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contenuti

gennaio-febbraio 2012

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In memoria di Epaminonda Ceccarelli, ingegnere ravennate del cemento e della nautica

casa bella casa

abitare le culture

urbanistica e storia

progetti e democrazia

estetica e architetture

città verde

abitare l’habitat

di Paolo Bolzani

A casa di Slim Benammar, mâitre e musicista originario della Tunisia di Marina Mannucci

Vicoli, carraie e capannetti. storia e memorie del borgo San Rocco di Pietro Barberini

I cittadini e la darsena Riflessioni sull’esito di una partecipazione di Piera Nobili

«Il buon dio abita nei particolari»: 1. Il problema del “triglifo d’angolo di Alberto Giorgio Cassani

Una garden city per il centenario della fondazione di Milano Marittima di Chiara Bissi

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Il mercato immobiliare cambia.

edizione di Ravenna

Volta pagina e leggi

Controcopertina La visita a casa del compianto ingegner Ceccarelli caso vuole si sia compiuta in occasione della memorabile nevicata dei primi di febbraio 2012 e fa dire al nostro cronista di architetture Paolo Bolzani, in un passaggio introduttivo del suo racconto: ÂŤEntriamo e percorriamo il portichetto di ingresso, omaggiato, visti gli eventi meteorologici di questi giorni, da un simpatico e beneaugurante pupazzo di neveÂť.

Autorizzazione Tribunale di Ravenna n. 1240 del 8 novembre 2004 Direttore responsabile: Fausto Piazza Consulenza redazionale: Paolo Bolzani Collaborano alla redazione: Andrea Alberizia, Federica Angelini, Pietro Barberini, Roberta Bezzi, Chiara Bissi, Alberto Giorgio Cassani, Serena Garzanti (segreteria), Maria Cristina Giovannini (grafica), Linda Landi, Marina Mannucci, Piera Nobili, Luca Manservisi, Erika Marchi (grafica), Domenico Mollura, Serena Simoni, Marco Turchetti.

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Progetto grafico: Quadrastudio - www.quadrastudio.info Referenze fotografiche: Maurizio Montanari, Paolo Genovesi, Fabrizio Zani Redazione: tel. 0544.271068 redazione@trovacasa.ra.it - www.trovacasa.ra.it

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In memoria di La casa dell’ingegnere ravennate del cemento armato monolitico e della nautica da diporto

di Paolo Bolzani

Il 24 novembre dell’anno scorso Epaminonda Ceccarelli, “Nanni” o “EC” per chi lo conosceva bene, ci lasciava, all’età di 86 anni. Avendo frequentato il suo Studio per un tirocinio triennale, tra il 1991 e il 1993, posso dire di aver visto da vicino come si comporta un progettista di talento, edile e nautico o, come ogni tanto lui stesso diceva, «di terra e di mare». Geometra dal 1947, nel 1952 si era laureato in ingegneria, ed poi, con una Borsa di Studio, aveva approfondito la materia in ingegneria aeronautica. Quello che mi colpì subito, oltre la concezione etica dell’essere uomo e la tensione del fare, era l’inscindibilità tra aspetto compositivo e aspetto strutturale-materico nell’atto progettuale. Come aveva scritto nell’aprile del 1968 nella rivista L’Industria Italiana del Cemento, illustrando «la tecnologia del calcestruzzo a faccia a vista», «dalla scelta architettonica, dalla definizione degli elementi volumetrici e plastici, non si deve passare al calcolo del progetto. La scelta ar-

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Una veduta del soggiorno, e nei riguadri a lato due particolari d’arredo con vasi e applique di Venini

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Epaminonda Ceccarelli

chitettonica e il calcolo debbono essere fatti contemporaneamente, tenendo presente il legame tecnologico esecutivo». Per questo motivo gli chiesi di fare da correlatore per la mia tesi di laurea, che per quei tempi era un po’ un azzardo high tech nel mondo della conservazione: la copertura a vela sospesa sul quadrilatero della Rocca Brancaleone, monumento mutilo che ossessionava l’immaginario di entrambi. Ceccarelli andò ad affiancarsi a Massimo Majowiecki, correlatore anch’egli, da cui deriva l’impostazione e il controllo scientifico del progetto tensostrutturale, e al relatore Romeo Ballardini, che garantiva l’ambito disciplinare di riferimento, vale a dire quello del restauro architettonico. Dal canto suo Ceccarelli garantiva l’esito “cantierabile” di ogni particolare costruttivo, in quanto era un uomo che nutriva da sempre grande fiducia nell’evidenza dell’atto costruttivo, nella “sincerità strutturale”, che mette a nudo l’edificio per mostrare la struttura e il funziona-

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mento del fabbricato. Al di là dei motivi personali, perciò penso che la peculiarità per la quale Epaminonda Ceccarelli dovrebbe essere ricordato a livello architettonico risieda nell’uso del cemento armato monolitico a vista, utilizzato con grande rigore in una serie di fabbricati del centro storico di Ravenna. Questa è la sua eredità architettonica, accanto al suo ruolo di pioniere della nautica per le imbarcazioni da diporto - con una capacità e sensibilità che ha saputo trasferire intatta nel figlio Giovanni, designer a sua volta degli scafi di Mascalzone Latino e +39 Challenger – che gli consentì inoltre di realizzare grandi opere logistiche come il Porto Turistico di Cervia. Alcune sue opere architettoniche costruite in centro storico a Ravenna hanno conosciuto gli onori della cronaca nazionale e internazionale. Quella più nota è sicuramente il fabbricato a tre piani, ad uso uffici e negozi, realizzata nel 1960-61 tra via Pasolini e via Cavour, che due anni dopo vinceva il Premio Nazionale, sezione Emilia Romagna, “In/Arch”, assegnato dall’Istituto Nazionale di Architettura di Roma. Osservando tuttora il fabbricato, arretrato come da prescrizione comunale di un paio di metri in previsione di un allargamento di via Cavour mai effettuato, emerge l’ampio uso del cristallo all’interno della struttura in cemento armato a vista, a sbalzo su via Pasolini, cui si allineano i pilastri al piano terra. In una recensione di Architectural Design del 1966 si elogiava la capacità di Epaminonda Ceccarelli nel risolvere i vincoli presenti nel lotto «on small sites in old cities» e nell’inserimento dei materiali moderni nel contesto urbano «with a minimum of disruption to texture and

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scale». Nel numero 97 di L’architettura. Cronache e storia, del novembre 1963, Bruno Zevi recensiva la prestigiosa menzione della targa “In/Arch” a Ceccarelli, segnalandolo significativamente come «architetto». Accanto al fabbricato di via Pasolini/Cavour – citato anche da chi scrive, nell’aprile del 1998 (Ravenna&Ravenna, n. 355/1998) – vanno ricordati altri due edifici, costruiti nel medesimo periodo da Ceccarelli: la palazzina di via Gradisca (Ravenna&Ravenna, n. 450/2000), sorta nel 1963 con impianto planimetrico a “L” e il monumentale condominio sito all’angolo tra via di Roma e via Ugo Bassi. Si tratta di opere con i quali il passo in avanti rispetto a soluzioni più semplici e tradizionali, a pilastri e pannellature murarie a vista realizzate in precedenza, appare ancora più consistente. Qui la separazione tra telaio e tamponamento scompare in facciata a favore di una struttura monolitica «a tutto cemento». In questo modo Ceccarelli dimostra un’adesione, prima di tutto etica e quindi stilistica, alla poetica del “brutalismo” - termine coniato nel 1954 in Inghilterra, tratto dal francese beton brut («cemento grezzo») – con cui venne descritta la koiné linguistico-materica sorta con la realizzazione dell’Unité d’Habitation di Le Corbusier a Marsiglia (1947-1952) e portata avanti dal maestro con la città di Chandingarh in India. Si tratta di una composizione nuova che, vedendo ormai il razionalismo del Movimento Moderno rischiare di ridursi a maniera, preferisce avanzare sul campo di una nuova espressività plastico-materica, che in architettura mostra qualche analogia all’Action Painting di Pollock. Ne deriva un effetto complessivo di tipo plastico, giocato sulla capa-

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Apprezzato dalla critica architettonica internazionale degli anni Sessanta, nel 1962 vinceva il Premio Nazionale, sezione Emilia Romagna “In/Arch”, assegnato dall’Istituto Nazionale di Architettura di Roma per la realizzazione del fabbricato destinato a negozi e uffici, situato all’incrocio tra via Pasolini e via Cavour

cità espressiva e a volte aggressiva del cemento armato a vista. L’adesione al brutalismo che Epaminonda Ceccarelli mostra in questi tre casi, si stempera notevolmente nella palazzina in cui andò a vivere con la propria famiglia. Perciò ci avviamo a concludere questo scritto con l’introduzione di qualcosa di molto personale dell’uomo Ceccarelli: la sua casa. Costruita nel 1960 nell’area urbana sita tra la Rocca Brancaleone e via di Roma, a nord di quello che fino al secondo dopoguerra era il vasto orto Rava, la palazzina si mostra risolta all’esterno con paramenti a sbalzo in mattoni posati faccia vista, soluzione dettata da una intima esigenza compositiva, quasi una dichiarazione di amore per la rugosità del materiale, ma senza mai cadere negli effetti mimetici del recupero di una tradizione mal digerita. Gi infissi sono bianchi e nell’attico sbordano verso l’esterno con mensole ugualmente a sbalzo. Entriamo e percorriamo il portichetto di ingresso, omaggiato, visti gli eventi meteorologici di questi giorni, da un simpatico e beneaugurante pupazzo di neve. Raggiungiamo l’atrio del corpo scale centrale su cui si apre lo Studio Ceccarelli Yacht Design, condotto da Giovanni, in cui, oltre ai progetti in corso, si conserva il ben ordinato archivio del padre. Proseguiamo fino in cima alle scale, in marmo bianco su alzate e pedate gettate in opera in cemento armato, tenuto a vista, mentre ogni tanto nelle pareti dai mattoni rugosi, listati all’inglese a malta bianca, si aprono una serie di pic-

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«Con le palazzine di via Pasolini, via Gradisca e via di Roma, Ceccarelli dimostra un’adesione, prima di tutto etica e quindi stilistica, alla poetica del “brutalismo” - termine coniato nel 1954 in Inghilterra, tratto dal francese beton brut («cemento grezzo») – con cui venne descritta la koiné linguistico-materica sorta con la realizzazione dell’Unité d’Habitation di Le Corbusier a Marsiglia (1947-1952) e portata avanti dal maestro con la città di Chandingarh in India. Si tratta di una composizione nuova che, vedendo ormai il razionalismo del Movimento Moderno rischiare di ridursi a maniera, preferisce avanzare sul campo di una nuova espressività plastico-materica, che in architettura mostra qualche analogia all’Action Painting di Pollock».

cole bucature quadrate, per consentire alla luce degli appartamenti di rischiarare la salita, mentre il lucernario sommitale assicura una distribuzione più omogenea di luce naturale. L’effetto complessivo “a gelosia”, sembra far trapelare un’eco romanica. Ad aprirci la porta è direttamente la signora Anita, che ci introduce alla breve visita del vasto soggiorno in cui Nanni ha trascorso con lei gli ultimi cinquant’anni della propria vita. L’attico è distribuito attorno al vano scale, con un lato a servire le camere da letto e gli altri tre destinati all’articolarsi della zona giorno in soggiorno, cucina e corridoio di collegamento tra entrambi, da cui si può spaziare con lo sguardo fino al campanile di S. Giovanni Battista.

Muovendosi in questi ambienti, la sensazione che ne deriva è rappresentata dalla libertà concessa allo sguardo di vagare sul mare di tetti e terreni attigui, complici una serie di terrazzi pronti a prolungare soggiorno e cucina, con un effetto che ci sembra quasi evocare quello del ponte di una nave.

L’ingresso all’ampio e luminoso spazio del soggiorno è segnalato dalla presenza di un rialzo di tre scalini che lo separa dalla zona notte, prima ancora di raggiungere la porta del corridoio, in cui si rivela, al pari delle altre, i particolari motivi a traverso leggermente sporgente, disegnati da Ceccarelli.

Quasi a gerarchizzare e segmentare i momenti dell’ospitalità, davanti a noi si dispongono una serie di aree – living, pranzo, spazio lettura, studiolo – unificate dalle scelte di fondo: parquet scuro in teak, serramenti bianchi quasi con-

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tinui, corpi illuminanti ad applique di Venini. La luce naturale si posa, filtrata dalle veneziane, su una serie di mobili d’antiquariato, ricevuti in dono nel 1960 per la nuova casa o acquistati per l’occasione. Ecco alla nostra sinistra uno scrittoio da notaio del Settecento, su cui è posata una coppia di vasi rosso scuro di Venini, mentre a destra un altro scrittoio a ribalta della fine del Settecento, in legno chiaro, prelude alla zona pranzo, disposta attorno ad un tavolo rotondo, illuminato da un lampadario centrale a sospensione di Venini e bordato lungo le due pareti contigue da una base continua in legno scuro, disegnata ancora dallo stesso Ceccarelli. La parete rivolta al soggiorno è risolta da un’articolata composizione di piatti in ceramica assemblata nel corso degli anni come divertimento della padrona di casa - lei stessa ammette - a soggetto floreale. L’area living, situata in asse all’ingresso, risulta ben delimitata, oltre che dalla finestratura continua, soprattutto dalla composizione di divani e poltrone dai toni carta da zucchero, da un caminetto collocato a metà parete su una risega muraria, realizzato con mensole in ebano e nel lato opposto da un tavolinetto da camera da letto dell’Ottocento. Lo spazio appare costruirsi e qualificarsi a partire dal dialogo tra una cassapanca donata ad Anita da sua madre nella seconda metà degli anni Cinquanta e una serie di incisioni a parete, di Pablo Picasso, Francisco Goya, Emilio Greco e Mario Calandri che la sovrastano. Ma soprattutto il centro fisico e cromatico è mantenuto saldamente dall’energia sprigionata dal grande tappeto Bakhtiari, con motivo ad esagoni centrali, cornice a fiori stilizzati, e pullulante all’interno di piccole formelle con figure in movimento, il cui nome deriva dall'antica popolazione nomade iranica da cui proveniva anche la principessa Soraya, sposa dell'ultimo Shah di Persia. Così questo è il luogo dove Nanni si riposava e si dedicava all’accoglienza degli ospiti. Con questo ultimo pensiero ritorniamo ad immergerci nelle strade innevate della città in questo gelido febbraio.

Nelle foto, alcune opere architettoniche in centro storico a Ravenna firmate da Epaminonda Ceccarelli, appprezzate dalla critica internazionale.

In alto, il condominio fra via di Roma e via Ugo Bassi; sopra, il fabbricato fra via Cavour e via Pasolini; a destra, la palazzina di via Gradisca.

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Particolare del soggiorno della casa di Slim Benammar con la riproduzione della Seconda Sura del Corano, detta “Sura della Giovenca”, versetto 255.

ABITARE LE CULTURE

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Esiste un luogo da cui non voler far ritorno?

Conversando con Slim, mâitre e musicista di Marina Mannucci

Più o meno una sera alla settimana sono solita prenotare un tavolo al Ristorante La Gardela. È una di quelle semplici abitudini con cui si crea il personale tempo-spazio del vivere: saluti che si ripetono con un cerimoniale più o meno sempre uguale, il solito tavolo decentrato, l’ammiccamento paziente dei camerieri nell’attendere che io rilegga ogni volta tutte le vivande del menù, per poi trascrivere l’ordine del solito piatto di cappelletti in brodo. Con il personale cortese e solerte negli anni si è instaurata una piacevole confidenza che m’induce a riflettere sul rilievo antropologico di questa figura professionale che svolge un ruolo di mediatore tra visitanti e ospitanti. Il cameriere va e viene, messaggero e portatore di vivande tra gli spazi fisici del convivio; nei transiti conversa e confida, a sua discrezione, i segreti del piacere del gusto e per questo suo importante ruolo e per le necessarie doti di osservazione che questo antico mestiere richiede, non v’è dubbio che un bravo cameriere è sempre anche un sapiente antropologo. Decido d’intervistare Slim Benammar, originario di Tebourba in Tunisia, residente a Ravenna dal 1998, mâitre d’impeccabile professionalità e dal pacato sorriso di questo storico ristorante del centro di Ravenna. Il racconto di Slim prende avvio dai ricordi del vivere in una famiglia patriarcale intesa come un’unità allargata, estesa; un micro-sistema-sociale incentrato sulla tessitura di rapporti familiari ed economici, tuttora presente in Tunisia. Slim mi racconta di quanto era importante mangiare tutti insieme, una tradizione che «porta fortuna» mi dice «perché quando si è in tanti il cibo si divide e si condivide e tutti riescono sempre a sfamarsi». Il pane, alimento base di qualsiasi popolo, veniva cotto quotidianamente da sua madre in un tegame d’argilla o in un forno d’argilla detto tabouna riscaldato con il calore prodotto dalla combustione dei rami di ulivo degli alberi coltivati nel cortile di casa. Se le scorte di rami si esaurivano, la mamma andava a comprare degli avanzi di legna da un commerciante. In una di queste occasioni Slim approfitta per prendere qualche tocco di legno e si costruisce un violino; in un’altra, con un fascio di crine strappato di nascosto al cavallo di una zia, finirà di confezionare anche l’archetto. Mi confida che fin da piccolo la musica è sempre stata una sua grande passione: per un ragazzino, in Tunisia, rientra in un ordine naturale organizzarsi per costruirsi il proprio strumento musicale; la scuola di musica è gratuita perché fa parte della cultura popolare, mentre per gli strumenti si

«Tutte le gazzelle che ho amato, un giorno attraverseranno l’arcobaleno» Khalèd Najar, Poesie per un angelo caduto, ed. Riad

deve provvedere in modo “creativo”. La musicalità è una caratteristica della cultura arabo-islamica: se già il popolo arabo-pagano era solito musicare il proprio patrimonio letterario, l’avvento del profeta Muhammad amplifica tale abitudine. Dopo essersi diplomato con la qualifica di mâitre presso una scuola alberghiera ed aver svolto uno stage in Germania – affrontando continue peripezie riguardo al rilascio del visto di soggiorno –, inizia per Slim la sua carriera professionale con esperienze in Cecoslovacchia, Germania, Arabia Saudita, Francia ed infine Italia. A Castelvetrano conosce la futura moglie anch’essa tunisina, si sposano, e nel 1998 si trasferiscono a Ravenna; Slim impara la professione di piastrellista, poi lavora per due anni presso il ristorante Bistrot in pieno centro storico a pochi passi dalla Basilica di San Vitale. In occasione di un evento a Villa Malagola conosce Mauro Mambelli, proprietario e gestore del Ristorante La Gardela e sono ormai otto anni che Slim è un suo fidato dipendente-collaboratore con incarichi di prestigio e responsabilità.

Quando ha lasciato la Tunisia Slim si era proposto di viaggiare, conoscere nuovi luoghi e migliorare la sua capacità professionale, obiettivi, questi, raggiunti con successo; negli ultimi anni ha dovuto però fare i conti con un sentimento di nostalgia latente ed un desiderio sempre più pressante di “ritorno”. A tal proposito il filosofo Umberto Galimberti scrive che «angoscia e nostalgia... sofferenza e differenza sono parte del destino dello straniero che, non conoscendo le strade del paese estraneo, girovaga sperduto e fanno di lui un essere che abita il mondo senza esserne coinvolto, richiamato da un aldilà che lo disabita», ed ancora che «lo spaesamento è un modo fondamentale dell’essere-nel-mondo anche se è quotidianamente nascosto».

Slim è sereno quando mi confida che la moglie ed il figlio da alcuni mesi sono tornati a vivere in Tunisia; il suo sguardo carico di umanità mi rimanda per un attimo alla figura leggendaria di

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«Se per Itaca volgi il tuo viaggio, fà voti che ti sia lunga la via, e colma di vic ende e conoscenze. [...]

E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare»

Kostantinos Petrou Kavafis, Itaca

«La legge e la costituzione sono solo sulla carta.

Ogni giorno sento di processi contro la povera gente, anche quando tutti sanno che quella è una brava persona!

E vedo serpenti ovunque pronti a mordere le nostre ragazze Accetteresti che tua figlia fosse morsa?

Lo so, certe parole fanno piangere gli occhi...

Ma tu sei un padre e un padre non permetterebbe che tutto questo accada ai suoi figli!

Il mio è il messaggio di uno dei tuoi figli, uno che prova a parlare con te.

Parlo con dolore, viviamo come cani!

Metà della popolazione vive nell’umiliazione e beve l’oppressione.

Presidente, il tuo popolo sta morendo!

Guarda quello che sta accadendo!

La gente non ha più un posto dove abitare!

Parlo nel nome di tutto il popolo, c’è gente che mangia dalla spazzatura!

Guarda quello che sta accadendo nel paese!»

Hamada Ben Amor, in arte El Général, rapper tunisino, Presidente del paese

ABITARE LE CULTURE

Ulisse ed alla sua ricchezza di prudenza e coraggio, curiosità ed intelligenza, generosità impetuosa e calcolata freddezza, fiducia, dubbio e nobile astuzia. Salutandomi, Slim mi sussurra di aver capito che la vita è sì conoscenza, ma è anche memoria e rispetto della propria intimità e degli affetti originari.

La Repubblica Tunisina è uno Stato del Maghreb in Nordafrica bagnato dal mar Mediterraneo e confinante con l’Algeria e la Libia; si ritiene che il suo nome, Tūnus, abbia origine dalla lingua berbera, con il significato di promontorio, o, più probabilmente, “luogo in cui passare la notte”.

Il 40% della sua superficie è occupato dal deserto del Sahara, mentre gran parte del territorio restante è composta da un terreno particolarmente fertile e circa 1.300 km di coste sono facilmente accessibili. Questi fattori giocarono un ruolo importante in epoca antica, prima con la fondazione della famosa città fenicia di Cartagine, e successivamente con l’istituzione della provincia romana dell’Africa, quando la Tunisia divenne, dopo la Sicilia, uno dei granai dell’Impero Romano. Il tentativo di consolidare le proprie conquiste territoriali e di estenderle al resto della penisola italica, rese inevitabile lo scontro tra Cartagine e la nascente potenza di Roma. La serie delle guerre puniche determinò la definitiva sconfitta di Cartagine. Dopo la caduta dell’impero romano d’Occidente, la regione fu invasa dai vandali, che ne conservarono il controllo fino al 533, anno della conquista attuata dal generale bizantino Belisario. La storia più recente racconta che nel 1883, dopo il Trattato del Bardo con la Convenzione di La Marsa, la Tunisia diventa Protettorato francese ed inizia a prendere vita un movimento culturale e politico (il Movimento dei giovani tunisini) che richiede l’autonomia del paese; indipendenza che la Tunisia otterrà nel 1956 con Bourguiba, nominato Presidente della repubblica. Iniziato sotto il segno del liberalismo e della laicizzazione della società tunisina, il lungo regno di Bourguiba si conclude però nel decadimento dovuto ad una grave crisi economica. In materia di diritti umani, le organizzazioni non governative e i media stranieri hanno regolarmente criticato la politica del suo successore, il generale Zine el Abidine Ben Ali, per l’inclinazione verso la dittatura, la repressione dei suoi oppositori, e gli attacchi alla libertà di stampa. Il suo regime è stato anche caratterizzato dalla corruzione: la sua fortuna personale, stimata in cinque miliardi di euro depositati in conti esteri o investiti nel settore immobiliare, sarebbe soprattutto il risultato di appropriazione indebita effettuata durante i ventitre anni della sua presidenza. Riguardo alla condizione delle donne, la Tunisia “sembrerebbe godere” delle politiche più progressiste del mondo arabo, sin da

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«E io ritorno dal viaggio alla vecchia casa Le cose riacquistano il loro vecchio sapore»

Khalèd Najar, Poesie di un angelo caduto

quando nel 1956 fu proclamato il Codice dello statuto personale (Csp), un nuovo codice di famiglia che parificava i diritti dell’uomo e della donna e che riconosceva alle donne diritti mai concessi prima da nessuna società islamica, come il diritto di voto, la possibilità di scegliere il proprio marito, il divieto della poligamia e la legalizzazione di aborto e divorzio.

Queste riforme si rifacevano al pensiero del politico e sindacalista islamico tunisino Tahar Haddad, che, nel libro Le nostre donne nella sharia e nella società, negli anni trenta, predicò l’uguaglianza fra tutte le persone, in particolare fra uomini e donne, attraverso una riforma basata sull’istruzione femminile. Haddad si batteva contro i matrimoni forzati di ragazze molto giovani e voleva che le donne avessero il pieno diritto di lavorare fuori casa. Ovviamente questa serie di riforme ha rappresentato un passo in avanti verso l’uguaglianza dei sessi, ma la donna è comunque rimasta relegata al ruolo sottomesso di moglie e madre mentre l’uomo rimane il capo indiscusso della famiglia tunisina. In termini di eredità, ancora oggi le ragazze ereditano la metà di quanto spetta ai ragazzi. La violenza è rimasta in questi anni un argomento tabù; e le madri single, con figli non riconosciuti, non sono mai state un problema dello Stato tanto è vero che sono ignorate dalla legge. Dal 1993 ad oggi non vi sono stati grandi progressi e molto del lavoro sul campo si deve alle organizzazioni femministe, che hanno creato spazi di discussione per assicurare che la questione della parità tra i sessi non fosse dimenticata. La Tunisia ha infatti sottoscritto il Cedaw (Comitato delle Nazioni Unite per eliminazione delle discriminazioni contro le donne) ma molte forme di disparità a danno delle donne rimangono evidenti. Il principio di non-discriminazione è stato incorporato nel diritto del lavoro e negli statuti dei servizi pubblici, mentre non figura nel Codice dello statuto personale, né in maniera chiara nella Costituzione (che parla genericamente di “uguaglianza tra cittadini di fronte alla legge”). Le riserve usate dal Governo (ex, governo, ora caduto, di Ben Ali) nascono proprio dall’articolo 1 della Costituzione tunisina che dichiara che l’Islam è la religione di stato. Ora, sulla base della religione islamica, vengono adottate pratiche e provvedimenti che, di fatto, discriminano le donne. E fanno sì che alcuni articoli del Cedaw non si applichino alla Tunisia o solo con riserva.

La storia presente della Tunisia è cronaca conosciuta: il 17 dicembre del 2010, il venditore ambulante ventiseienne Mohammed Bouazizi si dà fuoco a Sidi Bouzid, un paesino della Tunisia, dando il via ad una serie di rivolte destinate a cambiare il volto del mondo arabo dall’Egitto al Marocco, alla Libia. Il gesto di auto-immolazione di Mohammed Bouazizi avviene dopo che il giovane era stato pubblicamente picchiato da una poliziotta, che intendeva punirlo perché ven-

Riproduzione della Porta della Mecca (l’originale è in oro con versetti del Corano)

deva verdure pur non avendo alcuna licenza. Le autorità gli avevano sequestrato inoltre tutta la merce che aveva sul carretto e si rifiutavano di restituirla. Il 4 gennaio successivo il giovane muore per le ustioni riportate; nel paesino scoppiano proteste, che presto si estendono a tutte le città vicine fino ad arrivare alla capitale Tunisi. La rivoluzione del gelsomino è partita, il seme della “Primavera araba” con la voglia di cambiamento si diffonde in tutto il mondo arabo. Trascorso un anno, i vincitori sembrano i partiti islamici che, pur non avendo personalmente guidato le proteste, si sono presentati come quelli meglio organizzati nelle tornate elettorali di Egitto, Tunisia e Marocco. La Tunisia sembra il Paese che è riuscito ad ottenere più trasformazioni: ad ottobre si sono tenute le prime elezioni libere, che hanno portato al potere il partito islamico moderato Ennahdha; lo storico oppositore del regime, Moncef Marzouki, è diventato presidente e ad Hamadi Jebali è stato dato l’incarico di formare un nuovo governo. La storia ricomincia.

Tutte le foto sono di Alberto Giorgio Cassani

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Dai vicoli dei capannetti i profumi del tempo I ricordi di Rita Mazzillo, oggi animatrice della Ca' de Ven, sugli esordi a Ravenna della mitica trattoria in borgo San Rocco

A sinistra, Rita Mazzillo, alle prese con la neve davanti alla “sua” Ca’ de Ven. L’esperta gastronoma e sommelier, diede vita nel lontano 1987, ad una piccola trattoria per buongustai nel cuore dei capannetti, vicino al “Portonaccio”.

Nelle altre foto, alcuni scorci, dei vicoli che caratterizzano quella parte del borgo San Rocco

URBANISTICA E STORIA

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di Pietro Barberini

«Arrivata a Ravenna, 44 anni fa, sono stata colpita dal quartiere San Rocco, ancora racchiuso nel “Castello di San Pietro” con le sue botteghe e, poco lontano, sulle tracce del canale Molinetto, si ricordavano ancora delle lavandaie che facevano il bucato»!

Così ricorda quella parte della città, Rita Mazzillo, chef e sommelier, entusiasta animatrice della rinnovata “Ca' de Ven” di Ravenna.

«In uno di quei vicoli che si aprivano, quasi nascondendosi alla vista dei passanti frettolosi, in un ristretto gruppo di piccole case chiamato capannetti, nel 1987 ho scoperto un piccolo locale da affittare, vuoto da pochi mesi. Era una casa dove potevi far da mangiare e c'era un bel cortiletto, per apparecchiare “fuori” nella bella stagione. I profumi della mia cucina vincono le iniziali diffidenze dei vicini di casa, che diventano assaggiatori e fornitori, suggeriscono e si danno da fare. Una sorta di nicchia e tale è anche la mia proposta: nel piatto c'è una filosofia di vita, cibi in armonia con il vino e con l'ambiente appartato, i gatti, il silenzio rotto dallo scalpiccio dei passi su quei vecchi selciati. L'avventura “Capannetti” finisce 14 anni dopo, quando il padrone di casa ritorna ad abitare la propria dimora.

In quell'arco di tempo il locale si è affermato: artisti, personalità note ma anche tanti semplici avventori, giovani in cerca di emozioni culinarie e abbinamenti con il vino e poi la scoperta

dei formaggi, semisconosciuti a molti romagnoli. C'erano persone che venivano regolarmente una volta al mese, o nelle stagioni migliori per visitare Ravenna. Ricordo che da Bellinzona arrivava un pullmino di turisti svizzeri, poco più di una decina. Ogni volta cambiavano, ma due o tre erano sempre gli stessi! Dalla mia cucina sono poi andata a casa di altri, ho portato “Capannetti” fuori dai capannetti».

In quel locale, oltre a trovare affermazione professionale, ha realizzato se stessa; è stato difficile?

«Certamente è stato molto impegnativo, ma non difficile, perchè nella famiglia tradizionale la mamma fa da mangiare e insegna, trasmette il suo “sapere”. Credo ci sia un nesso con la disgregazione di alcuni valori che stanno alla base della famiglia e della società. Il patrimonio cultural-gastronomico deve essere insegnato, passare di mano, altrimenti lo perdiamo».

A tavola, come si “conquista” un ravennate?

«Con cose semplici. Ai Capannetti si tornava, tutti, un poco a casa propria...»

Cosa ricorda di quella parte della città?

«Le vecchie mura, la pavimentazione di ciottoli di fiume, l'atmosfera quando la sera si mangiava sotto il fico. Non c'è più il ristorante, ma, vicino, un bed&breakfast carino e ben gestito.

Si continua a respirare un'aria fuori dal tempo, dove viene conservata la memoria degli aromi dei “Capannetti”».

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L’isola della professoressa Vittorina Zanzi, dai capannetti a via Cappi, sempre «nel più bel borgo della città»

«Il borgo San Rocco è il più bello di Ravenna, è un'isola...»!

Così mi risponde Vittorina Zanzi, arrivata nei “Capannetti” negli anni Cinquanta.

«Vicini di casa erano due coniugi; lei vendeva il carbone ammassato al piano terra della loro casa, il marito da giovane era stato macchinista sulla tramvia a vapore Ravenna - Forlì, “guidava” la locomotiva».

In quelle case che avevano la scala esterna, tanto da costringere ad uscire per andare dalla cucina alla stanza da letto, chi ci abitava?

«Braccianti, muratori, falegnami. Nella bella stagione i cortili si animavano: occupazioni di ogni genere e la cardatura della lana effettuata con attrezzi ormai scomparsi. Per fortuna la ti-

pologia edilizia ha protetto quest'ambiente. Le nuove costruzioni lungo via Ravegnana non “disturbano”, si sono sviluppate con una certa continuità».

Virginia Zanzi esprime questi concetti con precisione e tocchi ironici, non le manca la capacità di spiegare, avendo insegnato alle medie e alle superiori per tutta la vita, dopo la laurea in Scienze Naturali conseguita a Bologna.

«Anche nelle altre strade del borgo, le abitazioni sono essenziali, semplici, case a due piani allineate, quasi a farsi compagnia».

C'è uno stile, un dato unificante, un sentire comune? «È una parte di Ravenna, raccolta ma comunicante con la città e basta “entrarci” per capire che è un'isola».

Alcune immagini attuali del borghetto dei capannetti.

Qui sotto, un foto dei casotti scattata nei primi del ‘900

URBANISTICA E STORIA

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Nasce da un castello il borgo San Rocco Aria di paese, fra la chiesa e le scuole pubbliche. Capannetti, vicoli e carraie: una toponomastica che indica funzioni e ricorda storie vere Il borgo San Rocco è antichissimo. Nasce fuori dalle mura, al di là del ponte sul fiume Ronco, allora “Acquedotto”, dove Federico II, dopo la conquista di Ravenna, aveva fatto costruire una fortificazione per difendere la città sul lato meridionale. Di un “castello” abbiamo notizie in un documento del 1256; il fortilizio comprendeva l'area fra la porta Sisi e il Portonaccio, dove, svettava una torre merlata. Molto più antico il nome San Pietro, che si riferisce ad una chiesa e ad un'ospedale, che i monaci dell'Ordine dei Cruciferi avevano fuori le mura (fine XI secolo). Nei secoli successivi il borgo resta stretto fra il fiume e un canale che correva verso est. Con i grandi lavori avviati dal Cardinale Giulio Alberoni nel 1735, il vecchio “castello”, oramai inutile alla difesa, si apre del tutto ad una forte “espansione abitativa”, spinta dagli stessi lavori di deviazione del corso dei fiumi Ronco e Montone. L'arrivo di tanti lavoranti favorisce lo sviluppo edilizio, fatto di insediamenti poveri e precari, inizialmente sugli argini, poi all'interno del corso del fiume “abbandonato”, fra le attuali via San Mama e via Ravegnana.

In occasione dell'inaugurazione della strada carrabile per Forlì, alla fine del Settecento, la porta, aperta dove si ergeva la torre merlata, fu rifatta dal Morigia come “arco di trionfo”. Nonostante l'eleganza, quello era il “Portonaccio” e tale restò per i ravennati.

L'acqua rimase protagonista, fra le vie del borgo, con lo

In alto, una mappa del borgo San Rocco fra ‘700 e ‘800 (tratta dal volume di Gian Franco Andraghetti Aquae condunt urbis - Atlante storico-topografico di Ravenna, edizioni Media News, 2007).

A sinistra, un’incisione dell’Arco del Morigia , meglio conosciuto come Portonaccio, visto dall’ingresso da via Ravegnana

URBANISTICA E STORIA

MONTAGGI 2012 02:Layout 1 21/02/12 19.43 Pagina 33

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Immagini del borgo San Rocco nei primi decenni del ‘900; Dall’alto, in senso antiorario: uno scorcio del canale Molinetto a est del borgo; la zona del ponte sul canale, a ridosso di porta Sisi; l’area dell’ex lavatoio pubblico con il mercato; via Ravegnana nei pressi del Portonaccio

scolo Lametta, il fossato di via San Mama e il canale del Molino, consentendo la macinazione del grano, favorendo le attività artigianali e commerciali, il prosperare dei traffici e di alcune osterie (ancora oggi resistono “I Mugnai” e “Il Cervo”). Ma l’acqua determinava anche funzioni sociali come il lavatoio pubblico che fu costruito nel 1827 sulla sponda destra del canale, a valle del molino Lovatelli, sembra su ordine personale del legato pontificio, Cardinale Rivarola, scandalizzato dalla visione delle lavandaie che, mentre affondavano i panni nell'acqua, chinandosi, mostravano gambe e... decoltè! Il lavatoio pubblico fu attivo per oltre un secolo. Nel 1930, in accordo con le linee proposte dal Piano Regolatore, il corso d’acqua fu tombato fino all'ippodromo. Via Gabici venne tracciata sulla condotta del “canale molinetto”, il ponte di fronte a Porta Sisi fu demolito così come il lavatoio. Al suo posto venne realizzata una piazza ad uso di mercati. Intanto sorgono nuove case, costruite sui vecchi argini del Ronco, che “spingono” l'abitato verso sud: dove scorreva l'acqua, i capanni e le casette a due piani, con la stalla sotto, restano “chiusi” dalle nuove abitazioni a schiera.

Angusti passaggi permettono il transito di persone e quadrupedi. Nella zona di via Capannetti, dove non entra neppure un carretto, i cortili sono lunghi e stretti, con orticelli minuscoli.

Al “centro” del borgo che porta il suo nome domina la chiesa parrocchiale di San Rocco. Per lo stile architettonico e i materiali utilizzati si distingue nettamente da tutti gli altri edifici religiosi ravennati. Eretta alla fine del Cinquecento, fu riedificata, nelle forme attuali, nel 1828 e completata soltanto nel 1855. La torre campanaria è sulla strada, dotata di un orologio con meccanismo e figure che si animano al battere delle ore.

Tutt’intorno edilizia minore, cresciuta disordinatamente, ma i contrasti vengono smorzati dalla dimensione poco invadente. Nonostante l’irruzione della modernità si respira ancora aria di paese in tutto il borgo, con le botteghe che restituiscono familiarità al passaggio, dove biciclette e pedoni dominano incontrastati. Una Ravenna diversa, con una forte personalità, appartata e un po' demodè, non solo nei vicoli, ma anche in tutte le viuzze a destra e a sinistra del Portonaccio con via Scuole Pubbliche che vede, ancor oggi, sciami di piccoli studenti uscire a frotte dopo le lezioni.

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GENNAIO-FEBBRAIO

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Riflessioni sull’esito di una partecipazione

di Piera Nobili

Dalla lettura del consistente e ben descritto resoconto del percorso di progettazione partecipata sulla “Darsena che vorrei”, si possono trarre diverse considerazioni; mi preme evidenziarne alcune che, a mio avviso, ritengo essere fra le più significative. È emersa una conoscenza approfondita del territorio e la capacità di immaginarsi un futuro dell’area in questione anche in relazione alla città e al suo propagarsi all’intorno. Una conoscenza basata sul sapere della vita concreta e quotidiana, quella che mette in gioco l’essere di chi abita, che ha indicato,

PROGETTI E DEMOCRAZIA

nell’immaginarsi il futuro, interventi di riconversione e riqualificazione attenti all’uso ed usabilità delle strutture urbane. Tale attenzione conferma come uso ed usabilità siano criteri fondanti di qualunque progetto urbanistico-architettonico a cui prema conseguire la trasformazione di spazi in luoghi vissuti, dove l’aspetto fenomenologico dell’abitare ha il sopravvento sui paradigmi dell’economia di mercato, ponendo attenzione alla varietà, al divenire di persone e cose, all’appropriazione e riconoscimento delle strutture urbane non come altro da sé (alienazione), ma come “misura dell’uomo”.

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I cittadini e la darsena

Dalle proposte scaturite si evidenzia con chiarezza il desiderio di perseguire la realizzazione di luoghi urbani che promuovano benessere e che siano belli. Leggendo attentamente le intenzioni dei partecipanti, queste attese assumono lo stesso significato che Massimo Cacciari assegna al termine bello riferito all’architettura etica: qualcosa che sta bene insieme, […] che funziona nel senso che fa abitare […], che permette una eudemonia, come dicevano i Greci, cioè uno star bene, un abitare, un sentirsi a casa, un sentirsi a casa con gli altri. […] non si può star bene,

non si può abitare, non si può essere abitante se non in uno spazio che liberi, che faccia dialogare, che permetta l’andare e il venire, che non abbia barriere […]. (Discorso inaugurale di ArchEtica 2000, Venezia).

Ciò che accomuna le parole di Cacciari con le proposte e le riflessioni di cittadini e cittadine è anche, da un lato, il richiamo alla conoscenza di chi abiterà, una conoscenza non astratta, ma fondata sulla relazione diretta con i soggetti incarnati che useranno l’esito stesso del progetto e, dall’altro, l’attenzione a

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“qualcosa che funziona”, che si rintraccia nel modo in cui l’ambiente si relaziona e comunica con l’abitante, una comunicazione fatta sia di trasmissione d’informazioni su cosa è, a cosa serve e come utilizzarlo per viverlo con agio, che di emozioni positive stimolate dal provare piacere nell’abitarlo, un piacere non necessariamente estetizzante, ma che si confronta con la forma, la dimensione, il materiale, il colore e la luce che lo compongono.

In tema di benessere non potevano mancare fondamentali requisiti dell’ambiente, quali sostenibilità ed accessibilità che si sono espresse con una tensione verso la bonifica dell’acqua, dell’aria e dei suoli, il risparmio delle risorse energetiche nella realizzazione di nuove strutture e nel recupero dell’esistente, l’utilizzo di materiali a filiera corta, biocompatibili e riciclabili, l’avere luoghi inclusivi, cioè accessibili ed usabili da parte di tutti.

Nell’alveo del più ampio significato di sostenibilità si pone anche la volontà di privilegiare il recupero delle strutture esistenti al fine di non disperdere in demolizioni e ricostruzioni risorse riutilizzabili, ed alle quali, soprattutto quelle di archeologia industriale, è demandata la rappresentatività di un modo di costruire i luoghi del lavoro e di essere memoria della storia industriale della nostra città.

Altro aspetto di rilievo per la quantità e qualità delle proposte avanzate è quello dell’incontro e dello scambio in una rinnovata socialità. Sono stati individuati i molti usi possibili degli spazi a disposizione collegati alla fruizione di luoghi culturali e di svago, del verde e dell’acqua, di passeggiate ed attività all’aperto, ecc., senza tralasciare quelli del commercio e delle attività di artigianato qualificato. L’incontro fra generazioni, generi e culture diverse sta alla base di tali proposte che tendono a favorire non solo il consumo (inteso come sostegno al lavoro e all’occupazione), ma anche la produzione e lo scambio di conoscenze e saperi, valorizzando il tempo libero come tempo dedicato alla cura di sé e al bene-stare. Un tempo, come è stato detto, che è libero nella misura in cui sia possibile trovare non solo efficienti e diffusi servizi, ma anche una dimensione di sicurezza che si esprime primariamente nel governo e manutenzione dell’ambiente, nel privilegiare la mobilità leggera, nell’offrire opportunità alle giovani generazioni e nell’includere i nuovi cittadini e quelli temporanei.

PROGETTI E DEMOCRAZIA

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Nell’ottica di una responsabile trasformazione dell’area, attenta al divenire della società ravennate sempre più soggetta, come altrove, a rapide trasformazioni, per tali indicazioni è stata avanzata l’ipotesi di approccio ad usi temporanei quali dispositivi di riattivazione degli spazi dismessi ed abbandonati.

Colonizzare temporaneamente gli spazi (rinominandoli, ripulendoli, adattandoli ed insediandovi nuove funzioni, ossia utilizzando il progetto per ciò che è: pensare il presente per proiettare il futuro), consente di verificare se l’uso individuato ha fruitori, se la pratica è coerente con il contesto ed infine se ha possibilità di radicarsi nel territorio. Questi processi, in taluni casi, hanno prodotto esiti fecondi, mostrando l’impensabile in tema di riuso, rovesciando la semantica dello spazio esistente e tracciando segni morfologici diversi dai codici solitamente impiegati. Si tratta di sperimentazioni che non lasciano segni incancellabili, se ben seguite, ma richiedono creatività e voglia di mettersi in gioco, che aiutano ad evitare l’abbandono cronico delle aree e favoriscono la costruzione di appartenenza al territorio.

L’approccio individuato ha una ragione di fondo più volte richiamata negli incontri: l’area in esame è vasta e ci vorranno molti anni (decenni?) affinché venga totalmente riconvertita e riqualificata, quindi, è rischioso programmare oggi interventi che potranno essere obsoleti un domani per modificate esigenze, per un diverso intendimento progettuale, per differenti economie. A questa si affianca un’altra ragione. Se è vero che la darsena può riverberare rigenerazione sull’intera città ed essere al contempo una prospettiva di superamento dell’attuale crisi economico-finanziaria, non si vogliono ripercorrere errori già commessi, in nome degli stessi motivi, in altre zone dell’esteso comune ravennate: la città diffusa realizzata nell’ampia fascia di periferia dove si è privilegiato l’uso di masse volumetriche alla cultura del disegno urbano; l’alterazione del paesaggio e la ristrutturazione globale delle relazioni sociospaziali avvenuta a Marina di Ravenna, chiamata con termine tecnico gentrification (non esiste una traduzione precisa in italiano). Per meglio spiegare, si tratta del processo di “rinascita” di spazi urbani che attraggono forti investimenti economici, in

Nelle foto del servizio (di Alberto Giorgio Cassani) l’installazione artistica curata da Carla Boroncelli, composta da 150 fotoritratti dei volti dei partecipanti al percorso di progettazione “La Darsena che vorrei”

genere centri storici e località geograficamente significative, rivolti alla loro trasformazione e che producono l’espulsione degli abitanti più “deboli” a favore delle classi medio-alte e del turismo.

Il percorso del progetto partecipato ha evidenziato sensibilità e consapevolezze da parte dei e delle partecipanti (da alcuni non previste e non attese) attinenti a come e quando si crea città e cittadinanza, rinviando all’articolato concetto di urbanità. L’elevato numero di persone, la continuità e perseveranza nella presenza ha dimostrato che i percorsi di cittadinanza (come quello vissuto) possono essere fonte di un rinnovato pensiero sull’abitare e sullo stare insieme di differenti individui, sui beni comuni e loro co-gestione fra enti ed abitanti, sul rapporto fra economia privata e bene pubblico che garantisca un equo profitto salvaguardando le azioni di buon governo del territorio, sulla relazione fra istituzioni (lette come distanti ed autoreferenziali) e cittadini in una rinnovata idea di democrazia meno delegante e più pro-attiva e partecipativa.

La comunità che si è creata è stata dialogante, ha ascoltato, compreso e sviluppato idee con creatività, sentendosi inclusa nel processo attivato, tant’è che gli stessi che hanno indicato e sottolineato l’importanza di questa pratica politica (le associazioni che hanno raccolto le firme per l’attuazione della legge regionale sulla partecipazione, il comitato promotore sulla democrazia partecipata), nonché gli e le abitanti si sono resi disponibili a sostenere con proprie azioni la partecipazione avviata sulla darsena affinché possa proseguire anche nel futuro; azioni rivolte ad approfondire la conoscenza del sito, della sua storia e delle sue potenzialità. Consapevoli, comunque, che anche altri sono i luoghi urbani ed altri i temi della convivenza sui quali è possibile ed auspicabile attivare processi inclusivi e decisionali.

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«Il buon dio abita nei particolari»

«E allora mi prende un’altra vertigine, quella del dettaglio del dettaglio del dettaglio» Italo Calvino, «Esattezza», in Lezioni americane: Sei proposte per il prossimo millennio, 1988

ESTETICA E ARCHITETTURE

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1. Il problema del “triglifo d’angolo” di Alberto Giorgio Cassani

Particolari della colonna di una villa urbana in via De Gasperi a Ravenna GENNAIO-FEBBRAIO 2012

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Qual è il busillis? Nel si«Il buon dio abita nei particolari». Non si sa con cerstema dorico (che più tardi tezza chi per primo abbia sarà denominato “orconiato questo celebre dine”), gli elementi del fredetto (se Gustave Flaubert, gio posto sopra la John Ruskin, Aby Warburg,1 trabeazione tradurrebbero Walter Benjamin o Ludwig in pietra parti strutturali Mies van der Rohe...). dell’antico tempio ligneo: i Poco importa. Quello che “triglifi” sarebbero le teconta è il significato: nelle state delle travi poste tracose create dall’uomo sversalmente sulle due sono decisivi i dettagli. grandi travi che poggiano Qualcuno ha sostenuto che sulle colonne del peristilio l’architettura non avrebbe (e chiamate architravi); le troppo a che fare con la “metope” rappresenterebprecisione. Non sono d’acbero le tavolette poste per cordo; ma ciò che maggiortamponare gli spazi vuoti mente è importante è il fra una trave e l’altra. I trifatto che, ben più di me, glifi, inoltre, nel tempio non lo erano Ictino, Ludwig greco, sono a filo rispetto Mies van der Rohe, Carlo al capitello e alla colonna, Scarpa e diverse decine di in quanto, logicamente e altri grandi architetti. strutturalmente, i greci Cercherò di dimostrarlo non potevano concepire con qualche esempio, che un peso (il tratto da edifici presenti triglifo/testa della trave) nella nostra città. non poggiasse su un supVorrei cominciare dal caso porto (la colonna) e un della villa urbana di via De vuoto non corrispondesse Gasperi al civico 1. ad un vuoto. Dello stesso Scorcio della facciata dell’abitazione di via De Gasperi a Ravenna, In quest’abitazione, ristrutavviso è Leon Battista Alristrutturata dall’architetto Maria Luisa Rossi turata dall’architetto Maria berti, che nel suo trattato Teresa Rossi, una grande sull’architettura, il De re colonna stilizzata regge un ædificatoria, si limita a balcone, in un’evidente citazione stilizzata dell’ordine dorico scrivere: «et imponunt tigna, ut perpendiculo sui assideant in del tempio greco. Un’analoga soluzione, ancor più “astratta”,2 solido suæ columnæ» («È bene inoltre che le travi poggino era stata realizzata nel 1969-1970 nel “pronao” della Scuola sulla verticale passante per il fusto delle rispettive colonne»).4 elementare “Edmondo De Amicis” di Broni (AL), restaurata ed Tutto ciò non presenta problemi se non quando si arriva alampliata da Aldo Rossi. Un’uguaglianza di cognomi che non l’angolo del tempio: in questo caso, essendo il triglifo più può essere casuale. La cosa curiosa, e che salta subito agli stretto dell’abaco e dell’echino (le componenti del capitello occhi, è il fatto che la colonna sporge di circa la metà, con dorico),5 per mantenere questa centratura fra triglifo e capi3 l’abaco del suo capitello, dallo spigolo del balcone stesso. tello, quest’ultimo dovrebbe sporgere molto al di fuori del liGli storici dell’architettura non se ne stupirebbero: è il clasmite dell’angolo stesso (come è il caso della nostra casa e sico e irrisolto problema del triglifo d’angolo, altrimenti com’era il caso dei templi proto-dorici della Magna Grecia – detto il conflitto angolare dell’ordine dorico, un rompicapo Metaponto, Pæstum – che presentano tutti quest’accentuata che assillò gli architetti greci tra il VII e il VI secolo a.C., ma sporgenza); ma ciò crea dei problemi “ottici” di mancanza di la cui soluzione impegnò le menti dei loro successori romani solidità statica dell’angolo stesso, la colonna dovendo regalmeno fino a Vitruvio. gere tutto il peso con tutta la lunghezza dell’abaco del suo ca-

NOTE 1. Si veda il bell’articolo di Barbara Da Forno, “Il diavolo sta nei dettagli: Appunti sulla ricezione italiana di Aby Warburg”, pubblicato sulla rivista «Engramma», n° 6, febbraio-marzo 2001 (sito web: www.engramma.it).

2. Vittorio Savi (“L’architettura di Aldo Rossi”, Milano, Franco Angeli Editore, 1976, 19783, p. 58) ha parlato di un restauro «figurativamente algido».

3. La casa presenta un ordine dorico semplificato, senza metope e triglifi, con la pre-

ESTETICA E ARCHITETTURE

senza, in quello che potrebbe essere denominato “fregio”, sopra l’architrave, di “regulæ”, termine «con cui si designava il bastoncino orizzontale inferiore del triglifo dorico» (George Hersey, “The Lost Meaning of Architecture: Speculations on Ornament from Vitruvius to Venturi”, Chicago, Massachusetts Institute of Technology, 1988, trad. it. di Chiara Rodriguez, “Il significato nascosto dell’architettura classica: Speculazioni sull’ornato architettonico da Vitruvio a Venturi”, Introduzione di Marco Biraghi, Milano,

Bruno Mondadori, 2001, p. 35).

4. Leon Battista Alberti, “L’architettura [De re ædificatoria]”, testo latino e traduzione a cura di Giovanni Orlandi, introduzione e note di Paolo Portoghesi, Milano, Il Polifilo, 1966, VII 9, p. 591 (la traduzione italiana è a p. 590).

5. Come spiega Antonio Corso (nel commento al Quarto libro del “De architectura” di Vitruvio0, A cura di Pierre Gros, Traduzione e commento di Antonio Corso e Elisa Romano, Volume primo, Torino, Giulio Einaudi

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pitello. Per risolvere duncanto, risultando ciò neque questo rebus, gli archigato nelle colonne angotetti greci hanno escogitato lari dove «i triglifi sono diversi stratagemmi, tutte posti nelle parti estreme e approssimazioni ad una non in corrispondenza perfezione che resta irragdelle linee assiali», gli uni giungibile. sono costretti a rendere Una prima soluzione, tipica «oblunghe» le metope, gli dell’età arcaica, è stata altri, che mantengono le quella di allungare la memetope quadrate, «contopa, in modo che il triglifo traggono gli intercolumni arrivi quasi a coincidere estremi di una metà della con il limite dell’abaco larghezza del triglifo». Ma (anche se ciò determina la che «si operi sia nelle lunnon centratura tra triglifo e ghezze delle metope sia colonna). In questo modo, nelle contrazioni degli inperò, l’intercolumnio, cioè tercolumni», il risultato è la distanza tra le colonne, «difettoso» (mendosum, mantiene la stessa identica nel latino di Vitruvio). Per misura e dunque lo stesso risolvere questa vexata “ritmo” – un concetto imquæstio, rispettando l’arportante nell’architettura monia della costruzione templare greca. del tempio - specchio Una seconda soluzione fu dell’armonia ordinata del quella di allargare il triglifo, cosmo -, Vitruvio propoin modo che quest’ultimo neva di aggiungere un fosse centrato sul capi“pezzetto” di metopa (setello; ciò causava, però, mimetopia, si legge nel l’accorciamento inevitabile testo) dopo il triglifo d’andella metopa (e dunque la golo.6 In questo modo, Aldo Rossi, Ampliamento della Scuola elementare “Edmondo però, Vitruvio aggirava il rottura del ritmo uguale di De Amicis” di Broni (PV) (1969-1970). Particolare del portico d’ingresso problema della traduzione queste ultime). in pietra del rigoroso siLa soluzione “classica”, stema dell’antico tempio cercando di mantenere ligneo, basato sulla semplice alternanza di travi e di spazi uguali le misure delle metope, scelse di avvicinare la colonna vuoti (e, infatti, la presenza di semimetope angolari, più che d’angolo a quella precedente, determinando, così, un’infrain architetture reale, troverà riscontro in riproduzioni di pitzione al ritmo uguale dell’intercolumnio (una sorta di contrature vascolari attiche e pitture parietali pompeiane).7 zione, o “frenata” del ritmo di quello d’angolo). Per evitare Qual è la soluzione scelta dall’architetto della casa di via che questa “trasgressione” potesse apparire troppo evidente, De Gasperi? La prima, quella che traduce tout court il temin alcuni casi, la riduzione dell’intercolumnio interessava pio ligneo in tempio litico; anzi, in questo caso, in “casaanche la precedente colonna. tempio” di mattoni e cemento armato. Quella tipica, cioè, La soluzione apparentemente risolutiva fu quella proposta dei templi proto-dorici della Magna Grecia: dunque, il noda Vitruvio nel De architectura (libro IV, paragrafo 3). Il tratstro architetto, una qualche ragione di coerenza territoriale tatista romano così riassume la mancanza di modularità e di italica l’ha avuta. simmetria degli escamotages che l’avevano preceduto: es«Il buon dio abita nei particolari». sendo «necessario che i triglifi siano posti in corrispondenza delle linee assiali delle colonne, e che le metope che sono poste tra i triglifi siano tanto lunghe quanto alte» e, d’altro

Editore, 1997, pp. 462-463, nota 124), «Tale problema sembra essere sorto col passaggio dalla trabeazione lignea a quella litica: infatti quando le colonne erano sostegni lignei, dal diametro ridotto, e gli architravi erano pure lignei, e dunque piuttosto stretti, i triglifi potevano presentare una larghezza corrispondente a quella dell’architrave e pertanto un triglifo angolare poteva coprire l’intera larghezza del sottostante architrave del lato adiacente. Con la pietrificazione del tempio, la colonna litica, pre-

sentante un diametro maggiore rispetto all’antecedente ligneo, l’espansione rappresentata dal capitello e ragioni statiche avrebbero imposto una maggiore larghezza dell’architrave e pertanto il triglifo d’angolo, cadendo come gli altri sull’asse della rispettiva colonna angolare, non si sarebbe più trovato sull’asse dell’architrave del lato adiacente e non avrebbe di conseguenza coperto il tratto esterno del fregio su questo lato».

6. Anche se questa soluzione spetta probabil-

mente a Sileno, ed era stata esposta nel perduto “De symmetriis doricorum” (inizi del III secolo a.C.).

7. Con un’importante eccezione: il fregio dorico proveniente da Villa Adriana, che fa sospettare una presenza del tema nell’ambito dell’ellenismo italico. Su ciò si veda il bell’articolo di GIORGIO ROCCO, “Su di un fregio dorico da Villa Adriana. La soluzione vitruviana del conflitto angolare”, in «Palladio», n.s., VII, n° 14, luglio-dicembre 1994, pp. 37-44.

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vocabolarietto

In alto: particolare dell’angolo del Partenone (Atene) (da Henri Stierlin, La Grecia: Da Micene al Partenone, fotografie di Anna e Henri Stierlin, Köln etc., Taschen, 1998, copertina).

In mezzo: L’ipotesi dell’origine lignea dell’ordine dorico: i triglifi corrispondono alle testate delle travi che poggiano sull’interasse delle colonne: a) assonometria; 6) sezione (da Enzo Lippolis, Monica Livadiotti, Giorgio Rocco, Architettura greca: Storia e movimenti del mondo della polis dalle origini al V secolo, Milano, Bruno Mondadori, 2007, p. 866).

A lato: Il problema del conflitto angolare e le sue soluzioni: a) assenza di conflitto angolare in un ordine proto-dorico con trabeazione lignea; b) soluzione con la disposizione del primo triglifo in asse con la prima colonna (e presenza della “semimetopa”); c) soluzione con l’ampliamento della prima metopa; d) soluzione con la contrazione dell’intercolumnio d’angolo; e) soluzione con la contrazione degli ultimi due intercolumni d’angolo (da Enzo Lippolis, Monica Livadiotti, Giorgio Rocco, Architettura greca, cit., p. 868

ESTETICA E ARCHITETTURE

Abaco:

dal greco abax (latino: abacus), tavoletta, è l’elemento quadrato, molto schiacciato posto sopra l’“echino” (dal greco: echinos, ricco di punte aguzze, spinoso, sorta di “cuscino” svasato verso l’alto posto tra la colonna e l’abaco), a formare, con esso, il capitello dorico.

Metopa:

metopé non è presente nel vocabolario greco; sono presenti métopon, metópion, methópion, col significato di spazio tra gli occhi e traslato spazio tra due elementi focali. Il termine latino metopa è attestato solo in Vitruvio. In ogni caso la tesi più accreditata è che metopé e methópion designerebbero «un’“apertura” (opé) “tra” (metá) due corpi pieni, nella fattispecie dunque originariamente l’apertura tra le due testate di travicelli e successivamente tra due triglifi, che sarà poi chiusa con una lastra metopale», Antonio Corso, in Vitruvio, De architectura, cit., p. 454, nota 110.

Peristilio:

dal greco perí (intorno) e stylos (colonna), è il colonnato continuo che circonda la cella del tempio greco.

Pronao:

dal greco pró (davanti) e náos (cella), è lo spazio colonnato posto davanti alla cella del tempio greco.

Regola:

dal latino regula, bastoncino posto sotto i triglifi dell’ordine dorico, da cui fuoriescono sei “gocce” (piccoli cilindri che originariamente, nel tempio ligneo, corrispondevano a chiodi di fissaggio delle teste delle travi (di cui i triglifi sarebbero la “traduzione” in pietra).

Triglifo:

dal greco triglyphos (latino: triglyphus), letteralmente: “tre incisioni”, è un elemento quadrangolare formato da tre listelli divisi da due canali posto alternativamente tra le metope nell’ordine dorico.

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L’atrio d’ingresso con un dipinto di Domenico Grenci, “Memorie 1”, 2009

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Il diritto del più debole Intervista a Luca Donelli nella sua “casa-teatro” di Marina Mannucci

Luca Donelli, avvocato penalista specializzato nel “diritto peropea dei diritti dell’uomo. Conosciamo tutti l’attuale situanale di strada”, è il portavoce dei Giuristi Democratici di Razione delle carceri italiane, ove la presenza dei detenuti è venna. Questa associazione, riconosciuta a livello nazionale, spesso raddoppiata rispetto alla reale capienza della strutpromuove l’attività di giuristi volta alla difesa ed attuazione tura. Ebbene, la figura del garante ha proprio la funzione di dei principi democratici, di uguaglianza ed antifascisti della denunciare le anomalie di un sistema restrittivo insensibile al Costituzione della Repubblica, ed all’applicazione delle Conriconoscimento di diritti che devono trovare applicazione a venzioni dei Diritti dell’Uomo. Un impegno concreto per reaprescindere dallo status giuridico di ciascun essere umano. lizzare una Costituzione Da questo punto di vista la siEuropea autenticamente detuazione di Ravenna è emblemocratica, fondata sul ripudio matica: il carcere, collocato in della guerra, con particolare riuna struttura molto vecchia, guardo ai diritti dei lavoratori, vive da anni un sovraffolladei meno abbienti e degli mento estraneo ai più elemenemarginati ed ai diritti di assotari principi di umanità della ciazione, di libertà di circolapena e di rispetto dei principi zione, di riunione e di costituzionali che ne devono manifestazione del pensiero. determinare lo svolgimento.

Appena iniziata l’intervista, Nonostante questo, nella noLuca m’induce a dirottare le stra città, la figura del garante è nostre riflessioni sull’urgenza rimasta fino ad oggi una prodi procedere alla nomina, messa non mantenuta da parte anche a Ravenna, del “Garante di una classe politica insensidelle persone private della libile al tema». bertà personale” e sulla neIl lavoro che Luca Donelli svolge cessità di tenere sempre ben in qualità di professionista, ma informati i cittadini nei conanche come privato cittadino, fronti dell’esplosiva situazione gli ha permesso di sviluppare delle carceri. «Il garante – mi un’approfondita conoscenza sia spiega – è un organo di garanrispetto alle questioni legate al zia che, in ambito penitenziamondo delle carceri sia, più in rio, ha funzioni di tutela delle generale, alle condizioni del dipersone private o limitate della sagio sociale. A proposito delle libertà personale. La figura è sue esperienze professionali, nata con la finalità di raccoLuca si sofferma in particolare gliere le legittime rimostranze sul disimpegno da parte dello La sala da pranzo con una fotografia di coloro che si trovano, a torto stato: «La privazione dei sidi Nicola Cicognani, “Cattedrale”. o a ragione, rinchiusi in luoghi stemi di protezione e assistenza istituzionalmente riconosciuti sociale, le gravi difficoltà di ac(carceri, strutture psichiatriche, camere di sicurezza, centri di cesso all’assistenza sanitaria, lo svuotamento dei sistemi di identificazione, ecc.) che ne privano in qualche modo la ligaranzia del giudizio, la desindacalizzazione sono tutti bertà personale, materiale e di pensiero. Rimostranze, si badi aspetti di un sistema pubblico “leggero” che produce quella bene, che hanno a che vedere con abusi o mancati riconogenerale insicurezza cui si rischia di rispondere appunto con scimenti di diritti fondamentali dell’uomo. Una delle recrimiun carcere “pesante”». nazioni più ricorrenti è quella di vedersi riconosciuti gli spazi A tal proposito, com’è, ad oggi, la situazione carceraria a Raminimi vitali all’interno di una struttura di reclusione, per evivenna? tare che l’esecuzione della pena detentiva si trasformi in una «Come ti ho anticipato a proposito dell’importanza della fisorta di tortura, come ribadito recentemente dalla Corte Eugura del garante, la struttura è molto vecchia e obsoleta e

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non consente (nonostante il lodevole sforzo di tutti gli operatori) alcuna attività risocializzante. Si aggiunga che la maggior parte dei detenuti è di origine extracomunitaria, soprattutto nord africana, con tutto ciò che ne consegue in termini di diversità culturale. Non è facile assicurare uno spazio per la preghiera e un menù differenziato per coloro che per questioni religiose non mangiano alcuni alimenti. Ripeto, nonostante i lodevolissimi sforzi degli operatori (direzione, agenti, assistenti sociali), il carcere di Ravenna rappresenta l’esempio dell’istituto di pena inteso solo come struttura punitiva e di controllo sociale. Ma sulla questione ho una mia idea: è insensato pretendere di gestire le illegalità minori con uno strumento tanto invasivo come il carcere».

Cosa pensi in merito alla paura di alcuni cittadini che Ravenna non sia più una città sicura?

«Dobbiamo intenderci sul concetto di sicurezza. Se dobbiamo considerare poco sicura una città in cui le classi più abbienti pretenderebbero di non avere a che fare con immigrati clandestini, spacciatori di droghe, prostitute di colore ecc., allora Ravenna, al pari altre, non è una città sicura. Ma quest’idea della sicurezza è pura utopia; occorre fare il primo passo, ovvero prendere atto del fatto che l’immigrazione è un fenomeno inarrestabile (storicamente e per noi anche geograficamente), così come lo è il traffico di stupefacenti o la prostituzione, tutti fenomeni il cui habitat naturale è proprio la città, grande o piccola che sia. Il secondo

Sopra: Il salone (lato ovest) Nella pagina a lato: Il salone (lato est) con lo spazio dedicato agli incontri teatrali e alle presentazioni di libri.

SPAZI DELLA CULTURA

passo è quello di capire che le politiche repressive hanno fallito (le carceri e i centri di espulsione sono pieni, ma l’immigrazione non si è fermata così come l’uso di droghe) e che le piccole città possono davvero diventare laboratori di nuove forme di “punizione” e di politiche di controllo. Ravenna è una città di mare e di porto, per sua natura città di migranti e di movimento; impedire l’ingresso nella nostra città ad altre culture, ad altre etnie sarebbe rinnegare la nostra storia».

Ma non credi che la sicurezza possa in qualche modo essere legata anche allo stato di clandestinità degli extracomunitari?

«Si, in parte è così, inutile nasconderlo. La legge Bossi-Fini prevede pene severe per chi assume extracomunitari senza permesso di soggiorno, così come per chi ospita tali soggetti, con il rischio addirittura di vedersi confiscata la casa.

Ma un cittadino fuggito dal proprio paese per le più svariate ragioni (fame, guerra, mancanza di lavoro) che si ritrova in un paese europeo che non lo accetta e non lo regolarizza cosa dovrebbe fare? Stiamo parlando delle più elementari esigenze dell’essere umano, mangiare, dormire sotto un tetto, curarsi, quando tutto ciò non riguarda non solo se stesso ma i propri figli. Allora quelle esigenze vanno soddisfatte a qualunque prezzo, una sorta di catena alimentare.

La vita conta più del rispetto delle regole. È un dato sociologico elementare, banale; non è più la legge della giungla, è quella della città, delle nostre città. Certo io non ho la formula giusta; forse nessuno al momento può vantare di conoscere una soluzione, ma bisogna smettere di criminalizzare la miseria. Durkheim diceva che «lo stato non è un enorme potere coercitivo, ma una vasta e saggia organizzazione capace di un’azione allo stesso tempo unitaria e diversificata, flessibile ed estesa». Forse è venuto il momento di togliere alla forza pubblica quel ruolo sempre più

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decisivo nell’organizzazione e nello svolgimento della vita nazionale. Ma dobbiamo iniziare da noi stessi, perché le misure repressive sono oggetto non solo di un appoggio politico senza precedenti, ma anche di un largo consenso pubblico che va oltre la divisione di classe grazie all’insistenza dell’informazione che mescola criminalità, povertà e immigrazione, il tutto dentro il calderone dell’insicurezza».

Esiste, secondo te, un rimedio all’immigrazione clandestina?

«Ho difficoltà a rispondere a questa domanda. Siamo cittadini del mondo, le frontiere non dovrebbero esistere ma forse non siamo pronti. Ripeto, non pretendo di avere in tasca il rimedio, ma si potrebbe intanto consentire ai clandestini di regolarizzarsi. Magari con un permesso a tempo; se entro il termine stabilito, diciamo un anno, l’extracomunitario non ha trovato lavoro, si può pensare a un suo allontanamento, magari volontario. Ossia: io Stato ti facilito il compito di integrazione invece di rendertelo impossibile, ma allo stesso modo tu mi devi dimostrare un’effettiva volontà di inserirti e di rispettare le regole. Ribadisco che sebbene vi sia la necessità di rispettare le leggi a livello nazionale, ed è un problema di fonti del diritto, le piccole città come la nostra potrebbero davvero iniziare un percorso sperimentale come è già successo in altri campi come per il riconoscimento delle unioni fuori dal matrimonio anche fra persone dello stesso sesso».

Parlami dell’iniziativa “Palco in una stanza”, che con la tua compagna Carlotta ed un gruppo di amici avete avviato da qualche tempo.

«Tutto è partito dal desiderio di coinvolgere più gente possibile in eventi culturali di ogni genere tramite una rete di persone che si sono rese disponibili ad aprire le loro case.

Questo perché abbiamo constatato che Ravenna, malgrado sia una città ricca di fermenti culturali a vari livelli, soffre di

una certa “rigidità istituzionale”, che spesso mortifica ed esclude la valorizzazione di nuovi talenti o di artisti che si muovono al di fuori dei circuiti più conosciuti. Sai che a Ravenna vivono o sono nati alcuni degli artisti più riconosciuti del momento a livello internazionale? Parlo in particolare di due pittori e di un fotografo di cui non voglio fare i nomi, ma quando esco da Ravenna e vado per musei trovo le loro opere esposte nei più grandi contenitori d’arte. Se si chiede ad un ravennate, pur sensibile all’arte, chi sono, spesso neppure li conosce. Ma questi artisti hanno il difetto di essere dei fuoriusciti rispetto ai circuiti culturali classici della nostra città che, dunque, non si è accorta di loro. Seguendo anche alcuni suggerimenti di cari amici artisti, da circa un anno, con la mia compagna Carlotta, abbiamo perciò deciso di aprire la nostra casa, invitando il pubblico ad incontri teatrali, culturali e musicali. In queste occasioni gli ambienti casalinghi si trasformano in tanti piccoli palcoscenici dove la platea ha un contatto ravvicinato con le performances. È stata un’esperienza interessante vedere come lavorano gli artisti in uno spazio diverso dal teatro, in questi luoghi intimi, ravvicinati e non pubblici. È anche un modo per sostenere l’arte della nostra comunità, dando l’opportunità ad artisti indipendenti di costruirsi un vero pubblico. Per il 2012 è previsto un calendario di circa sei incontri in appartamenti di persone che hanno aderito a questo progetto. Essendo i posti limitati, è consigliabile prenotare. Il nostro obiettivo, quindi, è far incontrare più persone possibili al di fuori dei circuiti classici: un modo libero di fare cultura, che sta ottenendo consenso».

Tutte le foto sono di Alberto Giorgio Cassani

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Due draghi per la Compagnia di San Giorgio Dal workshop di mosaico ambientale dell’Accademia di Belle Arti di Ravenna diretto da Enzo Tinarelli una nuova opera plastico-musiva per un complesso residenziale

ARCHITETTURA E ARTE

di Paolo Bolzani

Il 23 di gennaio è iniziato il nuovo anno cinese, che, dopo 12 anni, ritorna ad essere quello del Drago (Ch’ien). In Cina il drago è creatura celeste, terrena e acquatica. È cielo, tuono, pioggia, è il potente rinascere della natura, è la primavera. Perciò è usualmente raffigurato di colore verde e, fino all’autunno, è usanza porre un drago sopra la porta di casa come segno propiziatorio. Simbolo di immortalità, forza e vitalità, il drago presiede alla salute, all’armonia e alla fortuna, e perciò, sotto il principio yang, si collega al potere e alla ricchezza: per questi motivi è attributo tipico dell'Imperatore della Cina. Poiché è anche creatura d’acqua sotto

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In onore del ritorno dell’Anno cinese del Drago, la nostra ricognizione sulla presenza di elementi in mosaico in ambito urbano ci porta in via Carlo Levi.

Al centro del giardino di un grande complesso residenziale denominato Residenza La Compagnia di San Giorgio, realizzato da Gino Latorraca su progetto di Sergio Minghetti, si erge una colonna alta 510 centimetri per 70 di diametro, completamente rivestita di mosaico, di nome Draghiland.

forma di pesce o serpente, è inoltre associato al principio yin, e perciò può essere letto come simbolo alchemico. In onore del ritorno dell’Anno cinese del Drago, la nostra ricognizione sulla presenza di elementi in mosaico in ambito urbano oggi ci porta in via Carlo Levi. Al centro del giardino di un grande complesso residenziale denominato Residenza La Compagnia di San Giorgio, costituito da quattro palazzine e inaugurato nell’ottobre dell’anno scorso, si erge una colonna alta 510 centimetri per 70 di diametro, completamente rivestita di mosaico.

Il suo nome è Draghiland e infatti vi sono raffigurati due grandi draghi affrontati, uno rosso (in basso) e l’altro verde (in alto), in evidenza su un pullulante sfondo azzurro. Simboli della pacificazione del bene e del male, della composizione delle liti, sono l’esito, senz’altro positivo e si spera emblematico, di un workshop di mosaico ambientale avviato dall’Accademia di Belle Arti di Ravenna nel 2010 nell’ambito della seconda edizione di RavennaMosaico 2011, il Festival Internazionale di Mosaico Contemporaneo della città. È stato il committente stesso, Gino Latorraca, a richiederne l’intervento. Figura di imprenditore “mecenate”, proveniente dalla famosa valle del petrolio della Basilicata, racconta con soddisfazione: «dopo aver abbandonato l’idea iniziale di una fontana, insieme al progettista, l’architetto Sergio Minghetti dello Studio BF di Andrea Turchi, abbiamo scelto qualcosa che simboleggiasse l’eccellenza della città, per valorizzare questo complesso residenziale con un’opera d’arte che lo rendesse immediatamente visibile e riconoscibile. Una volta

Nella pagina, al centro del giardino la colonna decorata a mosaico denominata Draghiland.

I due draghi affrontati simboleggiano la pacificazione fra bene e male

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L’intero progetto plastico-musivo è stato diretto in tutte le sue fasi, dall’ideazione all’esecuzione, dall’artista Enzo Tinarelli. Si è trattato di un’esperienza importante, come spiega Maria Rita Bentini, docente e già coordinatrice all’Accademia ravennate, «in cui mostrare il carattere strategico della collaborazione tra pubblico e privato come ambito speciale in cui rilanciare il mosaico contemporaneo», e che può «dare maggiore visibilità a questo linguaggio tecnico-artistico nell’ambiente urbano ravennate».

In primo piano gli ampi spazi del micronido “Il Tamburino”, posto al piano terra del complesso residenziale.

ARCHITETTURA E ARTE

individuato il bozzetto da realizzare, ho assicurato la copertura finanziaria del costo di materiali, trasporto e istallazione». L’intero progetto plastico-musivo è stato diretto in tutte le sue fasi, dall’ideazione all’esecuzione, dal professor Enzo Tinarelli - artista ravennate, ben noto nel mondo del mosaico, da anni operante a Carrara - nell'ambito del workshop. Si è trattato di un’esperienza importante, come spiega Maria Rita Bentini, docente e già coordinatrice all’Accademia ravennate, «in cui mostrare il carattere strategico della collaborazione tra pubblico e privato come ambito speciale in cui rilanciare il mosaico contemporaneo», e che può «dare maggiore visibilità a questo linguaggio tecnico-artistico nell’ambiente urbano ravennate». Il bozzetto prescelto, dalla resa figurativa immediata, è opera della studentessa Federica di Criscenzio, mentre la sua traduzione musiva è stata realizzata da un gruppo di lavoro costituito da allievi del Biennio Specialistico di Mosaico, cui hanno preso parte Roberta Grasso, Francesca Gazzotti, Elena Minascurta e Luca Tarozzi. Il gruppo ha realizzato l’opera nell'estate-autunno del 2010, con la collaborazione in workshop anche di Serena Cappelli, Bartosz Keska, Kamal Makar, Marisa Marchi, Silvia Naddeo e Elena Saraceni. Il mosaico è composto da materiali provenienti dell’antica e prestigiosa Fornace Angelo Orsoni, che ha la propria storica sede nel sestiere di Cannaregio di Venezia e le tessere vitree sono state posate direttamente sul supporto, come vuole la tradizione ravennate, con la peculiarità che questo è di forma cilindrica. Orsoni ha peraltro un inedito punto di comunicazione nell’ambito della nuova esposizione musiva ravennate Tamo, proprio sotto il lacerto di affresco tardo trecentesco che illustra la scena di San Giorgio e il drago. L'esperienza maturata dagli allievi rappresenta «un momento significativo per segnalare la presenza di nuovi giovani mosaicisti i quali, acquisita questa preziosa esperienza come studenti all’Accademia di Belle Arti, potrebbero rappresentare nuovi talenti per la città», come sostiene Maria Rita Bentini. Essa inoltre costituisce – auspica il vicesindaco Giannantonio Mingozzi, «un esempio virtuoso di sostegno privato al mosaico, arte per eccellenza ravennate, perseguibile anche da parte di altri imprenditori». Conclude Latorraca che già vede i bambini del vicino Micronido Il Tamburino e quelli del complesso residenziale «ammirare i draghi del mosaico senza paura e timore». Committenza e progettista hanno perseguito un’idea sostenibile di edilizia, intendendo per «sostenibilità» un valore in cui a quello del risparmio energetico si aggiunge la «vivibilità di un luogo». Infatti, mentre l’architetto Minghetti spiega come per 49 appartamenti mono, bi, tri e quadri famigliari (compresi 4 attici) si sia raggiunta la certificazione in classe energetica prevalentemente A e B e grande attenzione sia stata focalizzata alla qualificazione ai momenti di relazione. Infatti mentre l’opera d’arte contemporanea plastico-musiva diventa il catalizzatore del grande giardino, ciascuno sbarco al piano dei due grandi corpi-scala con

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ascensori vetrati esterni favorisce gli incontri fra condomini e loro ospiti, in quanto le terrazze hanno dimensioni del tutto fuori standard. Si inserisce inoltre in questa attenzione la realizzazione di un micronido per 20 bimbi d’età compresa tra 3 e 36 mesi, progetto ugualmente seguito con passione e cura dallo stesso Minghetti su incarico dello Studio BF di Turchi Andrea, che ne illustra in questo modo le linee guida. «Ho cercato di comprendere lo spirito che anima e determina i concetti cardine di un micronido, in modo da assicurare servizi essenziali e funzionali al personale (insegnanti e cuoca), ma essenzialmente rivolti all’educazione dei bimbi e del loro benessere. I primi mesi e anni di vita dei bimbi sono fondamentali per una corretta educazione e formazione, sia morale che psicologica.

Quindi il progetto cerca di creare una soluzione razionale, ma proponendo ambienti ampi, confortevoli e con spazi atti a soddisfare le loro esigenze». Il Tamburino si sviluppa negli ambienti al piano terra della prima palazzina che si trova a sinistra per chi giunge dalla strada; è condotto dalla giovane Adele Linguerri - che ha scelto personalmente tutti gli arredi, utilizzando materiale certificato, di prima qualità - su una superficie complessiva netta di 178 metri quadri e ha il proprio cuore nell’ampio salone, di 109 metri quadri. «Qui sono individuati gli spazi relativi alle attività sia motorie che didattiche – prosegue Minghetti - con la presenza di tavolini per le pratiche manuali; cavalletti per disegnare e colorare, sedie, cuscini soffici, scatole magiche. In questo spazio speciale è stato individuato un ambito dedicato al pasto, situato a diretto contatto con la cucina, provvisto di tavolini, sedie e armadietto atto a contenere il materiale pulito». Il salone è servito da due salette per il sonno; una per i lattanti dai tre ai dodici mesi con lettini fissi e un’altra per i bimbi dai dodici ai trentasei mesi, corredata con mobiletti e disponibile anche per altre attività, nel momento in cui le brandine sono accantonate e accatastate. Lo spazio per l’igiene dei bimbi è dotato di fasciatoi, lavatoio e due lavabi.

Oltre agli ambienti interni, il micronido si espande anche all’esterno, dove sono state attrezzate «due aree recintate, ad uso esclusivo, una a diretto contatto con la struttura e accessibile attraverso l’ufficio, di circa 120 metri quadri, mentre l’altra, di circa 80 metri quadri, si raggiunge in breve attraversando il lotto a piedi. Inoltre il lotto confina a sud con una vasta area comunale attrezzata a verde pubblico con percorsi e zone di sosta che potrebbe essere utilizzata anche dai bimbi del micronido accompagnati dalle insegnanti». Fino a qui, tutto bene. Permane però la questione del nome del complesso immobiliare costruite da Gino Latorraca, lucano, che si è fermato a Ravenna, in via Carlo Levi. Al di là dell’uso insistito di forme sinuosamente curve, palesate nei parapetti dei bal-

coni e nei tetti – a cappello di prete, come precisa Minghetti – o degli oblò delle quattro palazzine ravennati, che potrebbero richiamare alla nostra mente inquiete forme vagamente “dragonesche”, viceversa vessilli al vento, appare evidente la volontà dell’imprenditore lucano di inserire nella comunicazione della propria struttura un aspetto da antiche “storie d’armi e di eroi”. Nella tradizione occidentale, specialmente d’ambito cristiano, il drago (dal latino draco, sia «drago» che «serpente») è il simbolo del Male soggiogato e solitamente viene raffigurato nel momento in cui viene vinto dall’Arcangelo Michele. Una tradizione iconografica dalla fortuna critica ancora più diffusa è il tramando della leggenda di San Giorgio. Raffigurazione tra le più memorabili è il dipinto di Paolo Uccello, in cui il gesto eroico del cavaliere errante è anche stato letto come metaforica liberazione dell’anima (la principessa) nella propria purificazione spirituale dalle pulsioni del corpo e dell’inconscio (il drago). Il culto del martire Giorgio, già valoroso soldato romano, nasce in Terra Santa, ove è il suo sepolcro.

Da lì arriva in Europa al tempo delle Crociate, e fiorisce la leggenda del cavaliere e del drago, le storie sempre più da “cappa e spada”, le bandiere a croci rosse su campo bianco. Per questa ragione il suo nome si intreccia sovente con le gesta dei cavalieri medievali, in particolare con alcune compagnie di ventura. La prima compagnia dedicata a San Giorgio risale al 1339, una seconda al 1365, infine una terza è stata fondata nel 1377 dal giovane Alberico da Barbiano, già al seguito di John Hawkwood - Giovanni Acuto, capitano di ventura inglese - nella cruenta presa di Cesena del 1° febbraio 1377. Nella nuova Compagnia di S. Giorgio si poteva entrare solamente se si era soldati italiani. Per questo motivo viene menzionata anche come Compagnia degli Italici nelle Storie Ravennati dello storico e medico ravennate Girolamo Rossi (1539-1607), che ne segnala la presenza a Forlì nel 1381. Nella Compagnia di Alberico presteranno servizio forti uomini d’arme come Braccio da Montone e Muzio Attendolo, fondatore della casata Sforza.

Dopo tre anni dalla fondazione della Compagnia, Alberico sposerà Beatrice da Polenta, figlia di Guido (III), Signore della città di Ravenna per trent’anni (1359-1390), in virtù di una politica estera fondata su buone relazioni matrimoniali. In un triennio “sistema” tre figlie con personaggi di primo piano. Nel 1378 manda in sposa Samaritana ad Antonio della Scala, ultimo Signore di Verona, mentre nel 1379 è la volta di Lisa, con Astorre I (Astorgio) Manfredi di Faenza e quindi, nel 1380, è il turno di Beatrice. Sempre nel 1379 Astorgio, poi Signore di Faenza, ricompone la Compagnia della Stella, creata una prima volta da Albrect Sterz, capitano di ventura tedesco che a sua volta aveva dato origine alla Compagnia Bianca con l’Acuto.

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Una garden city per il centenario

Cardine del programma dedicato alla nascita di Milano Marittima, la quarantesima edizione di “Cervia Città Giardino”, attesa al via il 26 maggio di Chiara Bissi

Nell’anno del centenario della nascita di Milano Marittima, il lungo programma delle celebrazioni vanta una manifestazione consolidata nella memoria di residenti e turisti. Si festeggiano quest’anno infatti anche i quarant’anni di Cervia Città Giardino – Maggio in Fiore, un evento che rafforza il profilo identitario di Milano Marittima, rintracciabile come ispirazione nel grande disegno ottocentesco della Garden City. La manifestazione ora conosciuta come Cervia Città Giardino nacque nel 1972 con il nome Maggio in Fiore, per dare corpo con azioni concrete alla salvaguardia delle aree verdi e per valorizzare temi ambientali come la progettazione degli arredi urbani in chiave internazionale.

La 40esima edizione Cervia Città Giardino, considerata

CITTÀ VERDE

tra le più importanti manifestazioni dedicate all’architettura del verde, vedrà all’opera nel mese di maggio tecnici, esperti e maestri giardinieri d’Italia e d’Europa per trasformare le aiuole e i giardini delle città in vere e proprie opere d’arte.

Cervia, Milano Marittima, Pinarella e Tagliata dal 26 maggio si vestiranno dei colori e dei profumi di fiori ed essenze arboree, accoglieranno tecniche, tradizioni, esperienze botaniche provenienti da città italiane ed europee. Un appuntamento descritto con efficacia dal poeta Tonino Guerra: «Cervia ti porta verso l’acqua del mare con i suoi innumerevoli giardini che hanno pensieri anche di paesi e città lontani». L’edizione del 2011 è stata dedicata al centocinquantesimo anniversario

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Cervia Città Giardino dal 1972 accoglie artisti e architetti paesaggisti in rappresentanza di oltre 50 città, dando vita a una sorta di laboratorio del pensiero verde, aperto a sperimentazioni e innovazioni.

L'allestimento di un'aiuola in prossimità della storica Torre di San Michele

CITTÀ VERDE

dell’unità d’Italia con composizioni e allestimenti floreali ispirate al periodo storico che ha visto la nascita nazione.

Come ogni anno si avvera una promessa che diviene spettacolo per gli occhi e si tramuta in un’esperienza sensoriale che accresce con grazie e armonia la qualità della vita quotidiana. In particolare da maggio a settembre, gli allestimenti realizzati da esperti del verde arrivati a Cervia per abbellire la città, verranno curati dal servizio verde comunale.

Tutte le aree verdi e il centro storico delle località, diventano così palcoscenico, si animano dando vita a una grande mostra en plein air, apprezzabile passeggiando in diversi luoghi, legati fra loro da una trama composta di petali e infiorescenze.

Dal 1972 la manifestazione è cresciuta senza sosta e ogni anno si sono dati appuntamento a Cervia artisti e architetti paesaggisti, in rappresentanza di oltre 50 città, dando vita a una sorta di laboratorio del pensiero verde, aperto a sperimentazioni, innovazioni floreali e a nuovi metodi nella gestione del verde pubblico e privato. In

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A sinistra, un particolare dell'allestimento di uno spazio verde in prossimità dei Magazzini del sale.

A destra, una suggestiva ricostruzione “all’0rientale” di un giardino urbano fra i pini.

città si materializzano sculture, composizioni, figure, allestimenti floreali attraversati dai passi dei residenti e dei turisti e ammirati a ogni ora del giorno e della notte.

L’intuizione felice consiste nel considerare anche la città balneare come luogo dove il contatto con la natura non si concentra solo nei luoghi deputati come la spiaggia, o i parchi e giardini pubblici o privati, ma diviene parte del quotidiano grazie a piccoli spazi di piazze, aiuole, viali, passeggiate, nei quali fiori, arbusti e rampicanti dettano i colori, le forme e il mutare delle stagioni.

Un impegno che si traduce nella semplice ma mai abbastanza praticata abitudine di pensare lo spazio urbano non come luogo neutrale e indifferente alla qualità della vita delle persone che lo attraversano.

I ritmi parossistici delle grandi città provocano emozioni contrastanti tra false euforie e drammatici distacchi dal reale, gli ambienti inclusivi al contrario temperano le influenze negative.

La manifestazione cervese di fatto non è da considerare un evento fine a se stesso, visto come un contenitore formale di opere verdi create nei giardini cittadini, ma aggiunge nuove opportunità turistiche di visita e svago per il tempo libero e offre numerose occasioni di confronto, di scambi e di relazioni tra le città e gli enti partecipanti.

Impressionante l’elenco dei riconoscimenti ricevuti: dalla targa e l’adesione della presidenza della Repubblica, al Green Globe, al primo premio “Città per il Verde”, al primo premio del “Concorso Comuni Fio-

riti”, sino al cartello Comune Fiorito con i “4 fiori”,al “Gran Premio Montecelio”, il premio “Un Bosco per Kyoto” e la “Medaglia d’Oro” al concorso Entente Florale Europe.

Lunga ed estesa la sequenza di patrocini ottenuti: la presidenza del Consiglio dei ministri, il ministero all’Ambiente, la regione Emilia Romagna, la provincia di Ravenna, l’università di Pisa – facoltà di agraria e l’associazione italiana direttori e tecnici pubblici giardini.

Cervia, attraverso la tutela e la promozione ambientale dialoga con il mondo, coltivando una forte vocazione europeista. A Cervia Città Giardino si deve la realizzazione del progetto Infiore, inserito nell’ambito del nuovo programma di prossimità Adriatico Interreg Cards Phare, che coinvolge tante realtà affacciate sull’Adriatico.

Nel 2000 è stata inaugurata l’Aiuola della Pace, realizzata dai giardinieri palestinesi e israeliani e nel 2010 sempre grazie al progetto europeo Infiore è stato realizzato il Giardino della Pace, un’ulteriore opportunità per ampliare e consolidare le amicizie tra le città, promuovendo una cultura della pace attraverso il rispetto per l’ambiente.

Negli ultimi anni Cervia Città Giardino si è fatta promotrice di campagne di sensibilizzazione all’uso materiali eco-sostenibili, mentre la Cervia aderisce da tempo alla campagna “Piantiamo un miliardo di alberi per il pianeta” lanciata dall’Unep, il programma delle Nazioni Unite per l’ambiente.

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CITTÀ SOSTENIBILE

Come ricostruire l’Italia su presupposti di qualità e non di quantità La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità. Mentre le famiglie fanno i conti con le prospettive imposte da politiche fatte di tagli e stangate, è forse quanto mai necessario avviare un momento di riflessione su una crisi economica che è anche e soprattutto crisi di civiltà. Crisi per ripensare modelli di sviluppo sociale ed economico alternativi, per ricercare idee nuove in grado di conciliare forme di sviluppo sostenibile e compatibile con il rispetto dell’ambiente e della natura. Partendo da questi presupposti bisogna mettersi in cammino verso un Nuovo Umanesimo. Per questo è quanto mai opportuno stimolare profonde riflessioni su economia e sostenibilità sociale, indagando sul rapporto che lega l’agire economico con la coesione sociale e la democrazia partecipata, ridestata da iniziative nate dal basso. Dagli indignados spagnoli agli aderenti a OccupyWallStreet, sembra comune l’idea di leggere la crisi come un’occasione straordinaria e ineludibile per ridurre il divario fra ricchezza e povertà e per ricollegare la finanza ad un’economia reale oggettivamente al servizio di persone, popoli e comunità.

ABITARE LʼHABITAT

In passato si sono anche sprecate parole virtuose che, di fronte al degrado morale del consumismo ma anche di fronte ai possibili rischi indotti sulla stabilità del sistema economico e produttivo, hanno invocato scenari economici improntati al ben vivere. Scenari accolti con simpatia e quel po’ di compassione che si concede a volte agli ideali, riservando tuttavia ad altro il dibattito vero. L’appuntamento drammatico dell’emergenza ecologica, con la crisi delle economie, ha dato nuove tinte di razionalità e di necessità a quei scenari virtuosi.

Il dibattito sulla crisi si è concentrato sugli aspetti finanziari, salvo poi indicare nel rilancio della crescita una condizione necessaria. Alquanto difficile da realizzarsi, come vediamo giorno dopo giorno. Appare ormai inutile un’analisi di come si sia sviluppata la crescita del disavanzo. All’innovazione tecnologica toccava, da una parte, suscitare innovazione di prodotti per una domanda sostenuta da bisogni indotti nel consumatore e, dall’altra, ridurre nei costi di produzione la voce più significativa: il costo del lavoro, con il continuo aumento della produttività (e conseguente riduzione di occupazione). Si è pervenuti così al divario tra la massa dei beni rovesciati sul mercato e la spendibi-

lità. È la storia del nostro Paese: sostenere le imprese sostenendo i consumi, dunque lasciando liquidità ai consumatori e assumendo a carico dello Stato gran parte della spesa per la salute, la scuola, il welfare. Fragile poi l’impianto produttivo, sospeso nell’aleatorietà del rientro degli investimenti e all’andamento del costo del denaro. Oltre che alla spregiudicata destrezza degli speculatori.

Questo processo che lega la crescita del debito e del ruolo della finanza al funzionamento dell’impianto produttivo, porta a valutare, che il rilancio dell’economia (e dell’occupazione) non verrà dai settori produttivi consolidati, ma da un nuovo settore ove si produce e si vende una nuova merce che si chiama qualità della vita. È la green economy: efficienza energetica, ricorso alle energie pulite, riqualificazione urbana, ristrutturazione delle reti di trasporto, difesa del suolo, agricoltura come sicurezza alimentare e come controllo del territorio, prevenzione sanitaria, valorizzazione dei beni storici, culturali, ambientali, rappresentano il passaggio dalla cultura produttiva della quantità alla cultura della qualità.

Scenario razionale, ma con una novità: la lotta allo sconvolgimento climatico e alla geopolitica sanguinosa dell’energia lo rende anche necessario e urgente. Servono grandi programmi, sui quali coinvolgere le imprese e con il pieno impegno delle sedi della ricerca scientifica e tecnologica. Serve dunque più e nuova politica.

L’economia verde, l’unica che sta crescendo anche dentro la crisi, è uno dei pilastri su cui ricostruire l’Italia. Il nostro paese può avere grandi potenzialità se sa incrociare la modernizzazione ecologica del sistema manifatturiero, sul patrimonio di civiltà, bellezza, creatività e sulle vocazioni di territori ad alta qualità ambientale

che fanno la forza del Made in Italy. È questa la via italiana alla green economy.

Il tutto sintetizzabile in dieci proposte che rappresentano progetti concreti per la cosiddetta “fase due”, per la ripresa dell’economia e per creare lavoro: 1.

Modernizzazione ecologica dell’industria. Un programma per la green economy (industria dell’auto, nuovi materiali e chimica verde, industria del riciclo, tecnologie per l’efficienza energetica e le rinnovabili, ecodesign).

2.

Riforma fiscale ecologica. Alleggerire il carico su lavoro e impresa, spostarlo sui consumi di materia ed energia; incentivare produzioni e consumi sostenibili.

3.

Politiche per la qualità. Puntare sulla tutela dell’ambiente e del paesaggio, sull’agricoltura, sul turismo, sui parchi, sulla promozione del Made in Italy.

4.

Nuovo piano energetico. Un programma per l’efficienza energetica nell’industria, nei servizi, nell’edilizia; 50 per cento di elettricità da rinnovabili entro il 2030; Smart grid; riduzione del 30 per cento delle emissioni di gas serra entro il 2020; rendere permanente l’ecobonus del 55 per cento.

5.

Difesa del suolo. È la più grande opera pubblica per l’Italia: utilizzare almeno un terzo dei fondi Cipe e parte dei risparmi da riduzione di spese militari; deroga al patto di stabilità per i Comuni; frenare il consumo di suolo.

6.

Servizi pubblici locali. Sono parte importante della green economy, con gli investimenti per acquedotti e depuratori, impianti per i rifiuti, reti di trasporto, energia e gas; rispettare le indicazioni emerse dal referendum.

7.

Mobilità sostenibile e città ecologiche. Investire sul trasporto pubblico locale, ferrovie locali, tramvie e metropolitane.

8.

Sud. Economia verde, ambiente, energie rinnovabili, priorità per lo sviluppo del Mezzogiorno.

9.

Più legalità, meno burocrazia. Lotta alle ecomafie, introduzione dei reati ambientali nel codice penale, lotta all’abusivismo; riforma dell’Ispra e del sistema dei controlli ambientali; semplificare norme e procedure.

10. Lavoro verde. Posti di lavoro dall’economia verde; investire su formazione e ricerca.

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CONSULENZA E INTERMEDIAZIONE IMMOBILIARE

Certificazione energetica: per un’abitazione in vendita il documento va prodotto in ogni caso e subito.

Ce ne parla Pierluigi Fabbri, presidente di Fimaa Ravenna.

Avere sempre più a che fare con “scartoffie” quando ci si appresta a comprare e vendere casa, è qualcosa a cui bisogna abituarsi. Motivo in più per prestare la massima attenzione e richiedere la consulenza di un esperto agente immobiliare. L’ultima novità del settore è correlata alla delibera n. 1366 della Regione Emilia-Romagna del 26 settembre 2011 che impone l’obbligo di riportare l’indice di prestazione energetica e la relativa classe, contenuti nell’attestato di certificazione energetica, già negli annunci commerciali di vendita di edifici o di singole unità immobiliari.

«Questo vuol dire che al venditore non basta più allegare l’attestato di certificazione energetica al momento del rogito notarile – illustra Pierluigi Fabbri, presidente di Fimaa Ravenna –. Prima di questa nuova delibera, sulla base di quanto sancito dalla leggere regionale n. 156 del 4 marzo 2008, l’obbligo si poneva solo per i costruttori di immobili nuovi, mentre per l’usato bastava aspettare il rogito per produrre il documento». L’attestato di certificazione energetica deve essere rilasciato da un soggetto accreditato e deve riportare: i dati relativi all’efficienza energetica propri dell’edificio e degli impianti; i valori vigenti a norma di legge; i valori di riferimento o classi prestazionali che consentono ai cittadini di valutare e confrontare la prestazione energetica dell’edificio. L’attestato deve essere corredato da suggerimenti in merito agli interventi più significativi ed economicamente convenienti per il miglioramento del rendimento energetico dell’edificio. È possibile, inoltre riportare indicazioni utili circa le modalità di comportamento dell’utenza che possono influenzarne il rendimento.

«Dallo scorso ottobre le agenzie immobiliari sono state opportunamente informate, in modo tale che è iniziato il giro di telefonate ai clienti di cui hanno immobili in vendita – spiega il presidente Fimaa –. La delibera non fa differenza se a produrre l’annuncio è un’agenzia immobiliare o il privato stesso: l’attestato va fatto in ogni caso e subito. Questo per consentire a chi compra di fare le opportune valutazioni, alla stregua di quando si va in un magazzino per acquistare un elettrodomestico. Chi viene in agenzia, viene aiutato grazie al supporto di un tecnico di fiducia».

MERCATO IMMOBILIARE

Per il momento la Regione Emilia Romagna non ha ancora posto in essere delle sanzioni per chi non rispetta questa formalità, ma non è da escludersi considerando che in altre regioni ci sono già stati dei casi.

Facendo una panoramica di ciò che offre il mercato, quale tipo di abitazione è possibile trovare?

«Le classi energetiche degli edifici dipendono dal consumo annuo di combustile per metro quadrato – ricorda Fabbri –. Il nuovo che viene costruito ora è, in genere, di classe B ossia tra i 31-50 kwh/mq annuo, il che significa lontano anni luce anche solo da ciò che si costruiva fino a poco tempo fa. Le costruzioni dell’ultimo decennio oscillano fra le classi D, E ed F, che oscillano tra i 71 e i 160 kwh/mq annuo, ma se si va nell’usato meno recente si arriva facilmente in classe G, vale a dire oltre i 160 kwh/mq annuo. A fronte di un maggiore risparmio nei consumi per le classi più virtuose, c’è però da dire che più si sale di classe e più aumentano i costi di costruzione della casa e questo è un dato di cui tener conto. Nel complesso, è bene ricordare che per una definizione qualitativa dell’immobile non bastano le sole prestazione energetiche, ma anche il livello delle finiture e dei materiali».

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ZONA STADIO Condominio molto curato, ampio e comodo app.to ingresso, soggiorno con terrazzo, cuc ab con balcone, 3 letto, doppi servizi (finestrati) ripostiglio e garage. Ottime condizioni. Codice: 1330

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FINCASE RAVENNA Interessante appartamento con ingresso indipendente. In casa 2 unità composto di ingresso, soggiorno, cucina ab con retro, camera matrimoniale (mq 22) cameretta, ripostiglio, bagno, garage con ampio soppalco, e giardino privato. Codice: 1353 tel. 0544 .215645

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La casa dei sogni tutta su un piano, ingresso, soggiorno, cucina abit, 2 letto, 2 bagni, tavernetta con cucinotto, lavanderia, rip, garage, posto auto, porticato, giardino privato. Codice: 1367 tel. 0544 .215645

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In palazzina di sole 4 unita' libero entro 6 mesi appartamento con ingresso indipendente soggiorno con angolo cottura una camera letto matrimoniale bagno riscaldamento aut cortile. Codice: 950

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RAVENNA ZONA STADIO Appartamento ottimamente ristrutturato, in condominio, composto da: ingresso, soggiorno, cucina, bagno con vasca idromassaggio, 2 ampie camere matrim., balcone, garage. Rif. 851

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FINCASE SAN BIAGIO Appartamento dai grandi spazi, con ingresso, sala, cucina abit, disimpegno notte, 3 camere, 2 bagni, garage, cantina, riscaldamento auto. Codice: 1355

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