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Marinella I, l’insuperato gigante di Eugenio Berardi, a Milano Marittima
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L’intercultura ci salverà. Storia e attività della “Casa delle Culture” di Ravenna
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di Marina Mannucci Lido di Dante: stretta fra due foci, la spiaggia sulle terre nuove
topografia e storia
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cucina e design
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di Pietro Barberini
I villini di Palanti alle origini della città giardino di Paolo Bolzani
Con lo chef Faccini tra i fornelli e in tavola il progetto è servito di Chiara Bissi
Il buon dio abita nei particolari (2): un edificio “miesiano” a Ravenna di Alberto Giorgio Cassani
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Autorizzazione Tribunale di Ravenna n. 1240 del 8 novembre 2004 Direttore responsabile: Fausto Piazza Consulenza redazionale: Paolo Bolzani Collaborano alla redazione: Andrea Alberizia, Federica Angelini, Pietro Barberini, Roberta Bezzi, Chiara Bissi, Alberto Giorgio Cassani, Serena Garzanti (segreteria), Maria Cristina Giovannini (grafica), Linda Landi, Marina Mannucci, Luca Manservisi, Erika Marchi (grafica), Domenico Mollura, Serena Simoni. Progetto grafico: Quadrastudio - www.quadrastudio.info Referenze fotografiche: Maurizio Montanari, Paolo Genovesi, Fabrizio Zani Redazione: tel. 0544.271068 redazione@trovacasa.ra.it - www.trovacasa.ra.it
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Il grattacielo Marinella I venne costruito tra il 1956 e il 1957 su progetto dell’ingegnere lughese Eugenio Berardi
Il gigante di Milano Marittima CASA BELLA CASA
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di Paolo Bolzani
Siamo in estate, stagione balneare per eccellenza. Si sta celebrando la fondazione di Milano Marittima, la città giardino ideata dal brillante e talentuoso pittore Giuseppe Palanti cento anni fa per la borghesia milanese, ma anche, come egli stesso ebbe a dire, «dove anche i meno fortunati potessero avere la loro spanna di terra al sole». Peraltro, passeggiando all’interno del quadrilatero cervese lungo via XX Settembre, in prossimità del bastione sud ci imbattiamo nella facciata del Teatro Comunale, costruito nel biennio 1860-61, ed inaugurato nel Natale del 1862, che perciò quest’anno festeggia i centocinquant’anni. Si aggiunga il ravvivarsi del confronto dialettico sul destino di Milano Marittima di fronte ai progetti in corso, tra cui emerge l’eclatante proposta di Mario Cucinella di un edificio di 18 piani, sviluppati per 58 metri di altezza, da realizzarsi nella prima traversa alla foce del Canalino Saline, in affaccio sul mare. Per allinearsi con la concomitanza di tutti questi eventi, abbiamo pensato di concludere la prima parte dell’anno con qualcosa di simbolico, di veramente grande. Quindi per la casa del mese di luglio 2012 abbiamo pensato a una casa gigante. Perciò ci siamo recati a Milano Marittima, sulla duna situata
Sopra, una bozza del progetto del grattacilelo, presentata a metà degli anni ‘50. In basso , alcune foto d’epoca del cantiere e del palazzo appena costruito, con un cuoriso ritratto dell’ingegnere Berardi in un’immagine promozionale del singolare edificio.
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L’idea di erigere torri di cemento a pochi metri dal mare venne a Berardi osservando come le spiagge adriatiche fossero prive di belvedere naturali, dai quali fosse possibile abbracciare vasti tratti del litorale con uno sguardo dall’alto
all’incrocio tra viale Romagna e viale Tiziano, ove sorge dal 1957 il grattacielo Marinella I, dal nome della moglie dell’ingegnere lughese Eugenio Berardi, progettista della “grandiosa” costruzione, come lui stesso diceva. Una foto pubblicata nel 1958 in un quotidiano lo ritrae scalzo, in braghetti, maglietta e sigaretta, mentre misura a braccio la sua opera. Nel trafiletto sottostante alla foto si legge: «L’ingegner Eugenio Berardi in un’inquadratura intenzionalmente scherzosa: sullo sfondo è il primo grattacielo da lui costruito sul litorale romagnolo. L’idea di erigere torri di cemento a pochi metri dal mare gli venne osservando come le spiagge adriatiche siano prive di belvedere naturali, dai quali sia possibile abbracciare vasti tratti del litorale con uno sguardo dall’alto». Come si era giunti a questa opera del tutto eccezionale? E soprattutto quali furono gli effetti che da essa derivarono sul paesaggio della costa romagnola e sulla sua percezione? Per rispondere a queste domande dobbiamo ripercorrere brevemente questa vicenda e altre ad essa correlate. Facciamo un passo indietro fino al 1955. Nel corso dell’anno Berardi intesse una fitta rete di contatti con l’Amministrazione Comunale di Cervia e in particolare con Gino Pilandri, Sindaco della città dal 1946 al 1958, e con la Commissione Edilizia. Il 15 maggio 1956 presenta il progetto per un grattacielo a 16 piani e 62 appartamenti, alto oltre 60 metri, che viene approvato nel settembre. I lavori ini-
In alto, l’ingresso a doppia altezza del grattacielo; a fianco, la zona living di un appartamento del palazzo.
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ziano il 1° ottobre. La copertura finanziaria dell’opera viene assicurata dalla vendita, già largamente avvenuta, a favore di acquirenti, in prevalenza milanesi e bolognesi. Il 20 novembre il progettista lughese presenta un secondo progetto, che prevede la realizzazione di 23 piani e un’altezza di 92 metri. Iniziano le polemiche e le richieste di chiarimenti. La fermezza di Berardi, l’abilità diplomatica di Pilandri e l’estrema velocità con cui il cantiere si conclude, pongono l’Italia di fronte ad un caso di costruzione del tutto fuori dal comune. Il grattacielo Marinella, inaugurato il 16 luglio 1957, viene a costituire un unicum nel suo genere ma suscita un naturale spirito di emulazione. Tant’è che, già dal 21 febbraio 1957 in Comune a Cesenatico risulta rilasciata la licenza edilizia per la costruzione di un grattacielo, di cui firma il progetto lo stesso Eugenio Berardi. Nel 1958 sorge quindi il Marinella II, con i suoi 125 metri e i suoi 35 piani, di cui 30 destinati a uso abitativo, che diverrà il più alto d’Europa, nella categoria delle opere in cemento armato, perdendo il primato due anni dopo a favore del Grattacielo Pirelli di Milano. Torniamo a Milano, quella Marittima. Il 6 maggio 1957, a poco più di due mesi dall’inaugurazione del Marinella I, il Comune di Cervia approva la realizzazione del Royal Palace, progettato dall’ingegnere Piero Sacchetti, che tuttora si eleva all’incrocio tra viale 2 giugno e viale Forlì. Il Royal Palace non è propriamente un grattacielo, bensì un grande palazzo a due corpi
Nel 1958 Berardi costruisce a Cesenatico il Marinella II che, con i suoi 125 metri e i suoi 35 piani, di cui 30 destinati a uso abitativo, per qualche anno sarà il più alto grattacielo d’Europa in cemento armato. Negli stessi anni si costruisce, all’incrocio tra viale 2 Giugno e viale Forlì, il Royal Palace, su progetto dall’ingegnere Piero Sacchetti.
In alto, ancora una veduta dell’ampio ingresso; a destra, alcuni elementi dell’arredo modernista di un’appartamento del grattacileo, curato dall’architetto Ennio Nonni di Faenza.
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Salendo sul Marinella I si giunge ad un appartamento dall’arredo “modernista” curato dall’architetto Ennio Nonni di Faenza, in cui le scelte del dove e del come vivere le vacanze sono rilette secondo una gaia spensieratezza, tra forme ironiche e colori allegri.
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di fabbrica gemelli, alto quasi 60 metri lungo i quali si sviluppano 18 piani per complessivi 128 appartamenti. Pare verosimile che Cucinella abbia tarato il proprio edificio - in riviera ingenerosamente ribattezzato “il tramezzino” per il suo aspetto stratificato a lamelle orizzontali lievemente e reciprocamente sfalsate - sul Royal Palace, che risulta circa un metro e mezzo più alto. Ma torniamo al Marinella I. L’11 marzo 1958 viene ampliato il bar. Il 2 aprile 1959 nell’ammezzato si realizza l’Hotel Rosella, dal nome della prima figlia di Berardi. Seguirà il Night Club al piano interrato e il ristorante con ballatoio e terrazza. Ad un consolidamento eseguito nel 1984, segue un restauro nel 1999, nel corso del quale il rivestimento in tessere di mosaico 2x2 centimetri viene coperto con malte rasanti, compromettendo gli effetti cromatico-materico del rinfrangersi della luce sul parallelepido slanciato e luccicante. Purtuttavia possiamo ancora apprezzare come l’ “alta torre” sia ben compresa tra una base a due piani, in cui si articolano i servizi comuni e la terminazione a terrazza belvedere, mentre l’equilibrio instaurato dall’inserimento delle finestre rettangolari tra i pilastri che rigano le facciate, ne calibra la corsa verso l’alto,
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complici le tapparelle azzurro chiaro che ne stemperano la massa nel cielo. Entrando nell’ingresso a doppia altezza del grattacielo si avverte una certa eleganza composta. Salendo in visita ad un appartamento dall’arredo “modernista” curato dall’architetto Ennio Nonni di Faenza, ecco le scelte del dove e come vivere le vacanze improntate ad una gaia spensieratezza, tra forme ironiche e colori allegri. Uno sguardo all’esterno ed ecco l’impressione del mare verde dei pini, ammirato da un altezza del tutto inusuale, mentre sullo sfondo la linea blu del mare torna a narrarci ancora una volta delle promesse di un’estate in riviera, in un località che è storia, ma anche interconnessione e relazione e quindi, speriamo sempre più, smart city.
Nella , pagina a sinistra e qui sotto, scorci degli spazi dell’appartamento per vacaze del grattacielo di Milano Marittima, arredati da Ennio Nonni.
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L’intercultura ci salverà Conversazione con Antonella Rosetti responsabile della Casa di Marina Mannucci delle Culture di Ravenna Sul tema dello straniero il pensiero europeo ha elaborato due diverse ipotesi: la prima è l’approccio universalistico, secondo il quale tutte le culture sono simili e convergenti; la seconda è l’approccio relativistico, secondo il quale ogni cultura è “relativa”, cioè diversa dalle altre e non è paragonabile ad esse. Esiste anche una terza via, quella dell’intercultura, che non si limita a riconoscere i valori di questa o quella cultura, ma cerca di metterli in relazione attraverso un’interazione tra individui, competenze, saperi, strumenti e ambiti diversi e che ha come scopo non solo lo scambio, ma la critica dei paradigmi dominanti, per cercare di produrre e riconoscere nuove forme di pensiero e di comportamento assolutamente urgenti e necessarie nel clima di complessità socio-politica ed economica in cui viviamo. I sistemi complessi sono spontanei, forse disordinati, ma sono vivi e producono il nuovo che destabilizza l’ordine dato. Ne sono esempio la schiavitù, l’apartheid, la subordinazione femminile, da cui nascono i movimenti di rivendicazione dei diritti civili e il femminismo; o un sistema (monarchie, totalitarismi, democrazie, imperialismi) che si rovescia, si dissolve, implode; oppure una specie che scompare o si trasforma. Rosi Braidotti, conosciuta per il suo “soggetto nomade” e per il tentativo di reinterpretare la società contemporanea e i fenomeni di tecnicizzazione e polarizzazione della cultura, suggerisce che «Dobbiamo imparare a pensare diversamente noi stessi e i processi di trasformazione profonda». L’irlandese John Holloway, in sintonia con l’invito di Arundhati Roy – «intellettuali europei, entrate nella resistenza» –, nel suo libro Cambiare il mondo senza prendere il potere (Edizioni Intra Moenia, 2004) propone un’alternativa alle teorie occidentali del potere, le quali puntano comunque sulla presa del potere (per via pacifica o rivoluzionaria, non importa) per poter cambiare il mondo. John Holloway fa leva su qualcosa di diverso, cioè sulla formazione dal basso di uno spazio esteso di anti-potere, che avviene per via diretta tramite la partecipazione attiva e non delegata. Una panoramica pluriculturale che ha il merito di dar voce ai popoli dimenticati, ai “dannati della terra”, mettendone in risalto la creatività e la valenza culturale alternativa, in un contesto planetario in cui la civilizzazione occidentale, pur egemone, suscita dubbi malcelati anche tra alcuni suoi sostenitori, che si affannano nell’escogitare correttivi di vario genere (si veda il cosiddetto “sviluppo sostenibile”, ultimo escamotage degli occidentalizzatori). È doveroso rimarcare che l’esigenza di superare il carattere unilaterale dell’eurocentrismo (e di altre versioni dell’etnocentrismo) è sempre più diffusa negli ambienti che si occupano seriamente di intercultura. A Ravenna, dal 2000, con ottimi risultati, si occupa di intercultura la “Casa delle Culture”, un centro d’informazione e documen-
«Una civiltà che si dimostri incapace di risolvere i problemi che produce il suo stesso funzionamento è una civiltà in decadenza […] la civiltà così detta europea, la civiltà occidentale […] è incapace di risolvere i due maggiori problemi generati dalla sua stessa esistenza: il problema del proletariato e il problema coloniale» Aimé Césaire (poeta caraibico)
La “Casa delle Culture” in piazza Medaglie d’Oro
tazione interculturale del Comune (Politiche per l’Immigrazione), realizzando percorsi didattici formativi interculturali rivolti alle scuole ed agli insegnanti. Il centro, inoltre, collabora con le associazioni di immigrati per la realizzazione di iniziative finalizzate a favorire l’incontro tra culture nella nostra città ed offre un servizio di elaborazione e progettazione di attività culturali e formative sui temi dell’educazione alla pace, della mondialità e della gestione dei conflitti. La “Casa delle Culture” organizza corsi gratuiti di italiano per stranieri di prima alfabetizzazione, fornisce strumenti tecnici per il sostegno e la qualificazione delle attività delle associazioni di immigrati e svolge un servizio di informazione e supporto alle
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Qui sopra: vista dell’installazione ispirata alle case di Hundertwasser in uno dei locali del centro interculturale. In basso a sinistra: particolare di un pannello nell’ufficio di Antonella Rosetti nella Casa delle Culture
attività socio-culturali, oltre a proporsi anche come centro informativo sulle opportunità offerte dal territorio ravennate e di orientamento ai servizi. Fornisce anche un servizio di informazione e di documentazione inerente alle tematiche dell’immigrazione e dell’intercultura: uno strumento efficace ad uso di tutti i cittadini ravennati e stranieri che desiderano approfondire la conoscenza di altre culture. La biblioteca del centro dispone di una sezione per l’educazione interculturale con testi e libri sull’educazione alla pace, alle diversità, sul dialogo interreligioso e sulla mondialità e in risposta alle esigenze sempre maggiori di informazione degli stranieri, offrendo loro l’opportunità di usufruire dell’accesso a Internet con la presenza di tre postazioni. Antonella Rosetti, Istruttrice Direttiva del centro dalla sua nascita, ci offre il racconto della sua esperienza pro-
ABITARE LE CULTURE
fessionale: «Il mio esordio lavorativo risale al periodo in cui appena diplomata ed iscritta all’università partecipai ad un concorso del Comune di Ravenna per animatrice di biblioteca e lo vinsi. Fui quindi assunta con un contratto a tempo determinato ed iniziai a lavorare al centro civico del quartiere “popolare” Darsena, all’interno del quale avviai un centro d’animazione ed una biblioteca. In quel periodo nel quartiere si respirava un fermento straordinario; questo mi permise, malgrado la mia giovane età e la mancanza di una formazione specifica, di autoformarmi. Iniziando dal basso, negli anni ho imparato questo mestiere dall’orizzonte ampio che mi ha permesso di tenere le mani in pasta nell’umanità; oggi, ad un giovane, questo tipo di percorso professionale probabilmente sarebbe precluso. Grazie alla circolare ministeriale n° 25 del settembre 1978, fui subito assunta in pianta stabile nel settore della pubblica amministrazione ed il mio percorso lavorativo avviato intorno alle relazioni umane si è sempre più incentrato
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in un ambito strettamente socio-culturale. Un servizio pubblico decentrato che mi ha permesso di creare un “ponte” tra politica e cittadini: a quei tempi i quartieri erano realmente luoghi di vita e di cittadinanza attiva rivolti a tutte le fasce di età. Il ruolo delle commissioni di quartiere prima e, successivamente, della Circoscrizione è stato importante, a tratti fondamentale: un osservatorio caleidoscopico per mettere a fuoco i nuovi problemi che attraversava il Centro Storico, “salotto buono” della città, fino ad arrivare alle zone più decentrate, residenza di un campionario di umanità diversa. La Circoscrizione Darsena è cresciuta in quanto a personalità e presenza su un territorio che si ricostruiva attraverso l’ascolto delle esigenze dei cittadini, dei loro disagi ma anche delle loro risorse e competenze, delle loro richieste e delle loro aspettative; questo ci permetteva di avere sempre costante il polso vero della situazione e l’umore reale della cittadinanza. Un lavoro di sviluppo di comunità, che via via veniva potenziata proprio dando voce a gruppi e a nuove associazioni. A seguito di queste importanti esperienze, nei primi anni del 2000, nasce a Ravenna la “Casa delle Culture” ed ora posso dire che i ragazzi e le ragazze di qui e d’altrove, che incontro nei progetti da noi avviati, sono la visione del mondo futuro che vorrei. Sono i giovani che, nati lontano e poi cresciuti qui, fanno i conti con un bisogno di recuperare il senso della profondità: delle esperienze, della vita, del pensiero, del confronto e dell’incontro, poiché si misurano con vuoti e assenze incolmabili se non da un adattamento conformista e superficiale. La loro insofferenza e insoddisfazione mi consola e mi fa pensare bene. Che in questa casa (delle culture) possano trovare stimoli e un po’ di sostegno alla loro creatività, alla loro originale e autentica elaborazione di pensiero, alla voglia d’incontrarsi, mi conferma che la crescita delle nuove generazioni dipende dalle nostre scelte e decisioni “adulte”. Ne sento la responsabilità. In altre parole, penso che non siamo di fronte ad una realtà esterna a noi (le seconde generazioni), siamo “noi” al centro della scena ed è nostra responsabilità lo scegliere se concepire le “seconde generazioni” come “sospese tra due culture” o invece come “appartenenti a due culture”. È anche la nostra visione che li renderà dei forestieri maltollerati o dei concittadini apprezzati. C’è bisogno di un progetto educativo che affermi che il mondo a nostra fotocopia sarebbe noiosissimo, che essere differenti è un diritto naturale; che giocare non è stare in solitudine seduti davanti ad un videogioco; che vestirsi è più utile che vestirsi firmati; che il gioco di squadra è più divertente dell’isolamento narcisistico; che la stima reciproca dà più soddisfazioni dell’avere tanti soldi. E l’elenco potrebbe continuare».
Come posso perdere la fede nella giustizia della vita quando i sogni di chi dorme tra le piume non sono più belli dei sogni di chi dorme per terra? Kahlil Gibran
Tutte le foto sono di Alberto Giorgio Cassani
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Lido di Dante:
la spiaggia sulle terre nuove Con i lavori, promossi (e sorvegliati) dal Cardinale legato, Giulio Alberoni nel 1735, si determina il nuovo assetto del territorio ravennate La diversione dei fiumi Ronco e Montone e la costruzione del ponte Nuovo, realizzato senza economia di materiali preludono ad un “risparmio futuro”
Una strada all’interno della pineta demaniale che si estende fra la foce dei Fiumi Uniti e quella del Bevano. In alto, la spiaggia di Lido di Dante.
TOPOGRAFIA E STORIA
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di Pietro Barberini
È la spiaggia più appartata di Ravenna, dal profilo abitativo caratterizzato da costruzioni basse, case e villette a due piani. Non è difficile arrivarci, percorrendo una strada, via Marabina, allungata sulla destra dell'argine dei Fiumi Uniti, dopo il ponte “Nuovo”. Fino agli anni Settanta, la località era conosciuta con il toponimo di Foce Fiumi Uniti, in dialetto la “Bocca dei Fiumi”. Lido di Dante appare, dopo una rotonda, con le sembianze di una “spiaggia” tipica degli anni, un po' disordinati, del boom economico. A sinistra del viale principale uno di quei “negozi del mare” dove trovi un po' di tutto: abbigliamento, giocattoli, articoli da spiaggia e casalinghi. Una scritta lo segnala: “Baby Market”, in stagione molta merce viene esposta fuori. Il paesaggio è quello che fa da preludio ad una giornata sotto l'ombrellone. E' dal 63 che la famiglia Morini gestisce questo “bazar” uno dei pochi negozi della località, vicino al Bar Casadio. C'era una bottega di “Alimentari”, “dalla Paolina”, la Pensione Fatima e due campeggi: Ceroni e Ramazzotti. Venivano soprattutto tedeschi, in quegli anni di turismo pionieristico, quando il luogo era indicato Dall’alto, l’emporio turistico sul viale d’ingresso (parte finale di via Marabina) di Lido di Dante; il viale fotografato nel 1996; capanni da pesca alla foce dei Fiumi Uniti.
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In alto, il ponte Bayley che collega Lido di Dante e Lido Adriano; qui sopra, la casa dell’Ente Bonifica della chiusa sui Fiumi Uniti; Nelle foto d’epoca, in basso: Domenico Ricci, l’ultimo “guardiano” dei Fiumi Uniti conduce l'asinello: sul carretto legname e prodotti dal taglio radicale di alberelli, arbusti e canne, sulla destra operai sulla sponda del fiume; a destra, l'asinello è condotto dai braccianti mentre Ricci ”sorveglia”.
TOPOGRAFIA E STORIA
come Foce Fiumi Uniti. Il toponimo Lido di Dante, è arrivato soltanto dopo l'urbanizzazione di Lido Adriano che appariva a nord della foce, con alcuni edifici a rompere l'armonia di un orizzonte diviso fra azzurro e verde. Acquattata fra la pineta litoranea e la “Bocca dei Fiumi”, poche costruzioni: un fanale di segnalazione marittima, il faro, danneggiato dalle bombe del 1944 e successivamente demolito, la caserma della Guardia di Finanza, alcune case, una pompa di benzina e due campeggi, capaci di attrarre i turisti. Negli anni eroici era tutto un po' naif, i bagni erano capanni in legno e i servizi ridotti all'osso... Il collegamento con Ravenna è assicurato dalla via Marabina, che da Ponte Nuovo dopo il sottopasso della ferrovia, attraversa le “larghe” della “Bosca”, della “Torrazza” e della “Quaiadora” per raggiungere una sottile linea di pini nereggianti: la pineta litoranea. La foresta storica, quella di Classe, è invece più interna alla costa, antica e maestosa. Dato che in molti vi era la convinzione, certamente plausibile, che l'Alighieri la frequentasse, ecco spiegato il nome Lido di Dante. Un toponimo recentissimo, l'ultimo per i Lidi Ravennati, attribuito a quest'avamposto fluviale, prodotto dall'avanzamento della nuova bocca dei Fiumi Uniti, al termine dei lavori di diversione dei fiumi Ronco e Montone, che Vincenzo Fontana descrive in Storia di Ravenna (Marsilio Editore, Volume IV): «Questo uomo terribile e discusso (il cardinale legato Giulio Alberoni), appena riabilitato da Clemente XII, sa costruire il collegio di San Lazzaro a Piacenza in soli otto mesi e in cinque anni riesce quasi a completare il nuovo assetto del territorio ravennate facendo dei matematici semplici consulenti, ma riservandosi ogni decisione e sorvegliando i lavori di persona. Il piano Manfredi-Zendrini diventa quindi il suo e per realizzarlo il legato si assicura l'appoggio a Roma di Neri Corsini e del tesoriere generale Carlo Maria Sacripante. Arriva a Ravenna il 5 marzo 1735. La “SECURITAS POPULI RAVENNAE” è il tema della medaglia annuale di Clemente XII, coniata in argento a Roma da Ermenegildo e Ottone
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A sinistra: campi coltivati nella “larga” bonificata a fianco della strada Marabina, fra Ravenna e il mare. In basso, a sinistra, i Fiumi Uniti si allargano verso la foce. A destra , l’isolata e tozza sagoma della “Torrazza”, resti di una installazione della metà del XVII sec., costruita dai marchesi Cavalli a difesa del Porto Panfilio. Gran parte delle immagini di questo servizio (oltre alle cartoline fornite dall’autore) sono tratte dal social netwok fotografico “Panoramio”, correlato a Google Hearth.
Hamerani per ricordare la maggiore impresa pontificia dell'anno. Nel rovescio, l'allegoria di Ravenna dormiente fra due giare, da cui scaturiscono i fiumi per unirsi ai suoi piedi, rappresenta certamente la securitas trovata, ma anche, forse, il letargo cronico che Alberoni interrompe nei cinque anni frenetici della sua legazione... Ancora prima di scavare il nuovo alveo si era prevista la costruzione di tre ponti di legno: uno per la strada della Cella del Ronco, l'altro per quella da porta Sisi sul nuovo Montone e il terzo per la via Romea lungo il vecchio Panfilio. La costruzione dei primi due è spedita, data la luce modesta necessaria per oltrepassare i fiumi ancora divisi e sono subito eretti dal Massei; il terzo comporta invece problemi tecnici di difficile soluzione per superare i Fiumi Uniti. I matematici consultati dal cardinale affermano di aver previsto un ponte di legno per non spaventare i Ravennati e la Congregazione romana col costo di uno di pietra compromettendo la realizzazione di tutto il piano, ma che forse una spesa maggiore sarebbe stata un risparmio futuro».
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L'ultimo “guardiano” dei Fiumi Uniti Domenico Ricci, dal 47 al 79, è stato sorvegliante idraulico dei Fiumi Uniti, lato “destro”. Dipendente del Genio Civile di Ravenna, il suo compito era quello di vigilare sull'integrità dell'argine destro, da “Punta Galletta”, dove confluiscono il Ronco e il Montone, al mare. Nel compiere interventi di manutenzione rilevando i lavori periodici da assegnare ad operai salariati giornalieri, Ricci incontrava agricoltori “frontisti”, padellonisti, pescatori, tecnici del Genio e del Consorzio di Bonifica. Spesso c'era da discutere ma, alla fine, il buon senso prevaleva. Ricci, arrivato al mare, ritornava verso Ravenna sulla “sua sponda”, che percorreva prevalentemente in bicicletta. Talvolta, alla foce, veniva traghettato dall'altra parte da pescatori di Bellaria che erano lì durante la stagione di pesca: sarebbe tornato assieme al suo collega dell'argine sinistro. Giunto a casa avrebbe avuto qualcosa di importante ed educativo da raccontare ai suoi figli.
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La via Marabina attraversa la storia e porta Dante sul “suo” Lido. La terra e l'acqua sembrano giocare, prendendosi a vicenda tempo e spazio «Esisteva un tempo una vasta tenuta posseduta dalla famiglia Marabini di ottimo censo e, a quanto possiamo dedurre, anche abile nel condurre i propri affari. Infatti in un volume dell'Arch. St. Com. Can. 37 lessi alcuni anni fa che Vincenzo Marabini, appaltatore per la restaurazione dell'antico porto Candiano, era in lite con la comunità ravennate a causa della non perfetta esecuzione dei lavori, relativamente all'anno 1614». Così scrive Antonio Nivellini, a proposito di via Marabina. Il luogo è ricco di sovrapposizioni e cambiamenti. La Torre che i marchesi Cavalli costruirono a metà del XVII Sec. a difesa del Porto Panfilio, si erge in posizione isolata, in mezzo a coltivazioni e lembi di antiche dune pinetate. I lavori per la diversione dei fiumi, hanno “cancellato” il canale portuale, mentre la nuova bocca dei Fiumi ha iniziato a spingersi verso levante portando sedimenti alluvionali a scapito dedl mare che arretra... Quando, nel primo decennio del 900 le dune costiere vengono piantumate, il battente dell'onda è trecento metri più avanti. Una duna cespugliata, solida e spessa, divide la spiaggia dalla fascia pinetata: un ampio e sfumato confine, dove acqua e terra sembrano giocare, prendendosi, a vicenda, tempo e spazio.
Il paesaggio visto dall’acqua (navigazione sottocosta anni Settanta)
Cartoline degli anni ‘60 del lido della foce dei Fiumi Uniti, poi di Dante. Qui in basso e in alto a destra, due scorci della spiaggia “riserva naturale” della Bassona.
TOPOGRAFIA E STORIA
Navigando da Marina di Ravenna a Lido di Savio, alla fine degli anni Settanta la costa era caratterizzata da alcuni elementi particolari che, apparivano dal mare, stagliandosi sull'orizzonte basso e marcato
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arredi www.pirarredi.it
dalla sottile linea di pini nereggianti. La colonia della Croce Rossa a sud di Marina, un isolato condominio che segnalava l'abitato di Punta e, dopo una parte bassa, fino agli anni Sessanta ricca di dune, apparivano, le pesanti costruzioni di Lido Adriano: il complesso condominiale del “Calipso”, l'hotel Adriano e altri alberghi e condomini. Proseguendo la navigazione verso sud si passava sulla verticale della foce dei Fiumi Uniti, segnalata da alcuni capanni con rete da pesca. Sulla destra della bocca dei Fiumi, un centro abitato seminascosto e racchiuso in uno spazio di qualche centinaio di metri. Si intravvedeva soltanto qualche tetto dietro agli stabilimenti balneari di Lido di Dante. Il centro rivierasco, pur piccolo, era compreso fra due foci fluviali: i Fiumi Uniti a nord e il Bevano a sud. Finalmente si poteva scorgere la “Bassona”, dove non c'era energia elettrica e nessuna costruzione sulla spiaggia frequentata da nudisti (non c'erano ancora i naturisti!).
Lo showroom dal cuore green
Un caro saluto dal mare Le cartoline con i “Saluti da foce Fiumi Uniti” rappresentano un documento significativo del turismo balneare e di quegli anni. Non ci sono foto in bianco e nero, ma, col colore, arrivano immagini di campeggi e scritte in lingue straniere, francese e tedesco. Sulla spiaggia si vive il passaggio dalla tenda all'ombrellone, fino a raggiungere “effetti speciali” con la barca a vela alla fonda nella luce del tramonto. Alcune cartoline riproducono il faro e case non ancora ultimate, non mancano calciobalilla, il Baby Market e un simpatico maggiolino Volkswagen!
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AZIENDE INFORMANO
Le meraviglie della casa domotica
Il sogno di tutti di avere una casa amica, funzionale e sicura con un’attenzione alla sostenibilità e al risparmio energetico e non una trappola nella quale i rischi si sommano alla fatica di gesti quotidiani per nulla ergonomici, oggi può diventare realtà con l’uso della domotica. L’evoluzione dell'automazione domestica e delle tecnologie impiantistiche negli anni ha raggiunto risultati importanti pur rimanendo per lungo tempo un ambito di nicchia per estimatori, alle prese con la realizzazione di una nuova abitazione. A credere nelle infinite applicazioni della domotica inserita in contesti abitativi ma anche nelle attività produttive, nel direzionale e nel terziario, un team di aziende con sede a Casalborsetti e Ravenna che opera su scala romagnola e regionale. Insieme, Special Impianti, 08 Arredo e AP Tende Infissi hanno deciso di proporre una formula innovativa di assistenza al cliente. Per comprendere al meglio le potenzialità dell’offerta è nato uno show room a Forlì nel quale tutto appare ben collocato, ma nulla è convenzionale. Lo spazio allestitivo accoglie al proprio interno una vera e propria casa domotica. Passata la soglia il visitatore si trova in un ambiente pronto ad essere modellato sulle esigenze più diverse per raggiungere il traguardo del pieno comfort. Una dimensione nella quale troverà figure professionali capaci di seguire un progetto completo, con tecnici preparati pronti a eseguire la parte impiantistica e a supportare il cliente nelle scelte di interior design con tecnologia BTicino e Samsung che hanno creduto nel loro progetto e contribuito alla crescita nonchè all’integrazione tra loro.
TECNOLOGIE E SERVIZI
Ogni elemento dal letto, all’armadio, fino ai mobili di cucina possono nascondere infatti apparecchi regolabili nelle funzioni da unico touch screen o da una serie di interruttori. Due sistemi che permettono di riassumere la combinazione delle funzioni scelte. Con un solo comando è possibile attuare diversi scenari. Così il quotidiano rito della preparazione del cibo può essere supportato per esempio da un solo gesto che permette l’apertura di una finestra, l’accensione della cappa, magari a scomparsa e sollevamento verticale, l’accensione di più punti luce, del climatizzatore e del piano cottura a induzione. La camera da letto invece può nascondere nell’anta scorrevole dell’armadio un televisore ultra piatto, il letto in pelle può avere doghe capaci di offrire programmi di massaggi relax, il tutto azionabile sempre con un solo comando. Allo stesso modo uscire di casa diventa un’azione libera da ansie
Funzionalità e sicurezza, ma anche sostenibilità ambientale e risparmio energetico. Ecco i vantaggi dell’automazione domestica offerta dalle nuove tecnologie per tutte le esigenze
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e dubbi: nell’ordine in un sol colpo è possibile abbassare la temperatura, inserire l’allarme antintrusione, chiudere i serramenti, irrigare il giardino con il timer e aprire il cancello automatico. Ma le combinazioni sono infinite e tutte cucite sulle esigenze del padrone di casa, che ha la possibilità anche di un accesso remoto al sistema con un tablet. Il fatidico dilemma sulla corretta chiusura di una finestra o sullo spegnimento di una luce in una stanza diventa un ricordo, perché tutto può essere controllato e corretto, e poco prima del rientro è possibile azionare il comando per riempire d’acqua la vasca da bagno o accendere la lavatrice. Le soluzioni proposte incontrano con facilità anche le richieste di anziani e disabili alle prese con problemi di deambulazione o difficoltà di movimento. «Da lontano vedo dentro casa e ho il pieno controllo – spiega David Cicognani – posso gestire la climatizzazione a zone e ridurre i consumi con un risparmio del 25%. In ogni momento è attivo il controllo dei carichi e in caso di accumulo vengono staccati le fonti meno prioritarie. E con un istogramma si può procedere al monitoraggio dei consumi mensili. L’impianto di automazione viene adattato alla dimensione dei consumi e di per sé non necessità di maggiore potenza. Per questo il nostro motto è: solo soluzioni». Quello della casa domotica si presenta quindi come impianto elettrico evoluto che ha un costo di installazione del 20% in più rispetto ai sistemi tradizionali, ma offre pre08 Arredo via delle Campanelle 42, Ravenna Tel./Fax. 0544 445571 - Cell. 333 5476276 randi.08arredo@alice.it
stazioni molto più alte in termini di controllo dei consumi, con un abbattimento delle onde elettromagnetiche. Le apparecchiature dialogano infatti con basse frequenze. Non è prevista inoltre la mole di scassi e cavi degli impianti tradizionali, motivo per cui un progetto di automazione domestica può essere attuato anche in case esistenti, in dimore storiche o in edifici pubblici e in spazi condominiali. In caso di black out dovuto a cause esterne all’abitazione un gruppo elettrogeno è in grado di garantire una breve autonomia, mentre in caso di sovraccarico o di un evento atmosferico come un fulmine l’energia viene immediatamente ripristinata. La vendita di impianti di automazione domestica e di arredi su misura proposta da Special Impianti, da 08 Arredo e AP Tende Infissi rappresenta una formula pionieristica, poche sono le esperienze simili in Italia che si rivolge a una clientela capace di intravedere appieno le potenzialità della propria abitazione e di immaginare il proprio spazio in funzione delle esigenze del presente con uno sguardo al futuro. «Per questo tipo di soluzioni – spiega Nadia Randi - non si adattano solo linee riconducibili al minimalismo. Possiamo ideare elementi anche in materiali tradizionali come il noce, in un nostro recente lavoro, in una casa in collina fra le tante cose abbiamo realizzato persino un armadio in legno d’ulivo. Il cliente porta le proprie esigenze e noi disegniamo e sviluppiamo il progetto per soddisfarle».
Special Impianti Via D. Martoni 9/A - Forlì Tel. 0543 798471 - Fax. 0543 750725 www.specialimpianti.it
AP Tende e Infissi Via A. Bozzi 9 - Ravenna Tel. 0544 406242 - Fax. 0544 272301 info@aptendeinfissi.it GIUGNO-LUGLIO
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Il villino che Palanti si costruì nel 1914 su quello che ora è viale 2 giugno e che dedicò alla moglie Ada, ci riporta alle origini di Milano Marittima. Un piccolo fabbricato avvolto in un’aura eclettico romantica, in cui affiorano episodi in stile neogotico ed influenze liberty.
ARCHITETTURA E STORIA
di Paolo Bolzani
Una visita alla bella mostra, attualmente in corso a Cervia, al Magazzino del Sale Torre, rende onore alla cifra complessa del personaggio Giuseppe Palanti, “Pittore, urbanista, illustratore”, come spiega il sottotitolo all’evento espositivo. Si tratta de “E’ nostar pitòr”, come ebbe a dire Gino Pilandri, e come riporta il Sindaco di Cervia Roberto Zoffoli nell’introduzione al catalogo. Pilandri ricordava perfettamente i versi di Gabriele D’Annunzio “il mare canta una canzone d’amore, nel plenilunio bianco, alla pineta” perché le leggeva e ripeteva come un “mantra”, trovandole incise sulla fascia mediana orizzontale del villino che Palanti si era costruito nel 1914 su quello che ora è viale 2 giugno n. 72, angolo via Toti, e che dedicò alla moglie Ada. Si tratta di un piccolo fabbricato totalmente avvolto in un’aura eclettico romantica, in cui affiorano episodi in stile neogotico ed influenze liberty, recente-
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All’origine della città giardino di Milano Marittima I villini ideati da Giuseppe Palanti e i loro primi epigoni mente restaurato nei paramenti esterni e soprattutto nelle decorazioni liberty dal pittore Alteo Missiroli di Cervia. Confrontando una foto d’epoca con la situazione attuale si scopre come in origine la pineta e la strada fossero assenti, e il villino sembrava quasi spaesato in mezzo ad un piatto paesaggio d’erba incolta, affiancato da un fabbricato meno interessante. Transitando ora per viale 2 giugno l’effetto, paradossale, è notevole anche se l’intorno urbano è costituito da palazzine a 45 piani. La landa spoglia ha ceduto spazio alla geometria dei viali di Milano Marittima, ma soprattutto alla
Nella pagina accanto, un acquerello in cui il pittore Palanti raffigura il progetto del “villino economico n.3”. Sotto, uno scatto fotografico d’epoca del villino che Palanti si costruì a Milano Marittima nel 1914.
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In primo piano, la facciata di uno dei villini prospicenti la foce del Canalino di Milano Marittima.
pineta, che ha infine raggiunto la piccola costruzione, con un risultato, all’interno del lotto, che sembra evocare quanto doveva essere nel progetto dell’artista milanese. Tra gli oggetti che più testimoniano la sua mano mentre si fa autrice di una proposta concreta vi è infatti un acquerello, in cui Palanti raffigura il progetto del “villino economico n.3”, da egli stesso ideato. Siamo nella sezione della mostra denominata “Una nuova città giardino. Milano Marittima: il progetto, il mito”. Osservando con una qualche attenzione l’acquerello, ci si accorge come al villino si acceda da una scalinata che consente di raggiungere la base del piano terra, leggermente rialzata ed avanzante nella pineta con una terrazza scoperta. Nel momento in cui la terrazza si accosta al piccolo edificio, Palanti sottolinea l’importanza dell’ingresso al villino con una loggetta a tre archi, al fianco della quale pone, come ulteriore elemento rafforzativo, una torretta in cui al primo piano compare una finestra di forma gotica, vale a dire con arco ad ogiva. Il tipo di trattamento in facciata rivela un rivestimento in lastre
ARCHITETTURA E STORIA
di pietra nella base su cui poggia il piano terra rialzato, mentre le pareti del piano rialzato e l’intera torretta risultano essere pensate in mattoni a faccia vista; infine il primo piano appare intonacato e reso più storicamente glamour dalla presenza di decori liberty. Confrontando l’acquerello con il Villino Palanti di viale 2 giugno per rintracciarne i materiali, il basamento appare trasformato in un semplice bugnato gentile di colore avorio, mentre sul muro in mattoni di uno dei quattro lati campeggia la lapide commemorativa della morte di Palanti, murata il 25 luglio 1948 con testo di Aldo Spallicci. Nel proseguo della mostra ci si imbatte nel catalogo dei villini, che fornisce un sorprendente saggio tipo-morfologico. Prendiamo il Villino n. 8, in cui il ruolo della torretta appare con maggiore evidenza. Al piano terra, leggermente rialzato, si trova l’ “anticamera”, vale a dire l’atrio di ingresso, che disimpegna in fondo la cucina e, a sinistra, un salotto e la sala da pranzo, serviti da un “w.c.”. Viceversa a destra ha inizio la scala, che conduce al primo piano, in cui si trovano tre camere da
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banistico di Palanti, anch’egli peraltro presente nella CIVAM. La tipologia del villino si evolverà negli anni Trenta, con una razionalizzazione e semplificazione dei motivi decorativi, ad opera dell’architetto Matteo Focaccia, autore a Ravenna della Casa del Mutilato e del Palazzo delle Assicurazioni Generali, che firma una serie di opere, tra cui la Villa Damerini. Venne così descritta qualche tempo fa da Giuliano Gresleri: «Non un mattone tagliato, una sagoma errata, un giunto che ceda dopo oltre mezzo secolo d’uso e di abbandono. Indifferente al paesaggio che la circonda, l’architettura appare chiusa come una fortezza, avvolta dalla pineta che custodiva un tempo i rituali della quotidianità borghese». E quindi prosegue aggiungendo: «chi ha la fortuna di accedere all’interno si accorgerà, allora, di quale consumato mestiere Focaccia disponesse; le camere, come scatole cinesi, prendono luce da pertugi e feritoie chiuse da vetri colorati, ma si aprono sempre su un piccolo balcone coperto dall’ombrello del pino o dalle larghe foglie di un platano» (Architetti Emilia Romagna). Infine nel 1942 il grande salto linguistico avviene con la villa Perelli, una piattaforma balneare sospesa nella pineta su alti pilastri a fungo, progettata dall’architetto Mario Cavalli e trasformata nel dopoguerra nell’Hotel Touring.
Sopra, la tavola di progetto di Villa Damerini; sotto, il dettaglio del villino n.8 e piantine con sezioni di Villa Perelli.
La tipologia del villino si evolverà negli anni Trenta, ad opera dell’architetto Matteo Focaccia, autore a Ravenna della Casa del Mutilato e del Palazzo delle Assicurazioni Generali, che firma una serie di opere, tra cui la Villa Damerini. Nel 1942 Mario Cavalli costruisce villa Perelli, trasformata nel dopoguerra nell’Hotel Touring.
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ARCHITETTURA E STORIA
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Dimenticate la casa del secondo dei tre porcellini, oggi le case in legno sono solide e durature quanto se non più di quelle in muratura. E scordatevi pure le baite di montagne, oggi distinguere una casa in legno da una in muratura è praticamente impossibile, a occhio. Le differenze stanno tutte nella maggiore qualità abitativa che le case con struttura portante in legno possono offrire. Lo assicura l’ingegnere Bruno Brighi, responsabile della Protek, di Rimini, da quindici anni specializzata nel settore e che oggi è in grado di progettare e realizzare abitazioni seguendo il progetto dell’architetto e scegliendo i prodotti più adatti e più qualificati sul mercato. «A differenza di altre aziende, noi abbiamo imparato la tecnica da chi lavora in questo campo da più tempo, come le grandi aziende tedesche e del nord, aggiungendovi però quella qualità estetica richiesta dal cliente italiano. E siamo in grado di offrire prezzi competitivi perché siamo ancora una struttura piccola, che per il momento ha scelto di operare nella sola zona del centro Italia». Già, i costi, ma quanto costa una casa in legno? «A parità di prestazioni, costa meno della casa in muratura, ma non bisogna aspettarsi nemmeno costi inferiori ai 1500 euro al mq perché, nel nostro caso, parliamo sempre di case certificate classe A+ da Casa Clima, cioé ad altissimo risparmio energetico e tutte realizzate con materiali naturali che aumentano il confort abitativo». Ed è proprio ciò che privilegia e cerca il cliente medio di Protek. «Sì, si tratta di persone molto informate, a volte più di molti tecnici, e molte motivate all’acquisto dalla ricerca del benessere e del rispetto ambientale, forse anche per questo il settore delle case con struttura in legno sta soffrendo meno la crisi». Ma da cosa è garantito il confort abitativo? «Tutte le nostre case utilizzano materiali naturali che fanno respirare la casa,
evitando dunque l’umidità e la formazione di muffa, hanno sistemi di riscaldamento e raffreddamento realizzati tramite pompe di calore alimentate elettricamente con energia prodotta da pannelli fotovoltaici, ricambio automatico dell’aria ogni tre ore senza la necessità di aprire le finestre, tanto per fare qualche esempio. E poi usiamo materiali come l’argilla o la lana di pecora che fanno respirare l’edificio, a differenza per esempio dei “cappotti” tradizionali. Una serie di soluzioni che peraltro garantiscono un risparmio medio sulle bollette di circa 2mila euro». Non solo, le case in legno sono antisismiche per definizione. «Ci sono stati esperimenti in Giappone che hanno dimostrato come un edificio in legno fino a sette piani possa resistere a scosse che invece fanno crollare palazzi di cemento armato dal quarto piano». Sì, perché in legno si possono costruire anche palazzi, sebbene nella stragrande maggioranza dei casi il committente sia la famiglia che si presenta alla Protek con un progetto per una villetta progettata secondo i propri desideri e con le soluzioni anche più ardite, come nel caso della “casa rotante” a Pennabilli (vedi foto grande). Complicazioni dal punto di vista burocratico per i permessi? «Capita, perché a volte i tecnici comunali non conoscono ancora bene questa realtà. Ma questi sono problemi che sta a noi risolvere». Per informazioni: via Aldo Celli 2, Viserba di Rimini, tel. 0541 73 63 48; www.proteksrl.itinfo@proteksrl.it
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Carta e penna e il progetto è servito:
l’architettura in cucina Le regole e le curiosità dello chef Stefano Faccini, insegnante e divulgatore, consulente dell’hotel Michelangelo di Milano Marittima GASTRONOMIA E DESIGN
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di Chiara Bissi
La tecnologia, la fisica, la teoria dei colori, la composizione, le materie prime, la creatività, l’innovazione, il design, di diritto non appartengono più solo al mondo dell’abitare e della progettazione architettonica, ma sono entrate, grazie ad alcuni pionieri del gusto, nelle cucine dei ristoranti per raggiungere, in sala, i commensali sotto forma di portate d’effetto e sostanza, in veste di antipasti coreografici, primi accattivanti, pietanze succulente o dessert da sogno. Una rivoluzione che ha camminato sulle spalle di molti chef appassionati e oggi procede grazie al lavoro di ricerca e sperimentazione di pochi. Diviso fra insegnamento all’istituto professionale di stato Servizi per l’enogastronomia e l’ospitalità alberghiera di Cervia e corsi di alta formazione da una parte e in consulenze per alberghi e aziende alimentari dall’altra, lo chef Stefano Faccini, rappresenta un perfetto esempio di promotore di una nuova cultura in riviera e di divulgatore. Consulente dell’hotel Michelangelo di Milano Marittima, struttura ricettiva che rivela nella cucina uno dei suoi punti di forza, Faccini, 54 anni, quasi trent’anni di insegnamento alle spalle, è nato in una famiglia di cuochi, dalla mamma, alla nonna, fino allo zio e al nonno. «Fino all’ottavo mese – esordisce – mia madre ha lavorato in cucina, e io sono nato ottimino. Nella vita non ho mai pensato ad altro che a cucinare, mia madre è nata in Francia, e tutti in famiglia hanno svolto esperienze all’estero». Dopo la scuola alberghiera si fa le ossa in Francia nella cucina di Paul Bocuse e in Svizzera da Fredy Girardet, padre della nouvelle cousine. «Il rientro in Italia fu uno shock – ricorda Faccini – dopo gli anni Ottanta la nouvelle cousine fu applicata ma senza le mediazioni necessarie. Di certo di quella rivoluzione sono rimaste l’uso delle materie fresche del territorio, la limitazione dei grassi cotti e l’alleggerimento dei tempi di cottura». Chef Eurotoque, Commandeur de la Commeanderie des Cordons Blues de France, discepolo di August Escoffier, Faccini crede nella formazione permanente, e ha collaborato alla stesura di libri di cucina e partecipato a trasmissioni televisive dedicate alla cucina e alla alimentazione. «Investo ogni anno in libri circa 2 mila euro l’anno e studio la fisica e la chimica degli alimenti. Trovo fondamentale conoscere ciò che avviene durante
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Per lo chef Stefano Faccini un piatto strutturato deve prevedere varie tipologie di cottura, diverse consistenze e molteplicità di colori
le cotture ed è questo che insegno ai ragazzi: a ricercare i perché. Lo svolgimento della ricetta è marginale, si deve avere prima una perfetta conoscenza degli alimenti». Si dice lontano dal minimalismo e dalle mode del momento che cercano di destrutturare le preparazioni, e ricorre poco a schiume e gelatine. «L’uomo è nato per masticare, senza viene meno una parte essenziale della digestione. E poi non dimentico il contesto, siamo in Romagna, terra di tradizioni e sapori forti. Per tenere insieme passato e futuro occorre pensare a piatti creativi senza dimenticare che è il gusto a determinare la buona riuscita. Quindi è fondamentale che l’aspetto visivo e la quantità siano accettabili. Il rischio in caso contrario è di salutare clienti affamati che andranno poi in cerca di una pizza a tarda notte». Un’attenzione e precisione che iniziano in cucina dove prendono corpo i piatti e la brigata è all’opera. «Quando seguo i ragazzi in cucina ascolto molto, analizziamo le consistenze degli alimenti e delle salse, poi prendo un foglio e inizio a disegnare. Un piatto strutturato deve prevedere varie tipologie di cottura, una differente masticabilità e diversi colori. Il rosso e la croccantezza della pelle delle carni stimolano la salivazione, il fritto porta con sé il desiderio di bere un bicchiere di vino e aumenta la convivialità. Non meno importante la forma e il colore del recipiente che se
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è possibile si deve accordare con lo stile della sala. A volte mi sveglio la notte con un’idea, devo alzarmi e buttare giù uno schizzo». I colori, precisa lo chef Faccini, sono essenziali. «Solo in un’insalata nizzarda troviamo 4 tonalità di verde, dal fagiolino che cambia dall’interno all’esterno, alla gentilina, alla buccia di cetriolo». Una ricerca costante che può investire qualsiasi pietanza a partire dalla grigliate di carne o pesce con prodotti di qualità per garantire la piena sicurezza alimentare, per arrivare alla pasticceria. «Il dessert ha tempi brevi di realizzazione ma deve avere una forte componente scenica. In pasticceria sono entrate tecniche proprie della pittura, si pensi agli sfondi con il pennello, o a spatola, agli stucchi, alle serigrafie. Un buon dessert deve comprendere una salsa, una parte morbida e una croccante, il tutto in un rapporto calibrato con tonalità tenui». Ma per Faccini l’esperienza e professionalità non devono diventare routine. «Raramente mi dico bravo, si deve sempre cercare stimoli diversi altrimenti non si apprende più. In cucina tutti i piatti vengono fotografati perché sul momento il cervello memorizza un’immagine che può essere diversa dallo scatto fotografico. A scuola come in hotel a Milano Marittima analizziamo il risultato, cerchiamo gli errori se ci sono, poi parliamo con i clienti. Raccomando sempre ai miei ragazzi di non essere cuochi talpa». E quando arriva l’estate e i ritmi rallentati delle vacanze o delle giornate al mare cambiano la dieta giornaliera, non deve venire meno la cura nell’alimentazione, specie se si risiede in albergo. «È bene mangiare – ricorda Faccini – piatti ipocalorici e insalate. Una ricca colazione, con molte preparazioni di pasticceria, realizzate dalla cucina, a pranzo molti antipasti e insalate a buffet, a cena primi e secondi di pesce, con un’attenzione particolare ai bambini. All’hotel Michelangelo controlliamo tutte le verdure e gli alimenti perché siano freschissimi, non usiamo scatolame e le preparazioni per i giovanissimi ospiti vengono realizzate con attrezzature e tegami a loro dedicati, accorgimento che andrebbe richiesto ovunque, come per l’olio, che va usato in quantità limitata e cambiato spesso, in caso di fritture».
Professione turismo: i numeri dell’istituto alberghiero Fucina di talenti, palestra per giovani professionisti, l’istituto professionale di stato servizi per l’enogastronomia e l’ospitalità alberghiera di Cervia è l'unica realtà formativa statale a livello superiore del territorio. La sede dell'istituto, attiva dal gennaio 1997, è dotata di attrezzature adeguate fra le quali 5 laboratori di cucina, 5 di sala e vendita, un’aula enologica, laboratori linguistici, informativi e di chimica e fisica. La scuola guidata dal dirigente scolastico Carla Maria Gatti opera in una realtà a forte vocazione turistica, per cui l'azione educativa è tesa all’incontro con le esigenze del contesto culturale, sociale ed economico locale senza dimenticare la dimensione europea grazie all’adesione come membro effettivo all'Aeht (l'associazione Europea delle Scuole Alberghiere e Turistiche).Nell’anno scolastico appena terminato 905 erano gli studenti, 745 non residenti nel comune di Cervia e 135 docenti. L’offerta formativa dell’istituto si compone di tre articolazioni: l’enogastronomia, i servizi di sala e vendita e l’accoglienza turistica. Al termine di un percorso di cinque anni viene rilasciato il diploma di Tecnico dei Servizi per l'Enogastronomia e l'Ospitalità Alberghiera. Al termine del terzo anno è possibile ottenere una qualifica regionale. Il Diplomato nell'indirizzo servizi per l'enogastronomia e l'ospitalità alberghiera possiede conoscenze e capacità nell'ambito dell'enogastronomia (arte del cucinare e arte e tecnica del servizio di sala e delle bevande) e dell'ospitalità alberghiera; si occupa dell’organizzazione, del funzionamento, della conduzione, del controllo dei servizi in cui opera.
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Esclusiva e chic, è la regina dello shopping in riviera. Dagli anni Sessanta i tanti volti dello stile a
Milano Marittima
L’impronta esclusiva ed elitaria delle origini, la luccicante vita notturna, la predilezione per i vip, l’imponente offerta ricettiva, hanno contribuito a caratterizzare Milano Marittima come località regina della costa romagnola. Se gli amanti della mondanità in riva al mare Adriatico trovano le formule vincenti del divertimento dopo il tramonto, il cuore pulsante dell’economia è la rete commerciale, votata al lusso e al glamour. Difficile stabilire se i facoltosi turisti di Milano Marittima abbiamo determinato il livello dell’offerta commerciale o se invece in virtù della ricercatezza di quest’ultima si sia verificata una scrematura verso l’alto. Sta di fatto che con gli anni Sessanta si apre una stagione fortunata che solo l’attuale crisi economica e il crollo dei consumi può intaccare. Ogni epoca produce i vip che si merita, e se un tempo in giro per la località si avvistavano Mina, Ornella Vanoni, Gino Paoli, Walter Chiari, scrittori, giornalisti, sportivi, oggi abbondano frotte di giovani presenze televisive e qualche calciatore per animare la movida. Nonostante i tempi, Milano Marittima, incolpevole, non ha mai cessato di offrire ai turisti un caleidoscopio di proposte per uno shopping mai banale. La vocazione internazionale per lungo tempo ha fatto sì che non mancassero stili e modelli di tendenza con un’offerta che si prolunga in estate alle ore serali e di fatto accompagna l’esercito dei tiratardi. Se si vuole definire la nascita di questo fenomeno simbolicamente si può scegliere il 1963, quando aprì Julian Fashion, il negozio che in assoluto ha segnato e insegnato la qualità nel vestire. Nei decenni ha mantenuto una forte identità, grazie alla presenza di due generazioni rappresentate da Anzia Alici e Sabina Zabberoni. Oggi la boutique di viale Matteotti con tre punti vendita propone i grandi brand della moda e come sempre seleziona le proposte di nuovi stilisti e di giovani emergenti. Il punto vendita dedicato alle donne
SHOPPING E DESIGN
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dispone di marchi come Ann Demeeulemester, Azedine Alaia, Missoni, Prada, Miu Miu e tante altre. Accessori di Caovilla, di Givency, Versace, Dolce & Gabbana. Gioielli di Mavvi, Marc by Marc, Tom Beens. Negli anni Sessanta anche la boutique Rossana, attirava la curiosità di turiste prese dalle serata al Pineta o al Woodpecker, proponendo raffinati capi di alta moda. Così nello spazio di poche centinaia di metri, fra viale Gramsci e viale Matteotti e la rotonda Primo Maggio, si concentrarono i negozi più esclusivi di abbigliamento, calzature, gioielli, sport e tanto altro e il passeggio si uniformò. Negli anni Settanta appaiono Il Papavero con proposte alternative ma abbordabili nei prezzi, e Susette, la boutique dell’intimo; arrivano Bentini pelletterie, Lo Scarparo di Mario Santerelli e le calzature Righi. Sono gli anni in cui rampolli di buona famiglia e i viver, con auto di lusso e giovani amiche, affollano il Caminetto ma anche il piano bar Cluny, aperto nel 1969 da Peppino e Luisa Manzi, in cui prima di andare al Pineta è d’obbligo una sosta da Zì Teresa o Da Pallino, e il gelato si gusta al Nuovo Fiore o alla Perla e più tardi allo Sporting e negli anni Ottanta all’Ottocento. Tutti locali che innervano il tessuto della località e che oggi in parte hanno lasciato spazio ad altre realtà imprenditoriali. Da Ravenna approdano Maria Cristina, Fango per le calzature, Space, e Nick&Sons per l’abbigliamento, i cardini del vestire cittadino con collezioni originali e proposte di stilisti affermati come Lanvin, Haider Ackermann, Decotiis e Alexander Wang. Un fenomeno estinto invece, che rimanda ad anni passati è quello delle aste serali di tappeti persiani, un appuntamento molto frequentato finché la moda ha messo ai margini questo complemento d’arredo. Proseguendo la ricognizione sullo shopping di Milano Marittima, esercizio che in nessun modo può essere esaustivo, nel tempo trovano posto, dagli anni Novanta i negozi monomarca. Impossibili citare tutti, sono moltissimi a partire dalla Boutique Borbonese, uno degli storici marchi del Made in Italy, griffe di borse, gioielli e accessori con la celebre stampa Occhio di Pernice. Si contano poi fra gli altri La-
La vocazione internazionale della località ha fatto sì che non mancassero stili e modelli di tendenza con un’offerta che si prolunga, in estate, nelleore serali
In alto, l’esterno del negozio Julian Fashion; sotto, un particolare dell’allestimento interno della boutique..
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In alto, la vetrina di Space; sopra, due scorci del concept store Tezuk.
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coste Boutique, Paul&Shark, Germano Zama, Liu Jo, Furla. Nel gruppo anche Douuod di via Corsica, per bambino e donna,con materiali eleganti, confortevoli per accostamenti liberi e facili da costruire grazie a linee, colori, finiture e dettagli originali. Oggi convivono tendenze e proposte diverse sempre mirate a un target dalle ampie disponibilità economiche e da uno spiccato gusto per ogni novità imposta dalla moda. Allora si trovano realtà come Francis, elegante abbigliamento uomo, sempre in viale Matteotti, con collezioni mare, abiti da sera, l'intimo, e altre come Made&Used di Riccardo e Giusy Carano. Dal 1993 Una vera jeanseria specializzata che, con una vastissima scelta delle migliori marche offre un capo di abbigliamento che vuole determinare anche uno stile di vita. Oltre al denim di tendenza si trovano altri tessuti, accessori e calzature di marchi come Jack & Jones, Fifty four, Take two, Surkana, Woodoo, Cream, reperibile anche nello store on line. Altri negozi ricercati e amati per la qualità delle loro proposte sono il punto vendita di Bray Steve Alan, Bear Store, Boutique Alessia, Resina, Jackie. Due tappe dell’abbigliamento giovanile sono rappresentate da Bolero Bijoux meta per le appassionate della Skull Mania e del Fluo, alla ricerca di monili, complementi d’arredo e orologi-bracciale gioiello. Stessa fascia d’età per le proposte di Muffin con le snakers tempestate di borchie. Come ovvio tante le gioiellerie che si affacciano sui viali da Guardigli, a Bartorelli, a Camporesi, Mafra o HD – Orologi e rarità, tappa obbligata per i collezionisti. Fra i negozi di calzature si ricordano inoltre Calzature Prati e Davide le Scarpe. Ultime in ordine di apparizione gli outlet di Julian e di Nick&Sons, molto apprezzati dai più giovani che trovano sconti tutto l’anno e il concept store Tezuk in viale Romagna. Presente a Marina di Ravenna e a Riccione, il negozio di Milano Marittima oltre ad offrire tutto per la spiaggia a partire dai costumi con il marchio dell’inconfondibile cuore trafitto propone anche il colorato spazio relax, Tezuk cafè.
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«Il buon dio abita nei particolari». 2 di Alberto Giorgio Cassani
«La bellezza è lo splendore del vero» Note su un edificio “miesiano” a Ravenna «L’architettura è la volontà dell’epoca concepita spazialmente» «Il carattere della nostra epoca deve rispecchiarsi nei nostri edifici» Ludwig Mies van der Rohe, 1923
In alto: Arch. Gabriele Zamboni, Edificio per Uffici (1978-1981), già sede dell’Autorità Portuale (foto dell’autore). Sopra: Ludwig Mies van der Rohe col modello della Crown Hall.
ESTETICA E ARCHITETTURE
Lo spirito dell’epoca «A volte le persone dicono “Come si sente se qualcuno La copia?” Io dico che non è un mio problema. Penso questa sia la ragione per cui stiamo lavorando, trovare qualcosa che tutti possano utilizzare. Speriamo solo che la usino nel modo giusto». Così Ludwig Mies van der Rohe – forse il maggior architetto del XX secolo, sicuramente quello che meglio ha interpretato, guardandolo dritto negli occhi, lo spirito della sua epoca, la stessa epoca in cui ancora noi viviamo, quella della Tecnica dispiegata1 e del potere dell’Economia sulla Politica2 – dichiarava in un’intervista rilasciata a John Peter nel 1955.3 Mies appartiene a quel terzo gruppo di architetti che, a differenza dei “conservatori” e degli “indecisi”, «accetta il nuovo mondo e lotta con gli strumenti nuovi. [...] Sperimenta [...] è svincolato e non sta al riparo delle convenzioni».4 Perché, come egli ha più volte sostenuto, «Il tempo nuovo è un dato di fatto; esso esiste indipendentemente dal fatto che noi lo accettiamo o lo rifiutiamo».5 Tra quelli che vi si sono ispirati «nel modo giusto», c’è anche Gabriele Zamboni, architetto bolognese che a Ravenna ha lasciato un’opera “miesiana”, che segna anche il suo esordio da professionista: un “Edificio per Uffici”, commissionato dalla Signora Maria Luisa Corticelli Bagnara di Bologna e dagli Eredi Mauro Belachi di Ravenna, più tardi sede dell’Autorità Portuale in via Magazzini Anteriori, ai civici 63 e 63 B. Vorrei qui occuparmene brevemente, forse per la prima volta.6
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A destra: Ludwig Mies van der Rohe, Crown Hall (1950-1956), I.I.T. Campus, Chicago.
Si tratta di un piccolo edificio in acciaio e vetro (e cemento nella zona a pianterreno) – «Cosa sarebbe il calcestruzzo, cosa l’acciaio, senza il vetro», afferma Mies nel 19337 – progettato nel 1978 e terminato nel 1981 – costruito adiacente a ciò che resta dei vecchi docks che prospettavano lungo il braccio, interrato dopo la seconda guerra mondiale, della Darsena. Attualmente l’edificio è malinconicamente inutilizzato, in progressivo decadimento e posto in vendita. La struttura portante del fabbricato ricalca quella del suo modello ispiratore, uno dei capolavori di Mies van der Rohe: la Crown Hall dell’I.I.T. (Illinois Institute of Tecnology) Campus di Chicago (1952-1956), che ospitava il College of Architecture, quello di Urban and Regional Planning, nonché l’Institute of Design (i maligni hanno insinuato che Mies l’avesse collocato nel “seminterrato” a causa del suo “scarso amore” per questa disciplina)8. In quest’edificio, oggi sede della sola School of Architecture, la grande sala in acciaio e vetro è sospesa a quattro portali metallici che permettono di eliminare completamente i pilastri dalla sala stessa, che diviene così un grande, unico volume libero. Lo stesso sistema sarà immaginato per il progetto, purtroppo mai realizzato, del Teatro nazionale di Mannheim (1952-1953). Qui sette portali, ancor più leggeri di quelli utilizzati nella Crown Hall, avrebbero retto l’enorme sala vetrata del Teatro.9
Il buon dio abita nei particolari Oltre che per le strutture, Mies è noto per lo studio dei dettagli. Il suo celeberrimo motto – Less is more, il meno è più – che ricorda una delle sentenze dell’oracolo di Delfi – meden agan, niente di troppo (il nihil nimis latino) – lo porta a “togliere”, anziché aggiungere, arrivando all’eliminazione del superfluo, ciò che per Mies esprime la parola “semplicità”: «La semplicità nel mio lavoro è l’eliminazione di ogni cosa che sia superficiale».10 Più volte l’architetto di Aachen è tornato sull’importanza del “dettaglio”: «Se Lei ha un’idea, perché non dovrebbe eseguirla con la massima accuratezza?»;11 «Quando ho un pensiero e provo a esprimerlo, vi lavoro, vi lavoro, e vi lavoro ancora»;12 «“L’architettura dipende dal proprio tempo, è la cristallizzazione della sua intima struttura”. Ho lavorato a que-
A sinistra: particolare del “capitello” dell’Edificio per Uffici (foto dell’autore) Sopra: Ludwig Mies van der Rohe, Padiglione tedesco (19281929; ricostruito nel 1986), Barcellona, dettaglio del pilastro. Sotto: Ludwig Mies van der Rohe, Neue Nationalgalerie (1962-1968), Berlino, dettaglio della testa del pilastro
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Collage di Italia Farina con l’articolo dedicato dal «Carlino» all’Edificio per Uffici e col biglietto di congratulazioni inviato all’Arch. Gabriele Zamboni dal Comm. Gino Guccerelli (Presidente e Direttore generale della Sarom Raffinazione), datato 14 luglio 1982.
NOTE 1.
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«Ogni cosa soccombe alla sua azione. Essa scioglie l’uomo dai suoi vincoli, lo rende più libero e ne diventa la grande soccorritrice, spezza l’isolamento dei luoghi geografici e supera le più grandi distanze. Il mondo si restringe sempre di più, diventa controllabile e viene indagato fino ai suoi recessi più remoti», Ludwig Mies van der Rohe, Die Voraussetzungen baukünstlerischen Schaffens, conferenza tenuta alla Staatliche Kunstbibliothek di Berlino alla fine di febbraio del 1928, trad. it.: Le premesse della creazione architettonica, in Ludwig Mies van der Rohe: Gli scritti e le parole, A cura di Vittorio Pizzigoni, Torino, Giulio Einaudi editore, 2010, pp. 5361: 56; «La tecnica segue le proprie leggi e non fa riferimento all’uomo», ibid., p. 58. «Quanto già prima della guerra la vita fosse legata all’economia, ci è apparso del tutto evidente soltanto nel periodo post-bellico. Ora esiste “soltanto” l’economia. Essa domina ogni cosa, la politica e la vita», Ludwig Mies van der Rohe, manoscritto per una conferenza, senza titolo, senza data, trad. it.: Il costruire è legato alla vita, ibid., pp. 28-38: 35. Ma si veda, per l’analisi delle due potenze alleate: «“Il traffico” aumenta sempre più. Il mondo si restringe sempre di più, diventa sempre più osservabile fino ai recessi più remoti. [...] “L’economia” inizia a dominare, tutto è al suo servizio. La redditività diventa la regola. La tecnica conduce ad un atteggia-
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sta frase per settimane»;13 «[...] lavoriamo sul tipo prescelto sino al più piccolo dettaglio [...]»;14 «Noi ci limitiano alle costruzioni che sono possibili in questo momento e cerchiamo di chiarirle in tutti i loro particolari»;15 «L’arte di costruire [baukunst] inizia dal modo “accurato” di mettere insieme due mattoni».16 Ma forse l’aforisma miesiano che meglio li sintetizza tutti è: «Qualsiasi cosa meno della perfezione è inaccettabile».17 Alla domanda del perché ripetesse «sempre gli stessi principî costruttivi, invece di sperimentare nuove possibilità», Mies aveva risposto: «Se si volesse inventare ogni giorno qualcosa, non si arriverebbe da nessuna parte. Inventare forme interessanti non costa niente,18 ma ci vuole molto per elaborare a fondo una cosa».19 In un’altra occasione aveva ironicamente scritto: «Naturalmente non è necessario né possibile inventare una nuova architettura ogni lunedì mattina».20 Nell’edificio di Zamboni, oltre ad una generale ispirazione miesiana, ci si sofferma, in particolare, su un dettaglio: la soluzione dell’attacco tra il sostegno verticale e la trave orizzontale. L’incontro tra i due elementi crea una sorta di moderno “capitello”, con base ad “H”, che può ricordare analoghe ricerche di Mies su elementi architettonici: il celeberrimo pilastro a croce, sperimentato per la prima volta del Padiglione tedesco all’Esposizione Internazionale di Barcellona del 1928-1929, ripreso nella casa Tugendhat a Brno (1928-1930) e rivisitato per il progetto del Bacardi Administration Building a Santiago de Cuba (1957-1960, non realizzato) nonché per la Neue Nationalgalerie di Berlino (1962-1968); o la soluzione d’angolo “rientrante”, utilizzata nel Chemistry Building (1945-1946, oggi Wishnick Hall) e nell’Alumni Memorial Hall (1952-1954) all’I.I.T. Campus di Chicago e reinterpretata anche nell’860/880 Lake Shore Drive Apartement Builings a Chicago (1948-1951), nonché, infine, nel Seagram Building, l’“archetipo” dei grattacieli newyorchesi (1954-1958).
mento economico, trasforma la materia in potenza, la quantità in qualità. “La tecnica” presuppone la conoscenza delle leggi della natura e opera con le loro forze. Viene consapevolmente indotto il massimo utilizzo della potenza. Ci troviamo alla svolta dei tempi», Wir stehen in der Wende der Zeit. Baukunst als Ausdruck geistiger Entscheidungen, in «Innendekoration», XXXIX, n° 6, giugno 1928, p. 262, trad. it.: Ci troviamo alla svolta dei tempi, ibid., p. 64. John Peter, Conversation with Mies, in Id., The Oral Histiry of Modern Architecture: Interviews with the Greatest Architects of the Rwentieth Century, New York, Harry N. Abrams, 1994, pp. 156-173, trad. it.: Il futuro dell’architettura, ibid., pp. 152-160: 154. L. Mies van der Rohe, Le premesse della creazione architettonica, cit., p. 59. Ludwig Mies van der Rohe, Die neue Zeit, in «Die Form», V, n° 15, I° August 1930, p. 406, trad. it.: Il tempo nuovo, ibid., pp. 70-71: 70. Desidero ringraziare Guido Ceroni, Direttore operativo dell’Autorità Portuale di Ravenna, per le tracce che mi ha indicato per ricostruire la storia dell’edificio; l’architetto Anna Maria Iannucci, già Soprintendente per i Beni Ambientali e Architettonici di Ravenna, per le fondamentali indicazioni che mi hanno permesso di risalire all’autore del progetto; e, soprattutto, per la sua cortesia, disponibilità e professionalità, il progettista dell’opera, l’architetto Gabriele Zamboni, che mi ha fornito, in tempi rapidissimi, le informazioni riguardo alla storia dell’edificio, una sua preziosa te-
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stimonianza scritta e tutte le tavole di progetto. L.M. van der Rohe, dattiloscritto, senza titolo, 1933, trad. it.: Cosa sarebbe il calcestruzzo, cosa l’acciaio, senza il vetro?, ibid., p. 79. «Noi non amiamo la parola design. Essa significa tutto e niente. Molti pensano di poter fare tutto: progettare un pettine e costruire una stazione ferroviaria. Il risultato: niente di buono», Christian Norberg-Schulz, Ein Gespräch mit Mies van der Rohe, in «Baukunst und Werkform», XI, n° 11, 1958, pp. 615-618, trad. it. parziale: Un colloquio con Mies, ibid., pp. 169-172: 169-170. Sui due progetti si vedano: Ludwig Mies van der Rohe, dattiloscritto, senza titolo e senza data, trad. it.: La Crown Hall, ibid., pp. 161162 e A proposed National Theatre, in «Arts & Architecture», LXX, n° 10, October 1953, pp. 17-19, trad. it.: Proposta di un Teatro nazionale, ibid., pp. 147-148. E. J. Thias, J. L. Thiess, Interview at Chicago Office, in «Architecture Mid-America», supplemento a «Construction Record», September 1958, trad. it.: Otto domande, ibid., p. 168. Student Talk with Mies, in «Student Publications of the School of Design», II, n° 3, Spring 1952, pp. 21-28, trad. it.: Sei studenti parlano con Mies, ibid., pp. 130-136: 134. Ibid., p. 135. Ibid. L. Mies van der Rohe, Un colloquio con Mies, cit., p. 169. Ibid., p. 170.
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La bellezza al tempo della povertà «Può sembrare strano discutere di architettura in senso artistico in un’epoca di grandi difficoltà economiche. Eppure vorrei utilizzare i pochi minuti che ho a disposizione per parlare di questo». Così iniziava un manoscritto, datato 17 agosto 1931, letto da Mies in occasione di un programma radiofonico.22 Strano, ma ancor più necessario. Infatti, prosegue il testo, l’«artistico» è «una ricchezza cui persino un’epoca materialmente povera non può rinunciare, anzi non deve mai rinunciare. Non vogliamo aggiungere alla perdita materiale anche una perdita culturale».23 Tema, quest’ultimo, oggi quanto mai attuale. Ma cosa intende Mies per “bellezza”? Su questo punto, oltre che su tutto il pensiero e l’opera dell’architetto tedesco, ha fatto definitiva chiarezza Massimo Cacciari in un suo magistrale testo esegetico. Bello, per Mies, significa (citando quell’Agostino platonizzante tanto caro all’architetto) «“Ordnung” – che in Mies traduce armonia – bella è l’opera che sta come immagine-alservizio della vita compiuta. Bello è kalòn: la sua radice indica un’idea di salute [...].
16. Ibid. Sull’importanza del mattone si veda questa riflessione di Mies: «Il mattone è un altro maestro di scuola. Quant’è ingegnosa questa piccola e maneggevole unità, com’è utile per ogni funzione. Quale logica mostra la sua commettitura, quale vivacità nei suoi giunti. Quale ricchezza possiede la più semplice superficie muraria, ma quale disciplina impone questo materiale», Mies van der Rohe’s Address, Delivered at Banquet held in his Honor, in «Armour Engineer and Alumnus», IV, n° 2, december 1938, pp. 19-24, trad. it.: Discorso inaugurale all’Armour Institute of Technology, ibid., pp. 92-96: 94. 17. Mildred E. Whitcomb, Only the Patient Count’s: Some Radical Ideas on Hospital Design by Mies van der Rohe, in «The Modern Hospital», LXIV, n° 3, 1945, pp. 65-67, trad. it.: Conta solo il paziente: Alcune idee radicali nella progettazione degli ospedali, ibid., pp. 113-118: 113. 18. Innumerevoli volte Mies è tornato sul tema del pericolo del “formalismo”: «Noi non riconosciamo alcun problema formale, bensì soltanto problemi costruttivi. / La forma non è il fine del nostro lavoro, bensì il risultato del nostro lavoro. / Non esiste alcuna forma in sé», Bauen, in «G», I, n° 2, september 1923, p. 1, trad. it.: Costruire, ibid., pp. 8-10: 8; «Spero voi capiate che l’architettura non ha nulla a che fare con l’invenzione di forme. Non è un parco giochi per bambini, piccoli o grandi che siano. / L’architettura è l’autentico campo di battaglia dello spirito. L’architettura ha scritto la storia delle epoche e ha dato alle epoche il
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loro nome. L’architettura dipende dal proprio tempo. È la cristallizzazione della sua intima struttura, il lento dispiegamento della sua forma», Architecture and Technology, in «Arts and Architecture», LXVII, n° 10, 1950, p. 30, trad. it.: Architettura e tecnologia, ibid., pp. 123-124 (Alberto Savinio scrive quasi specularmente: «L’architettura si specchia nel tempo» e «La faccia di ogni epoca si riflette nella propria architettura», Ascolto il tuo cuore città, Milano, Adelphi, 1984, p. 172); «In tutti questi anni ho imparato sempre di più che l’architettura non è un gioco di forme», Wohin gehen wir nun?, in «Bauen und Wohnen», XV, n° 11, novembre 1960, p. 391, trad. it.: Dove stiamo andando?, ibid., pp. 223-224: 223. L. Mies van der Rohe, Un colloquio con Mies, cit., p. 170. L. Mies van der Rohe, Wohin gehen wir nun?, cit., p. 223. Trad. it.: Neues Bauen, ibid., pp. 73-74: 73. Ibid., p. 74. «Niente esprime meglio il significato e il fine del nostro lavoro delle profonde parole di sant’Agostino: “Il bello è lo splendore del vero!”», Ludwig Mies van der Rohe, discorso tenuto il 2° novembre 1938, in Fritz Neumeyer, Mies van der Rohe: Das kunstlose Wort: Gedanken zur Baukunst, Berlin, Wolf Jobst Siedler Gmbh, 1986, trad. it.: Discorso inaugurale in qualità di direttore del dipartimento di Architettura presso l’Armour Institute of Technology, in Id., Ludwig Mies van der Rohe: Le architetture, gli scritti, a cura di Michele
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Caja e Mara De Benedetti, Milano, Skira, 1996, pp. 306-307: 307. Cito da questa traduzione, perché l’edizione degli scritti a cura di Vercelloni è incorsa in un refuso, confondendo san Tommaso con sant’Agostino. Si veda Ludwig Mies van der Rohe: Gli scritti e le parole, cit., p. 96. Massimo Cacciari, Res ædificatoria: Il «classico» di Mies van der Rohe, in «Paradosso», III, n° 9, 1994, pp. 23-39: 28. Cfr. ibid., pp. 28-29. Cfr. ibid., p. 29. Ibid., p. 27. Ludwig Mies van der Rohe, Schön und praktisch bauen! Schluß mit der kalten Zweckmäßigkeit, in «Duisburger General Anzeiger», 26 gennaio 1930, p. 2, trad. it.: Costruzioni belle e pratiche! Basta con la fredda funzionalità, ibid., pp. 67-68: 68. M. Cacciari, Res ædificatoria: Il «classico» di Mies van der Rohe, cit., p. 28. Ludwig Mies van der Rohe, Was wäre Beton, was Stahl ohne Spiegelglas?, manoscritto, 13 marzo 1933, in Fritz Neumeyer, Mies van der Rohe: Das kunstlose Wort: Gedanken zur Baukunst, Berlin, Wolf Jobst Siedler Gmbh, 1986, trad. it.: Che cosa sarebbe il calcestruzzo, che cosa l’acciaio senza il vetro?, in Id., Ludwig Mies van der Rohe: Le architetture, gli scritti, a cura di Michele Caja e Mara De Benedetti, Milano, Skira, 1996, pp. 304 e 306: 304. Ludwig Mies van der Rohe, La Crown Hall, in Ludwig Mies van der Rohe: Gli scritti e le parole, cit., pp. 161-162: 162.
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“Sano” è l’organismo che può stare, capace di resistere alla vita in quanto flusso di “modificazioni”, in quanto mero movimentum [...]. In questo senso preciso, si dovrebbe, anzi, dire che proprio il bello è “fine” di ogni téchne e dunque anche dell’architettura. Se il bello è “der Glanz des Wahren» [“lo Splendore del Vero”]24, l’opera bella non sarà che l’opera perfettamente in-formata dal Vero, e dunque salda sul suo presupposto, tale che nessuna moda, nessun movimentum potranno “ammalare”».25 A ribadire, con Mies, che la bellezza non è un gioco di forme.26 La bellezza, al contrario, per Mies, Cacciari ce lo insegna, è, platonicamente, anamnesi-mimesis del Vero.27 Bauerei – il costruire nel significato miesiano – è «porre-in-immagine [...] la verità, il necessario».28 Lo stesso Mies ci aveva dato buoni indizi: «E che cos’è in fin dei conti la bellezza? Certamente nulla che possa essere calcolato o misurato. Invece è sempre qualcosa di imponderabile, qualcosa che si trova in mezzo alle cose».29 Ecco perché la bellezza di Mies non ha nulla a che fare con la bellezza come «“Zwecksetzung”,30 come razionalità rivolta allo scopo», propria dell’estetica della Neue Sachlichkeit, del Funzionalismo, della mera “apologia” del Presente. Come raggiungere questa “bellezza”? Attraverso «La semplicità della costruzione, la chiarezza dei mezzi architettonici e la purezza dei materiali» che «conservano lo splendore della bellezza originaria».31 Nella pagina precedente, in alto: Arch. Gabriele Zamboni, Disegno di progetto del Palazzo per Uffici, pianta del pianterreno. Nella pagina precedente, sotto: Arch. Gabriele Zamboni, Disegno di progetto del Palazzo per Uffici, pianta del primo e del secondo piano. In questa pagina, dall’alto: Arch. Gabriele Zamboni, Disegno di progetto del Palazzo per Uffici, fronte ovest. Arch. Gabriele Zamboni, Disegno di progetto del Palazzo per Uffici, fronte est. Arch. Gabriele Zamboni, Disegno di progetto del Palazzo per Uffici, fronte nord e sezione est-ovest.
ESTETICA E ARCHITETTURE
Casa di idee e avventure Durante la cerimonia d’inaugurazione della Crown Hall, nel 1956, Mies affermò: «Lasciate che questo edificio divenga la casa di idee e avventure».32 L’ex sede dell’Autorità Portuale non lo è tristemente più. Speriamo che, nella nuova Darsena, possa tornare ad esserlo.
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appendice Il progetto del “Palazzo per uffici” mi fu affidato per un caso. Seguivo allora – 1977, ero laureato da poco (ottobre 1976) – la ristrutturazione dello Zuccherificio di Russi e Mezzano dell’Eridania. Dovendo far approvare una variante al P.R.G., andai in Comune a Ravenna e, nel momento che varcai l’ingresso, incontrai il mio Professore di Scienza della Costruzioni che usciva inviperito. Mi disse che da tempo continuava a presentare un progetto su via Magazzini Anteriori, ma che inesorabilmente veniva bocciato: «… qui non capiscono niente!», mi disse. Ormai stanco e deluso, mi propose di sostituirlo in quanto non ne voleva più sapere; mi avrebbe presentato i proprietari, abbandonando completamente l’incarico. Prima di accettare in maniera definitiva, pensai di chiedere all’arch. Gatti (allora Assessore all’urbanistica) se “sotto” c’era qualcosa che riguardasse la politica od altro, considerando le continue bocciature del progetto. Gatti fu molto chiaro e mi fece vedere i progetti presentati. Capii immediatamente qual era la questione. Il mio Professore era bravissimo, le sue lezioni di Scienza delle Costruzioni affascinavano, riusciva a far diventar semplici anche i concetti più difficili, ma come progettista era un po’ diverso: continuava a presentare un edificio rettangolare in muratura con finestre una di seguito all’altra ricopiando (male) i Magazzini del Morigia. Ricevuto definitivamente l’incarico, pensai di progettare un edificio in acciaio in netto contrasto con quello in aderenza, anche perché (in quel periodo) a Ravenna nulla era stato ancora fatto con questo materiale. Devo aggiungere che allora, appena uscito dalla scuola dell’architetto Roberto Evangelisti – dove ho lavorato per tutto il periodo universitario –, avevo imparato ad apprezzare l’architettura di Mies van der Rohe di cui Evangelisti era grande estimatore. Proprio su di lui, a noi “ragazzi di studio”, teneva delle vere lezioni di architettura trasmettendoci la sua stessa passione; oltre a tutte le cose apprese, devo riconoscere all’architetto Evangelisti che, con l’esempio, seppe educarci nel comportamento della nostra successiva attività professionale. Strutturalmente il fabbricato è molto semplice: dai pilastri cruciformi al piano terra (IPE incrociate), s’innalzano, dal primo solaio (dove terminano i cruciformi), dei profilati di acciaio HEM 260 in vista che, giunti all’altezza della copertura, portano orizzontalmente delle travi (sempre di acciaio) alte ml. 2,00. Queste, oltre ad irrigidire tutta la struttura, servono a sostenere i due solai interni e quello di copertura per mezzo di tiranti rigidi (profili di acciaio HEM 100), in modo che la “scatola” di vetro (volume uffici) risulta appesa e non in appoggio: questo è il machiavello! Il blocco scale in aderenza al Morigia e l’opposto blocco servizi igienici sono in calcestruzzo e fungono da controventatura. Come si può notare, ho rispettato l’edificio dei vecchi magazzini, con una “fuga” di stacco in modo da svincolare il nuovo complesso con la preesistenza. Una curiosità: i pilastri al piano terra li avevo progettati a forma di svastica ruotata di 45°; ciò dava un effetto particolare per il gioco di “ombre” che si venivano a formare, ma all’ultimo li sostituii con i cruciformi esistenti. Chissà cosa si sarebbe potuto pensare... Il progetto fu approvato alla prima seduta della Commissione Edilizia e il mio Professore, quando lo venne a sapere, ci rimase un po’ male. I proprietari, ottenuta la Concessione, vendettero il terreno ed il progetto all’A.C.M.A.R. che eseguì anche il lavoro e con i quali ho continuato a collaborare per diversi anni. Ho continuato fino a pochi anni fa ad avere rapporti con una delle proprietà Signor Mauro Belachi, grande appassionato del “ferro” per la sua leggerezza e duttilità; con il Signor Bagnara (gentiluomo d’altri tempi), i contatti si sono esauriti poco tempo dopo la vendita del terreno e del progetto all’A.C.M.A.R. Arch. Gabriele Zamboni
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Giù le mani dai beni comuni
Note a margine di un convegno sulla TAV di Marina Mannucci
Recentemente il concetto di “bene comune” è diventato molto popolare. Spesso, però, la sua definizione è confusa e ambigua: esistono, infatti, diverse interpretazioni relative ai beni comuni con diverse connotazioni e significati, alcuni vicini e altri distanti o addirittura contrastanti tra loro. La questione definitoria non è superficiale perché ha conseguenze politiche e, quindi, delle importanti conseguenze pratiche. Gregorio Arena, docente di Diritto Amministrativo alla Facoltà di Economia dell’Università degli Studi di Trento e presidente dell’associazione LABSUS (Laboratorio Sussidiarietà), definisce i beni comuni come quei beni che, se arricchiti, arricchiscono tutti e, se impoveriti e sovra-sfruttati, impoveriscono tutti. Ricorda, inoltre, che il Codice Civile definisce beni le cose che possono formare oggetto di diritti; i beni comuni, non essendo però né pubblici, né privati, non possono essere oggetto degli stessi diritti di cui sono oggetto i beni, tantomeno possono venire sottoposti al diritto di proprietà, inteso come il diritto di usare ed abusare, secondo la classica dottrina del diritto romano. Possiamo quindi dire che i beni comuni possono essere oggetto di diritti, non di proprietà, ma di “custodia”, sia da parte di soggetti privati che pubblici. In questo senso siamo tutti titolari del diritto di custodia nei confronti dei beni comuni, ma il proprietario è l’Umanità, presente e futura. Le analisi che in ambito economico sono state condotte dal premio Nobel per l’economia Elinor Ostrom sono un importante contributo e divergono dai significati che danno al bene comune buona parte dei filosofi e gran parte dei giuristi – in particolare in Italia, dove la nozione di bene comune è stata introdotta e trattata principalmente dagli studiosi delle leggi, mentre non è ancora molto accettata dagli economisti. La confusione definitoria è tanto più grave dal momento che, per dirla con le parole del giurista Stefano Rodotà, «se la categoria dei beni comuni rimane nebulosa, e in essa si include tutto e il contrario di tutto, se ad essa viene affidata una sorta di palingenesi sociale, allora può ben accadere che perda la capacità di individuare proprio le situazioni nelle quali la qualità “comune” di un bene può sprigionare tutta la sua forza». Fino a una ventina di anni fa, le pubblicazioni dedicate a questo problema erano molto limitate; l’origine del dibattito sui beni comuni si può far risalite all’articolo del 1911 di Katherine Coman, Some Unsettled Problems of Irrigation, pubblicato sull’«American Economic Re-
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view»; seguito, a più di cinquant’anni di distanza (1968), dall’articolo The Tragedy of Commons del biologo Garrett Hardin, in cui, per la prima volta, emerse il dilemma tra l’interesse personale e l’utilità collettiva. Poi la svolta: nel 2009 Elinor Ostrom viene insignita del Premio Nobel per l’economia per l’analisi della governance, e in particolare proprio delle risorse e dei beni comuni, pubblicata dopo diversi anni di studi e ricerche nel libro The evolutions of institutions for collective actions (Governare i beni collettivi, Marsilio, 2006). In esso la Ostrom si pone il problema fondamentale di come un gruppo di soggetti, nel testo definiti “principals”, interdipendenti tra di loro, possano auto-organizzarsi e auto-governarsi al fine di ottenere benefici collettivi di lungo periodo, superando la tentazione di comportamenti free-riding e, più in generale, di tipo opportunistico. La domanda a cui la Ostrom ha cercato di trovare risposta riguarda la gestione delle risorse naturali e dei beni comuni e, più in particolare, su come garantire la loro sostenibilità economica di lungo periodo. Per far questo affronta i due approcci che negli ultimi anni hanno maggiormente influenzato il dibattito: la privatizzazione contro la gestione statale delle risorse, evidenziando una terza via legata all’autogoverno. Questa si concreta nella definizione di istituzioni nuove, appositamente create e governate direttamente dagli stessi cittadini, aventi il compito di gestire i cosiddetti commons. Anche in Italia, studiosi come Riccardo Petrella, Giovanna Ricoveri, Paolo Cacciari, Wolfgang Sachs, Tonino Perna, Bruno Amoroso, Gianni Taminio e movimenti come quelli per l’acqua pubblica, per la terra ai contadini, contro il consumo di suolo, per la difesa del territorio, hanno avviato ricerche attorno ai beni comuni materiali e immateriali per impostare nuove relazioni sociali. Un tema che si intreccia con la storia dell’umanità segnata dall’uso del potere per espropriare le masse e appropriarsi delle risorse naturali, in tutte le parti del mondo e in tutte le epoche fino ad arrivare alla Rivoluzione industriale che ha segnato la storia e il destino del mondo intero. Attualmente la sostenibilità locale pone questioni che non sono risolvibili ricorrendo solo al tradizionale apparato amministrativo e gestionale. In Italia, nell’ultimo decennio, molti enti hanno sperimentato politiche di sostenibilità, ma questo patrimonio di conoscenze non si è ancora strutturato in una vera e propria disciplina.
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L’alta velocità Bologna-Firenze e quanto successo al Mugello costituiscono l’esempio più eclatante di una pessima gestione dei beni comuni. Non servono sismografi – ci dice Paolo Rumiz in un suo articolo del 2009 – per capire dove passa il tunnel tra Bologna e Firenze. Basta seguire una traccia di foreste rinsecchite, alvei vuoti, macerie. Persino i cinghiali rifiutano di vivere lassù. Sopra la “grande opera” esiste una scia di “grandi disastri” che la segnala fedelmente. Il peggio è il sistema idrico distrutto: per ripagarlo non basterebbe una mezza finanziaria. Per 22 minuti di viaggio in meno sono del tutto spariti (o quasi) 81 torrenti, 37 sorgenti, 30 pozzi, 5 acquedotti: in tutto 100 chilometri di corsi d’acqua. A Ravenna, il 16 maggio, grazie all’incontro pubblico alla sala D’Attorre di Casa Melandri “La Val di Susa a Ravenna No Tav”, organizzato dal comitato Dopolundiciottobre, Legambiente Ravenna e Associazione naturista ravennate, introdotto da Ivano Mazzani e al quale sono intervenuti l’esperto di appalti pubblici Ivan Cicconi, Claudio Cancelli del Politecnico di Torino e l’attivista No Tav Luigi Robaldo, la cittadinanza ha avuto l’opportunità di approfondire la questione riguardo i cantieri Tav Torino-Lione. In questa circostanza ho potuto parlare personalmente con i relatori. Quello che risalta di questo movimento è la forza spontanea di donne, uomini e adolescenti contro l’idea di sacrificare la loro vita a un’enorme ed inutile piattaforma logistica per il traffico merci e di fare del loro territorio uno “spazio di flussi” aperti. Un’opposizione, mi spiega Luigi Robaldo, al carattere distruttivo di un certo “sviluppo” che usa solo le parole guadagno e perdita senza dare più valore al lavoro operaio, alle piccole imprese, disgregando quindi anche nelle fondamenta la composizione del lavoro. La Val di Susa rischia di diventare l’estensione di una metropoli in ristrutturazione e di un’area densamente infrastrutturata. Il movimento NoTav sta cercando di affrontare la nuova valenza territoriale tra spazio dei flussi globali e mercificati e luoghi della vita sociale e lo sta facendo con un percorso di mobilitazione non tradizionale. La risorsa principale della mobilitazione è legata al fatto che deve difendere, appunto, dei beni comuni. «L’idea che dà forza al movimento – aggiunge Luigi Robaldo – è che territorio, salute, mobilità, potere di decidere, saperi critici, vanno contrapposti come limite alla voracità del mercato e contro la sua privatizzazione. Ed è proprio qui che va indicata quella sottile linea di confine tra un bene “pubblico”, che può sempre essere separato da chi lo produce e dunque privatizzato anche se in forme statali istituzionalizzate, e un bene effettivamente “comune”». E a proposito di Tav, il 30 dicembre 2005 sul «Venerdì di Repubblica» Giorgio Bocca scriveva: «Se vi sento dire che la Tav, l’alta velocità, è indispensabile, necessaria al progresso, tiro su dal pozzo il Thompson che ci ho lasciato dalla guerra partigiana... Il progresso! Se vi capita di percorrere la Pianura Padana che ha fama di essere luogo più ricco e civile d’Italia, date un’occhiata ai paesi e alle città. Qua e là riuscite ancora a vedere un campanile, ma il resto è urbanistica informe, una metastasi di casoni e casette venuti a slavina senza un piano regolatore, di materiali scadenti, di forme informi collegati da autostrade che si vergognano di essere così brutte e si nascondono dietro i tabelloni di vetrocemento o di plastica». Per avere un quadro preciso delle ragioni per le quali l’alta velocità Torino-Lione è inutile e di cosa si nasconda dietro l’insistenza dello Stato nel voler realizzare l’opera a tutti i costi consiglio un’attenta lettura delle pubblicazioni e relazioni di Ivan Cicconi, ingegnere, esperto in infrastrutture e lavori pubblici. Nella sua attività ultradecennale è stato capo della segreteria tecnica del Ministro dei Lavori Pubblici nella XIII legislatura, membro del Cda dell’Anas, professore a contratto all’Università
Sopra: la fontana in piazza del Popolo a Ravenna: l’acqua, un bene comune (foto di Alberto Giorgio Cassani). A sinistra: la Val di Susa
La Sapienza di Roma, al Politecnico di Torino e alla LUISS di Roma. Ha svolto attività di ricerca per il Cnr, per l’Enea e per il Cnel. Autore di numerosi saggi, è uno dei quattro redattori della lettera inviata al Presidente del Consiglio Mario Monti contro la Tav in Val di Susa, sottoscritta do oltre trecento autorevoli esponenti del mondo tecnico-scientifico italiano. Il lavoro di Ivan Ciccone obbliga ad un viaggio inquietante tra aziende partecipate, project financing, esternalizzazioni. Il libro nero dell’alta velocità, ovvero Il Futuro di Tangentopoli diventato storia (Koinè Nuove Edizioni, 2011) indaga una realtà quasi sconosciuta in cui si parla di Tav, ma in cui, in primo piano, non sono solo i disastri ambientali causati da un’opera inutile e costosissima, ma soprattutto l’architettura contrattuale e finanziaria con la quale è stata realizzata l’alta velocità. Un modo di operare codificato e normato, che ormai viene applicato alla realizzazione di qualsiasi altra opera pubblica. Con la scusa di abbassarne i costi e migliorarne la qualità, si è giunti alla privatizzazione della gestione dei servizi pubblici. Altro problema collegato al modello Tav è il ricorso ai privati per realizzare un’opera qualora non ci fossero risorse da parte degli enti pubblici, tramite il cosiddetto “project financing”. Alla presentazione del progetto Tav, si era sostenuto che il 60% dell’opera doveva essere finanziato dai privati. In realtà si trattava semplicemente di prestiti attivati da
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Sopra: Baita (con casetta sull’albero) inglobata all’interno della recinzione del cantiere TAV-Val di Susa. A destra: particolare del filo spinato che preclude l’accesso al cantiere TAV-Val di Susa (foto di Andrea Pia).
una società di diritto privato che venivano garantiti dal socio di maggioranza relativa all’epoca, divenuto socio unico a partire dal 1997: Ferrovie dello Stato. Erano quindi prestiti garantiti dall’amministratore delegato di Fs e dal socio unico di questa società: il Ministero del Tesoro. In sostanza i privati prestavano soldi alle esangui casse statali per realizzare un’opera, non contribuendo però neanche in minima parte alla sua edificazione, anche se i mezzi di informazioni ne parlavano come il frutto della collaborazione tra pubblico e mercato. Motivo di questo operare, il tentativo di derogare al patto di stabilità europeo. La contabilità di una società di diritto privato non viene infatti calcolata nell’ammontare del debito pubblico nazionale. Un altro aspetto riguarda l’approvazione nel 2001 della cosiddetta “Legge Obiettivo”, concernente la possibilità di realizzare grandi opere in deroga alla normativa europea con lo scopo di accelerarne la realizzazione e di coinvolgere i privati. Veniva così modificato un articolo della legge quadro “Merloni” sui lavori pubblici, con la quale l’Italia aveva recepito nel 1994 le direttive europee sugli appalti pubblici, accettando le definizioni date a livello comunitario di due tipici istituti contrattuali: il contratto d’appalto e il contratto di concessione. Nel primo caso il committente affidava la realizzazione di un’opera ad un’impresa, pagando l’intero importo dell’attività svolta da quest’ultima. Nel contratto di concessione, invece, il corrispettivo dato dal committente
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(pubblico in questo caso) non era monetario, ma consisteva nel diritto di gestire l’opera per un periodo temporale stabilito, che non poteva comunque superare i 30 anni. In questo caso la gestione dell’opera poteva essere accompagnata da un corrispettivo in denaro rilasciato in un secondo tempo dall’ente appaltante; così si prevedeva l’ipotesi in cui la gestione non fosse sufficientemente remunerativa da permettere di recuperare l’investimento iniziale nel lasso di tempo predefinito. Si stabiliva inoltre che questo accompagnamento non potesse arrivare a coprire più del 50% del costo totale dell’opera. Nel 2001 venivano modificati entrambi gli aspetti quantitativi della legge: il suddetto 50% e il limite dei 30 anni nella durata della concessione. Due norme ragionevoli, in quanto perde di senso il fatto che l’accompagnamento, in quanto tale, superi la metà dell’investimento totale; ed inoltre qualunque previsione di mercato fatta in un lasso di tempo superiore ai 30 anni non ha alcuna attendibilità. Altro punto affrontato dall’ingegner Ciccone riguarda le trasformazioni prodotte nel mondo del lavoro dall’appalto. L’appalto è diventato lo strumento fondamentale di organizzazione delle imprese, l’elemento irrinunciabile per l’iper-flessibilità del mercato. In caso di crisi economica viene infatti tagliato il contratto di appalto, cosa molto più semplice che licenziare migliaia di lavoratori con contratto a tempo indeterminato. L’appalto ha quindi allontanato il capitale dal lavoro ed ha fatto diminuire la capacità delle maestranze di rivendicare diritti e salari migliori. Anche Claudio Cancelli, docente al Politecnico di Torino,
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«È tempo [...] di abbandonare la monetizzazione dei beni comuni pubblici e di reinventare sistemi basati sul principio di gratuità partendo da forme organizzate a livello locale (da qui l’importanza dell’economia di prossimità, dei circuiti corti) fino al livello mondiale (attraverso forme di transnazionalità e di transterritorialità che restano da immaginare, definire ed implementare)» Riccardo Petrella
consulente tecnico della Comunità Montana Bassa Valle Susa per l’Alta Velocità, coautore del libro Alta velocità. Valutazione economica, tecnologica e ambientale del progetto ed autore di Breve storia dell’Alta velocità, è del parere che i progetti AV rappresentano un investimento conveniente solo quando collegano città di centinaia di migliaia o milioni di abitanti (Tokyo, Osaka, Parigi, Lione ecc.) distanti 300-500 km e separate da pianure scarsamente antropizzate: il numero di passeggeri, per non andare in perdita, non deve scendere al di sotto di 40.000-50.000 al giorno. In Val di Susa il numero massimo ipotizzabile in caso di sfrenato pendolarismo potrà raggiungere a stento 6.000-7.000 passeggeri al giorno. Interessanti le ricerche di Claudio Cancelli sul ruolo delle società di diritto privato a capitale interamente pubblico nella crisi attuale, sulla politica mista pubblico-privato delle infrastrutture, sul sistema degli appalti come vettore di trasformazione postfordista del lavoro, sulla governance territoriale dei partiti che (s)travolge e mette in crisi la democrazia rappresentativa sostituendola con una rete di interessi strutturalmente “corrotta” ancorché in forme “legali”, inedite, meno visibili. Il tema, insomma, della finanziarizzazione delle vite – “via” grandi opere – che, nel mentre permette l’espropriazione privatistica dei beni comuni, rovescia sulla vita di tutti/e il rischio e i costi. Dunque, non solo un’opera inutile, il Tav, in termini di costi-benefici, ma rovinosa, perché frantuma le relazioni sociali e mina la possibilità stessa di un agire in comune. Per concludere direi che è evidente che i beni comuni subiscono attacchi diretti, e sono sottoposti ad un consumo compulsivo avulso dal senso di responsabilità, che invece dovrebbe proteggerli e valorizzarli in funzione della loro natura di beni comuni ed una loro buona gestione è doverosa ma difficile. Al Festival dell’Economia 2012 di Trento, Christian Felber, docente di Economia all’Università di Vienna, ha presentato il suo ultimo libro: L’Economia del bene comune (Gemeinwohl-Ökonomie). Nel 2010, Felber ha varato il progetto della “banca democratica”, sempre nel 2010 la rivista «Lebensart» lo ha eletto “Creatore sostenibile 2010”, mentre l’associazione Public Relations Austria lo ha indicato come “Comunicatore dell’anno 2010”. L’assunto «La dignità dell’uomo è la dignità della terra e quindi dobbiamo dignità all’uomo e alla terra» è servito a Felber per costruire la sua visione del mondo e dell’economia con l’obiettivo di creare un movimento in grado di incidere sul sistema economico. I principi base non sono esclusivamente la massimizzazione del profitto e della concorrenza, ma anche, e soprattutto, il benessere comune di tutti i lavoratori all’interno dell’azienda, il coinvolgimento attivo e costruttivo di tutti nel raggiungimento degli obiettivi d’impresa, il rispetto
dei ruoli, la cura per la formazione continua dei dipendenti e le loro esigenze personali uniti al concetto di rispetto per l’ambiente e sostenibilità in senso lato. Sintetizzando: la persona è al centro di tutto. Potrebbe sembrare un qualcosa di astratto, utopistico e di difficile realizzazione, ma, statistiche alla mano, questa filosofia d’azienda ha permesso di aumentare la produttività di ben il 30%. Questo movimento ha preso piede, oltre che in Austria, anche in Spagna, Germania e in Italia, in Alto Adige per la precisione: l’atto formale di adesione al movimento è la presentazione del bilancio del bene comune. L’imprenditore della provincia di Bolzano, Harald Palla, Amministratore della Elas srl, un’azienda attiva nel settore della consulenza del lavoro, dell’organizzazione aziendale e della formazione, da un paio di anni ha avviato questo processo di gestione aziendale. La Elas srl, è risultata vincitrice, nell’edizione 2011, del premio “Miglior Posto di lavoro in Alto Adige” nella categoria imprese dai 20 ai 50 dipendenti. Sono circa una ventina le ditte della zona che hanno aderito al progetto, tra cui imprese edili, alberghi, piccole e medie aziende operanti nei servizi e nel commercio. In alta Val Venosta anche i comuni vogliono creare un loro gruppo; si allarga il raggio d’azione anche alla pubblica amministrazione. Ed allora io mi auguro che anche le imprese del nostro territorio comincino a sensibilizzarsi ad un’Economia del bene comune per promuovere un cambiamento radicale a livello economico, sociale, civile e politico; ridefinendo le linee del fare economia e la valutazione del successo economico in base a valori orientati al bene comune.
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Concorsi pubblici di architettura Le regole, il merito, i giovani Cara redazione di Trovacasa, vi scrivo attraverso questa lettera aperta qualche riflessione che riguarda il ruolo dei concorsi pubblici di architettura, del merito e dei giovani, nella nostra amata città. Innanzitutto voglio fare alcune considerazioni sull’uso dei concorsi di architettura che anche le nostre amministrazioni hanno negli ultimi anni messo in atto, mi riferisco non solo a Ravenna ma anche più ai piccoli comuni del comprensorio. Mi preme segnalare un atteggiamento di deriva culturale e comportamentale diffuso nell’intero paese. Questo non ne legittima il comportamento, ma al contrario dovrebbe stimolare il tentativo di porvi rimedio. Le società civili si sono dotate dell’istituto del concorso pubblico per la realizzazione delle maggiori opere pubbliche e non. Questo semplice quanto giusto istituto prevede che, dato un tema, chi ne ha facoltà faccia il proprio progetto partecipando ad un bando di evidenza pubblica, in modo tale che la collettività sia messa nella condizione di dotarsi dell’ideazione più meritevole, in quanto giudicata e selezionata da una giuria di esperti competenti. Questo semplice meccanismo da una parte offre trasparenza e democratica partecipazione, dall’altra stimola il merito, selezionandolo tra i molteplici partecipanti. Ora è opportuno un piccolo distinguo tra “gara” e “concorso”. La prima si incarica di individuare per un determinato argomento la migliore risposta in termini prestazionali per la collettività; questo si esplica principalmente in garanzie tecniche e miglior prezzo. Nel concorso, che riguardi un’opera di architettura invece, il
NORME E PROFESSIONI
primo elemento di valutazione dovrebbe essere, oltre alle ovvie garanzie tecniche, il valore estetico, compositivo e sociale che l’opera verrà ad assumere per la comunità. Faccio un esempio: è evidente che per l’ampliamento del Louvre di Parigi all’epoca furono molte le proposte tecnicamente valide , ma l’idea di scavare sotto la piazza segnando il nuovo ingresso con una piramide di vetro ha dato un valore estetico, compositivo e sociale all’intervento di carattere universale, e l’esito è che l’opera ha ottenuto fama mondiale. Detto ciò credo che si stia perdendo il senso e il valore della qualità architetto-
nica che un opera deve possedere, perché ciò è sempre e con maggiore frequenza ormai scambiato con il dato economico prestazionale che questo deve soddisfare. Il fatto che un edificio debba essere realizzato con attenzione al risparmio energetico, e i suoi materiali debbano essere il più possibile biocompatibili, è un dato di partenza, che do ormai per scontato; questa però non è qualità architettonica, è un parametro funzionale, necessario ma non sufficiente. Non basta dire che un edificio è in classe energetica elevata, per determinare che tale edificio è di qualità architettonica. Un altro criterio utilizzato e addirittura di-
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A fianco, la tavola “riassuntiva” del percorso progettuale che ha definito l’intervento di riqualificazione (da parte degli uffici comunali) dell’area di piazza Kennedy. Alle origini del progetto definitivo c’è un “concorso di idee” bandito dal Comune nel 2010
In una lettera aperta le riflessioni dell’achitetto Emilio Rambelli di Nuovostudio di Ravenna
scriminatorio sulla possibilità di partecipare, a mio avviso sconcertante, è quello del dover dimostrare di avere fatto un opera simile a quella di concorso e possedere un fatturato annuo adeguato, pena l’esclusione. Non mi reputo più tanto giovane ormai, ma cosi facendo tutti i giovani professionisti che possono avere buone idee e soprattutto voglia di creare e partecipare sono esclusi da ogni concorso così concepito, e purtroppo vi posso assicurare che oramai la gran parte dei bandi è cosi fatta. È importante in questa fase storica creare occasioni per i giovani, stimolare nuove idee, fermento e progresso culturale.
Purtroppo questa deriva tecnica/prestazionale invece sta danneggiando profondamente la nostra società e la gestione dei concorsi di opere significative per la nostra città. Inoltre, le commissioni giudicatrici, che in precedenza erano composte perlopiù da progettisti di alto profilo curricolare (soprattutto compositivo), sono state sostituite nel tempo da tecnici, la cui preparazione il più delle volte è limitata e “specialistica”, appunto tecnico/prestazionale. Ma qui non si tratta di appaltare un pezzo di condotta fognaria o un sottopasso; stiamo parlando di opere che dovranno dare una nuova fisionomia architettonica
e sociale alla città e che resteranno a testimonianza del nostro tempo nel futuro, e che se ben ideate e realizzate genereranno profitti e volano economico, culturale, sociale di per se e per chi le vive. Negli ultimi anni si sono banditi troppi concorsi con tali distorsioni, e gli esiti sono sotto i nostri occhi. Abbiamo bisogno di valorizzare il merito, di scovare i nostri migliori talenti, e soprattutto sollecitare ed accogliere la progettualità dei più giovani, che sono il nostro futuro e hanno anche bisogno di costruirsi il loro di futuro. Emilio Rambelli Nuovostudio - Ravenna
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AZIENDE INFORMANO
Quel borgo dove l’energia non costa L’innovativo progetto abitativo a impatto zero, a Solarolo
Case che non consumano gas, che producono l’energia elettrica di cui hanno bisogno per far funzionare le pompe di calore che permettono di riscaldare e raffrescare ogni piano e il sistema di ventilazione meccanica controllata che garantisce un ricambio costante d'aria pulita senza disperdere il calore accumulato all'interno. Non stiamo parlando di abitazioni del Trentino Alto Adige, ma di un piccolo borgo a ridosso delle mura storiche di Solarolo, nato dalla riqualificazione di uno stabilimento artigianale e costruito secondo i più moderni standard di efficienza energetica. Si chiama Borgo Morandi ed è la sfida imprenditoriale della famiglia Naldi che dopo aver fatto la storia del tessile all’insegna della qualità, ha riconvertito i propri impianti produttivi in un investimento residenziale che, ci dice il giovane ingegnere edile Francesco Naldi, figlio di Claudio, «non poteva che essere anch’essa all’insegna della qualità, vista la storia di mio padre e, prima di lui, di mio nonno». E così, ecco che nasce un borgo con la certificazione Casaclima, uno dei massimi esperti in Italia di edilizia sostenibile, nel cuore della Romagna. Diciotto appartamenti distribuiti in cinque palazzine progettati per affrontare le nuove sfide del pianeta: nessun consumo di territorio, nessun consumo di energie fossili, nessuna emissione di CO2. Il tutto a prezzi assolutamente competitivi, per sfatare anche l’ultimo mito: che la sostenibilità costi. «In realtà – spiega Naldi – il vero lusso è lo spreco di risorse. Noi, proprio per poter contenere i prezzi, abbiamo cercato innanzitutto di progettare utilizzando quelli che in gergo vengono chiamati “requisiti passivi”, ovvero accorgimenti a costo zero che contribuiscono a ridurre il consumo energetico, come il buon orientamento solare e la forma compatta degli edifici. Il metodo di lavoro utilizzato è stato quello della progettazione integrata che ha coin-
TECNOLOGIE E SERVIZI
volto tutti, dai tecnici alle imprese esecutrici dei lavori. Nelle case poi ci sono accorgimenti come il controllo della temperatura autonomo in ogni vano». Il risultato? Appartamenti che hanno ottenuto la certificazione A+ e che hanno dato risultati di risparmio energetico superiori alle aspettative. E dove la mansarda, vera chicca di queste abitazioni cielo-terra da cui si gode la suggestiva vista della campagna circostante, non solo è calda d’inverno, ma anche fresca d’estate. «Un nostro appartamento garantisce un risparmio annuo netto di 1.350 euro rispetto a un’abitazione tradizionale di pari metratura tra mancati consumi e cessione alla rete dell’energia prodotta con i pannelli fotovoltaici». Ma come stanno reagendo i potenziali clienti, capiscono il valore di una scelta simile? «In cantiere abbiamo completamente finito un appartamento che è visitabile e dove funzionano i sistemi di cui ho parlato, in modo che i clienti possano provare di persona. Una coppia di signori anziani qualche giorno fa diceva che pensava di essere in montagna, per l’aria pulita e fresca che si respirava all’interno. Mentre i giovani, le persone tra i 35 e i 50 anni, sono tutti estremamente preparati e fanno sempre domande molto pertinenti». Allora ci pensiamo noi a farne una da profani: ma la manutenzione di queste case non è più costosa di quella di una casa tradizionale? «Assolutamente no, la pompa di calore ha bisogno di una manutenzione non superiore a quella di un’ordinaria caldaia. In realtà, non si tratta di tecnologie estremamente complesse». Ultima nota a margine sui materiali, tutti ecompatibili dalla produzione allo smaltimento, per una casa che fa bene all’ambiente e a chi la abita. Borgo Morandi Info: 338 1040311 - www.borgomorandi.it.
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CITTÀ SOSTENIBILE
Dall’economia ecologica all’ecologia economica Mettere al centro la natura e considerare l’economia come uno dei suoi tanti capitoli.
scienza dei limiti naturali e umani, governato da una rivoluzionaria “ecologia economica” e vissuto da un homo civicus che pratica uno stile di vita sostenibile e responsabile. Un appello alle generazioni future: per passare da un falso ben-essere a un autentico ben-vivere e a un mondo più giusto, per tutti. Il nostro mondo, fondato sul modello del capitalismo, è in crisi profonda: sprechiamo risorse, viviamo in mezzo alle ingiustizie, e senza prospettive; la povertà dilaga, e noi, ormai, tiriamo avanti scavando nel debito: un debito che è economico, ma anche (soprattutto) ecologico. La crisi però, ci dicono in molti, deve essere l’occasione per cambiare strada. Una strada, affascinante ma anche molto concreta ci può essere. Partendo da un punto d’osservazione spesso sottovalutato, ma che invece si rivela ideale: quello dell’economia agraria, l’unica che integra l’ecologia tra i propri saperi. Dobbiamo porci la questione Quando mi chiedono se faccio architettura sostenibile, la tentazione di rispondere no! è fortissima. È come mi chiedessero se mi nutro per mangiare o se mi lavo per bagnarmi… Aggettivi e sostantivi, c’è una enorme confusione e piuttosto che dire che faccio dell’architettura sostenibile mi sembra molto più appropriato dire che tentiamo di fare “sostenibilità architettata”. Spostare l’attenzione quindi su ciò che deve contenere piuttosto che su ciò che deve essere contenuto, sapendo e avendo chiaro comunque che il contenitore non potrà mai essere contenuto e dunque che sarà l’architettura a stare alla sostenibilità e non la sostenibilità all’architettura. È tempo di dire basta e di incamminarsi verso un nuovo civismo: ecologico, etico, economico, la visione di una società della sufficienza è il fulcro, è l’obiettivo al quale tendere. La logica della crescita e del debito ci ha portato a una crisi economica e ambientale profonda e a disuguaglianze sociali non più tollerabili. Basta il giusto per costruire un nuovo mondo fondato sulla co-
ABITARE L’HABITAT
di quali siano i limiti alla capacità di carico della terra rispetto alla popolazione umana, questo rientra nell’economia ecologica. Un’economia circolare basata sulla riduzione dell’uso delle risorse naturali ed energetiche, sul riuso e sul riciclo dei materiali, dell’acqua e dell’energia: in modo che i beni abbiano una vita più lunga, e non artificialmente breve come adesso. Ma questa concezione, già piuttosto rara, dell’economia non è ancora sufficiente. E allora bisogna ribaltare aggettivo e sostantivo, e assumere così una prospettiva nuova, quella dell’ecologia economica, che mette al centro la natura e considera l’economia come uno dei suoi tanti capitoli. Partendo da questa inversione grammaticale, l’economia nel corso del tempo è stata colorata, aggettivata, sostantivata, ma neppure questi artifici lessicali – che tuttavia veicolano codici, messaggi, teorie, misure, azioni – sono bastati. Anzi, troppo spesso sono stati abusati mistificando la stessa economia. Per guardare al futuro, per trovare un orizzonte verso il quale dirigere le speranze dei giovani, occorre dunque un passo ulteriore: mischiare i colori, gli aggettivi, i sostantivi e i loro contrari per vedere se c’è qualcosa di diverso e perciò nuovo. Dal rosso del consumo indiscriminato, passando per il blu della blue economy, che investe in tecnologie ispirate alla natura; dall’economia singolare ed egoista a quella plurale dei presìdi, del cohousing, del commercio equo e solidale, delle banche etiche; dai limiti dello sviluppo lineare ai vantaggi di un sistema circolare che non sprechi risorse naturali e non vessi le risorse umane… Qui c’è un’economia ancora tutta da costruire, ma sorprendentemente alla nostra portata: un’economia non più in bianco e nero, allegra, iridescente, un’economia-arcobaleno che collega come un ponte noi e la terra, noi e le generazioni future. Un arcobaleno in cui i colori che hanno caratterizzato i sistemi economici fino a ora si possono unire nei loro toni più vivaci, brillanti e positivi. Un caleidoscopio che ci faccia vedere il bello di tutte le economie che si sono succedute e che ci hanno dato l’opportunità di poter scegliere, guardare avanti, vedere un tipo di crescita diversa, che ha come presupposto un vero cambiamento nell’antropologia del consumo e degli stili di vita e modelli di produzione più naturali di cui ci sono, già adesso, tante testimonianze intorno a noi.
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CONSULENZA E INTERMEDIAZIONE IMMOBILIARE
Malgrado la “stretta” sui mutui bancari e nonostante l’imposta Imu il mercato del mattone è ancora sano. Lo dimostra la tenuta della domanda. Parola di Pier Luigi Fabbri, presidente provinciale della Fimaa di Ravenna
Malgrado le difficoltà a ottenere un mutuo, soprattutto per chi si appresta ad acquistare la prima casa e, nonostante la batosta dell’Imu che si sta abbattendo con maggior vigore sui proprietari delle seconde case, il mercato immobiliare resta in salute. «Puntualmente ogni tre/quattro settimane da un po’ di tempo arrivano nefaste previsioni per il comparto immobiliare, insane notizie che più che altro sanno di disfattismo che di reale analisi su dei dati – ricorda il presidente provinciale di Fimaa Ravenna, Pierluigi Fabbri –.Eppure il mattone è l’unico settore che tiene, nonostante il crollo delle borse, i rialzi dello spread e le contrazioni dei consumi. In questo primo semestre 2012, appena concluso, non mancano segnali di ripresa, come dimostrato dalla costante richiesta di comprare, sia da parte di chi sogna la prima casa sia da parte di chi desidera migliorare la propria situazione abitativa. L’acquisto di una abitazione resta, infatti, una delle poche, e più grandi, soddisfazioni della vita». Bando dunque al disfattismo che non porta da nessuna parte e largo ai piccoli cambiamenti positivi. Secondo la trentaduesima edizione dell’Osservatorio sul credito al dettaglio realizzato da Assofin, Crif e Prometeia, nel primo trimestre di quest’anno, le erogazioni dei mutui immobiliari per l’acquisto di nuove abitazioni sono crollate del 47 per cento. «Il dato è eloquente – spiega Fabbri -. Ma sarebbe molto più preoccupante se fosse calata del 47 per cento la richiesta di mutui da parte delle persone. Invece, per fortuna, non manca chi chiede prestiti, anche se le banche sono ora impegnate in altre operazioni per contrastare lo spread e faticano a concedere mutui anche a lavoratori dipendenti che solo due anni fa lo avrebbero ottenuto. Noi agenti immobiliari tocchiamo la situazione con mano: ogni settimana riceviamo contatti e qualche proposta d’acquisto che, spesso, non va a buon fine perché la banca trova tutti i cavilli per innalzare i requisiti e negare l’agognato mutuo». Non c’è da stupirsi poi che, a causa della crisi del mercato dei
MERCATO IMMOBILIARE
mutui, molte più persone si orientino – anche in via temporanea – all’affitto. Le richieste sono in aumento anche se non sempre ciò che il mercato offre è in linea in termini di qualità. Molti appartamenti avrebbero bisogno di “lifting” o di essere più accessoriati per rispondere alle crescenti esigenze della clientela. Oltre ai soliti bilocali, c’è una buona richiesta di trilocali o di spazi ancora più generosi. I prezzi sono stabili già da diversi anni. «Mentre per chi vorrebbe comprare, il freno è accendere un mutuo – aggiunge il presidente provinciale Fimaa –, per i proprietari è senza dubbio l’Imu, su cui ancora c’è un bel punto interrogativo. Sarebbe necessario anzitutto un distinguo fra chi possiede due o tre case, e chi invece arriva persino a dieci, venti, trenta case. Così come ci si aspettava un trattamento diverso fra chi tiene le seconde case a uso personale e chi invece le affitta. La speranza è che, già dal prossimo anno, vengano appianate certe incongruenze».
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