccia di un percorso». Solo che qui è tutto atemporale. ❍


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Genio israeliano

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Batsheva, tutta l’energia della Decadance

Il coreografo e fondatore della strepitosa compagnia di ballo di Tel Aviv, Ohad Naharin, è anche l’ideatore di Gaga, un linguaggio di movimenti finalizzato al raggiungimento di una profonda conoscenza e consapevolezza di se stessi attraverso il corpo e i suoi movimenti DI LINDA LANDI

Immaginate di scegliere dal menu del vostro ristorante preferito – quello che non sbaglia, in cui vi piace tutto e in cui ritrovate sempre il gusto che amate, ogni volta rivisitato – dieci meravigliosi assaggi di… geniali coreografie. Perché Ohad Naharin non si può definire diversamente da “un genio della danza” e il suo Decadance altro non è che quel sublime menu, in continuo rinnovamento da sedici anni, che ha fatto innamorare le platee di tutto il mondo. Si può considerare una riuscita playlist di grandi successi del coreografo israeliano capace di toccare tutte le corde del suo repertorio insieme al cuore dello spettatore, che viene trascinato “dentro” le coreografie dall’energia, la finezza e la pulizia dei movimenti, l’estro e la capacità di variare con mano sicura le scritture coreografiche e i nonalfabeti della danza contemporanea.

Creato per festeggiare i dieci anni di direzione artistica del coreografo israeliano alla Batsheva Dance Company, punta di diamante tra compagnie internazionali nata cinquant’anni fa a Tel Aviv sotto la buona stella di Martha Graham, Decadance (in programma mercoledì 6 luglio, alle ore 21.30 al Palazzo Mauro de Andrè) è un capolavoro in continua evoluzione composto come un puzzle sequenziale in cui i singoli pezzi dialogano tra loro in modo perfettamente orchestrato. Vi possono convivere, senza stridere mai, la ritualità della sinagoga, il cha-cha-cha, la musica barocca e la techno più sincopata. Ma anche gli echi della tradizione israeliana, trasposti qui in un melting pot di etnie e provenienze culturali ben rappresentato dalla composizione del corpo di ballo, sia della compagnia ammiraglia (protagonista dello spettacolo a Ravenna), sia del già apprezzato talentuoso vivaio, l’Ensemble Junior.

Appare chiaro che si sta parlando di una delle realtà più importanti della scena mondiale che, della danza, ha saputo profondamente rivoluzionare i linguaggi in un mezzo secolo di attività. La prima a godere della direzione artistica della leggendaria Martha Graham, nel 1964, e ad essere autorizzata per l’esecuzione delle sue coreografie. Ohad Naharin, allievo della Graham stessa, ha assunto a sua volta la direzione della compagnia nel 1990, potenziando e ampliando il repertorio, e perseguendo quell’unità di passione ed esecuzione che riesce a rendere ogni performance profondamente autentica e viscerale. Naharin è anche l’ideatore di Gaga, un linguaggio di movimenti sviluppato all’interno della sua esperienza alla Batsheva, finalizzato al raggiungimento di una profonda conoscenza e consapevolezza di se stessi attraverso il corpo e i suoi movimenti. «Mi piace rompere e ricostruire il >>


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Genio israeliano

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mio lavoro. Implica una sottrazione di peso (cosĂŹ da poter volare o almeno galleggiare‌)Âť spiega Naharin. I danzatori vengono cosĂŹ sottoposti ad allenamenti quotidiani che, oltre alla ricerca delle innumerevoli potenzialitĂ e qualitĂ del movimento, si focalizzano anche sullo sviluppo della propria sensibilitĂ , rendendo gli interpreti delle coreografie attori propositivi nel processo creativo. A vederlo oggi non c’è da stupirsi se l’artista israeliano, classe 1952, quando era studente negli Anni ’70 fu immediatamente notato dalla Graham e invitato di conseguenza nella Grande Mela per perfezionarsi con una borsa di studio dell’America-Israel Cultural Foundation presso la School of American Ballet, proseguita poi presso la prestigiosa Juillard School e completata con Maggie Black e David Howard. Anche la sua carriera di interprete contempla poi collaborazioni con numerose compagnie internazionali, tra le quali l’israeliana Bat-Dor e il Ballet Bejart du XXe Siècle a Bruxelles, che incrociano i suoi destini prima di tornare a New York

nel 1980 e creare unitamente alla moglie, Mari Kajiwara (poi scomparsa nel 2001) la Ohad Naharin Dance Company. Seguono dieci anni di ininterrotti successi internazionali, la cui eco produce commissioni di nuovi lavori da parte di importanti compagnie, tra queste la Nederlands Dans Theater, e proprio la Batsheva Dance Company. CosĂŹ, nel 1990 viene nominato alla direzione artistica della Batsheva (posizione mantenuta fino ad oggi) creando nel corso degli anni oltre trenta nuovi lavori, forte anche di una profonda conoscenza in ambito musicale che puntualmente sa mettere a sistema con le coreografie, amplificandone il forte impatto emotivo. Un artista “caldoâ€?, originale e fortemente inventivo, che a tutt’oggi è ancora uno dei coreografi piĂš richiesti da parte delle maggiori compagnie del mondo ed è stato insignito di numerosi premi e riconoscimenti, come il Chevalier de l'Ordre des Arts et des Lettres (nel 1998), il New York Dance and Performance (Bessie) Award per la creazione Virus (nel 2002), e Anaphaza (nel 2004), o l’ Emet Prize nella categoria delle Arti e della Cultura (nel 2009). â??

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L’eroica vita di Nelson Mandela in un’opera in tre atti DI LINDA LANDI

Comincia dall’atmosfera innocente, sacrale e profetica di un oratorio il “cammino sulla lunga strada della libertà” di “Madiba”, icona del Novecento cui è dedicato il 2016 del Ravenna Festival. In prima nazionale al Teatro Alighieri, dal 9 al 12 giugno, arriva infatti Mandela Trilogy, opera scritta e diretta da Michael Williams e prodotta dalla Cape Town Opera (la principale struttura produttiva di ambito operistico attiva in Africa) che ripercorre la vita del rivoluzionario sudafricano attraverso tre atti in altrettante “tinte” musicali, incentrati su alcune delle principali svolte della sua esistenza, partendo dalla giovinezza nella regione del Transkei, fino alla storica pagina legata all’epilogo dell’apartheid. Nelson Mandela, rivoluzionario prima e uomo di governo poi, è

stato una delle principali figure del Novecento, capace di scuotere le coscienze dei suoi connazionali anche dal carcere, dove durante i ventisette anni di detenzione continuò a gridare la sua rabbia nei confronti delle leggi razziali che, dalla fine degli Anni ‘40, condizionarono il Sudafrica fino alla scarcerazione nel 1990 e all’elezione a capo di Stato nel 1994. È indubbiamente un’impresa non facile, la sfida di Williams: riportare un tema così politicamente controverso sulla scena, e al contempo intrattenere il pubblico trattando argomenti di una drammaticità tanto profonda. Ma la riuscita omogeneità tra musical, opera e musica folk produce un bilanciamento perfetto che non tradirà le aspettative di chi cerchi una lettura storicamente fedele e uno spettacolo appagante. Il lavoro apre sulle melodie dei

canti tradizionali africani, affrontando inizialmente l’infanzia del giovane Mandela, l’amicizia col cugino Justice, la tribù Thembu: si ricorda poi la figura di Makhanda, primo martire della libertà, ribellatosi agli inglesi ma sconfitto e imprigionato a Robben Island, dalla quale tentò una fuga a nuoto nel 1819 morendo però annegato. L’espulsione dall’università e il rifiuto di un matrimonio combinato chiude il primo atto col protagonista che si sposta a Johannesburg. Sulle note jazzate della seconda parte, il sipario si alza sul primo Mandela attivista, i disordini a Sophiatown, sobborgo della città, il rapporto conflittuale con la prima moglie, la ratifica a Kliptown del Freedom Charter, documento programmatico antirazziale. Dopo l’intervallo, il terzo atto si apre infine con la sentenza di carcerazione, la morte della madre, il sostegno

della moglie Winnie durante la lunga prigionia e la fine della reclusione, col suo primo discorso da uomo di nuovo libero a Cape Town. L’autore Michael Williams, artista premiato ed esperto, ha diretto in passato molte opere in Sudafrica, tra cui Rigoletto, Madama Butterfly, La traviata e Turandot ed è oggi managing director della prestigiosa Cape Town Opera. Ha scelto compositori diversi, che riflettessero per ogni atto le tematiche affrontate: toni vibranti del jazz e del blues di Mike Campbell, uno dei più prolifici musicisti jazz del Sudafrica per la parte centrale, mentre Péter Louis van Dijk, compositore i cui lavori sono conosciuti e riproposti a livello internazionale, si è occupato del primo e del terzo atto. Saranno anche tre i diversi interpreti che daranno voce a Mandela. Due compositori per tre atti in contrasto tra >>


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opera, musical

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Tributo a Madiba Ravenna Festival Magazine 2016

loro solo formalmente, ma tutti improntati a mettere in luce la drammaticità delle vicende. Come lo stesso Williams ha ricordato, è questo un lavoro dove la libertà diventa il motore immobile delle vicende, e «questione chiave che spiega perché diventi per noi così importante», citando altresì la parte iniziale legata alla formazione di Mandela come la più interessante, perché fulcro di quella che sarà la sua vita e soprattutto teatro di vicende che la maggior parte del pubblico ignora a proposito di un personaggio noto per le sue battaglie, ma non per le sue origini. Per il regista ogni buona opera parla di conflitti, e così questo potente affresco di una delle pagine più importanti della storia africana. Alle coreografie Sibonakaliso Ndaba, che ha lavorato in passato col il Jazzart Dance Theatre di Cape Town come performer, danzatrice e insegnante dal 1994 al 2001, anno in cui tornò a Durban dove si affermò per la sua originale commistione di danza africana e contemporanea. È questa una realizzazione che affonda le sue radici nella cultura sudafricana, e ne rivendica sia le battaglie che l’orgoglioso moto di rivalsa a livello storico e artistico: non solo un lavoro a più mani e più interpreti che ne mostra le capacità

musicali e interpretative, ma un modo per riproporre, attraverso il personaggio di maggior spicco della sua storia, il carattere fiero di un popolo che nell’arco di un secolo ha raggiunto la libertà rifiutandosi di chinare la testa. E sono proprio gli artisti, molti dei quali cresciuti in questo contesto, a farsi portavoce dello spirito stesso dell’appassionante dramma musicale che riuscirà a catapultare lo spettatore all’interno di un percorso di formazione e ribellione di rara potenza. A corredo di questo importante appuntamento, il Festival propone altri incontri che mettono a fuoco la ricchezza del Sudafrica: il 28 maggio a Forlì la Chiesa di San Giacomo ospita Ladysmith Black Mambazo, già partner artistico di Paul Simon. il 20 giugno è la volta della Rocca Brancaleone che mette in scena For Mandela di Pino Minafra, progetto intorno alla figura di Louis Moholo, batterista tra i più significativi artisti del suo Paese che guiderà un concerto volto a ricordare la drammatica pagina dell’apartheid e dei suoi protagonisti. Per concludere Hugh Masekela, compagno di Miriam Makeba e musicista attivamente impegnato della campagna per la scarcerazione di Mandela, si esibirà il 23 giugno al Teatro Rasi. ❍

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Raimbow nation

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Free South Africa l’inno di LBM e Hugh Masekela DI ROBERTO VALENTINO

È più che un semplice focus l’ampio spazio che Ravenna Festival dedica quest’anno alla musica sudafricana e a un’icona della lotta per la libertà come Nelson Mandela: è quasi un festival nel festival, dove varie anime della musica di un uno paesi più belli, ma anche tormentati, si incontrano in un ideale abbraccio fra tradizione e modernità, fra suoni e ritmi che provengono da lontano e che nel contempo parlano una lingua moderna, comprensibile a tutti. Un paese fortemente multietnico nel quale per lunghi, oscuri decenni è prevalsa su ogni cosa la logica terribile dell’apartheid. Ma oggi, che l’apartheid è solo un brutto ricordo, il Sudafrica si è conquistato meritatamente sul campo l’appellativo di Rainbow Nation: una definizione che calza a pennello anche alla musica nata e cresciuta nella parte geograficamente più estrema del continente africano. Il primo appuntamento con la musica del Sudafrica è fissato per sabato 28 maggio, a Forlì, nella Chiesa di San Giacomo: di scena Ladysmith Black Mambazo, uno dei gruppi vocali “a cappella” più famosi al mondo, depositari degli stili vocali tradizionali Zulu

Hugh Masekela

isicathamiya e mbube (che in lingua Zulu significa leone), tangibili esempi di intrecci culturali e religiosi. Fondati nel 1964 da Joseph Shabalala, i Ladysmith Black Mambazo hanno conquistato immediatamente un ruolo di primo piano tra gli artisti del continente africano (sono stati i primi ad ottenere un disco d’oro), ma hanno dovuto attendere la seconda metà degli anni Ottanta per vedere la loro stella risplendere ovunque. Del 1986 è, infatti, l’album-fenomeno Graceland, nel quale il cantautore americano Paul Simon (la prima metà della premiata ditta Simon & Garfunkel) coinvolge il gruppo insieme a una pletora di altri musicisti africani e non. Con 16 milioni di copie vendute, Graceland rappresenta per i Ladysmith Black Mambazo un formidabile trampolino di lancio planetario: da questo momento fioccano gli inviti a partecipare ai festival più titolati (Montreux incluso) e collaborazioni con pop e rockstar del calibro di Stevie Wonder, Dolly Parton, Ben Harper e Michael Jackson, che li vuole nel video di Moonwalker. Persino il mondo dei cartoon si accorge di loro e li coinvolge nella colonna sonora del Re Leone della Disney. E poi: cantano di fronte a Giovanni Paolo II, accompagnano Nelson Mandela alla cerimonia di consegna del Premio Nobel per la Pace e salutano la sua storica nomina a Presidente del Sudafrica. Da un po’ di tempo Joseph

Shabalala ha lasciato le redini dei Ladysmith Black Mambazo al figlio Thamsanqa, preferendo stare dietro le quinte ma

Ladysmith Black Manbazo

garantendo sempre l’autenticità del “suo” coro. Un altro degli ambasciatori della musica sudafricana è il trombettista e vocalist Hugh Masekela, protagonista del concerto di giovedì 23 giugno al Teatro Rasi di Ravenna con la sua band di cinque elementi (Cameron John Ward alla chitarra, Johan Wilem Mthethwa alle tastiere, Abednigo Sibongiseni Zulu al basso, Lee-Roy Sauls alla batteria e Francis Manneh Edward Fuster alle percussioni). Classe 1939, Hugh Masekela è stato uno dei primi musicisti sudafricani a sfuggire all’apartheid, contro il quale ha sempre combattuto strenuamente, e a farsi conoscere a livello internazionale. Il jazz è stato il suo primo amore musicale: ha 14 anni quando vede il film Young Man With A Horn (nel quale l’attore Kirk Douglas modella il suo personaggio sulla figura leggendaria di Bix Beiderbecke) e riceve in regalo una tromba; di lì a poco entra a far parte della Huddleston Jazz Band, la prima orchestra jazz giovanile africana degli anni Cinquanta. E alla fine di quel decennio Hugh Masekela è già uno dei nomi più noti dell’Afro Jazz, anche in qualità di componente dei The Jazz Epistles, costituiti insieme al pianista Dollar Brand (poi noto come Abdullah Ibrahim) e ad altri musici-

sti di rango. All’indomani del massacro di Sharpeville, che costò la vita a 69 persone, e all’indurirsi delle leggi razziste dell’apartheid, Hugh Masekela prende la via della Gran Bretagna e quindi degli Stati Uniti. Nel 1962 esce il suo primo album, Trumpet Africaine. Nel 1964 sposa la cantante Miriam Makeba, altro nome di grande rilievo della musica sudafricana. Nel 1967 partecipa al Monterey Pop Festival, il primo dei grandi raduni musicali giovanili: Hugh Masekela si esibisce la sera del 17 giugno, preceduto dai Moby Grape e seguito dai già celebri Byrds, trascinando migliaia di giovani ancora del tutto o quasi a digiuno di ritmi africani. La pur breve apparizione nel film tratto dal festival farà il resto, permettendo a Hugh Masekela di continuare a tenere alta la bandiera di una musica in cui jazz e tradizione africana sono sintonizzati sulla medesima lunghezza d’onda. E ancora oggi, dopo tanti anni di onorata carriera e di battaglie civili (raccontati nell’autobiografia Still Grazing: The Musical Journey of Hugh Masekela), il trombettista di Witbank, che nel 1990 è tornato a vivere in Sud Africa, giusto in tempo di assistere alla liberazione di Nelson Mandela, è uno dei simboli di una musica che per sua natura non conosce barriere di razza. Musica libera, colorata proprio come l’arcobaleno. ❍


HIMALAYA PAG RFM:Rafest mastro 09/05/16 15.35 Pagina 1

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Suoni meticci

jazz, folk, rock

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Tippet & Moholo oltre i confini del jazz DI ROBERTO VALENTINO

Due serate nel solco del jazz europeo, con venature diverse ma con molti punti in comune. A far da collante ai due concerti di lunedì 20 (Rocca Brancaleone) e martedì 21 giugno (Teatro Rasi) saranno alcune personalità centrali del British Jazz come si è sviluppato dagli anni Sessanta in avanti: il batterista sudafricano Louis Moholo-Moholo, il pianista Keith Tippett e sua moglie Julie, avventurosa vocalist con lontani trascorsi nel rock. Tutti e tre figureranno il 20 in qualità di special guests della MinAfric Orchestra, ben assortita compagine guidata dal trombettista pugliese Pino Minafra, per poi ripresentarsi con le rispettive proposte la sera dopo. Invitata a Ravenna Festival per rendere omaggio a Nelson Mandela, la MinAfric Orchestra nasce nel 2007 come naturale prosecuzione del Sud Ensemble di Pino Minafra: alcuni dei suoi componenti, ad iniziare dallo stesso leader, hanno alle spalle l’importante esperienza della Italian Instabile Orchestra, sorta di nazionale del jazz italiano meno incline alle convenzioni attivissima (anche all’estero) negli anni Novanta e nel decennio successivo. Partendo da musicalità differenti,

mescolando molteplici umori e colori, la MinAfric Orchestra intende dare voce e suono alle musiche del nostro tempo, volgendo lo sguardo a tutto l'orizzonte geografico e culturale del Sud, focalizzando la propria attenzione sulle complesse diversità che circondano la Puglia, naturale ponte verso l'Oriente, il Mediterraneo, l'Africa, i Balcani e oggi verso la Nuova Europa. L'orchestra, condivisa da Pino Minafra assieme al figlio Livio in veste di pianista, compositore e arrangiatore, è formata da altri valorosi jazzisti sia pugliesi, tra i quali i sassofonisti Roberto Ottaviano a Gaetano Partipilo, sia provenienti da altre regioni d’Italia (fra loro, il sassofonista piemontese Carlo Actis Dato e il trombonista siciliano Sebi Tramontana). Il progetto For Mandela è un invito a non dimenticare un tremendo periodo storico caratterizzato dall’apartheid, attraverso composizioni di Chris McGregor, Dudu Pukwana, Johnny Dyani, Mongezi Feza, Harry Miller, Enoche Sontoga , oltre a brani dello stesso Keith Tippett e una dedica di Pino Minafra al grande poeta cileno Pablo Neruda. A dare un significato particolare al concerto della MinAfric Orchestra è proprio la presenza di Louis Moholo-Moholo, ultimo testimone vivente della straordinaria e fertile

stagione del jazz sudafricano degli anni Sessanta. Membro fondatore dei Blue Notes, successivamente componente dei Brotherhood of Breath e di altri gruppi, Louis Moholo-Moholo ha anche collaborato con uno dei guru della rivoluzione dl free jazz, il pianista Cecil Taylor, e con molti altri jazzmen delle due sponde dell’Atlantico (Steve Lacy, Derek Bailey, Roswell Rudd, Archie Shepp, John Tchicai, Keith Tippett, Peter Brötzmann, Enrico Rava, solo per citarne alcuni). In apertura della serata del 21, il settantaseienne batterista di Cape Town si proporrà alla testa dei suoi 5 Blokes, i cui componenti (i sassofonisti Jason Yarde e Shabaka Hutchings, il pianista Alexander Hawkins, nuova star del jazz europeo, e il contrabbassista John Edwards) sono ben sintonizzati sulla lunghezza d’onda di una musica che trae linfa vitale dalla spinta propulsiva del leader e da melodie ispirate dalla tradizione sudafricana. Il risultato è un rito sonoro cui è praticamente impossibile non restarne coinvolti. Anche la musica di Keith e Julie Tippett, solida coppia nella vita di tutti i giorni come nell’arte, possiede un che di spirituale, insieme a un pizzico di magia e mistero. Del pianista, il cui personale stile è un mix di influenze del free jazz americano e delle tradizioni europea e orienta-

Louis Moholo-Moholo

le, in molti ricordano tuttora la collaborazione con i King Crimson, gruppo icona del progressive rock, e la costituzione di una colossale orchestra denominata Centipede. Al centro del lavoro di Keith Tippett c’è da sempre il rapporto dialogico fra composizione e improvvisazione, dove l’una e l’altra convivono in armonia, talvolta confondendosi in una sorta di stimolante gioco mimetico. Affermatasi negli anni Sessanta al fianco dell’organista Brian Auger, con il nome di Julie Driscoll, Julie Tippett ha in seguito abbandonato il mondo del rock per concentrarsi esclusivamente sull’esplorazione delle proprie notevoli risorse vocali. Tra i suoi album spicca, in questa prospettiva, Shadow Puppeteer del 1999, seducente affresco per voce e strumenti vari che va annoverato tra gli esempi più alti della vocalità contemporanea. Da menzionare sono anche le collaborazioni con altri audaci esponenti del pianeta voce quali i connazionali Phil Minton e Maggie Nichols. Le performance del duo Keith e Julie Tippett, ospite della seconda parte della serata al Teatro Rasi del 21 giugno, sono un concentrato di lirismo, di poesia, di visionarie incursioni in territori dove la sperimentazione è sottesa da una palpabile tensione creativa. ❍

MinAfric Orchestra


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Fuoriclasse

jazz, folk, rock

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SuperBollani, divertissement lungo i tasti di un piano solo DI

ROBERTO VALENTINO

Musicista, compositore, cantante, scrittore di libri ad argomento musicale e non, autore e attore teatrale, ideatore e conduttore di programmi televisivi e radiofonici. Uno solo, in Italia e forse addirittura nel mondo, può interpretare così tanti ruoli: Stefano Bollani! Si potrebbe pensare a uno a cui va a pennello l’arte del travestimento. E forse è anche così. Ma a Stefano Bollani, nato a Milano il

5 dicembre 1972, cresciuto sin da bambino a Firenze e quindi a tutti gli effetti toscano di adozione, una cosa piace innanzitutto fare: mettersi continuamente in gioco. «Guarda che per come suoni tu, se ti metti a fare jazz, in pochissimo diventi il numero uno», gli disse una volta al telefono Enrico Rava, il più internazionale dei jazzisti italiani e uno che, in tanti anni di onorata carriera, di giovani talenti ne ha scoperti tanti e continua a scovarne tuttora.

Bollani, all’epoca ancora agli inizi di carriera, se la stava già cavando egregiamente, dopo gli studi al Conservatorio, come sideman, o come dice lui “impiegato di cantanti”. Suonava con Irene Grandi, con la quale in seguito riprenderà a collaborare, Raf e Jovanotti. Niente da dire, Rava ci vedeva giusto e in davvero brevissimo tempo, dall’alto di una tecnica prodigiosa e di un estro non comune, la stella di Bollani ha preso a brillare di luce propria nel jazz. Jazz non solo e non tanto come genere codificato ma come spazio aperto, nel caso specifico pressoché sconfinato, nel quale far confluire e dal quale far transitare passioni musicali diversissime fra loro: la canzone italiana (con in cima alle preferenze l’amatissimo Carosone), Frank Zappa, il Brasile, il prog rock dei King Crimson, ecc. Ma anche influenze letterarie: per esempio, il Raymond Queneau de Les Fleurs Bleues, che ha dato il titolo a uno dei primi album importanti del pianista. E poi c’è la musica classica: Gershwin, Ravel, Stravinskji, Kurt Weill, interpretati sotto la direzione del Maestro Riccardo Chailly, con il quale Bollani ha dato vita a una emblematica “strana coppia”. Già da queste poche annotazioni si capisce bene che riannodare le fila della carriera di Stefano Bollani non è cosa semplice, tanti sono gli intrecci, le deviazioni di percorso, i guizzi improvvisi che l’hanno sino ad ora caratterizzata e che, presumibilmente, l’accompagneranno sempre. Tanto per chiarire, o complicare ancor più le cose, diamo un’occhiata alle collaborazioni internazionali: Chick Corea, Caetano Veloso, Hamilton de Holanda, Daniel Harding, Paul Motian, Bill Frisell, Hector Zazou, Richard Galliano, Bobby McFerrin, Gato Barbieri, Lee Konitz, Pat Metheny, Martial Solal. Tra que-

ste si colloca il notevole Danish Trio, costituito con il contrabbassista Jesper Bodilsen e il batterista Morten Lund: uno dei piano jazz trios più avvincenti del jazz contemporaneo. Una quarantina i dischi incisi come leader o co-leader, registrati per marchi prestigiosi (ECM, Decca, Label Bleu), tanti, forse persino troppi pure per uno come Bollani che fa una fatica immane a tenere le idee solo nella testa e nelle dita. Il recente album Arrivano gli alieni, i cui contenuti possono in qualche modo avvicinarsi a quello che potrebbe essere il canovaccio del concerto in piano solo di Ravenna Festival, in programma al Teatro Diego Fabbri di Forlì domenica 29 maggio, offre uno spaccato significativo. Nel disco c’è un po’ di tutto: canzonette italiche come Quando quando quando di Tony Renis, un evergreen della musica brasiliana quale Aquarela do Brasil di Ary Barroso, un celebre standard a stelle e strisce come You Don’t Know What Love Is, un classico del soul jazz quale The Preacher di Horace Silver, una famosa pop song dai profumi caraibici come Matilda di Harry Belafonte e via di questo passo, allargando la scaletta a brani originali di varia fattura. E tutto ha un suo perché. Anche quando Bollani canta, cosa che fa arricciare un pochino il naso ai “puristi del jazz”. Ma a Bollani, ormai lo sanno tutti, incluso il pubblico sanremese, cantare piace, benché suonare il pianoforte gli venga molto molto meglio. E quando si lancia in certe imitazioni (Johnny Dorelli, Battiato, ecc.) è esilarante, irresistibile. Eh sì, a Bollani piace anche fare il comico (come, peraltro, non disdegnavano di fare illustri jazzmen del passato tipo Louis Armstrong e Fats Waller). A volte, a dire il vero, esagera un po’. Ma nelle giuste dosi, è formidabile! ❍


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DI MATTEO CAVEZZALI

Per Stefano Bollani la musica è enorme gioco da re-inventare in continuazione, da solo o con i compari più diversi. Bollani sale sul palco per imparare ogni sera qualcosa e «perché è più conveniente che pagare uno psicanalista». Cerca stimoli ovunque, in tutta la musica del passato ma soprattutto esplora il presente, l’ attimo, improvvisando a fianco di grandi artisti come il suo nobile mentore Enrico Rava, Richard Galliano, Bill Frisell, Paul Motian, Chick Corea, Hamilton de Holanda. A Forlì si esibirà da solo, o meglio con il pubblico che gli farà da contro altare, anche musicale. Da dove nasce l’idea del concerto che farai per il Ravenna Festival? «Non è ancora nata. Nascerà solo quando comincerò a suonare. Nasce dal vivere il momento, dal pubblico e dalla serata. Non so nemmeno io cosa succederà». Quindi nessuna anticipazione sui brani che farai, quando li scegli, nei camerini? «No, proprio sul momento. Mi lascio guidare dall’istante, dall’improvvisazione. Fino a un attimo prima non ho idea di cosa suonerò». Ce ne sarà però uno che fai sempre... «Ce n’è uno che ultimamente faccio spesso, ma non te lo dico, altrimenti se lo scrivi sul giornale poi mi tocca suonarlo e non voglio essere obbligato… (ride)». Proviamo a ribaltare la cosa: C’è qualche brano che non farai sicuramente? «I Beatles non li suono mai. Li adoro, ma non riesco a immaginare di rimontare le loro canzoni in maniera diversa da come sono». Hai usato la parola “montaggio”, il tuo modo di suonare è proprio un continuo smontare e rimontare i brani più diversi, mescolandoli, come se fosse il montaggio di un film. «Sì, direi proprio di sì, a volte ragiono proprio per immagini mentre suono, mi piace questa dimensione visiva che può dare la musica». Passi dalla classica al jazz, alla musica pop a jingle, come scegli cosa mettere nel tuo frullatore musicale? «Mi muovo a gusto, ci sono tante cose meravigliose nella storia della musica che sono lì per essere rimasticate. Quando sento una bella canzone italiana degli anni sessanta mi viene subito in mente la possibilità di smontare rimontare i componenti. Ogni sera lo faccio in maniera diversa a volte prendo musiche dal passato remoto, altre volte pesco da quello che ho sentito il pomeriggio». Torni a suonare da solo dopo aver girato molto con il gruppo, com’è tornare solo sul palco?

«La passione è la stessa, suonare è sempre suonare. Cambiano solo le relazioni e la libertà di improvvisare che da solo è senza alcun vincolo. Amo suonare in entrambe le maniere e cerco di continuare a farle sempre in parallelo. Ho bisogno sempre di fare molte cose contemporaneamente in modo che una arricchisca l’altra». Enrico Rava ha detto che quando lo hai seguito hai smesso di fare “l’impiegato dei cantanti”, quanto coraggio c’è voluto a “licenziarsi” da Jovanotti quando iniziasti la tua carriera individuale? «Coraggio neanche un po’. Quando Enrico Rava, che per me era un mito, mi ha chiamato e ha detto “abbandona il tour di Jovanotti e vieni a suonare con me”, io non ci ho nemmeno pensato su. Quella era la musica che volevo fare. Certo si può parlare del lato economico, quell’anno ho guadagnato meno di quello che avrei potuto guadagnare, ma per fortuna non si ragiona così. Uno pensa a cosa è meglio per lui come musicista e cerca di fare quello che ha voglia di fare. Anche con Jovanotti mi divertivo, ma certo non quanto avrei fatto dopo con Rava». Hai collaborato con moltissimi mostri sacri della musica. Tra le varie collaborazioni, quali hanno mutato il tuo modo di suonare? «Incontri importanti ne ho fatti molti. Prima di tutti Enrico Rava. Mi sono sentito molto motivato ed ero più libero di suonare con lui che con il mio piccolo gruppo di allora. A essere leader di un gruppo mi facevo un sacco di problemi che invece con lui non avevo, perché mi dava grande fiducia in me stesso e quindi libertà. Poi Riccardo Chailly, che mi ha dato fiducia e mi ha proposto una cosa a cui non avevo mai pensato, incidere con una grande orchestra sinfonica un concerto per pianoforte e orchestra, suonando nota per nota senza improvvisare. Loro sono i miei due mentori». E l’esperienza radiofonica? «In radio abbiamo evocato uno spirito, lo spirito del Dottor Djambé che ci siamo inventati. L’idea era prendere in giro Radio3 su Radio3, e loro ce lo hanno lasciato fare. Prendevamo in giro la cultura, che solitamente viene salvata. Tutti i comici se la prendono con bersagli facili: i politici, i potenti o le minoranze etniche, noi invece volevamo bersagliare noi stessi». E Marino Sinibaldi, il direttore di Radio3, non si è offeso? «Tutt’altro era molto contento, qualcun altro invece si è offeso… Ci divertivamo a creare musicisti inventati che potevano suonare cose che in un disco non ci era consentito». E perché? «Perché erano veramente brutte. Ma il brutto bisogna tirarlo fuori, altrimenti ti

Sostiene Bollani: «Che brani suonerò in concerto? Non ne ho idea Mi lascio guidare dall’istante, dall’improvvisazione»

rimane dentro». Una pratica terapeutica insomma… «Molto. È divertente e stimolante fare cose brutte e prendersi in giro da soli. Stai girando moltissimo in questi mesi. Com’è confrontarsi con pubblici così diversi, visto che il tuo spettacolo nasce dal contatto diretto col pubblico? «Non dipende dalla città ma dal pubblico. Certo a Buenos Aires sono caldissimi e in Giappone non vola una mosca, ma la differenza vera la fa il luogo che

crea l’ambiente intorno». A Ravenna hai suonato molte volte, te ne ricordi qualcuna o i ricordi si perdono tra le migliaia di concerti che hai fatto? «Ne ricordo diversi, due in particolare. Una in cui ho suonato con Pat Metheny all’Alighieri, ho suonato solo due volte con lui, poi un concerto con Gato Barbieri alla Rocca Brancaleone. Lo ricordo benissimo, fu una gran serata». ❍

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avanguardia

classica, sacra, contemporanea

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Michael Nyman, cascata di note con Water Dances Tra i più amati e innovativi compositori inglesi, Michael Nyman ha scritto opere, colonne sonore, concerti per quartetti d’archi e orchestre. Molto più di un compositore, Nyman è inoltre musicista, direttore d’orchestra, pianista, autore, musicologo e ora anche fotografo e regista. La sua fervente e poliedrica creatività lo ha reso uno delle più affascinanti e influenti icone culturali della nostra epoca. La sua carriera è caratterizzata da notevoli successi – anche rispetto al grande pubblico – che va dalla colonna sonora di Lezioni di Piano (vincitrice agli Oscar, per l’omonimo film di Jane Campion del 1993) all’opera The Man Who Mistook His Wife For A Hat, passando per una

serie di importanti collaborazioni sia in ambito classico che popolare, da Sir Harrison Birtwistle a Damon Albarn. Ma la sua ricerca continua, tesa ad allargare i confini della propria arte. In questa attività inesausta si collocano le recenti tournée in tutto il mondo con la Michael Nyman Band e collaborazioni con diversi artisti, come il cantante David McAlmont, un trio polacco e l’innovativo artista del suono Carsten Nicolai. Nyman segna il proprio percorso nel mondo della musica a partire dalla fine degli anni Sessanta, quando conia il termine minimalismo (che lo vede affiancato a compositori come Terry Riley, Steve Reich e Phip Glass) e, poco più che ventenne, si vede assegnata la

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prima commissione: la stesura del libretto per l’opera di Harrison Birtwistle Down By The Greenwood Side. Nel 1976 dà vita al proprio ensemble, la Campiello Band (ora Michael Nyman Band) che da allora è il laboratorio in cui nascono le sue opere sperimentali e innovative. Nyman emrge anche come compositore di musiche da film, ruolo per cui è principalmente conosciuto dal grande pubblico. Tra le più celebri colonne sonore composte da Nyman si annoverano una dozzina di film di Peter Greenaway, come I misteri del giardino di Compton House, Drowning by numbers, Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante; Fine di una storia di Neil Jordan; alcune pellicole di Michael Winterbottom, tra cui

in collaborazione con


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avanguardia

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Wonderland e Tristram Shandy: A Cock and A Bull Story; l’hollywoodiano Gattaca e L’insaziabile (di Antonia Bird) scritta a quattro mani con l’amico Damon Albarn. La sua reputazione tra i critici musicali si fonda sul’eclettico insieme di lavori scritti per vari tipi di ensemble. Non solo la Michael Nyman Band, ma anche orchestre sinfoniche, cori e formazioni da camera. Ha inoltre scritto alcune opere, tra cui The Man Who Mistook His Wife For a Hat (1986, dal celebre studio di Oliver Sacks) e Facing Goya (2000), e composto musica per balletto per importanti coreografi. Nel 2008 ha pubblicato Sublime, un elegante raccolta di fotografie da lui stesso realizzate. La sua prima mostra, Videofile, in cui le immagini sono esposte accanto a una serie di cortometraggi risale al 2009. In tour con la Michael Nyman Band ha eseguito le musiche dal vivo del film muto del 1929 L’uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov e ha poi registrato il disco Vertov Sounds con le sonorizzazioni degli altri due principali film del regista: A Sixth Part of the World e The Eleventh Year. Successivamente ha realizzato il

film NyMan with a Movie Camera, presentato anche al Torino Film Festival: una ricostruzione per sequenze di Man with a Movie Camera di Dziga Vertov in cui le inquadrature originali sono sostituite da quelle dell’archivio filmico di Michael Nyman. Con la Michael Nyman Band ha portato in concerto il ciclo di canzoni The Glare realizzato in collaborazione con il cantante pop David McAlmont, una delle voci più

apprezzate nel Regno Unito. Sempre con la Michael Nyman Band ha realizzato il progetto Celan Songs, una suite di canzoni basate sulle poesie di Paul Celan, inserite in un programma che include estratti di musiche da film di Nyman relative ad Auschwitz con la presenza in palcoscenico di cantanti ed attori per un concerto reading di grande impatto. Nyman ha di recente pubblicato The Piano Sings 2, seconda raccolta di

musica per pianoforte con la MN Records. Rispetto a The Piano Sings, che nel 2005 aveva lanciato l’etichetta del compositore, il nuovo album copre un repertorio più ampio, sia in termini cronologici sia di genere perché oltre ai brani tratti da film celebri e meno noti al grande pubblico presenta anche due composizioni che non hanno alcun legame con il cinema: Sadie's Song (1999) e Through the Only Window (2012). Nel 2013 Nyman si è dedicato alla sonorizzazione de La Corazzata Potemkin, film icona di Sergei Eisenstein del 1925 che con il suo sorprendente linguaggio visivo e le indimenticabili sequenze ha segnato la storia del cinema. Nell’ambito dell’edizione 2016 del Ravenna Festival (e in collaborazione con Romagna Acque Società delle Fonti nei 50 anni dalla fondazione del Consorzio) Michael Nyman e la sua band proporranno – sabato 23 luglio alle 21, al Teatro Diego Fabbri di Forlì – il concerto straordinario Water Dances, che è anche il titolo di un omonima suite (1985) del musicista inglese, a sua volta “riletta” dall’italiano Nicola Piovani per il film La stanza del figlio di Nanni Moretti. ❍


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Quelle canzoni da un mondo che si poteva ancora cambiare DI FRANCESCO FARABEGOLI

Nel 1992 avevo 15 anni e sul mercato usciva questo disco a cui mi legai molto. Era il primo album, senza titolo, di un gruppo che si chiamava – nientemeno – Rage Against The Machine. Era musica molto bella per i tempi in cui usciva, e molto schierata politicamente. Il nome del gruppo in inglese significa rabbia contro la macchina, ove per la macchina si intende una non meglio specificata entità sociopolitica che molti di noi chiamavano “Il Sistema”. Non mi sono mai preso la briga di definire a me stesso cosa s'intendesse per Il Sistema, anche se ho condotto per molti anni un'esistenza le cui premesse comportavano di combatterlo sempre e comunque e a costo della vita. Una volta lessi una cosa, mi pare fosse stata scritta da Banksy su un muro, e diceva più o meno così: in tantissimi sono disposti a soffrire per la loro arte, ma solo pochi di loro sono anche disposti a imparare a disegnare. Voglio dire che l'arte è una cosa complessa in sé, e poi ci sono le questioni politiche legate all'arte, e spesso è difficile fare stare tutte e due le cose nella stessa testa (da cui il principale problema della musica schierata di oggi, e cioè che in molti casi sta morendo dentro un cliché artistico vecchio come il cucco, o un codice etico non adatto ai tempi che corrono). Ad esempio , nel caso dei Rage Against The Machine, c’era il problema di fare arrivare a quante più persone possibile il messaggio, e questo li costringeva ad accettare un certo numero di compromessi, ed era una cosa abbastanza centrale nel discorso su di loro. Incidevano per Sony e la loro musica poteva tranquillamente andare a finire a fare da colonna sonora alla pubblicità di qualche film d'azione di Schwarzenegger su Italia1, roba concettualmente di ultra-destra il cui pubblico principale era grossomodo lo stesso pubblico che comprava i dischi dei RATM. Quando ero adolescen-

Riflessione semiseria tra arte e politica, dalla protesta contro Il Sistema alle rivolte di Joan Baez, che sarà in concerto al Ravenna Festival il 13 luglio te non era per niente un problema urlare alla rivoluzione prima di cena, mangiare la piadina fatta dalla mamma e rilassarsi in serata con la videocassetta di Commando. E questa credo sia stata una delle più grandi vittorie de Il Sistema: è riuscito a creare i presupposti per vendere la rivoluzione e l'allineamento allo stesso cliente. Noi. Che a un certo punto siamo cresciuti e siamo diventati voci determinanti nel dibattito politico-culturale del paese. Il problema è che per non farci rompere le scatole in merito ai nostri consumi giovanili, abbiamo dovuto metterci d'impegno e sviluppare un sistema culturale che giustificasse più o meno tutto a prescindere dal suo significato. O in alternativa, diventare dei moderati di ultra-centro che tuttavia non disdegnano le espressioni culturali

provenienti dalle frange estremiste. Ci siamo così abituati a questo clima in cui tutto va bene e niente ci definisce che, progressivamente, abbiamo mollato il complottismo e abbiamo smesso di vedere Il Sistema. Così, dalla seconda metà degli anni duemila, il complottismo è finito in mano a un'altra frangia politica ed è diventato gentismo, una specie di agenda politica in cui, ugualmente, va bene tutto a patto che sia portato avanti da persone che non siano colluse con Il Sistema (cioè politica fatta da gente che non ha mai fatto politica). Io sono rimasto indietro, ho accettato un lavoro da impiegato al servizio de Il Sistema e non riesco più ad ascoltare i messaggi dei Rage Against The Machine senza sbadigliare. Non è nemmeno più così fastidioso guardare a quel che

sono diventato: riesco a vedere il me stesso di tanti anni fa senza avere una crisi interiore, e limito il mio disappunto a quelle rare volte che entro in una cabina elettorale e non trovo più la pallina rossa su cui fare la croce. Tanto per quello che serve, dice il me stesso del 2016. Ecco, non ho mai ascoltato molta musica uscita negli anni sessanta e settanta, ma ho sempre desiderato di essere presente quando i folksinger iniziarono a cantare contro lo stato delle cose. Perchè ascolti i dischi di Joan Baez o Dylan o certe cose eccezionali di Pete Seeger, o quelli che un po' di tempo dopo l'hanno fatto quasi uguale nel nostro paese, e dentro c'è – puro e semplice – un altro mondo. Voglio dire, i Beatles facevano una cosa che può essere presa e trasportata all'oggi in un modo più o meno uguale: stavano su un palco, suonavano, la gente sotto urlava, ed era più o meno tutto lì. Quando Bob Dylan uscì fuori probabilmente era la stessa cosa, ma poi era diventato qualcosa di più. Ad ascoltare quei dischi oggi, rimane ancora un briciolo d’impatto sociale, o almeno la percezione di un impatto che potrebbe esserci stato. Voglio dire, quando Bob Dylan cantava che the times they are a-changin’ io credo che qualcuno lo stesse ascoltando, e stesse pensando che i tempi stessero effettivamente cambiando, e che qualcun altro si stesse cacando sotto dalla paura perché in quella canzone si parlava di qualcuno che c’era, e stava per farsi sentire, e forse l’avrebbe fatto anche senza che Dylan incidesse la colonna sonora, ma ora le canzoni c’erano. Così, insomma, se parliamo di Beatles e Stones puoi metter su il disco e goderti la musica, e se parliamo di Dylan e Joan Baez puoi fare lo stesso ma devi anche sforzarti di capire da dove venga quella musica, in che contesto è stata creata, come andavano << allora le cose.


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Blog di carta

jazz, folk, rock

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<< Oggi suona tutto un po’ passé, ma allora forse erano canzoni scomode ed erano anche molto belle e coglievano la vibrazione che c'era ai tempi e rappresentavano qualcuno senza necessariamente volerlo portare dentro una cabina elettorale. E nei testi c'era un avvertimento a chi prendeva le decisioni, uno stiamo arrivando che somiglia a quello che stava sulla bocca dei Rage Against The Machine; ma nei sessanta il mondo sembrava ancora un posto da cambiare, in cui sembrava esserci ancora qualche possibilità di non starci. E sembrava davvero che quelle canzoni fossero state scritte e suonate per essere la colonna sonora di una rivolta che prima o poi sarebbe arrivata. E forse a quei tempi non si doveva ancora combattere Il Sistema, e i cattivi avevano ancora un nome e un cognome e un pessimo taglio di capelli. Ok, probabilmente le persone che le ascoltavano e sognavano il cambiamento cantato da Joan Baez hanno

razionalizzato anche peggio di quanto sia successo a noi, e hanno preso il potere nel modo peggiore e sono diventati i garanti del mantenimento di quell’ordine contro cui cantavano, e oggi usano quelle stesse canzoni per le loro campagne. Ma tutto sommato credo che non sia colpa né dei RATM né tantomeno di Joan Baez, la quale canta in pubblico da quasi sessant'anni e ancora oggi ai concerti continua ad aprire la boccaccia e prender posizione contro il suo governo. Ho sentito dire che una volta chiesero a Robert Smith perché continuasse a salire sul palco truccato. Rispose, grossomodo, che sotto al palco c’erano centinaia di fan che si truccavano come lui, e non sarebbe stato lui a farli sentire degli sfigati. Joan Baez invece continua a indossare la stessa bandiera, e sotto al suo palco ormai son tutti in camicia. Ecco, di certe cose credo si debba avere quantomeno rispetto. ❍

Joan Baez con Bob Dylan in una foto degli anni sessanta

Joan Baez al Festival «A quei tempi i cattivi avevano ancora un nome E un pessimo taglio di capelli...»

(Joan Baez suonerà al Ravenna Festival mercoledì 13 luglio al Pala De André)

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Eventi

jazz, folk, rock

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Una lunga notte irlandese tra musica dal vivo e danza Il loro nome in gaelico significa “il matrimonio del Dio del Sole”, o anche solo “la festa” di Lugh, ed è un omaggio al grano, nel mese del raccolto. I Lúnasa, super gruppo irlandese, rappresentano il meglio della tradizione musicale di quelle terre. Dal 1997 l’inventiva degli arrangiamenti e il groove dei bassi spostano la tradizione dell’isola del trifoglio in territori sorprendentemente nuovi. Oggi nei loro eventi musica e danza si fondono, creando atmosfere di grande lirismo e intensità, insieme a momenti di forte impatto e grande energia, totalmente e profondamente

I Birkin Tree

Irish. Saranno protagonisti al Ravenna Festival sabato 25 giugno nel corso di quella che è stata ribattezzata come “La lunga notte

irlandese” al palazzo San Giacomo di Russi. La serata si dipana poi con le suggestioni create da altri ospiti tra cui i Birkin Tree, da trent’anni

sulla scena musicale, unica formazione italiana a esibirsi regolarmente in Irlanda, dove ha suonato in alcuni tra i più importanti festival, tra cui Feakle Festival, Ennis Trad Festival, Glencolumbkille Festivale O’Carolan Festival. Sul palco ci sarà anche la cantante Karan Casey, a lungo una delle voci più innovative e apprezzate nel campo della musica irlandese. Nella sua carriera ormai ventennale, è passata dal jazz alla collaborazione con la band Solas a New York, fino all’attuale carriera da solista con la quale ha venduto oltre mezzo milione di album. ❍

Canti popolari

Il doppio volto della montagna: dalle foto al concerto scenico

Immensa è la montagna, la cui maestosità si impadronisce facilmente dell’arte e dei sentimenti umani. Accade anche in “La doppia anima della montagna”, una serata (il 30 giugno alle 18 al teatro Alighieri) che interseca l’immagine e il canto, la fotografia e il teatro, l’immobilità e il movimento, due modi diversi di rapportarsi con la trascendenza della cima. Nella prima parte, il fotografo Davide Baldrati presenta il suo libro “Fotodiagnostik”, in cui ha immortalato (nella foto) le vette riflesse sul lago di Antermoia sulle Dolomiti che generano le stesse inquietanti figure evocate dal test psicologico di Rorschach. A seguire, le due attrici Michela Marangoni e Laura Redaelli, con i canti alpini – nuova tappa del loro percorso sulla voce –, amplificano e rovesciano queste percezioni tra vertigine e spiritualità.

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Il centenario Ravenna Festival Magazine 2016

Guerrini, erudito burlone, cicloturista e buongustaio DI ATTILIA TARTAGNI

Olindo Guerrini è nella storia come “un erudito della scuola carducciana” che con lo pseudonimo di Lorenzo Stecchetti pubblicò la raccolta di poesie Postuma (1877) in cui sono vivi gli echi della prosa “maledetta degli scapigliati” e con lo pseudonimo di Argia Sbolenfi pubblicò la successiva raccolta di Rime (1879). Il movimento “scapigliato” si proponeva di innovare i linguaggi artistici criticando il conformismo con atti trasgressivi e bohèmien. Guerrini fu trasgressivo da adolescente, poi visse in modo pacato, agevolato dal censo e dalle amicizie altolocate. La carica trasgressiva la riversò tutta in certe rime, specialmente dialettali, stemperandola dietro a maschere e pseu-

donimi. Il principale è Lorenzo Stecchetti, «nome parlante, che allude alla scheletrica magrezza del giovane consunto da tisi», autore prematuramente scomparso dei versi di Postuma, Polemica e Nova Polemica, empaticamente raccontato dal “cugino” Guerrini. C’è poi lo shakespeariano Mercutio, firma del giornale “Il Matto”, e Marco Balossardi, sberleffo a Mario Rapisardi in procinto di pubblicare Giobbe. Nel 1882 Guerrini e Corrado Ricci lo anticiparono, elaborando l’omonima ode satirica in versi. Balossardi deriva dalla radice del milanese balòss che significa birbante. Argìa Sbolenfi, isterica zitella licenziosa a cui Guerrini attribuì poesie mordaci apparve nel 1892 sul settimanale “È permesso?...” dove scri-

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veva Pietro Sbolenfi, sposato con Lucrezia e padre di Argia: a Guerrini toccò la sua canzonatura. Ispirato da Giuseppe Sarti, patriarca di Venezia eletto nel 1903 Papa Pio X, Guerrini sotto lo pseudonimo di Bepi formulò in dialetto veneto le “ciacole” della “Trenodia” nel giornale “Il pugno di ferro” poi sviluppate nel “Travaso delle Idee” e mantenute fino alla morte del Papa stesso. Odino Linguerri, anagramma di Olindo Guerrini, è il nome con cui firmò alcune massime sull'almanacco della birra Dreher. Giovanni Dareni, inserviente zoppo della Biblioteca, nascose il Guerrini autore di un libello. Si volle anche attribuirgli la paternità, mai provata, delle Poesie dello sconosciuto Angelo Viviani (1881). Nel centenario della morte (21 otto-

bre 1916) un Comitato lavora alla ricostruzione del profilo letterario, storico e umano di Guerrini. Avvocato mancato, fu prima volontario poi stipendiato e dal 1893 direttore della Biblioteca dell’Università di Bologna, il luogo dove si erudì per tutta la vita, riuscendo a mantenere vivo il rapporto con Sant’Alberto che definiva «la mia patria vera». La formazione. Olindo nacque il 4 ottobre 1845 a Forlì dove la madre Paola Giulianini, dopo un primo parto difficile, scelse di farlo nascere. Il padre Angelo era il farmacista del luogo e la sua casa, donata poi al Comune di Ravenna dal figlio Guido, oggi centro culturale polivalente, dominava il borgo confinante con le Valli di Comacchio che nel 1915 il


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A cento anni della scomparsa si celebra la vita e l’opera di uno dei più straordinri intellettuali romagnoli dell’epoca moderna: poliedrico, ironico, anticonformista, capace di connettere la cultura alta con quella popolare, attraverso una serie di indimenticabili alter ego, a partire dal poeta maledetto Lorenzo Stecchetti poeta così descriveva: «Il mio paese non era che una lunga strada fangosa fra due file di casupole, meno che nel centro, costrutte di mattoni seccati al sole e coperte di canne palustri. Fuori, dove ora è campagna fiorente, non erano che stagni e paludi, focolari di malaria…». A otto anni Olindo entrò nel Collegio Municipale di Ravenna, mostrandosi intollerante all’istruzione nozionistica e alla disciplina impartite dai preti. Nel 1859, di ritorno da Mandriole dove era andato a prendere le ossa di Anita Garibaldi, passò da S.Michele dove erano raccolti i collegiali inneggiando a Garibaldi. Scoppiò una sommossa nel Collegio a sostegno dei moti romagnoli contro il governo pontificio, e alcuni ragazzi, fra cui Olindo, vennero espulsi. Il

padre lo iscrisse nel Collegio Nazionale di Torino. «A Ravenna ci destavano a suon di campana, a Torino a suon di tamburo. E giù ginnastica, greco, esercizi militari, francese [...] un’imbottitura larga, ma poco profonda, che mi rimase addosso». Nel 1865, dopo la licenza, si iscrisse alla facoltà di Legge e Lettere di Bologna dove si laureò nel 1868 con una tesi giuridica, facendo pratica in uno studio legale. Nel 1866, per la terza guerra d’indipendenza, fu arruolato nel battaglione mobile di Forlì e comandò la guarnigione prima a Lugo poi a Bologna. Giornalismo e politica. Nel 1868 uscirono su “Lo Staffile” le prime mor>>

Olindo Guerrini alias Stecchetti in un autoritratto in veste da poeta


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Il centenario Ravenna Festival Magazine 2016

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denti rime firmate Lorenzo Stecchetti. Nello stesso anno recensì i Levia Gravia di Carducci su “Amico del Popolo” e nel 1882 le Odi Barbare. Nel luglio del 1870 venne eletto consigliere comunale a Ravenna e nuovamente eletto nelle elezioni generali del 9 giugno 1872, del 26 ottobre 1879 e del 2 aprile 1883. Fu assessore comunale nel 1873 e nel 1874, insieme al deputato conte Gioacchino Rasponi. Con la Società Operaia di Mutuo Soccorso costituitasi a Sant’Alberto nel 1816, presidente onorario Giuseppe Garibaldi, fondò con una propria donazione di 318 libri, in gran parte patriottici, la Biblioteca popolare aperta al pubblico il 21 aprile 1872 e istituì a Sant’Alberto una sezione dei pompieri. Il 19 aprile 1874 a Bologna fondò “Il Matto” dall’epigrafe “A conti fatti, beati i matti”, giornale satirico anticlericale da cui derivò “La Patria”, giornale progressista in cui si firmava Mercutio. Nello stesso anno sposò Maria Nigrisoli: nacquero Angelina che morì a quattro anni, Guido – che sarebbe divenuto professore di Patologia generale e Rettore all’Università di Bologna – e Lina. Il 19 agosto 1876 uscì “Il Lupo” dove come Mercutio pubblicò rime dialettali poi raccolte nel volume postumo I sonetti romagnoli. Nel 1877 per Zanichelli uscirono i Postuma di Lorenzo Stecchetti. La prima edizione fu esaurita a tempo di record, seguita da 32 edizioni fino al 1916, e provocò imitazioni e parodie comprese le contraffazioni del napoletano Bideri per cui Guerrini ricorse in Tribunale perdendo la causa. Nel 1878 uscirono i Polemica e nello stesso anno i Nova Polemica ampliati di Lorenzo Stecchetti, nella cui prefazione Guerrini prese posizione sull’imperante diatriba: «Non ci sono né veristi né idealisti. Ci sono autori che scrivono bene e altri che scrivono male: ecco tutto». In risposta al volume, usci Polemica novissima di Luigi Alberti, contro cui stavolta si levò il suo nemico storico Carducci. Erano tempi in cui ogni pubblicazione di successo sollevava un vespaio critico, dialettico o satirico, segno della vivacità e della pregnanza sociale della scrittura. Stecchetti nel 1879 pubblicò Cloe, libretto d’opera con musica di Giulio Mascanzoni ispirato da scritti di Goethe e di Silvio Pellico, un lavoro “mal fatto”, come scrisse poi. Con Corrado Ricci nel 1880 scrisse Studi e polemiche dantesche, poi Giobbe, Vite degli eccellenti capitani, Il libro dei colori, segreti del secolo XV e il Diario Bolognese di Jacopo Ranieri.

Nel 1882 scrisse le prefazioni per alcuni libri editi da Sonzogno. Nel 1883 uscì per Sommaruga la Bibliografia per ridere e l’opera in prosa Brani di vita. Nel 1897 pubblicò le Rime di Argia Sbolenfi, uno scandalo per cui si ritrovò in Tribunale come legale e come convenuto (ovviamente assente la Sbolenfi). Nel 1903 pubblicò per Zanichelli le Rime (Postuma, Nuova Polemica e Adjecta con rime già edite nell’Argia e altre inedite). Uscirono postumi nel 1920 a cura del figlio Guido, i Sonetti Romagnoli, teatro ilare di un Romagna sanguigna e anticlericale fra i due secoli animato da romagnoli veraci come Tugnàzz e Pulinèra, Zezar Raspon, l’ostessa Zabariona. È il Guerrini più caro ai ravennati che, accantonata la profonda tristezza a sfondo “noir” di certe rime in italiano, si abbandona allo spirito sagace e satirico nel dialetto della sua Romagna. Bel Paese l’Italia, canzone pubblicata il 21 febbraio 1904 su “Azione Socialista” di Brindisi si conclude così:.È pronta la prigion per chi non crede / alla virtù dei santi... / Che bel paese per la Santa Sede / e i frati zoccolanti! / Ahimè, per questo, incontro alla fiumana / Dei preti e dei ribaldi; / Per questo andavi ad assalir Mentana / Povero Garibaldi! A fronte di un tale spiccato anticlericalismo, fu Don Francesco Fuschini a presentare I sonetti romagnoli illustrati da Nedo Del Bene, definendoli nutriti di «…sintassi anarchica, similitudine strambe, veloci anacoluti, parole come vespe liberate; il gremito fondo idiomatico romagnolo cui è mancato l’uomo d’arte per diventare una lingua d’arte», la Romagna lavoratora e sparagnina, sboccata e manesca, «dalla naturale generosità». Ragionando sugli stessi Sonetti Aldo Spallicci rimanda invece ai turbamenti bellici e politici del Risorgimento da cui, per contrasto, emerge l’autenticità di «Pulinèra e Tugnàzz, tipi della vecchia Ravenna con la simpatica villania di certi gesti e la crudezza di espressione. C’è l’ombra” – scrive Spallicci – dell’in hilaritate tristis che congela il sorriso sulle labbra»: farsa e tragedia convivono, inscindibile dicotomia dell’umano teatro. Le passioni: cucina, bicicletta e fotografia. In bicicletta (1901) rivela che Guerrini divenne ciclista per affiancare il figlio Guido appassionato della “macchina seduttrice”. Egli fece pratica segretamente sulla pista del Veloce Club e infine invitò il figlio a insegnargli. Andarono dal noleggiatore Pelloni, in Piazza Otto agosto


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Cucina aperta a pranzo e a cena. Chiuso il giovedì

dove Olindo, già ciclista provetto, accettò suggerimenti e consigli. In sella si diede a magistrali evoluzioni nella piazza e Guido capì di essere stato imbrogliato. «Così, salito in bicicletta per dovere e per impulso d’affetto, ora me ne sono innamorato con passione. Non c’è arte al mondo che possa esprimere il piacere, direi quasi la voluttà, della vita libera, piena, goduta all’aperto, nelle promesse dell’alba, nel trionfo dei meriggi, nella pace dei tramonti, correndo allegri, faticando concordi, sani, contenti [...] Mettetevelo in mente, voi che vi guardate la lingua, vi tastate il polso, seccate il medico e ingrassate il farmacista. Andate in bicicletta coi figli e dopo un mese digerirete le cipolle crude»: un testo in linea con le attuali teorie salutistiche. Guerrini firmò l’inno ciclistico del Touring Club Italiano messo a concorso l’11 marzo 1900 dalla “Domenica del Corriere”. Pulinèra è il narratore de E’ viazz che coniuga rime, bici e cibo così: Donca, par fela curta, una matena / Int’e’fe d’l’elba, quand ch’è canta è gall / Ass lassessom Ravenna dri dal spall / E vi, d’batuda, par la stré Fantena. / E vers a San Michil, dri da la schena / E’ sol a poch a poch è dvinté zal, / e zo pr’é God e par Bagnacal, / Par Lug e par la Massa e par Midsena. Ecco Bologna! Finalment ai sé! /Ecco al mura, la porta, i tram e tott…/ “Gnente di dazio?” Un cazz! Hoia dett ben? / A do Torr? San Petroni? Chi s’n’infott! / Nò a curessum ai Quattar Piligren / a magné al parpadell cun è parsott.

Il finale del sonetto rimanda alla passione culinaria condivisa con l’amico Pellegrino Artusi di Forlimpopoli che spronò a occuparsi di cucina con gli avanzi, trascurata nel proprio celeberrimo ricettario. Ma senza esito. Così centinaia di ricette raccolte da Guerrini su libri italiani e stranieri confluirono nella L’arte di utilizzare gli avanzi e risparmiare con gusto uscito postumo nel 1918 con l’ennesimo tocco di ironia double-face guerriniana: «Avendo scritto in vita cose inutili e insulse, voglio finire con un libro serio, capace di procurami la gratitudine delle cuoche, quando sarò dove gli avanzi non si cucinano più». Memorabile la sua conferenza torinese del 12 giugno 1884 dal titolo La Tavola e la cucina nei secoli XIV e XV e Frammento di un libro di cucina del sec. XIV scritto per le nozze di Laura, figlia di Carducci. Come fotografo fu il primo Presidente del Circolo Fotografico Bolognese, lasciando stampe e lastre perfettamente conservate, ritratti dei famigliari e autoritratti con insoliti travestimenti. Nella Biblioteca Classense, Fondo Ricci, vi sono foto in cui è incoronato d’alloro, atteggiato a Beato, al Tasso e all’Ariosto, una ulteriore conferma dell’ironia con cui osservava la realtà e anche se stesso riuscendo sempre a sorprendere. Di Bologna restano le sue immagini del tram a cavalli, delle lavandaie in via Riva di Reno, delle signore eleganti in Piazza Maggiore, documenti di una città incamminata verso un progresso tragicamente arrestato dalla Prima guerra mondiale. ❍

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concerto itinerante su 2 ruote

eventi speciali

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Pedalando sulle tracce di Olindo da Russi a Sant’Alberto DI CHIARA BISSI

Nel centenario della scomparsa di Olindo Guerrini, il tradizionale appuntamento in natura proposto dal festival, in collaborazione con Trail Romagna, sarà su due ruote. Abbandonato il concerto trekking, formula utilizzata nelle passate edizioni, si passa alla bicicletta, un’autentica passione per il poeta e letterato di Sant’Alberto. “In bicicletta con Olindo” è la giornata proposta dal festival, il 26 giugno, a zonzo per le aie tra parole, musica e cibi dimenticati. Quarantotto chilometri da palazzo San Giacomo di Russi, con partenza al mattino, fino all’arrivo fissato all’argine del fiume Reno a Sant’Alberto nel pomeriggio, il tutto passando per Villanova di Bagnacavallo, Mezzano, Savarna. L’itinerario prevede una serie di tappe poetiche e culinarie, sempre in onore della multiforme opera di Guerrini, capace di prendere il sembiante di Lorenzo Stecchetti nella doppia produzione in dialetto e in italiano. A guidare la narrazione Giuseppe Bellosi.

«Abbiamo deciso di proporre i tanti aspetti dell’opera di Guerrini – spiega lo studioso, interprete e poeta - e per farlo non potevamo tralasciare il copioso repertorio in musica. Con gli strumentisti Stefano Martini al violino, Egidio Collini alla chitarra, Fabio Gaddoni al violoncello e con il soprano Elisabetta Agostini alterneremo le letture alle esecuzioni di romanze e di poesie di Guerrini musicate da Francesco Paolo Tosti, maestro di canto della regina Margherita, che nel 1880 fu invitato a Londra e incaricato dalla regina Vittoria di curare gli intrattenimenti di corte. Guerrini compose anche testi pensati per la musica, il brano Sogno è tuttora nei repertori di cantanti come Bocelli. Verranno eseguite anche musiche di Lehár e Offenbach e Carlo Brighi. Leggerò brani in prosa autobiografici sulla passione per la bicicletta, e liriche in dialetto. Guerrini fu un prosatore brillante e un genio multifome. Visse a Bologna dal 1865, dove divenne direttore della biblioteca universitaria, ma continuò a partecipare alla vita politica ravennate

come consigliere e assessore comunale, intrattenendo un fitto carteggio con l’avvocato Poletti, principe del foro ravennate. Nell’estate del 1903 con il figlio intraprese un viaggio in bicicletta da Ravenna, verso Bologna, poi Milano, il Piemonte fino al Monte Rosa per poi al ritorno proseguire per Padova, Venezia e Trieste. Un’esperienza raccontata all’interno dei Sonetti Romagnoli, volume pubblicato postumo dal figlio, in seguito divenuto rettore dell’università di Bologna». Lorenzo Stecchetti, nacque dalla fantasia di Guerrini, come cugino cagionevole morto di tisi, autore della raccolta Postuma. Opere di enorme successo di pubblico, pubblicate da Zanichelli, in Romagna oscurate solo dalla notorietà dei Sonetti romagnoli, editi nel 1920. Tra gli alias di Guerrini brilla anche Argia Sbolenfi con il quale pubblicò le Rime con prefazione di Lorenzo Stecchetti. Ed è per inseguire lo spirito di Guerrini che il percorso si snoderà tra la Torre di Traversara, aperta al pubblico per l’occasione, l’Ecomuseo delle erbe palustri di

Villanova di Bagnacavallo, la casa del pittore Giulio Ruffini, il museo etnografico Segurini di Savarna, la casa Guerrini di Sant’Alberto e l’argine del Reno, con arrivo alle 17. Un viaggio accompagnato dalle proposte della maestra di cucina Giorgia Lagosti. «Saremo presenti in tre tappe proponendo un ristoro itinerante ai partecipanti, composto da un antipasto di salumi, formaggi e piadina con farina di farro, cereale in uso ai tempi di Guerrini al posto della farina di grano tenero molto più costosa; poi come seconda proposta e seconda tappa ci sarà un risotto al carciofo moretto e guanciale di mora romagnola, in omaggio ai prodotti del territorio; e infine all’argine del Reno chiuderemo con una ricetta di Guerrini, ovvero carni grigliate ripassate in padella con cipolla, aglio e pomodoro e dolci da credenza, ciambella e crostate. La cucina offerta da Guerrini, era tendenzialmente povera, come documentato nel volume L’arte di utilizzare gli avanzi della mensa, ma ha ancora un grande valore. Spetta a noi conservare le tradizioni e non farle morire. Certo è necessario reinterpretare le ricette in termini di grammature e di resa delle materie prime. Il nostro stile di vita non è quello di 150 anni fa». In serata a palazzo San Giacomo di Russi l’omaggio a Guerrini proseguirà con un altro spettacolo, ovvero La Lunga notte romagnola. Per la biciclettata è prevista anche una partenza su due ruote da Ravenna, il gruppo si congiungerà con i partecipati a palazzo San Giacomo per iniziare il percorso poetico. E per concludere le parole del poeta, dedicate alla bicicletta. Dal componimento L dei Sonetti Romagnoli: A sintemia lighedi al pall d'i znocc/ E andemia adesi da la gran stracona/ Cvirt da la porbia e cun e' sol in t'i' occ./ Mo quand a fossom a la Camarlona/ E a sintessom i virs d'i premm ranocc/ A rugiè: «Forza da la Zabariona!». «Sentivamo la rotule legate/ e andavamo piano per la grande stanchezza,/ coperti di polvere e col sole negli occhi./ Ma quando fummo alla Camerlona/ e sentimmo i canti delle prime rane/ io gridai: «Forza, all'osteria della Zabariona!» ❍


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jazz, folk, rock

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Ravenna Festival Magazine 2016

La Lunga Notte della Romagna fra extraliscio e dialetto poetico

DI CHIARA BISSI

Le sonorità del mondo e le radici, la musica colta e le tradizioni popolari, i grandi lirici e la poesia in dialetto romagnolo, Ravenna festival da tempo accoglie molteplici linguaggi musicali, ma è nell’edizione 2016 che offre al pubblico una “Lunga notte romagnola” a palazzo San Giacomo di Russi. L’occasione nasce come omaggio ad Olindo Guerrini, nel centenario della scomparsa (1845 – 1916). Al poeta di Sant’Alberto, erudito, critico letterario, polemista, dal forte carattere, irriverente e anticlericale va un tributo in parole e musica come non si è mai visto. E seguendo l’autore, pronto a nascondersi, divertito, dietro a numerosi pseudonimi, il più celebre fra questi Lorenzo Stecchetti, usato per calibrare toni e misure della propria scrittura in prosa e versi, così la “Lunga notte romagnola” offre al pubblico un doppio registro. In apertura l’attore Ivano Marescotti legge i Sonetti Romagnoli, pubblicati postumi dal figlio Guido, di gran lunga il componimento più noto di Guerrini, almeno in Romagna rispetto all’intera produzione in italiano. Marescotti noto al grande pubblico per l’intensa carriera cinematografica e teatrale, conserva una passione

sconfinata per la produzione poetica in romagnolo che traduce sulle scene da decenni con generosità in spettacoli e recital. Nella seconda parte della serata sarà la musica a dominare il palco e con la stessa vitalità delle parole del poeta condurrà il pubblico nel regno dell’orchestra futurista eXtraliscio, fatto di polke romagnole e sonorità sperimentali, giocate per fondere e tradire il repertorio “classico” per dare forma a un punk da balera. In scena Moreno il Biondo con l’Orchestra Grande Evento e Mirco Mariani e l’orchestra eXtraliscio. A Ivano Marescotti il compito di raccontare l’idea della “Lunga notte romagnola e la fascinazione per Olindo Guerrini”. Nel centenario della scomparsa di Olindo Guerrini molti sono gli omaggi programmati, come è nata l’idea di una lettura dei Sonetti romagnoli per di più in un ambiente nobile e allo stesso tempo campestre come palazzo San Giacomo di Russi? «La proposta mi è stata offerta dallla direzione del Ravenna Festival e io ne sono stato ben felice». Come si avvicina l’opera di un poeta e di un intellettuale atipico come Guerrini? «Ho accettato volentieri proprio per-

ché nella mia attività professionale non avevo mai affrontato col dovuto impegno Stecchetti. Mi sono sempre riservato di farlo un giorno e la proposta del Ravenna Festival me ne dà una magnifica occasione». Marescotti è stato il primo a portare in scena con successo testi poetici e teatrali in dialetto romagnolo, a partire da Raffaello Baldini, si aspettava tanto consenso da parte del pubblico e immaginava che potesse diventare una modalità utilizzata nel tempo anche da altri lettori e attori? «All’inizio, e parlo della fine degli anni 80, leggevo per divertimento le poesie in dialetto agli amici, poi il pubblico si è allargato in modo incredibile finché non mi sono reso conto di un vuoto che c’era e delle aspettative della gente rispetto a poeti considerati tra i più grandi del secolo scorso. Ho dedicato gran parte della mia attività alla diffusione delle poesie dei grandi poeti romagnoli in dialetto da Tonino Guerra fino a Baldini sull’onda di un grande interprete romagnolo: Giuseppe Maestri, insuperabile lettore soprattutto di Stecchetti. Per soggezione verso di lui, forse, non avevo ancora affrontato Stecchetti». Lo spettacolo “La lunga notte romagnola” prevede anche l’incontro tutto particolare con Moreno Il Biondo, Mirko Mariani e Mauro Ferrara, anime delle orchestre Grande Evento ed eXtraliscio, unite per l’occasione. State pensando a una divertente commistione fra le liriche di Stecchetti e le sonorità sperimentali di questo nuovo genere gioioso e scanzonato, definito dagli stessi autori “punk da balera”? «Non li conosco, purtroppo, e io non avrò bisogno di musica durante il reading…». «Extraliscio non è solo musica, concerti e ballo ma è un’attitudine». Avvertono i creatori, ovvero Mirco Mariani e la star del liscio Moreno il Biondo, con un’avvertenza: «Attenzione la gioia che provoca nell'ascoltatore dà assuefazione». Il progetto condiviso con Mauro Ferrara, altra voce storica del genere, propone: «canzoni da ballo che affondano le radici nella musica folkloristica di Secondo Casadei e si proiettano nella

balera del futuro». Ne sono artefici: Mirco Mariani, al fianco per diversi anni di Enrico Rava e Vinicio Capossela con il quale ancora collabora. Mariani ha suonato nei più importanti festival italiani ed europei e ha collaborato con Arto Lindsay, Mitchell Froom, Marc Ribot, Stefano Bollani, Paolo Fresu e tanti altri. Mauro Ferrara, voce storica della Romagna ha iniziato con le Ombre Nere e con l'orchestra “Vittorio Borghesi”, poi dal 1975 al 2000 ha suonato con l'Orchestra “Raoul Casadei” e nel 2002 Mauro ha fondato, insieme a Moreno il Biondo, Fiorenzo Tassinari e Walter Giannarelli, l'orchestra “Grande Evento” con cui tutt'ora si esibisce. E infine Moreno “il Biondo” Conficconi, che entra a far parte dell'Orchestra “Raoul Casadei” nel 1990. Anni in cui collabora con artisti come Gloria Gaynor, Tito Puente ed Elio e le storie tese per il quale nel 1996 firma l'arrangiamento della versione video de La terra dei cachi. Nel 2002 Moreno è tra i fondatori dell'orchestra "Grande Evento". Con questa formazione organizza diversi tributi a Secondo Casadei come lo spettacolo Secondo a nessuno, in collaborazione con l'orchestra sinfonica Cherubini. ❍


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festa popolare

eventi speciali

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Ravenna Festival Magazine 2016

Due giorni a Comacchio dove l’anguilla incontra la taranta Una due giorni di festa in musica a Comacchio. Ambrogio Sparagna, torna a calcare le scene di Ravenna festival con un nuovo progetto dal titolo “Tra anguille e tarante”, dedicato alla città lagunare. Compositore, musicista etnomusicologo, Sparagna, dopo gli spettacoli Dante Cantato, e Sale un canto mentre cala il sole nelle saline di Cervia, affronta in musica il patrimonio culturale di Comacchio e il legame identitario che unisce l’anguilla alle popolazioni della laguna. Per ripercorre storie, musiche e canzoni Ambrogio Sparagna il 18 e 19 giugno coinvolgerà centinaia di persone, fra laboratori e spettacoli, affiancato dall’orchestra Popolare italiana dell’Auditorium parco della musica di Roma, da Peppe Servillo, da gruppi di teatro popolare locali e gruppi di danzatori diretti da Francesca Trenta. Un programma che non poteva dimenticare le gioie del convivio, sabato 18 alle 12,30 al ristorante Il Bettolino di foce ci sarà un pranzo sociale in musica con narrazioni; alle 18 nell’edificio della Manifattura dei Marinati prenderanno via i Racconti d’anguilla, musica e storie della cultura locale; mentre alle 21,30 all’arena di palazzo Bellini il grande spettacolo di canti e danze popolari Tra anguille e Tarante accenderà la notte comacchiese. Dolci armonie chiuderanno il programma al sagrato della chiesa del Carmine con il concerto di ninna nanne della tradizione regionale italiana. Domenica alle 11 Raffaello Simeoni aprirà la giornata con il concerto Sotto lu ponte c’è lu sole all’antica Pescheria, alle 18 nuovo appuntamento con le narrazioni in musica alla Manifattura dei Marinati e infine alle 21,30 all’Arena di palazzo Bellini il grande spettacolo dedicato ai canti di mare con la partecipazione straordinaria di Peppe Servillo, attore e già voce degli Avion Travel. Dal 15 al 17 giugno si svolgeranno i laboratori di danza e di narrazione. Ad Ambrogio Sparagna abbiamo chiesto come è maturato il progetto «Comacchio è un luogo suggestivo, porta in sé memorie di una storia unica. L’intenzione è proprio quella

di costruire uno spettacolo sulle storie di lavoro e sull’ambiente naturale. E tra i protagonisti non potevano mancare gli animali come i pesci e le anguille». E come valuta la collaborazione con Ravenna Festival? «Si tratta di un progetto pluriennale, mai uguale a se stesso, da sempre c’è uno sforzo creativo che parte dal senso del luogo. Realizziamo spettacoli che si posso fare solo lì. Lo spettacolo prende forma vivendo sul posto, attraverso i laboratori di danza e di narrazione. La musica diviene quindi un elemento di mediazione e così il lavoro prende un carattere originale. Si tratta di un’attività in evoluzione. Non abbiamo una borsa di spartiti pronti da tirar fuori. Dagli incontri, dal lavoro con gruppi consistenti nasce il materiale per lo spettacolo è così ovunque anche nelle tournée all’estero. Ad Astana in Kazakistan abbiamo messo alla prova con la canzone napoletana 40 giovani cantori del conservatori. Abbiamo portato la nostra musica e i nostri laboratori in Siberia, Iraq, Libia, Armenia, Etiopia, aree del mondo impegnative». In che modo la danza popolare entra a far parte del lavoro? «Per noi è una parte fondamentale.

Prendiamo contatto e coinvolgiamo le scuole di danza locali, in questo caso abbiamo deciso un innesto particolare portando la tradizione della Puglia provando a connettere storie apparentemente lontane che hanno per protagonisti animali e danze: le anguille e i ragni, quelli dai cui morsi prendono vita le tarante. Un collegamento dall’alto valore simbolico e poetico che parte dall’Adriatico e scende giù lungo la costa». Quindi non potevano mancare le storie di mare? «Certo si tratta di un repertorio comune a tante parti del mondo, il mare unisce e la partecipazione straordinaria di Peppe Servillo garantirà lo stretto legame con altre tradizioni popolari e altri mari». Nel programma appare un appuntamento curioso, un concerto di ninna nanne. Perché questa scelta? «Anche questo è un evento dall’alto valore simbolico. Nella tradizione popolare la vita è sempre partecipazione. La ninna nanna è una dimensione naturale del fare musica insieme e non ci può essere un dolce sonno senza. Volevamo inserire una dimensione allegorica della vita, fuori dal tempo, che rimanda a una condizione più semplice e a ritmi meno furiosi».

Ci sarà spazio anche per i canti del lavoro? «Certo Comacchio in questo senso diviene un luogo paradigmatico per l’Italia, nel quale le fatiche del lavoro venivano moltiplicate dalla durezza delle condizioni ambientali». Quindi con il canto è ancora possibile raccontare la storia politica e sociale di un popolo? «Da dieci anni portiamo avanti il progetto dell’Orchestra Popolare Italiana dell'Auditorium Parco della Musica. Credo che si possa imparare molto attraverso il repertorio popolare. Per esempio per i 70 anni della Repubblica abbiamo raccolto un enorme quantità di materiale attraversando i momenti salienti della nostra storia a partire dalla fine del Settecento fino al 1946. I canti popolari hanno una capacità narrativa altissima, sono l’essenza della cultura nazionale. Non si può non conoscerli, mancherebbe una parte importante, anche perché esiste un legame profondo con la musica classica». Sicuro, con la musica classica? «Certo non dimentichiamo che la musica classica e quella popolare non vanno mai separate. Verdi è l’esempio più alto, un compositore amato dal popolo». ❍


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il racconto del contemporaneo

teatro

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Ravenna Festival Magazine 2016

Human, la soglia tra l’umano e il disumano DI FEDERICA

ANGELINI

«Uomini, siate umani, è il vostro primo dovere; siate umani verso tutte le condizioni, verso tutte le età, verso tutto ciò che non è estraneo all'uomo. Quale saggezza può mai esistere fuori dell'umanità?» Sul sito che presenta il complesso progetto teatrale che debutterà l’8 luglio al Ravenna Festival campeggia una citazione da J.J. Rousseau a definire il titolo: si tratta infatti di Human. Scritto a quattro mani da Lella Costa e Marco Baliani, con le musiche originali di Paolo Fresu e le scene e i costumi di Antonio Marras, nasce insieme a un diario on-line destinato ad arricchirsi di continuo e tutto incentrato su quella parola barrata perché troppo spesso negata anche in questo “occidente”. Una parola che rimanda a quei diritti umani riconosciuti nella Dichiarazione internazionale che vengono quotidianamente negati per esempio a Idomeni, al confine tra Grecia e Macedonia dove dodicimila persone aspettano di poter varcare il confine tra cui donne e bambini che stanno seguendo i rispettivi mariti e padri partiti prima e ora imbrigliati nelle maglie della burocrazia per la richiesta d'asilo in Europa. Diritti umani negati a chi perde la vita nel Meditarreo in fuga da guerre o persecuzione. Questo Mediterraneo dove a un profugo il mito affidò il compito di fondare la capitale Roma. Cos'era infatti Enea se non un troiano in fuga dalla sua città messa a ferro e fuoco dagli Achei? E da questo, racconta Baliani – che dello spettacolo è anche regista – proprio dall'Eneide virgiliana nasce il primo spunto che poi germoglia dopo l'incontro con Lella Costa in un progetto teatrale che calcherà i palchi delle stagioni 2016/2017 per approdare poi fino alle sedi istituzionali di Italia e soprattutto d'Europa, quella Europa che si sta rivelando così inadeguata a gestire ciò che sta accadendo.

«Con la nostra ricerca teatrale vorremmo insinuarci in quella soglia in cui l’essere umano perde la sua connotazione universale, utilizzare le forme teatrali per indagare quanto sta accadendo in questi ultimi anni, sotto

Lella Costa. Sotto: Marco Baliani

Debutto per il nuovo spettacolo di Marco Baliani e Lella Costa su un’Europa dove si alzano muri, avanzano i fondamentalismi, non si accolgono i profughi: «Per un teatro spietato, che metta il dito nella piaga»

i nostri occhi, nella nostra Europa, intesa non solo come entità geografica, ma come sistema “occidentale” di valori e di idee: i muri che si alzano, i fondamentalismi che avanzano, gli attentati che sconvolgono le città, i profughi che cercano rifugio» scrivono gli autori, che vogliono però precisare che non intendono “accontentarsi” di «un altro esempio di cosiddetto teatro civile». Non basta loro indignare o commuovere chi guarda.

Vogliamo spiazzarlo, inquietarlo, turbarlo, assediarlo di domande. E insieme incantarlo e divertirlo, ché è il nostro mestiere». Ecco allora la scelta di andare a indagare, «la soglia fatidica che separa l’umano dal disumano, confrontarci con le parole, svelare contraddizioni, luoghi comuni, impasse, scoperchiare conflitti, contraddizioni, ipocrisie, paure indicibili. Vorremo costruire un teatro spietatamente capace di andare a mettere il dito nella

piaga, dove non si dovrebbe, dove sarebbe meglio lasciar correre. E andare a toccare i nervi scoperti della nostra cultura riguardo alla dicotomia umano/disumano». Una sfida dnque e un invito agli spettatori che non si esaurisce sul palco perché sul sito c’è un diario già attivo dove i protagonisti stanno raccontando l’evolversi dello spettacolo, la sua vera e propria genesi. Per riflettere appunto sul nostro essere umani, il tutto, promettono gli autori «Senza rinunciare all’ironia, e perfino all’umorismo: perché forse solo il teatro sa toccare nodi conflittuali terribili con la leggerezza del sorriso, la visionarietà delle immagini, la forza della poesia». In scena con i due gitanti del teatro italiano anche David Marzi, Noemi Medas, Elisa Pistis, Luigi Pusceddu in una coproduzione Mismaonda e Sardegna Teatro. ❍


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L’intervista

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Ravenna Festival Magazine 2016

Olimpiadi ‘36, non solo sport Buffa racconta il mito Owens DI

ANDREA ALBERIZIA

Recitare in uno spettacolo teatrale era l'ultima cosa che ancora non aveva spuntato in una lista scritta da adolescente con dieci cose che avrebbe voluto fare nella vita. C'è riuscito a gennaio del 2015 quando a Milano è andato in scena “Le Olimpiadi 1936”: lo spettacolo che vede sul palco Federico Buffa, il celebre affabulatore che ha conquistato il pubblico con le sue storie Mondiali trasmesse da Sky, sarà a Ravenna il 31 maggio al Pala Costa.

Il celebre storyteller che ha incantato gli spettatori di Sky in scena al Pala Costa con uno spettacolo sulla kermesse organizzata dal regime nazista Alla vigilia della prima parlava del timore per non essere un attore... «Troppo gentile con timore, facciamo terrore che è molto più vicino alla realtà». D'accordo, terrrore. C'è ancora o intanto è diventato un attore? «Attore non lo posso diventare mai ma il terrore è diluito in timore».

Che cosa c'è voluto per diluirlo? «Sono stato addestrato da Caterina Spadaro e Emilio Russo, i due registi. Partono dal presupposto che a questo punto attore non posso diventarlo e mi fanno lavorare sulla voce e su come prendere le luci, le due cose che posso provare a imparare meglio». La prima volta a teatro da spettatore andò portato da suo padre... «Quando sono entrato in scena la prima volta credo di aver provato una sensazione semi irripetibile e ho pensato a mio padre che non c'è più, che è l'uomo che mi ha fatto amare il teatro, e a che emozione sarebbe stata per lui vedermi su un palco. Ma forse non avrei retto io l'idea che lui fosse a guardarmi quindi abbiamo tenuto un contatto di altro tipo. Però sono felice che quello che lui mi ha insegnato ad amare in qualche modo sia entrato nella mia vita». Lo spettacolo nasce quando i registi la contattano... «Mi hanno chiesto se volevo fare qualcosa dopo aver visto un episodio di Storie mondiali e l'idea di Berlino 1936 è mia. È venuta fuori una forma ibrida in cui io sono due personaggi, un narratore che sa tutto e un personaggio realmente esistito, il comandante del villaggio olimpico che verrà destituito e morirà suicida». Perché il comandante del villaggio? «Come ha brillantemente detto Russo il personaggio di Furstner è il personaggio della drammaturgia della sconfitta. L'ha scelto perché l'ha trovato

adatto, un personaggio che fa pensare con la scrittura molto potente di Russo». Gli sportivi protagonisti di quella olimpiade si rendevano conto di che significato ci fosse dietro a quell'evento? «Gli sportivi non sono mai particolarmente lucidi, sono lì per gareggiare. Tranne ovviamente quelli come il koreano della maratona che corre con il nome giaponese: quello si rende conto perché si accorge di quello che succede a casa sua e se non può competere per la sua nazione ma con un nome giapponese per i giapponesi, cioè gli esseri umani che odia di più al mondo, lui è una persona conscia». Dovremmo aspettarci o pretendere che gli sportivi, in generale, siano più lucidi nel modo di comportarsi in certi momenti storici? «Impossibile rispondere. Cosa dovevano fare i giocatori italiani nel Mondiale 1934? Cosa doveva fare Vittorio Pozzo nel '34 se non allenare la squadra nel

miglior modo possibile? La storia la scrive chi ha vinto e lui ha vinto due Mondiali e una Olimpiade, è nettamente il più grande allenatore della nazione. Avrebbe dovuto essere ricordato per sempre, è scandaloso che non abbia uno stadio dedicato a lui. Quindi vuol dire che vuoi farne un fatto politico. Cosa avrebbe dovuto fare, l'eroe? Non può farlo, nessuno lo farebbe. Molto semplice guardarlo adesso ma bisogna guardarlo quando succede. Certo ci sono anche i casi del centravanti della nazionale cilena che si rifiuta di stringere la mano a Pinochet o il ritiro di Carrascosa dall'Argentina: ci sono atleti che si sono opposti e hanno dimostrato più coraggio di altri ma non me la sento di guardare indietro a un atleta che non l'ha fatto». Cosa rende particolare Berlino 1936? «È la perfezione dell'organizzazione tedesca. I tedeschi organizzano due olimpiadi in un anno perché fanno anche quella invernale, oggi sarebbe


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L’intervista

teatro

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Ravenna Festival Magazine 2016

impensabile. Tante cose che loro hanno fatto in quelle olimpiadi poi sono diventate il paradigma organizzativo e ispirante di tutte le olimpiadi a seguire. Nessuno aveva mai pensato all'idea di portare la fiaccola dalle rovine dell'antica Grecia fino al luogo dell'Olimpiade. Fu Goebbels che pensò a questo per la prima volta. In più è la prima kermesse mondiale con una finalità di propaganda. L'idea è di Mussolini nel '34 con il Mondiale però i tedeschi portano tutto a vertici impensabili». Evento sportivo come propaganda di regime. L'opinione pubblica degli spettatori se ne rendeva conto? «Penso proprio di sì. Anche se poi, nell'analisi storica mi permetto di far notare come i tedeschi siano riusciti ad aggirare l'aspetto propagandistico per come lo percepiamo ex post. Di fatto alla fine gli americani che dovrebbero boicottare non boicottano e realmente quell'olimpiade non è stata mai neanche vagamente boicottata. Eppure i venti di guerra nel '36 erano più che evidenti, le leggi di Norimberga sono già promulgate. Si riesce ad aggirare il boicottaggio che oggi sarebbe del tutto normale ma all'epoca non l'aveva mai fatto nessuno e, grazie alla perfidia infinita di Goebbels, riescono a far sembrare le cose diverse da quelle che erano». Qualche altro evento sportivo fra qualche anno ci sembrerà diverso da quello che era? «Sinceramente il Mondiale del '78 gli argentini cominciano a raccontarselo un po' diverso. Gli atleti vogliono vincere, vogliono consegnarsi alla storia dello sport. Ti dicono “ma noi non ce ne accorgevamo”, in realtà non volevi accorgertene. Kempes non saluta Videla al momento della premiazione dopo aver vinto il Mondiale, dirà “eh ma c'era un milione di persone”, e poi postumo dirà “no, no, non volevo stringere la mano all'uomo che insaguinava il mio Paese”. Però sono dette dopo queste cose, non nell'immediatezza». Poi però i boicottaggi arrivarono per davvero. «Le olimpiadi di Mosca vengono boicottate perché l'Unione Sovietica ha invaso l'Afghanistan nel '79 e più di 60 nazioni boicottano. Poi il blocco sovietico boicotta Los Angeles 84 e da lì si è compreso che lo sport invece dovrebbe avere un'altra valenza e quindi il comitato olimpico ha gestito le Olimpiadi come un invito alla democratizzazione: alla fine lo sport anche se è corrotto, ed è più che mai corrotto e lo vediamo tutti i giorni, è l'unica forma che abbiamo per ricomporre le frizioni e le frazioni fra gli uomini».

Insomma togliamo di mezzo la retorica dello sport sano e pulito? «Dai non scherziamo, lo sport è corrottissimo, lo è sempre stato ma adesso è arrivato ai punti di rottura. Il doping ha ovviamente inciso tanto, i soldi hanno inciso tanto». Nonostante tutto la passione sportiva sopravvive. «Perché comunque gli appassionati amano il gioco e non si fermano, il gioco è attraente, la gente vuole vedere il gesto. Nel '94 la Fifa obbliga praticamente Maradona a venire a giocare il Mondiale negli Stati Uniti ma poi lo bastona facendo quello che doveva fare e il giorno dopo nel Bangladesh gli studenti non fanno gli esami perché gli hai tolto il giocatore più importante del mondo. Il calcio noi lo vediamo da questo angolo di occidentali che l'hanno sempre avuto ma nel mondo il calcio è l'esperanto del pianeta, lo vedono e lo giocano i monaci in Bhutan. Non lo puoi fermare perché ha un valore che va al di là del fatto che come tutto lo sport è palesemente corrotto».

Oltre ai quattro ori del nero americano anche la storia di Kee-chung, maratoneta coreano costretto a correre per il Giappone che dominava il suo Paese natale Berlino 1936 è la storia di Owens, una storia unica che ha uno spazio importante nello spettacolo. Ma quali sono le altre storie di sport che hanno grande potenza? «Ce ne sono quotidianamente, comqe quelle degli atleti portatori di handicap che sono degli eroi. Oppure basta pensare alla passione che le donne persiane hanno per il calcio da vedere e da giocare. E la difficoltà di potersi esprimere. A Udine mi è capitato di vedere una squadra iraniana che giocava col velo, che deve essere anche scomodo, ma non le fermi... e le italiane giocavano in braghe corte. Tutte queste vicende umane dimostrano che il mondo dello sport, che sia corrotto o no, resta il più bel mondo possibile perché le storie di sport con forte connotazione individuale umana sono le storie più belle in cui ci riconsociamo. Il motivo per cui siamo qua». ❍

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Genius loci Ravenna Festival Magazine 2016

Parco Teodorico, quinta verde urbana per il bianco mausoleo del Re dei Goti DI PAOLO BOLZANI

Secondo quanto riporta l’Anonimo Valesiano, sarebbe stato lo stesso Teodorico il Grande (Theodericus Rex, 493-526), Re degli Goti (König des Ostgoten, per i germanici filoveronesi Dietrich von Bern) e dei Romani, a farsi erigere un mausoleo poco prima della propria morte, forse già nel 520. Un’altra tradizione interpretativa indica la committenza nella figlia Amalasunta e colloca la costruzione dopo il 526. In ogni caso il monumento venne costruito in un’area sepolcrale ricavata al termine di una duna che separava la costa da una vena d’acqua dell’entroterra. «Amante delle costruzioni e restauratore di città» come riporta la Cronaca Valesiana, sembra più che verosimile che il re per la propria tomba reclutasse maestranze probabilmente siriache o isauriche (Anatolia del sud-est), in quanto la tecnica costruttiva adotta l’impiego di grossi blocchi in opus quadratum di calcare ippuritico provenienti dalla cava istriana di Aurisina, magistralmente posati polisegmentati negli architravi. Si sviluppa su due

Quest’anno per la prima volta, il parco accoglierà uno spettacolo del Ravenna Festival, dedicato a Shakespeare con le attrici Chiara Muti ed Elena Bucci ordini a pianta decagonale con quello inferiore, ove si cela un vano con pianta a croce greca, sagomato da grandi nicchie. Quello superiore si arretra di un metro e 30 cm, è ritmato da lunette in lieve aggetto e si evolve in una fascia circolare conclusa dal famoso “fregio a tenaglia”, i cui motivi formali rimandano all’oreficeria gota. Oltre il “fregio” si può ammirare la possente copertura monolitica a cupola, caratterizzata da un ingens saxum di 11 metri di diametro, 3 di altezza e 1 di spessore, per un peso

La vasta area a nord est di Ravenna, in fregio al monumento patrimonio Unesco, è stata aperta al pubblico nel 2000, su progetto di Boris Podrecca, con Aldo Aymonino e gli architetti ravennati Baldisserri, Sarti e Rambelli . stimato tra 230 e 270 tonnellate. Lo spunto tipologico della pianta centrale e la suggestiva ipotesi che rimanda ad una singolare trascrizione lapidea delle tende dei Goti (in questo caso il “fregio” sarebbe il cordame che cinge l’imposta del tetto), vede nella copertura l’elemento determinante della costruzione: da qui le evocazioni di corone regali, un elmo di un guerriero goto, l’eco di un mausoleo imperiale romano. Ma la peculiarità deriva dal pesantissimo monolite che si trova a gravare sopra le sue strutture. Come venne sollevato? Issato con un complesso sistema di corde azionate da numerose coppie di buoi oppure trascinato su rulli risalendo un lungo piano inclinato? Numerose sono state le proposte interpretative relative al suo trasporto e sollevamento, fino ad ipotizzare che ciò sia avvenuto per mezzo di un singolare natante costituito da un piano centrale appoggiato a due robusti scafi, come un robusto catamarano da trasporto che avrebbe prelevato il monolite direttamente dalla cava e avrebbe raggiunto Ravenna seguendo un percorso endolagunare.

Una volta giunto in sede, sarebbe stato condotto in quota passando per una serie di bacini concentrici alla tomba, sfruttando il principio che governa la navigazione nei canali su aree con altimetrie differenti. Chissà. La copertura è articolata da dodici modiglioni recanti i nomi degli Apostoli e di otto Evangelisti; partendo dai modiglioni situati sopra la porta del registro superiore, leggiamo in senso antiorario: Lvcas, Thomas, Simeon, Petrus, Pavlus, Andreas, Iacopus, Johannis, Felippus, Martolom, Mattevs, Marcvs. La sconfitta del Goti del 560 comporterà la damnatio memoriae del re, le cui spoglie saranno disperse, mentre si procederà alla riconversione dei luoghi di culto ariano a quello ortodosso; famoso è il ritocco nei mosaici di Sant’Apollinare Nuovo, Cappella Palatina, in cui di un dignitario di corte rimane il frammento di una mano su una colonna. Dal 560 ha perciò inizio la seconda vita dell’edificio come chiesa, nota come Santa Maria ad Pharum, per la vicina torre farea segnalata all’imbocco del canale Badareno. Poi diventerà Santa Maria

Rotundae, per la mole superiore dell’antico Mausoleo e successivamente il centro di un’abbazia benedettina, i cui edifici verranno interamente demoliti. Vi verranno sepolti Papa Vittore II nel 1057 e Paolo Traversari nel 1240. Ma nel frattempo, già nel Settecento la parte inferiore del Mausoleo si trova allagata per la subsidenza ravennate e hanno inizio i lavori per isolare la costruzione dal terreno acquitrinoso. Nel 1913 nella cella al piano superiore viene collocato il sarcofago in porfido del re, qui trasportato a seguito dei restauri (1898-1905) effettuati sul cosiddetto Palazzo di Teodorico, ora meglio noto come Ardica della chiesa di San Salvatore ad Calchi, ivi presenti dal 1633. Nel 1918 vengono demolite le due scale costruite nel 1774 dall’architetto Antonio Farini per raggiungere il piano superiore e nel 1927 viene costruita la scala e la passerella metallica per l’accesso al piano superiore. Passiamo al 1997, anno molto importante, anche perché nel 1996 è avvenuto l’inserimento degli otto monumenti paleocristiani di Ravenna >>


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Genius loci Ravenna Festival Magazine 2016

nella lista dei siti patrimonio dell´umanità dell’Unesco, tra cui il Mausoleo. Alla fine dell’anno la Soprintendenza ai Beni ambientali ed architettonici di Ravenna porta a compimento una serie di opere di conservazione, su progetto e direzione del-

l’architetto Valter Piazza, volte alla pulitura dei paramenti lapidei del monumento e per realizzare il cantiere sulla cupola si realizza un ombrello protettivo dall’aspetto davvero singolare. Nello stesso anno il Comune di Ravenna bandisce un concorso per il

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Progetto del Parco Teodorico che vede vincitore il gruppo di progettisti guidato da Boris Podrecca di Trieste, con Aldo Aymonino di Roma e Claudio Baldisserri, Lorenzo Sarti, Emilio Rambelli di Ravenna. Il progetto regala alla città un parco a valenza urbana, aperto al pubblico dal Grande Giubileo del 2000 e intitolato al Re Ostrogoto. La proposta coniuga coerentemente fruizione sociale del verde urbano, approccio scenografico al monumento e soluzione dei percorsi pedonali e turistici cittadini, incastonando l’emergenza architettonica al centro di un grande angolo convesso. Un lungo piano inclinato erboso scende dai piatti volumi prismatici del fabbricato del bar, segnato da lunghe pareti nord-sud, fino a lambire gli antichi muri in pietra chiara della tomba regale. Un lungo filare di pini domestici segnala l’avvicinamento al monumento, mentre il piano viene scandito dal morbido movimento di una serie di guidane in pietra di Luserna, che da una gradinata in fregio all’accesso al fronte principale fanno corona al Mausoleo, mentre conducono con curve progressivamente più lontane e aperte ai piccoli volumi delle scale, ora ornati da rampicanti, per mezzo delle quali si risale alla stradina centrale in calcestre, dorsale di progetto e dei percorsi. Il rapporto con la nuova periferia di via

Chiavica è risolto felicemente da una «enfilade di orti conclusi», oggi ornata da una sontuosa pista per biglie, apice ludico-sociale di una frequentata area attrezzata con giochi per bimbi. Il lato opposto, situato ad ovest, si sviluppa lungo il confine con la ferrovia. Qui si erge un argine segnato di arbusti e siepi su cui corre una pista ciclabile perimetrale che protegge dalla polvere e dai rumori della strada ferrata. Ha inizio dal Parco della Rimembranza, omaggio ai caduti delle due guerre mondiali; un’area verde qui esistente da quasi un secolo, segnalata da lecci e cipressi monumentali e da un paio di arche con pennoni e bandiere. La pista prosegue sull’argine di progetto seguendo la strada ferrata, fino a giungere al limite nordest del Parco, in cui si trova un parcheggio ricavato in fregio a via Chiavica. La peculiarità della proposta del progetto vincitore si segnala per l’approccio percettivo con cui nasce l’idea: individua infatti una serie di punti prospettici privilegiati da cui godere della vista di questo oggetto straordinario in blocchi di pietra istriana, ciascuno dei quali rifinito con l’anathyrosis, il lieve sottosquadro listellare che segnala il perimetro di ciascun blocco in opera quadrata. In particolare la prospettiva da lontano viene suggerita da una solinga panchina, collocata al termine di una


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Nuovi scenari

Folia shakespeariana nel parco con Elena Bucci e Chiara Muti Dal oltre 25 anni il Ravenna Festival – oltre ad allestire i suoi spettacoli nei teatri e nelle basiliche monumentali e nelle chiese della città e dei dintorni – ha valorizzato diversi luoghi inediti o poco conosciuti di Ravenna e del suo territorio, proponendoli al pubblico come speciali scenari degli eventi in cartellone. Per la prima volta un singolare “teatro verde” come il Parco di Teodorico sarà coinvolto da una produzione originale del festival dedicata a frammenti drammaturgici di William Shakespeare, in occasione dei quattrocento anni dalla morte. Protagoniste di una vera e propia Folia shakespeariana (il 22 giungo, alle 21.30) saranno le attrici Elena Bucci e Chiara Muti, impegnate a far rivivere «personaggi maggiori e minori, fuggiti dalle trame delle opere del Bardo... e ad accompagnare gli spettatori nel mondo intranaturale sospeso tra realtà e sogno, vita e morte, filosofia e magia evocato da quelle creature, a partire dalle streghe del Macbeth fino a giungere ad Ariel e Calibano nell’isola di Prospero abitata dagli spiriti in Tempesta».

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breve diramazione originata dal nuovo argine protettivo occidentale. Quella frontale invece segnala l’accesso originario da ovest e viene ritmata da una serie di lampade in metallo dall’ “antico” sapore militare, che di notte conferiscono un’atmosfera opportunamente “gotica” alla visita. In fregio al fabbricato del bar si trovano un campo da basket, ad ovest, ed un’area recintata ad est, dove è stato collocato l’impianto di raccolta e sollevamento dell’acqua di falda e meteorica necessario per drenare il piano terreno del Mausoleo, nel tempo interrato di 2 metri sotto la falda acquifera. Nel corso del profondo scavo effettuato per la sua posa, nel dicembre 1998 la benna dello scavatore rinvenne un’imbarcazione lignea, lunga 12 metri e larga 3, situata circa 100 a nord del Mausoleo, al centro di un invaso profondo 10. La barca era costituita da uno scheletro portante con paramezzale (trave dorsale) in pino e doppio fasciame in abete, impermeabilizzata con un calatafaggio in pece e caolino: un’imbarcazione veloce e slanciata, abbandonata nel Badareno e destinata al cabotag-

gio endolagunare. Sulla barca si rinvennero sei scarpe, una suola, una tazza di legno, un tegame in ferro, anfore siriaco-egiziane e altri piccole suppellettili. Dopo aver effettuato il preconsolidamento con garza, gomma siliconica e vetroresina, lo scafo fu trasportato a Comacchio dove tuttora rimane. Proseguendo a nord del fabbricato del bar, a sinistra riprende il prato, mentre a destra si trova una zona ad arbusti, oltre la quale si perviene ad un lungo macero coperto di piante acquatiche, nel cui habitat hanno trovato dimora permanente una ricca flora e una fauna ciarliera, come le temibili oche, molto territoriali anche per chi fa jogging. Infine dal 1 aprile 2014, a seguito di un accordo fra Arpa e il Comune di Ravenna rivolto alla valorizzazione e alla salvaguardia dell’agrobiodiversità regionale, è avvenuta la messa a dimora del “Frutteto del Parco di Teodorico”, che comprende piante di pero rampino, melo Francesca, melo Righetta, susino borsa de Brecc; melograno verde di Russi; fico di Oriolo; melograno grossa, pero mora, cotogno antico e biricoccolo di Faenza. ❍

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arte grafica Ravenna Festival Magazine 2016

Costantini: ritratto di un artista

paradossale fra visioni e tempo reale

DI SERENA SIMONI

Sappiamo che Gianluca Costantini è nato a Ravenna il 19 dicembre 1971 e che i suoi antenati paterni erano di origine boema e di religione ebraica. A quattro anni venne colpito dalla sua prima visione: nel vano della finestra della stanza vide affacciarsi Qui, Quo e Qua, vestiti da giovani marmotte. Fu la prima di una lunga serie di visioni che lo portarono a subire punizioni corporali da parte della madre perché insisteva sul fatto che vedeva Biancaneve. Le apparizioni si raffinarono con l'età, quando passò ad incontrare angeli sui rami degli alberi. Seguo questa biografia fittizia, scritta nel 1997 dal pugno di Costantini – artista, disegnatore, fumettista in una miriade di acce-

zioni, editore, giornalista, docente, curatore – cercando di approssimarmi alla sua storia interiore attraverso i paradossi che tanto ama. Le visioni stanno dunque alla base del suo percorso, una sorta di passaggio iniziatico che parte da fantasie disneyane per intrecciarsi alla biografia più severa di Kafka, il boemo dalle origini ebraiche. Un letterato che affonda la sua creatività nelle zone oscure, un grande intellettuale che fornisce un modello. Ma il passaggio al disegno come è avvenuto? Al liceo. Un mio amico era disegnatore. La nostra squadra di pallacanestro partecipava ad un campionato e lui se ne stava vicino al campo sparando colpi di matita su un quadernone. Mi parve una cosa molto più interessante che star

seduto a fare il tifo e risolse il mio problema che mi affliggeva dall'adolescenza, cosa fare durante questa palla di vita. Il liceo è quello Artistico, a Ravenna. Fin qui è facile, mentre meno è capire se Costantini racconta la verità rispetto all'amico che disegnava durante la partita. Rimane la sensazione che sia stata un'illuminazione sulla via di Damasco a determinare una scelta di vita. Che l'abbia incontrato o no, quell'amico ha costruito una carriera oggi fulgida e internazionale. Se passiamo ad indagare i passi della sua formazione constatiamo di trovarci davanti alla storia di un uomo che appartiene ad un altro secolo, quella di August Strindberg: inizia gli studi di Filologia ad Uppsala, le ricerche in campo della scienza fisica si accompagnano al

lavoro di precettore presso famiglie signorili della città. Abbandonata la città svedese, si iscrive a Medicina a Vienna, dove frequenta i letterati al Café Griensteid(l), in particolare Niccolò Gros-Pietro, Giovanni Barbieri, Massimo Galletti. Non so quanto abbia letto Gianluca del drammaturgo svedese, ma è certo che la sua insaziabile curiosità può averlo portato a indagare la letteratura europea del '900 e a saccheggiare impunemente da internet tutto quello che gli poteva servire per la sua pseudo-biografia, ad appassionarsi temporaneamente alle costruzioni dell'architetto contemporaneo Nicolas Grospierre, a frequentare lo sceneggiatore di fumetti Giovanni Barbieri, con cui inizia dal '93 una collaborazione stavolta non fittizia. Abbandonati gli studi di medicina,


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Ravenna Festival Magazine 2016

intraprende la carriera di attore ma la delusione di questa attività lo porta ad un tentativo di suicidio con l'oppio. La sua prima opera teatrale è costituita dall'atto pubblico “Probabilità”, seguito da “Songs of Innocence”, pervasa da un tetro pessimismo. /.../ Non a caso ebbe a dire: «Bisogna riconoscere ciò che ci ha educati e formati sicché, dopo aver più volte esaminato il problema, devo dire: a compiere la mia educazione ci sono stati tre influssi forti durati una vita. È stato lo spirito religioso dei miei genitori, quasi completamente fuori di ogni nazionalismo; è stata la lettura della Beat Generation; ed è stato non ultimo l'influsso del visionario, al quale mi affezionai con fiducia, rispetto e animo riconoscente di discepolo: Wlliam Blake». Nonostante quest'ultima dichiarazione sia presa a prestito da Narciso e Boccadoro di Hermann Hesse, prendiamo gli elementi che sono incastonati nella narrazione, il testo Probabilità poi Blake e la Beat Generation. Il primo è una storia breve che inaugura la collaborazione fra Costantini e lo sceneggiatore di fumetti Giovani Barbieri, il

Artista, illustratore, disegnatore satirico, fumettista in una miriade di accezioni, graphic journalist, editore, insegnante, curatore di mostre internazionali, attivissimo su internet con siti web, blog e twitter, seguiti da oltre 50mila persone in tutto il globo. Quest’anno il Ravenna Festival ha adottato il suo “tratto” d’autore commisionandogli decine di ritratti dedicati a testimoni storici e attuali della lotta per la libertà e i diritti civili nel mondo

secondo ci testimonia dell'amore sconfinato per il grande poeta e pittore romantico inglese. Il testo delle Songs of Innocence di Blake si basa sulla descrizione dell'innocenza e la gioia della natura, sulla teoria dell'amore libero e della capacità visionaria che porta vicino a Dio. Esclusa la fede – che non è nelle corde di Costantini – Blake rappresenta il punto privilegiato della visione ad opera dei bambini, quella che incarna il mito fondativo del percorso del nostro artista. Un'innocenza pura e colta, un'innocenza senza limiti e visionaria, una tecnica raffinata che unisce la parola poetica e l'immagine. La Beat Generation è l'ultimo approdo: non so se Jack Kerouak, William Burroughs o Allen Ginsberg abbiano costituito il punto di vista privilegiato o se invece sia stata complessivamente la loro libertà creativa, il vivere e creare in modo assolutamente anticonvenzionale, la sperimentazione linguistica soprattutto, in articolare quella del cut-up di Burroughs che ha in comune con Costantini il tagliare a fettine gli spunti della frase – in questo caso la visione – e il loro >>

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riposizionamento prendendo a unica regola la libertĂ del caso (Probabilità è infatti il titolo del primo testo teatrale di Gianluca). In effetti, egli afferma nella sua pseudobiografia che nel 1993 ha fatto un viaggio a San Francisco dove ha conosciuto Burroughs nel suo salotto beatnik. Poteva essere visto che il grande sperimentatore a questa data era ancora in vita. ... Ma non si potrĂ ignorare che abbia subito l'influsso del Simbolismo. La visionarietĂ di Blake e il romanticismo del mito fondativo del “giovane artistaâ€? non può che pagare pegno alla stagione di un immaginario colto, seduttivo, anacronistico. Non saranno le immagni piĂš becere della stagione simbolista a incidere sul lavoro di Costantini ma piuttosto gli oscuri presentimenti dei mondi di Boeklin, la raffinata sensualitĂ un po' malata di von Stuck: il disegno del ravennate è una calligrafia inestricabile dove l'allusione è un principio, la bellezza un principio. L'innocenza di Blake si distribuisce in tavole in cui il protagonista non rinuncia ad un sentimento panico nei confronti del mondo, intesamente sentito e vis-

suto. Nel 1992 torna a Ravenna e comincia a dipingere, attivitĂ che continua a fare se pure in modo discontinuo per tutta la vita. Si iscrive all'Accademia di Monaco e segue il corso di Fabrizio Passarella, senza legarsi mai ad una tendenza, scuola o movimento di avanguardia. L'Accademia è quella di Ravenna mentre Fabrizio Passarella è un amico, artista e docente a Bologna, che condivide con lui una scelta estetica basata sull'anacronismo della visione, su una produzione all'epoca basata su un appassionato decorativismo. L'inattualitĂ portata a registro differenzia il loro lavoro dal resto del mondo e la loro cultura – costruita su letture, dialoghi, discussioni, letture appassionanti – porta a una pittura e a disegni estremamente raffinati che non mancano di sottoporsi alla sperimentazione. Nel 2004, nella mostra a due fatta per il ciclo “No Borderâ€? a Santa Maria delle Croci, Passarella e Costantini manifestano la stessa commistione di tecniche tradizionali – olio e acrilico per il primo, china per il secondo – con l'uso del digitale. Il postmoderno è una condanna da cui uscire, dico-

no, perchè la frammentarietà porta a diminuire o togliere senso, perchè la velocità manifesta spesso una eccessiva fragilità di pensiero. Costantini viaggia quindi a Parigi dove conosce Giuseppe Palumbo e si lega ai circoli artistici d'avanguardia. Dopo alcune collaborazioni in varie riviste conosce Alessandro Stoffa che, entusiasta del suo precocissimo talento, lo introduce nell'ambiente letterario e artistico parigino, diffondendone le opere. A Bologna dove risiede, il fumettista Palumbo sta per dare inizio alla serie di successo di Martin Mystère. Sono i contatti con l'ambiente del fumetto, legato a gallerie d'arte specializzate nel disegno, a riviste, fanzine, case editrici specializzate, studi e festival dedicati, a dare impulso alle scelte di Costantini. Le mostre d'arte si intercalano alle produzioni di disegni e di short stories che diventano sempre piÚ frequenti e apprezzate dal pubblico di intenditori. 1993. Ormai Costantini dorme di rado nella casa di famiglia a Ravenna, alloggia spesso in piccoli alberghi nei dintorni di Roma. Conosce e stringe amicizia con arti-

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sti come Vittorio Giardino, Diavù, Maurizio Ribichini. Benché frequenti i gruppi artistici più irrequieti e stravaganti, ha tuttavia un carattere riservato e prova un'istintiva repulsione per ogni manifestazione di eccentricità e di esibizionismo. Il fumettista veste di nero in quegli anni e lo farà per molti anni, alternando abiti che appaiono come una divisa da chairman esistenzialista. I nomi di autori che incontriamo nella pseudo-biografia fanno parte ormai della storia del fumetto italiano: più grandi di lui di qualche generazione o quasi coetanei, sono i primi estimatori del suo lavoro che dà sempre più spazio ai comics. Il segno di questi anni si mantiene fedele a un decorativismo puro, debitore dello studio del calligrafismo della cultura araba, e con rimandi visivi sia alla cultura visiva degli anni '30 che a un decorativismo bidimensionale che mescola Oriente e Occidente. Scrive, disegna e pubblica “Animalingua” servendosi della sua esperienza di giornalista, pittore, attore e frequentatore della Sala rossa del Ristorante Berns a Stoccolma. Nel settembre 1994 esce in Romania “Ruggito-Ruggito”

che subisce un processo per vilipendio alla religione da cui è assolto. Segue una crisi depressiva: nel frattempo si dedica alla scultura e ad esperimenti di fotografia a colori. Va a Berlino on ottobre. Si mescolano i ricordi: nel 1993 Gianluca comincia a pubblicare su “Schizzo” dove compare una storia scritta da Scianamé, L’ultimo appuntamento, seguita due anni dopo da Animalingua. Il suo mondo è popolato di figure arcane, simbologie tratte con sciamanica casualità dalla tradizione giapponese, russa, da uccelli mitologici e da frasi evocative. 1996. Costantini fa esperimenti di chimica, collabora a giornali di chimica, è povero in canna, vive solo della solidarietà degli amici, si ammala, ha crisi mistiche. Legge Swedemborg ed è soggetto a incubi e ossessioni. Tenta di fabbricare l'oro. La stesura di un nuovo libro autobiografico, il bellissimo “Freethinker” gli serve da autoterapia. Esorcizza la pazzia, recupera la ragione pressoché perduta. Sappiamo che la sua collaborazione con riviste e giornali inizia dal 1994, quando compaiono le sue >>

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arte grafica Ravenna Festival Magazine 2016

prime illustrazioni su “Il Manifesto”. Da allora le sue tavole sono apparse in numerosissime pubblicazioni editoriali, copertine di libri, produzioni musicali e materiali editoriali. Freethinker invece,

uscito nel '97, è in realtà una storia a fumetto breve in cui il protagonista unisce una forte visionarietà fra immagini e parole: «Siamo le stelle che cantano. Siamo l'uccello di fuoco. Voliamo sopra il cielo e la

nostra luce è una voce. Facciamo passare il nostro spirito sopra una strada». Con questo testo finisce la sua autobiografia fittizia e inizia quella “seria“ che dobbiamo seguire sul suo sito: il fumetto sarà la base del prossimo Vorrei incontrarti (2006) che arriva dopo vari premi nazionali e partecipazioni a mostre internazionali e in cui si rende esplicita la virata stilistica verso un linguaggio più asciutto, dove è principale una linea sintetica, spesso giocata sul semplice contorno: da tavole a china, essenzialmente pittoriche, si inserisce ora la fotografia e il computer. Già da un paio di anni ha cominciato ad abbandonare i soggetti che l'hanno appassionato in passato: l'urgenza è ora quella di parlare del mondo, di assumere una responsabilità crescente. Questa nuova fase è di poco preceduta da un viaggio nel 2001 a Sarajevo, da poco uscita da una lunga, orribile guerra: Eppure, mi sembra di essere già stato in questa città. Il libro successivo – Diario di un qualunquista (2007) – segna il passaggio definitivo: le tavole sono “disegni realizzati in tempo reale seguendo sulla rete gli

eventi del mondo”, spesso in tecnica cut-up orientata a mettere in luce ciò che sui media internazionali passa in secondo piano o addirittura sotto silenzio. Il suo fumetto diventa fortemente politico, le collaborazioni con i quotidiani sono sempre più preponderanti, inizia la serie di vignette satiriche su giornali, anche locali come “Ravenna&Dintorni”. Alcuni dei suoi lavori suscitano polemiche in questa città per la canzonatura verso personaggi pubblici o per le versioni irriverenti verso il “senso comune” della collettività benpensante. Non c'è destra o sinistra, ma ci sono storie da narrare, quelle che vengono messe sotto il tappeto come nel caso della morte del gerarca Arpinati, pubblicata su sceneggiatura di Carnoli e Colombari. Oppure ci sono altre storie caratterizzate dall'abitudine tutta italiana della memoria breve: stavolta in collaborazione con la sua compagna Elettra Stamboulis esce la trilogia su Pertini, Gramsci e Pasolini, che gira in tutta Italia e continua ad mantenere un successo indiscutibile segnato da continue presentazioni; esce quindi Officina del macello (2009) che narra di un eccidio dimenticato


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accaduto nel corso della Prima guerra mondiale e poi alcune narrazioni legate a personaggi intensi, sorrette da un amore verso luoghi e culture che condivise: L'ammaestratore di Istanbul è il diario della coppia Gianluca-Elettra sulle tracce del pittore e intellettuale ottomano Osman Hamdi nella capitale d'Oriente, amata fino allo struggimento e segnata da stretti contatti con l'ambiente intellettuale contemporaneo. In ultima sintesi, Costantini è ormai un personaggio pubblico e con un vasto seguito internazionale: contare le sue pubblicazioni successive, scritte da solo o in collaborazione con vari sceneggiatori, le infinite collaborazioni con riviste specializzate in fumetto in tutto il mondo o quelle con giornali che pubblicano in tempo reale su cartaceo oppure on line tavole o streeps su argomenti di attualità – fra cui la rivista “Pagina99” – non è possibile. Costantini è artista, fumettista, graphic journalist, disegnatore satirico e insegnante – da almeno 20 anni in Accademie e workshop in Italia e all'estero –, editore di libri di fumetto e co-curatore di festival internazionali come “Komikazen”, balzato in vetta alle iniziative di ambito

europeo. Frequenta e conosce fumettisti di tutto il mondo – citiamo almeno Joe Sacco, Marjane Satrapi, Zograf, Felipe Hernandez Cava, tutti già ospiti a Ravenna – ed espone in mostre e musei internazionali fra cui la Lazarides Gallery di Londra, il Carrousel di Parigi, il Dox Centre for Contemporary Art di Praga, il Museo de Humor Grafico Taborda di Buenos Aires; tiene conferenze ed esegue interventi come alla Galleria D406 di Modena o all'Ars Electronic Center di Linz. Grazie a twitter e internet 50.000 persone lo seguono e fanno rimbalzare le sue creazioni in tutto il globo: fra i suoi contatti e amici c'è Ai Weiwei, artista, designer e attivista cinese, conosciuto in tutto il mondo e famoso per la sua ingiustificata e lunga detenzione da parte delle autorità cinesi, a cui Gianluca si dice particolarmente vicino. Dai disegni di un amico sconosciuto (e forse fittizio) durante una partita di pallacanestro durante il liceo alle tavole della visibilità globale è bastato un passo di poco più di 20 anni. Fa piacere che Ravenna Festival ne abbia dato conto. ❍

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Il cartellone 105 Ravenna Festival Magazine 2016

sabato 28 maggio

sabato 4 giugno

Forlì, Chiesa di San Giacomo, ore 21

Palazzo Mauro De André, ore 21

LADYSMITH BLACK MAMBAZO

ORCHESTRA GIOVANILE LUIGI CHERUBINI

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domenica 29 maggio

domenica 5 giugno

Forlì, Teatro Diego Fabbri, ore 21

Sala del Refettorio del Museo Nazionale, ore 21

STEFANO BOLLANI PIANO SOLO

OMAGGIO A MORTON FELDMAN

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martedì 31 maggio

lunedì 6 giugno

Palasport Angelo Costa, ore 21

Chiostro Biblioteca Classense, ore 21.30

FEDERICO BUFFA “LE OLIMPIADI DEL 1936”

QUARTETTO LYSKAMM CSC

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teatro

classica, sacra, contemporanea

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martedì 7 giugno mercoledì 1 giugno

Palazzo dei Congressi, ore 21

Teatro Alighieri, ore 21

THE BLACKMAIL PROJECT

RECITAL DI MITSUKO UCHIDA ES CSC

classica, sacra, contemporanea

eventi speciali

approfondimento a pagina 43

approfondimento a pagina 29

mercoledì 8, giovedì 9, venerdì 10 giugno giovedì 2 giugno

Artificerie Almagià, ore 21.30

Sala del Refettorio del Museo Nazionale, ore 21

LA LONTANANZA NOSTALGICA UTOPICA FUTURA CSC

classica, sacra, contemporanea

approfondimento a pagina 43

XEBECHE D

danza

approfondimento a pagina 61

giovedì 9, venerdì 10, sabato 11

venerdì 3 giugno

e domenica 12 giugno

Sala del Refettorio del Museo Nazionale, ore 21

Teatro Alighieri, ore 20.30

PERDUTO IN UNA CITTÀ D’ACQUE

MANDELA TRILOGY

CSC

classica, sacra, contemporanea

approfondimento a pagina 43

OM

opera, musical

approfondimento a pagina 65


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Il cartellone Ravenna Festival Magazine 2016

venerdì 10 giugno IL NUOVO BAR

Palazzo Mauro de André, ore 21

BUDAPEST FESTIVAL ORCHESTRA CSC

classica, sacra, contemporanea

approfondimento a pagina 29

venerdì 10 giugno Grande Ferro di Burri presso il Palazzo Mauro De André, ore 23

NOTTURNO PER BURRI Via Cesarea ang. Via Serra - RAVENNA

CSC

classica, sacra, contemporanea

approfondimento a pagina 45

Il primo punto di ristoro Conad a Ravenna con la qualità e la genuinità di sempre che solo Conad può darti.

sabato 11 giugno Chiostro Biblioteca Classense, ore 18

CONFLITTI, GIUSTIZIA, RICONCILIAZIONE ORARI APERTURA DA LUNEDÌ A SABATO 6.30 - 20.00 DOMENICA 8.00 -13.00

Ogni anno sosteniamo la medicina, le attività sportive, culturali e le iniziative scolastiche della nostra regione

ES

eventi speciali

approfondimento a pagina 9

da domenica 12 a sabato 18 giugno

CELLOLANDIA I VIOLOCELLI INVADONO LA CITTÀ direzione artistica di Giovanni Sollima

domenica 12 giugno Chiostro Biblioteca Classense, ore 21.30 I VIOLONCELLISTI DELLA SCALA

lunedì 13 giugno CESAREA di CORZANI LOREDANA e C. SNC

Via Cesarea ang. Via Serra RAVENNA

Sant’Apollinare Nuovo, ore 21 GIOVANNI SOLLIMA & L’ARIANNA ART ENSEMBLE THE MISSING LINK Artificerie Almagià, ore 23 CONCERTO/PERFORMANCE DI RUSHAD EGGLESTON

martedì 14 giugno SAN PANCRAZIO

Via G. Randi, 47 SAN PANCRAZIO (RA)

ORARIO CONTINUATO DA LUNEDÌ A SABATO 8.00 - 20.00 DOMENICA 9.00 -13.00

Persone oltre le cose

Chiostro Biblioteca Classense, ore 21.30 TRIO REIJSEGER, FRAANJE, SYLLA

mercoledì 15 giugno Forlì, Chiesa di San Giacomo, ore 21 EFFETTI COLLATERALI GIOVANNI SOLLIMA E I SUOI ALLIEVI DELL’ACCADEMIA NAZIONALE DI SANTA CECILIA

giovedì 16 giugno Antico Porto di Classe, ore 19 GIOVANNI SOLLIMA Teatro Socjale di Piangipane, ore 21 IL CONCERTO FIUME


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Il cartellone 107 Ravenna Festival Magazine 2016

venerdì 17 giugno Teatro Alighieri, ore 21 MARIO BRUNELLO E IL CORO DEL FRIULI VENEZIA GIULIA

sabato 18 giugno Teatro Alighieri, ore 10 IL CONCORSO DI COMPOSIZIONE Rocca Brancaleone, ore 21.30 LET’S DANCE!

ES

eventi speciali

approfondimento a pagina 46

martedì 14 giugno Palazzo Mauro De André, ore 21.30

SANKAI JUKU D

danza

approfondimento a pagina 35

giovedì 16 giugno Forlì, Chiesa di San Giacomo, ore 21

SACRE CORDE CSC

classica, sacra, contemporanea

approfondimento a pagina 39

sabato 18 e domenica 19 giugno Comacchio

TRA ANGUILLE E TARANTE un progetto speciale di Ambrogio Sparagna

sabato 18 giugno ore 12.30, Ristorante Il Bettolino di Foce LA BUONA TAVOLA E I CANTI DEL MARE ore 15.30, Bettolino di Foce IN BARCA NELLE VALLI DI COMACCHIO ore 18, Manifattura dei Marinati RACCONTI D’ANGUILLE ore 21.30, Arena di Palazzo Bellini TRA ANGUILLE E TARANTE mezzanotte, Sagrato della Chiesa del Carmine VIENE SONNO DA LU CIELO

domenica 19 giugno ore 11, Antica Pescheria SOTTO LU PONTE C’È LU SOLE ore 18, Manifattura dei Marinati STORIE A COMACCHIO ore 21.30, Arena di Palazzo Bellini E LU MARE


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Il cartellone Ravenna Festival Magazine 2016

ES

eventi speciali

approfondimento a pagina 89

domenica 19 giugno Palazzo Mauro de André, ore 21

MAHLER CHAMBER ORCHESTRA CSC

classica, sacra, contemporanea

approfondimento a pagina 29

lunedì 20 giugno Rocca Brancaleone, ore 21.30

FOR MANDELA Assistenza infermieristica

JFR

jazz, folk, rock

Fisioterapia

approfondimento a pagina 71

Visite specialistiche a domicilio

martedì 21 giugno Teatro Rasi, ore 21

Assistenza domiciliare e ospedaliera Badanti ad ore 24H

LOUIS MOHOLO-MOHOLO 5 BLOKES a seguire

KEITH & JULIE TIPPETT “COUPLE IN SPIRIT” JFR

jazz, folk, rock

approfondimento a pagina 71

CENTRO ASSISTENZA FISCALE

mercoledì 22 giugno Parco di Teodorico, ore 21.30

FOLIA SHAKESPEARIANA T Adiura offre servizi selezionati, referenziati e garantiti che rispondono alle esigenze della società, rappresentando un valido sostegno per le famiglie. Nata nel 2008 con l’obiettivo di integrare i servizi pubblici sanitari e assistenziali offrendo aiuto domiciliare e servizi assistenziali completi quali servizi infermieristici e medici specialistici a domicilio, Adiura garantisce una risposta esauriente e qualificata a chi richiede assistenza casalinga e un aiuto nella ricerca della cura e del benessere per anziani.

teatro

approfondimento a pagina 94

giovedì 23 giugno Teatro Rasi, ore 21

HUGH MASEKELA JFR

jazz, folk, rock

approfondimento a pagina 69 Ravenna - via Ravegnana 79

tel. 327.5308774 - 327.5308775 www.adiura.com info@adiura.com

venerdì 24 giugno Palazzo Mauro de André, ore 21.30

TWYLA THARP DANCE


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Il cartellone 109 Ravenna Festival Magazine 2016

D

danza

approfondimento a pagina 58

sabato 25 giugno

Alex & Paul alex_and_paul

Russi, Palazzo San Giacomo, ore 21.30

LA LUNGA NOTTE IRLANDESE JFR

jazz, folk, rock

approfondimento a pagina 79

domenica 26 giugno

o iv n l e d ta a r nis u lt go u c ta a l ro e ov è p D a D

Russi, Palazzo San Giacomo, partenza ore 10

IN BICICLETTA CON OLINDO ES

eventi speciali

approfondimento a pagina 85

domenica 26 giugno Russi, Palazzo San Giacomo, ore 21.30

LA LUNGA NOTTE ROMAGNOLA ES

30

i n an

eventi speciali

approfondimento a pagina 87

lunedì 27 giugno Basilica di Sant’Apollinare in Classe, ore 21

THE TALLIS SCHOLARS CSC

classica, sacra, contemporanea

approfondimento a pagina 39

martedì 28 giugno Teatro Alighieri, ore 21

CHANTEUSE DES RUES D

danza

approfondimento a pagina 57

mercoledì 29 giugno Teatro Rasi, ore 21

STABAT MATER CSC

classica, sacra, contemporanea

approfondimento a pagina 54

D

a

ne ill ci bo i i d i. m r fiu ce n mo si iv a risi e er or m s s sie n i nti o n n i a ta g n are le. e 0 u 3 g i gi ia

g

c

4 ste pe s o e

a t er f ata b a o p iorn S m g

tia sta t pe que s a vi

Bar con Ristorazione via Alcide De Gasperi 11, Ravenna - tel. 0544 34713


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Il cartellone Ravenna Festival Magazine 2016

giovedì 30 giugno

mercoledì 6 luglio

Teatro Alighieri, ore 18

Palazzo Mauro de André, ore 21.30

IL DOPPIO VOLTO DELLA MONTAGNA ES

BATSHEVA DANCE COMPANY

eventi speciali

approfondimento a pagina 78

giovedì 30 giugno Palazzo Mauro de André, ore 21.30

D

danza

approfondimento a pagina 63

venerdì 8 e sabato 9 luglio Teatro Alighieri, ore 21

SVETLANA ZAKHAROVA MIKHAIL LOBUKHIN, DENIS RODKIN D

danza

HUMAN T

teatro

approfondimento a pagina 51

approfondimento a pagina 91

venerdì 1 luglio

sabato 9 luglio

Teatro Alighieri, ore 21

GRAN GALÀ DEL DANUBIO CSC

classica, sacra, contemporanea

approfondimento a pagina 37

Palazzo Mauro de André, ore 21.30

ALONZO KING LINES BALLET D

danza

approfondimento a pagina 53

domenica 3 luglio

lunedì 11 luglio

Palazzo Mauro de André, ore 21

Palazzo Mauro de André, ore 21

LE VIE DELL’AMICIZIA: RAVENNA-TOKYO

HAMBURG PHILHARMONIC CSC

classica, sacra, contemporanea

approfondimento a pagina 29

CSC

classica, sacra, contemporanea

approfondimento a pagina 29

lunedì 4 luglio Basilica di Sant’Apollinare in Classe, ore 21

mercoledì 13 luglio

WESTMINSTER CATHEDRAL BOYS CHOIR CSC

Palazzo Mauro de André, ore 21

AN EVENING WITH JOAN BAEZ classica, sacra, contemporanea

approfondimento a pagina 39

JFR

jazz, folk, rock

approfondimento a pagina 79

martedì 5 luglio Teatro Alighieri, ore 21

sabato 23 luglio

ORCHESTRA GIOVANILE LUIGI CHERUBINI

Forlì, Teatro Diego Fabbri, ore 21

CSC

classica, sacra, contemporanea

approfondimento a pagina 29

WATER DANCES CSC

classica, sacra, contemporanea

approfondimento a pagina 74


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Il cartellone 111 Ravenna Festival Magazine 2016

L’omaggio al Poeta

Giovani artisti per Dante da venerdì 13 maggio a mercoledì 13 luglio Antichi Chiostri Francescani, ore 11

Suoni e mistiche voci

Vespri a San Vitale da venerdì 13 maggio a mercoledì 13 luglio Basilica di San Vitale, ore 19

Liturgie nelle basiliche

In Templo Domini domenica 5 giugno Basilica di San Francesco, ore 11.15

MESSA NELL’EUROPA MEDIEVALE domenica 12 giugno Basilica di Sant’Apollinare Nuovo, ore 11.30

MESSA A CAPE TOWN domenica 19 giugno Basilica di Sant’Agata Maggiore, ore 11.30

UNA MESSA TRA ROMAGNA E GIAPPONE domenica 26 giugno Basilica di San Vitale, ore 10.30

MESSA NELLA ROMA DELLA CONTRORIFORMA domenica 3 luglio Basilica di San Vitale, ore 10.30

MESSA A WESTMINSTER


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Il cartellone Ravenna Festival Magazine 2016

Trilogia d’autunno

Lungo il Danubio venerdì 14 e martedì 18 ottobre Teatro Alighieri, ore 20.30

GRÄFIN MARIZA (LA CONTESSA MARITZA) musica di Emmerich Kálmán

sabato 15 e mercoledì 19 ottobre Teatro Alighieri, ore 20.30

DIE FLEDERMAUS (IL PIPISTRELLO) musica di Johann Strauss

domenica 16 e giovedì 20 ottobre Teatro Alighieri, ore 20.30

DIE LUSTIGE WITWE (LA VEDOVA ALLEGRA) musica di Franz Lehár

Biglietteria Modalità e orari Prevendite Il servizio di prevendita comporta la maggiorazione del 10% sui prezzi dei carnet e dei biglietti (maggiorazione che non sarà applicata ai biglietti acquistati al botteghino nel giorno di spettacolo). • www.ravennafestival.org • Cassa di Risparmio di Ravenna • IAT Cervia via Evangelisti 4, tel. 0544 974400 • IAT Marina di Ravenna piazzale Marinai d’Italia 17, tel. 0544 531108 • IAT Milano Marittima piazzale Napoli 30, tel. 0544 993435 • IAT Punta Marina Terme via della Fontana 2, tel. 0544 437312 • IAT Ravenna Piazza San Francesco 7, tel. 0544 482838 • IAT Ravenna Teodorico via delle Industrie 14, tel. 0544 451539 • Vivaticket Circuit www.vivaticket.it Informazioni generali Gli abbonamenti, i carnet e i singoli biglietti acquistati non possono essere rimborsati, non sono nominativi e possono essere ceduti ad altre persone. Tariffe ridotte riservate a: Associazioni liriche, Cral, insegnanti, under 26, over 65, enti convenzionati. Gruppi e associazioni Alle agenzie e ai gruppi (minimo 15 persone) sono riservati specifici contingenti di biglietti e condizioni agevolate. Ufficio Gruppi: tel. 0544 249251 - gruppi@ravennafestival.org

domenica 23 ottobre Teatro Alighieri, ore 20.30

BUDAPEST GYPSY SYMPHONY ORCHESTRA I 100 VIOLINI TZIGANI

BIGLIETTERIA Teatro Alighieri via Mariani 2, Ravenna Tel. +39 0544 249244 - Fax +39 0544 215840 tickets@ravennafestival.org

da venerdì 21 a domenica 23 ottobre Musica tzigana in vari luoghi della città, in occasione del Giovinbacco

Info & Servizi Punto d’incontro All’interno degli uffici di Ravenna Festival è stato creato un accogliente punto di incontro dove è possibile entrare liberamente e ricevere informazioni su tutte le attività del Festival ma non solo. Un modo per essere vicino alla cultura della città. Qui sarà possibile leggere i quotidiani, avere a disposizione la rassegna stampa, acquistare i programmi di sala, prepararsi agli spettacoli con ascolti e visioni. Dal 13 maggio: tutti i giorni dalle 9.30 alle 13 e dalle 16 alle 19. Il pullmann del Festival Per gli spettacoli al Pala De André, sarà attivo un servizio di trasporto gratuito (andata e ritorno) dalla Stazione Ferroviaria: Stazione - Pala De André - Stazione / 2 corse - ore 20.15 e 20.30. Servizio taxi Stazioni di sosta: Stazione Ferroviaria - Piazza Farini | Piazza Garibaldi Uffici festival Gli uffici di Ravenna Festival si trovano in via Dante Alighieri 1, a pochi passi dal Teatro Alighieri

Orari dal 23 maggio: dal lunedì al sabato dalle 10 alle 13 e dalle 16 alle 18. Domenica dalle 10 alle 13. Nelle sedi di spettacolo Pala de André: da due ore prima dell’evento, altri luoghi: da un’ora prima dell’evento.

Il festival aggiornato in tempo reale sui social network Il Ravenna Festival è presente anche sui social network, con aggiornamenti e approfondimenti sugli spettacoli della XXVII edizione. La pagina Facebook conta più di 20mila follower, mentre il profilo Twitter, aggiornato in tempo reale dagli utenti, fornisce notizie ancora prima dei siti di informazione. Su Youtube e Instagram invece sono presenti rispettivamente i video e le foto di estratti degli spettacoli.


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Ravenna Festival Magazine

Edizione 2016 EDIZIONI E COMUNICAZIONE

la rivista ufficiale del

UN CANTO PER LA LIBERTÀ Dedicato a Nelson Mandela e a tutti coloro che lottano per i diritti dell'umanità

Edizione 2016

ISSN 2499-0221

all’interno

Classica con Muti, Nagano, Fischer e Harding . Cellolandia Danza: dalla Zakharova a Twyla Tharp e Batsheva Jazz, folk, rock dal Sudafrica, Bollani, Nyman e Joan Baez Omaggio a Guerrini/Stecchetti . Dante e i Vespri


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