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A Milano Marittima la Villa Capannina, dimora signorile anni ‘30
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Controcopertina Dai documenti storici sull'insediamento di Milano Marittima, che quest'anno celebra un secolo di vita, il fabbricato originariamente viene chiamato “Villa Capannina�, denominazione che sembrerebbe alludere ad una rideclinazione in chiave domestica, di un grande capanno di valle o di fiume nostrano.
Autorizzazione Tribunale di Ravenna n. 1240 del 8 novembre 2004 Direttore responsabile: Fausto Piazza Consulenza redazionale: Paolo Bolzani Collaborano alla redazione: Andrea Alberizia, Federica Angelini, Pietro Barberini, Roberta Bezzi, Chiara Bissi, Alberto Giorgio Cassani, Serena Garzanti (segreteria), Maria Cristina Giovannini (grafica), Linda Landi, Marina Mannucci, Luca Manservisi, Erika Marchi (grafica), Domenico Mollura, Serena Simoni. Progetto grafico: Quadrastudio - www.quadrastudio.info Referenze fotografiche: Maurizio Montanari, Paolo Genovesi, Fabrizio Zani Redazione: tel. 0544.271068 redazione@trovacasa.ra.it - www.trovacasa.ra.it
Editore: Reclam Edizioni e Comunicazione srl viale della Lirica 43 - 48124 Ravenna - tel. 0544.408312 info@reclam.ra.it - www.reclam.ra.it Direttore generale: Claudia Cuppi Stampa: Tiber spa - Brescia - www.tiber.it
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Prosegue la ricognizione dei villini costruiti nella pineta. In primo piano una dimora signorile anni Trenta che coniuga reminiscenze nord europee e allusioni al capanno di valle
Villa Capannina a Milano Marittima CASA BELLA CASA
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di Paolo Bolzani
Prima che il 2012, anno del centenario di Milano Marittima, volga al termine, cogliamo l’occasione per illustrare ancora qualche realizzazione in cui viene svolto il tema del villino nella pineta, successivamente a quanto prefigurato dal pittore-urbanista Giuseppe Palanti. Già nell’ultimo numero di giugno-luglio di TrovaCasa, dal 14 agosto 1912 si era giunti agli anni Trenta del secolo scorso, dove emergeva la figura dell’architetto Matteo Focaccia. Oggi conduciamo un piccolo approfondimento sul periodo, segnalando un villino costruito a metà di quel decennio. Ci spostiamo quindi al civico numero 81 di viale Vittorio Veneto, all’incrocio con via Carducci, lato nord. Osservando dal viale, oltre la siepe che segna il confine con un marciapiedi molto largo, immersa tra filari di acacie ed ombreggiata da maestosi pini domestici, ecco apparire una costruzione semplice, con un tetto a falde particolarmente inclinate, rivestito da tegole canadesi, quasi ad evocare una casa dal sapore nordeuropeo, mentre il cornicione si stacca dal muro con una serie di mensole in legno naturale e sagomate al termine. Segno eloquente del fabbricato è il frontoncino, incuneato nel tetto e rivolto all’ingresso pedonale, in cui compare un oblò e la lampada del pellegrino. Ad un portico, collocato nella porzione prossima all’incrocio con via Carducci, spetta inoltre il compito di girare l’angolo con una maggiore articolazione dei volumi, fornendo uno spazio inter-esterno particolarmente gradevole. Altra caratteristica individuabile dal viale e che denuncia lo status di residenza estiva borghese, è la presenza, in corrispondenza dell’angolo opposto al portico, di un minuscolo fabbricato separato dal corpo di villa principale, vale a dire la casetta del custode, dotata di garage al piano terra e di monolocale al primo piano, a cui si accede per mezzo di una scala esterna. Dalla consultazione delle carte in possesso degli attuali proprietari, sappiamo come questa fosse la villa del professore Francesco Garofalo di Bologna, avo di famiglia, che acquistò la villa e il suo terreno nel 1951. A quei tempi la strada era ancora sterrata verrà asfaltata poco dopo, a metà degli anni Cinquanta, con i contributi dei privati. Per sapere come si presentava la villa in quei tempi è sufficiente consultare il quarto volume della raccolta di cartoline cervesi (80 anni di Milano Marittima, 1992) in cui è pubblicata una foto datata 1936, nella quale se ne mostra un aspetto molto simile alla versione attuale, ma privo dell’ampliamento meridionale con il portico e dell’oblò, ora presente nel piccolo frontone di ingresso. Inoltre sembra pareggiata la sopraelevazione del fabbricato dal terreno, in origine di una misura pari ad un podio di ingresso, dotato di qualche scalino, ora scomparso. Nella legenda che conclude la ponderosa raccolta di foto storiche, il fabbricato viene chiamato “Villa Capannina”, denominazione che sembrerebbe alludere ad una rideclinazione in chiave do-
Due immagini di un porzione del grande soggiorno con un tavolino con sedie in bamboo scuro e un camino ornato con piatti che ritraggono figure di cacciatori.
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Segno eloquente del fabbricato è il frontoncino, incuneato nel tetto, in cui compare un oblò dal quale si può godere di una vista particolare del giardino
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mestica, di grande capanno di valle o di fiume nostrano, più che segnalarne una ascendenza o un debito tipologico – come potrebbe accadere guardando il fabbricato ora – ad una casa tirolese o in generale ad una residenza di campagna nordeuropea. Il venditore del 1951 risulta il signor Aldo Viviani, il quale a sua volta ne era entrato in possesso proprio nel 1936, rilevando la proprietà dalla signora Frida Martiny; in quell’atto di compravendita di settantasei anni fa si precisa come sul lotto di terreno fosse stata appena costruita una casa, denunciata nel settembre 1935. La famiglia Garofalo procede ad un piccolo ampliamento solo nel 1968, con la costruzione del portico verso l’incrocio di viale Vittorio Veneto e via Carducci, e dell’ambiente a fianco in cui, entrando in casa, si rivelerà contenuta una sala da pranzo e una cucina, mentre nella soffitta al primo piano trova posto una coppia di stanze da letto. Infine, trascorso un
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lasso di tempo simile al primo, nel 1982 si perviene all’attuale sistemazione, che prevede la sostituzione del manto di copertura da lastre di eternit all’attuale tegola canadese di colore verde e la costruzione dell’oblò, inserito in un frontone che, dalla consultazione della foto del 1936, sembra leggermente aumentato in misura e ruolo. Contestualmente viene chiuso il piccolo portico presente nell’angolo orientale del fronte opposto a via Carducci, di cui rimane una nicchia nel muro verso nord. Inoltre le persiane di legno tinte marrone verranno riverniciate di verde, il ché conferma, insieme alle tegole canadesi, una scelta per una semplificazione cromatica, basata sul binomio bianco (intonaci tinteggiati e finestre) e verde (tetto e persiane), cui fa da contraltare il rosso delle piastrelle in cotto che cingono tutta la casa e dall’esterno penetrano nel soggiorno. Anche per noi è ora tempo di entrare. Ci accoglie un grande
Nella sala da pranzo la tradizione locale emerge nel tavolo romagnolo e nelle sei sedie in legno impagliato, mentre gli angoli di fronte ospitano due angolari, il maggiore dei quali recante sette buchi di areazione.
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Il grande soggiorno si sviluppa in spazi destinati alle varianti del convivio, dove trovano posto mobili d'epoca di famiglia, come il cassettone ottocentesco vegliato da quattro figure del teatro delle ombre di Giava
soggiorno, articolato da due grandi divani turchese chiaro, che mostrano come l’arte della conversazione sia particolarmente praticata dalla padrona di casa, che declina due spazi simili e contigui destinandoli alle varianti del convivio, mentre li separa con un piano su cui si trovano tre scatole cinesi porta cappello e due abat-jour. Davanti al primo divano si trova un camino, ornato con piatti che ritraggono figure di cacciatori, un tavolino con sedie in bamboo scuro e la partenza della scala che conduce alla zona notte, pre-
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sidiata da un cancelletto salvabimbo. Nella parete davanti al secondo divano si trova una serie di ripiani, in cui trovano posto due vasi da farmacia – scopriamo come in effetti la padrona di casa ami collezionare scatole in legno da farmacia – sotto i quali si trovano due ante lignee del Seicento, a segnalare un mobile bar. Il finestrone del lato corto del soggiorno si trova delimitato da due cassettoni. A sinistra ve ne è uno ottocentesco, proveniente da una casa di campagna della famiglia, che si trova vegliato a
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muro da quattro figure del teatro delle ombre di Giava. A destra gli fa da pendant un cassettone del primo Ottocento, ornato da uno specchio e da un vaso di fiori e molteplici vasetti, mentre nella parete a fianco la vecchia apertura del primo portico si riempie di mensole in vetro con ricordi di famiglia. Nel lato opposto una porta scorrevole su cui sono montate due ante in legno antico concede l’accesso alla sala da pranzo, dove la tradizione locale emerge nel tavolo romagnolo e nelle sei sedie in legno impagliato con terminali torniti, mentre gli angoli di fronte ospitano due angolari, il maggiore dei quali recante sette buchi di areazione. Salendo al primo piano giungiamo ad un ampio sottotetto, sorprendentemente ricco di spazi ben risolti, in cui, questa casa - curata con garbo ma senza sfarzo eccessivo come compete alla residenza delle vacanze al mare - rivela ancora una puntuale attenzione ai colori, nelle sfumature a toni chiari delle quattro stanze da letto, pronte a lasciare il posto al verde brillante delle piastrelline dei due bagni. Ed è qui, alzando lo sguardo verso i lucernari, che compare la vista sontuosa delle grandi chiome dei pini, resa immediata per la presenza delle falde di notevole pendenza. Non avremo però il tempo per indugiare a lungo in un momento di riflessione poetica, perché ecco la padrona di casa sospirare tra rassegnazione e orgoglio, «vi salgono soltanto i pignaioli di una volta!» e già la manutenzione del tetto non è più una mera sofferenza.
Nella pagina uno dei bagni del piano superiore e tre vedute d'esterno nelle quali è visibile all’attuale copertura in tegola canadese di colore verde e la costruzione dell’oblò, inserito in un frontone.
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Notizie da un “possibile” futuro di Marina Mannucci
Autunno 2016: risorge il Teatro di Mezzano
Abbandonato e semi distrutto da più di trent’anni, torna a nuova vita il Teatro di Mezzano, secondo per volumetria nella provincia di Ravenna soltanto al Teatro Alighieri. Ha prevalso quindi una filosofia di governo del territorio in cui finalmente, dopo anni di errori, si è riusciti a fare marcia indietro e a realizzare un’opera culturale che, oltre ad ottimizzare la qualità della vita degli abitanti di Mezzano, arricchisce anche un territorio (bene comune) gestito per conto dei cittadini. Seguendo in parte la via già ipotizzata nel 2004 dall’Assessore all’Urbanistica del tempo, si è trattato con la proprietà che si è resa disponibile ad una nuova ipotesi di reutilizzo del teatro. Prendendo spunto dal teatro Socjale di Piangipane, grazie al lavoro di coordinamento del comitato “A.ma:n.n.t.a.! Godot è arrivato”, del Gruppo dello Zuccherificio e dell’Associazione Culturale di Volontariato “Percorsi” è stato redatto un piano di lavoro al quale hanno attivamente partecipato: Soprintendenza ai Beni Architettonici, amministratori comunali-provinciali e regionali, proprietario del teatro, Banca di Credito Cooperativo, Lega delle Cooperative, Ravenna Teatro, Ravenna Festival, Ater (Associazione Teatrale dell’Emilia Romagna), associazioni di volontariato, dirigente del Liceo Artistico “Nervi-Severini” e Isis (Istituto Statale di Istruzione Superiore Olivetti-Callegari di Ravenna), studenti-rappresentanti delle scuole superiori della provincia e mezzanesi. Si è avviato quindi un intenso scambio d’idee provenienti da ambiti culturali, sociali, pedagogici, politici, economici e finanziari, volto ad un’attenta valutazione, analisi e riformulazione dell’iniziale progetto di ristrutturazione dell’edificio, con un riferimento sempre costante al significato di rischio d’impresa. Gli aspetti cruciali e i rispettivi vincoli correlati allo sviluppo di un’attività imprenditoriale erano molteplici: le problematiche finanziarie, l’accesso e la sopravvivenza del Teatro all’interno del mercato, l’organizzazione interna e la modalità d’interazione con il pubblico erano tutte tematiche che dovevano essere attentamente va-
L'epopea dell'edificio decò voluto dai braccianti nel 1921 a confronto con la cruda realtà del degrado odierno e con un futuro percorribile ma vincolato alla lungimiranza di un intero tessuto sociale, economico e politico lutate per decidere con ragione e con logica circa la bontà dell’idea imprenditoriale o meno. Dopo l’inevitabile tempo della fatica del confronto, spesso dello scontro, si è infine raggiunto l’obiettivo di riportare in vita il Teatro di Mezzano attraverso la realizzazione di un articolato piano d’impresa. Un documento complesso di fondamentale importanza per qualsiasi realizzazione imprenditoriale ed anche culturale poiché permette l’analisi di tutti gli aspetti riguardanti l’impresa da realizzare: la reale fattibilità dell’iniziativa dal punto di vista commerciale, economico e finanziario, ma non solo. Il Piano d’Impresa è stato utilizzato soprattutto quale strumento per valutare il modo migliore per produrre servizi “per” e “con” il territorio, veicolando istanze civiche. Alla luce dell’eventualità di Ravenna Capitale Europea della Cultura la realizzazione di quest’opera è tra l’altro espressione concreta della sensibilità culturale e del buon governo del territorio ravennate. Una lungimiranza culturale verso un bene comune rurale, un’espressione che, se pur modesta da un punto di vista del linguaggio architettonico, è originalissima da un
A sinistra: Particolare della facciata del Teatro di Mezzano (foto di Alberto Giorgio Cassani)
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Vista d’insieme, dall’argine del fiume Lamone, del Teatro di Mezzano (foto di Alberto Giorgio Cassani)
punto di vista antropologico. Uno sforzo notevole, quello realizzato da tutti i componenti il tavolo di lavoro, che ha permesso di portare a termine il progetto in tempo per poter, sempre nel 2019, festeggiare il centenario di questo edificio-opera. Il restauro storico, di consolidamento e d’innovazione dell’edificio è durato complessivamente circa tre anni ed è intervenuto su una muratura “classicheggiante”, carpenteria Liberty, parti metalliche Déco: un eclettismo ben armonizzato nelle sue componenti. La costruzione era stata concepita come un corpo verticale – il Teatro – che poggia innestandosi su di un altro orizzontale – un magazzino per cereali: uno spazio teatrale che ne sormonta uno commerciale, una particolarità tipologica unica. Una struttura spaziale in cui, sopra, si fa teatro a cuor leggero, perché, sotto, il lavoro ha accumulato futuro. Ed è questa concezione ad essere stata, ed ora a tornare ad essere, il vero specifico culturale del Teatro di Mezzano: una dialettica aperta fra dualismi esistenziali che vengono contemplati ed altresì risolti. Una concezione dinamicamente culturale, un esempio di “sacro e profano” quasi speculari. Altra particolarità-unicità è che il Teatro si erge a ridosso di un fiume, il Lamone (la distanza dal portone d’ingresso al piede dell’argine è meno di 10 metri); un ideale “guardiano” del fiume, che ha saputo aspettare pazientemente il suo rientrare in circolo, per tessere nuovi momenti di storia. Per le sue caratteristiche, il Teatro si candida ad ospitare oltre che compagnie teatrali, monologhi, incontri, conferenze, concerti solistici o da camera, laboratori artistici di matrice
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educativa e laboratori professionalizzanti per gli studenti delle scuole superiori e per gli universitari. Partendo dal Teatro di Mezzano, potremmo dire che si sta costruendo un “distretto culturale e formativo”, un “sistema territoriale integrato” di istruzione-formazione-cultura e di “integrazione/alternanza studio-lavoro” che, in base alla normativa e al sostegno regionale e ricorrendo in parte anche ai contributi delle parti sociali intervenute al tavolo di lavoro, è anche riuscito a programmare posti di apprendistato ed interventi di formazione “off”-e-“on the job”. Direzioni di lavoro e progetti già da tempo teorizzati e sperimentati in vari territori da parte di esperti-istituzioni-imprese-operatori educativi e culturali (si veda, in particolare, l’apporto del sociologo ravennate Enzo Morgagni, docente di “Sociologia dell’Educazione” presso la Facoltà universitaria bolognese di Scienze della Formazione 1). La frequenza da parte degli studenti del primo anno di apprendistato così concepito sarà considerata come assolvimento del diritto-dovere all’anno di formazione. La notizia della riapertura del Teatro di Mezzano è certamente in controtendenza rispetto alla norma: in un periodo in cui i teatri stentano a sopravvivere, chiudono o vengono trasformati in megastore o cinema ecc., questo recupero di un teatro-“officina” in un piccolo paese dell’entroterra ravennate è certamente una novità che mette gioia e fa ben sperare sul futuro – anche in luoghi non centralissimi – di un’arte che accompagna l’uomo da sempre. Il merito della buona riuscita del progetto è da attribuire in parte anche all’aver scelto di realizzare un’eco-
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Teatro “Italia”, vista del palcoscenico (ora distrutto). Foto d’epoca (1923).
nomia del bene come teorizzata, ed anche messa in pratica, da Christian Felber, docente di economia all’Università di Vienna, i cui principi base non sono esclusivamente la massimizzazione del profitto e della concorrenza, ma anche e soprattutto il benessere comune dei lavoratori e dei cittadini ed il loro coinvolgimento attivo e costruttivo nel raggiungimento degli obiettivi d’impresa, il rispetto dei ruoli, la cura per la formazione continua, uniti al concetto di rispetto per l’ambiente e la sostenibilità in senso lato 2. Non stupisce quindi che, dopo una serie di traversie – dal dopoguerra ad oggi –, il rinato Teatro di Mezzano si proponga come punto di riferimento per una porzione di territorio che continua ad essere estremamente attivo e desideroso di cultura, arte e spettacolo. È interessante poi notare che l’inaugurazione del Teatro rappresenta un segno diverso anche rispetto all’utilizzo delle risorse: in un periodo in cui si tende a concentrare e a accentrare nelle grandi città le occasioni di svago e di scambio culturale, il recupero di un piccolo teatro posto nell’entroterra rappresenta anche la volontà di contribuire a rivitalizzare il capitale sociale, culturale e turistico di zone che hanno, negli ultimi decenni, un po’ patito il confronto con la zona costiera. Ho inventato questo articolo di sana pianta con un approccio da fantagiornalismo, immaginando i possibili componenti di un tavolo di lavoro, per creare una realtà alternativa che potesse far riflettere sulle potenzialità del Teatro di Mezzano. Stupisce quanto, a volerlo seriamente, un pensiero utopico possa divenire realizzabile. Qui di seguito, invece, un serio resoconto filologico delle reali vicende del Teatro di Mezzano, estrapolato dagli scritti dell’architetta Linda Savorelli e supportato da copie di documenti originali. L’11 dicembre 1907, diciotto braccianti di Mezzano – socialisti ed anarchici – si riuniscono in una casa della “Reale” – per fondare una cooperativa agricola che coordini politicamente il lavoro bracciantile del territorio. Nel 1919 la coo-
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perativa deve scegliere se costruire case per i braccianti o un teatro. Democraticamente viene fatta una votazione a cui partecipano tutti i soci: vince l’opzione teatro. I lavori iniziano nel 1920: la costruzione è concepita come un vasto spazio teatrale poggiante su un magazzino sottostante adibito a stoccaggio di cereali. La scelta del teatro è, per i braccianti che la votano, motivata dal volere un luogo che assolva, tra l’altro, alla funzione di contenitore assembleare, politicamente incisivo e socialmente catalizzante, oltre che – naturalmente – come occasione di emancipazione culturale. È dunque evidente che viene procrastinato un bisogno primario, la casa, da rimandare a tempi migliori, e che la generosa lungimiranza della maggioranza dei braccianti privilegia il “lusso” della cultura. Il teatro viene inaugurato nel 1921 con la rappresentazione di un’opera lirica, il Don Pasquale di Donizetti. Per la sua gestione si nomina una commissione formata da socialisti, anarchici e comunisti, responsabile della programmazione operistica, teatrale e cinematografica. All’interno, il teatro ospita anche una biblioteca. Il 22 ottobre del 1922 il teatro è occupato dai fascisti che impongono alla cooperativa, proprietaria del Teatro, lo scioglimento della commissione teatrale, “consigliandone” – profeticamente, come vedremo – la vendita a privati. Ed è da questo momento che il teatro si chiamerà “Italia”. Viene chiuso anche il magazzino adibito a stoccaggio cereali ed il 1928 segna la decadenza del grande livello artistico raggiunto dal Teatro: le programmazioni si provincializzano, lasciando il posto alle operette, a una filodrammatica locale, a commedie dialettali e, naturalmente, sempre ai veglioni. Più tardi, verso il 1930, il Teatro di Mezzano diviene riferimento dell’intera Provincia per ospitare il veglione del Fascio, a cui seguirà quello degli avanguardisti e dei Balilla. Il giorno prima della Liberazione, il Teatro viene per errore bombardato dagli alleati; Mezzano sceglie ancora una volta di stringersi attorno al suo simbolo identitario, optando di porre mano alla sua ricostruzione da su-
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bito. All’inizio degli anni ottanta ci si accorge che una parte del tetto è in pericolo di crollo: interviene la Cooperativa Ravennate Costruttori di Mezzano e ne puntella immediatamente una trave marcescente. Nel 1987 viene commissionato ad uno studio privato un progetto di recupero, che produce un piano di massima e un capitolato (ipotizzando una spesa dai tre ai cinque miliardi di lire) per una ristrutturazione totale che avrebbe reso l’immobile polifunzionale. Il mandato dell’Amministrazione Comunale prevede che il sotto-teatro sia risanato e ripartito in spazi diversificati, che il teatro sia lasciato inalterato da un restauro filologico e che sia ricostruito ex-novo il corpo del palcoscenico abbattuto dal bombardamento. Il progetto presentato successivamente in pubblica assemblea in piazza a Mezzano, prospetta il Teatro Italia quale terzo teatro del Comune di Ravenna per la musica sinfonica, ma viene successivamente abbandonato a causa delle mutate condizioni finanziarie del bilancio del Comune di Ravenna. Nel 1989 un gruppo di mezzanesi riunito in un comitato denominato “Gli amici del teatro” promuove una petizione indirizzata al Sindaco di Ravenna che raccoglie circa duemila firme; l’intento è sollecitare l’operatività promessa almeno per il sotto-teatro. La Cooperativa Agricola Braccianti (Cab) di Mezzano, in un periodo di crisi complessiva del settore, avvia un processo di unificazione, che la porta ad aggregarsi con la Cab di Sant’Alberto prendendo la denominazione di Mezzano-Sant’Alberto. Nel 1991, con lettera raccomandata, l’assessore ai Lavori Pubblici Achille Alberani comunica che «non ritiene conveniente dare ulteriore seguito alla sviluppo del progetto esecutivo» del Teatro di Mezzano e dichiara esaurito l’incarico. Negli anni successivi il Servizio Progettazione del Comune di Ravenna redigerà un nuovo progetto su cui, però, il Consiglio di Circoscrizione di Mezzano esprime un unanime parere negativo, ritenendo troppo rigide le possibilità di utilizzo. Il consiglio stabilisce inoltre la necessità di una struttura funzionale all’aggregazione sociale dei cittadini mezzanesi. È del 1993 la delibera di giunta a voto unanime di non dare seguito allo sviluppo del progetto esecutivo. Nello stesso anno, la Cab di Mezzano-Sant’Alberto, con parere favorevole della Circoscrizione di Mezzano, chiede per l’edificio un cambio di destinazione d’uso da luogo pubblico a edilizia privata e residenziale (B2). Nel 1995, in Consiglio Comunale, viene votata la “Risoluzione anticipata della costituzione d’uso a titolo gratuito del Teatro di Mezzano”, mediante la quale il Teatro viene incamerato dalla Cab di Mezzano-Sant’Alberto. Nel 2000 il Presidente della stessa chiede la concessione per un progetto di ristrutturazione del Teatro, che vede al suo interno
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Teatro “Italia”, vista della platea e della galleria. Foto d’epoca (1923).
la costruzione di quattro negozi e di un museo da posizionare al piano terra e di appartamenti e uffici ai due piani superiori. Viene inoltre rilevato che la situazione statica dell’immobile è priva di movimenti anomali e di difetti dovuti all’assestamento. Nel 2002 la “Domus Immobiliare” acquista il Teatro e nel 2004 presenta una richiesta di valutazione preventiva al Comune di Ravenna per il suo abbattimento (la facciata, priva di balcone, deve rimanere in piedi perché, se demolita, l’edificio non potrebbe, con le leggi vigenti, essere riedificato alla stessa distanza d’origine). Al posto del Teatro è previsto vengano costruiti venticinque appartamenti e ventisette cantine. Il Comune esprime parere favorevole, mentre la circoscrizione di Mezzano inoltra specifica richiesta al Comune di contrattare con la proprietà sia per la riduzione degli appartamenti che per la destinazione ad uso sociale di almeno una parte dell’ex magazzino adibito a stoccaggio cereali. Attraverso una raccolta di firme nasce il comitato “A.ma.:n.n.t.a.!”. acronimo di A Mani: Nude A Testa Alta!, ovvero: “Godot è arrivato”. Nel luglio 2006 la Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici di Bologna riceve la proposta di Decreto per il vincolo del Teatro di Mezzano dalla Soprintendenza di Ravenna. Nel frattempo, il comitato “Godot è arrivato” consegna all’Ufficio Protocollo del Comune di Ravenna le circa quattromila firme di una petizione in cui si chiede la restituzione del Teatro “Italia” alla comunità. Firme apposte dai capigruppo dei partiti che nel ’93 votarono contro il cambio di destinazione d’uso (Partito Popolare Italiano, Rete, Verdi,
Rifondazione Comunista), così come da capigruppo e segretari di sezione di altri partiti, da europarlamentari, senatori, deputati, assessori, soprintendenti, registi teatrali e cinematografici di livello nazionale e internazionale, direttori d’orchestra, docenti universitari, cittadini onorari del Comune di Ravenna. Il 31 luglio 2006 la Direttrice Regionale dei Beni Culturali di Bologna ratifica la dichiarazione di vincolo emessa ai sensi degli artt. 10 (comma 3, lettera a) e 13 (comma 1) del Decreto Legislativo 42/2004 che individua nel Teatro di Mezzano un edificio d’interesse culturale particolarmente importante secondo una tipologia dal forte valore semantico. L’immobile viene sottoposto a disposizioni di tutela. Nel mese di settembre del 2006 si riuniscono tre commissioni consiliari – Cultura, Affari Istituzionali, Assetto del Territorio – per dare una risposta alla petizione che chiede la salvaguardia e la rinascita del Teatro di Mezzano, che alla fine demandano ad un tavolo di lavoro il prosieguo delle scelta da fare. E così siamo giunti all’oggi. In attesa di un segnale che rompa il silenzio e l’immobilità delle istituzioni e del mondo civile. Un sentito ringraziamento a Linda Savorelli e Mario Tampieri, per la passione dimostrata e trasmessami nei confronti di questo simbolo di Mezzano e, più in generale, per il loro, ormai raro e prezioso, senso civico. Una profonda gratitudine ad Eliseo Dalla Vecchia, per l’attenta lettura del testo e le fondamentali precisazioni, nonché per avermi fornito le foto storiche e ad Enzo Morgagni per i suoi sempre preziosi suggerimenti.
NOTE: 1. Cfr. Enzo Morgagni, Utopia e realtà nell’alternanza scuola-lavoro: riflessioni sociologiche su teorie e risultati di ricerche, Bologna, ed. Egidi, 1983, e Il governo del sistema scolastico-formativo italiano in trasformazione, Bologna, Clueb, 2000. 2. Cfr. Christian Felber, L’economia del bene comune. Un modello economico che ha futuro, Milano, Tecniche Nuove, 2012.
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In occasione delle giornate europee del patrimonio, i cittadini potranno visitare la sede centrale di piazza della Libertà e i palazzi Betti e Todeschini, oggetto di una recente riqualificazione architettonica
ARCHITETTURA E SICUREZZA
“L’Italia tesoro d’Europa” è lo slogan con cui il Bel Paese aderisce, insieme ad altri 49 stati europei, alle Giornate europee del patrimonio 2012, attese il 29 e il 30 settembre. A questa grande festa europea, il ministero dei beni culturali partecipa con oltre 1450 appuntamenti, organizzati dai propri istituti centrali e territoriali che, per l’occasione, aprono gratuitamente al pubblico tutti i luoghi d’arte statali, a questi si affiancano i luoghi d’arte appartenenti ad altre realtà che hanno aderito alla manifestazione. A Faenza è il Credito Cooperativo ravennate e imolese, ad aprire le porte per far conoscere il recupero della propria sede centrale articolata in un complesso di grande valore storico architettonico. In primo piano dopo il primo open day, svoltosi nello scorso aprile, il restauro dei palazzi Belisardi, Betti e Todeschini, storici edifici, affacciati su piazza della Libertà, via XX Settembre e vicolo Diavoletto. Luoghi significativi della storia della città che negli anni sono stati fulcro di attività commerciali e artigianali, ma anche dimore signorili, nonché luoghi di espressione di maestri artigiani e artisti dal XVIII secolo ad oggi. Le giornate del patrimonio hanno come scopo primario quello di avvicinare i cittadini europei ad una migliore e reciproca comprensione malgrado le differenze di cultura e di lingua, attraverso l’organizzazione di manifestazioni culturali che mettano in luce il saper fare, le tradizioni locali, l’architettura e gli oggetti d’arte, ma anche la presentazione di beni culturali inediti e l’apertura straordinaria di edifici storici. Ecco quindi l’occasione per visitare la sede centrale di palazzo Beli-
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Porte aperte alla Bcc di Faenza sardi affacciato su piazza della Libertà e risalente al XVIII secolo, nel quale l’istituto bancario gestisce i rapporti con circa 18 mila soci, su una dimensione interprovinciale, con oltre 460 dipendenti e 45 filiali organizzate su quattro zone commerciali facenti capo a Faenza, Imola, Lugo e Ravenna. Nel 2006 Bcc decise di acquistare gli adiacenti palazzi Betti e Todeschini, realizzando negli ultimi tre anni una complessa ristrutturazione. All’interno di palazzo Betti, il cui rinnovamento fu voluto dall’avvocato Gustavo Betti subito dopo l’Unità d’Italia, fra il 1871 e la fine del secolo, sono stati recuperati, oltre agli affreschi e alla tappezzeria, alcuni elementi di arredo presenti in quelle che un tempo erano camere da pranzo e da letto, servizi e soggiorno, e che oggi costituiscono ambienti lavorativi della banca. Il recupero dei tre palazzi è avvenuto grazie a un investimento di dieci milioni di euro con la volontà precisa di contribuire a mantenere vivo e qualificato il centro storico. Gli interventi su palazzo Belisardi hanno riguardato ambienti settecenteschi decorati con stucchi di gusto orientale, riferibili alla “Cineseria” imperante nel XVIII e nell'ultimo rococò faentino. Le camere da letto con alcova, e i saloni sono stati adibiti, pur con intento il più possibile conservativo, a sale riunioni e a uffici. Stesso discorso per i palazzi Todeschini e Betti, che fu oggetto di un importante intervento a metà Ottocento con decorazioni pittoriche ad opera di Adriano Baldini, continuatore della tradizione iniziata mezzo secolo prima da Felice Giani. Nell'ambiente più prestigioso è stata recuperata l'originale decorazione parietale in seta, con losanghe color arancio e azzurro. Due scaloni monumentali, un cortile con resti di una loggia cinquecentesca e un ambiente con poderoso soffitto li-
Il 29 e 30 settembre in occasione delle giornate europee del patrimonio il Credito cooperativo ravennate e imolese aprirà ai visitatori le sale della sede centrale di piazza della Libertà e dei palazzi Betti e Todeschini
A sinistra, un particolare del restauro delle pregevoli decorazioni delle volte; a destra una delle opere di arte contemporanea conservate ed esposte nella sede dell’istituto di credito.
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In primo piano l'attento recupero degli stucchi del XVIII secolo che oggi impreziosiscono le sale della banca faentina.
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gneo del primo Cinquecento completano il percorso. Al pian terreno è stata recuperata anche una stanza con decorazioni liberty, forse di Giovanni Guerrini, del primo Novecento. La Bcc espone anche le opere moderne in ceramica, dagli altorilievi di Carlo Zauli, a un crocefisso dello stesso autore, a una Madonna con Bambino di Angelo Biancini, fino ai recenti arredi di Goffredo Gaeta e Fiorenza Pancino. Una mostra fotografica a cura della Fototeca Manfrediana racconta la storia e la vita dei palazzi e del centro storico faentino. A completare il progetto architettonico la mostra permanente "Il Gruzzolo di Faenza", una raccolta di monete risalente al 1796, casualmente rinvenute dopo due secoli e conservate da un socio della Bcc ed esposte nei locali della banca, di concerto con la Soprintendenza per i beni archeologici dell'EmiliaRomagna. Le visite guidate saranno possibili sabato 29 settembre dalle 10 alle 18; domenica 30 dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 18. Per informazioni tel. 0546 690178.
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SigarOne Inquadramento, genesi e suggestioni del progetto firmato Nuovostudio «Alla via cosi!» Premessa Vorremmo spendere, prima di descrivere brevemente nel merito il progetto, alcune parole sul metodo di lavoro che ha caratterizzato queste prime fasi di elaborazione preliminare. Metodo che ha visto fin dai primi momenti di analisi, il coinvolgimento e il confronto diretto sia con la proprietà, che con la Soprintendente per i Beni architettonici e con l’ufficio di piano del Comune, tenendo anche in considerazione varie indicazioni scaturite dal processo di partecipazione svoltosi in Darsena. Un metodo che – unito alla volontà, considerate la visibilità e l’importanza della struttura, di reperire quante maggiori informazioni, o semplici suggestioni, possibile – è stato molto utile e propedeutico ai fini di individuare fin da subito obiettivi e finalità condivise, riuscendo a dare vita a una vera e propria si-
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nergia pubblico/privato. Sinergia che in questa fase ha dimostrato che il pubblico e il privato possono avere interessi comuni e comuni intenti di sviluppo. Dal punto di vista squisitamente disciplinare vorremmo sottolineare che anche questo deve essere il ruolo di un progettista, ruolo che non abdichi la sua creatività, ma la concentri su un programma e degli indirizzi il più possibile condivisi. Una buona architettura è quella che dà risposte, crea occasioni e valorizza il territorio: troppo spesso negli ultimi anni abbiamo assistito a una deriva iconografica di architetti più preoccupati di lasciare un segno autobiografico in un luogo, che di partire dai presupposti di cui sopra. Deriva questa, alimentata anche da amministrazioni miopi che hanno creduto che da solo, il segno, fosse risolutore e generatore di sviluppo. Il segno invece da solo non basta più e per essere sostenibile, parola
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ormai abusata, un progetto deve nascere dalle esigenze di un luogo, deve capirle, farsene interprete e tentare di dare delle risposte.
Inquadramento Sono molti anni ormai che si parla della Darsena di Ravenna, di ciò che ha rappresentato per la storia della città, delle svariate e complesse aspettative che ciascuno di noi riversa sulla riqualificazione di quel quartiere che rappresenta per tutti – comuni cittadini, privati proprietari, enti e amministrazione pubblica – un’incognita e una scommessa per il futuro del nostro territorio. Noi crediamo che la Darsena sia una realtà complessa e articolata – a partire dalla proprietà dei comparti, in gran parte privata – che impone alle riflessioni di carattere progettuale e programmatorio una certa dose di flessibilità e mediazione, al fine di uscire da un dibattito che rischia altrimenti di rimanere puramente accademico. Riteniamo che la riqualificazione della Darsena possa avvenire anche e soprattutto per “naturale induzione” attraverso la realizzazione di alcuni, strategici e mirati, progetti di qualità. E il Sigarone è sicuramente fra questi.
Il progetto Il Sigarone non è un edificio straordinariamente importante dal punto di vista puramente architettonico, Il suo valore sta nel fatto che è portatore della memoria della città; il Sigarone è l’emblema di un passato che ha caratterizzato una parte importante della storia di Ravenna, e come tale va recuperato. Riteniamo che tale memoria sia parte del patrimonio collettivo e, pertanto, che il recupero dell’edificio debba essere portatore di una consistente funzione collettiva, attrattiva e fruibile da tutti. Questo è il motivo che ha condotto il percorso progettuale verso la definizione di una serie di risposte ad alto contenuto sociale: la conservazione della struttura dell’edificio quale
In alto, la città delle Arti e della Scienza a Valencia progettata da Santiango Calatrava. Sopra, l’Operà di Lione di Jean Nouvel.
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simulacro della memoria storica del passato; l’individuazione al suo interno di uno spazio e di una serie di luoghi e piazze pubblicamente fruibili, atti a ospitare eventi, mostre e attività di interesse pubblico (arena estiva; eventi di Ravenna Festival; installazioni e mostre temporanee; proiezione di eventi, eccetera). Cionondimeno ricordiamo che stiamo operando all’interno di un comparto privato, e che il recupero di questo luogo così importante per la città deve trovare la giusta mediazione e il giusto equilibrio con la sostenibilità economica dello stesso. In breve, il progetto di recupero si sostanzia nell’idea di sfruttare il dislivello di circa 1,5 metri dalla strada di comparto, per realizzare un piano seminterrato di servizio dove ospitare la necessità di auto private. Sopra tale piastra, che diverrà una naturale piazza privata di uso pubblico, verrà collocata la destinazione commerciale, la cui copertura diverrà a sua volta un secondo spazio privato di uso pubblico, una nuova piazza dove collocare anche una sala polivalente per eventi culturali e non solo. Su questa seconda struttura è stato pensato anche un edificio, un elemento regolare rettangolare compatto di sei piani, dove condensare la maggior parte di superficie utile potenziale derivata dal lotto, in modo tale da poter “svuotare” così
la parte interna del Sigarone, che rappresenta la spazialità più
La struttura
interessante dell’edifico esistente, e che cosi verrà mantenuta
In sintesi il progetto si muove a partire dal recupero della struttura esistente, e più in particolare della grande ossatura in cemento armato che viene mantenuta e consolidata, mentre i paramenti in laterizio che costituivano la copertura verranno demoliti: in questo modo la struttura verrà a essere deresponsabilizzata da tali carichi e dovrà, per cosi dire, sostenere
quasi inalterata. Le destinazioni d’uso della “stecca” in elevazione si ipotizzano miste: al primo livello saranno pubblici esercizi, al secondo spazio benessere, al secondo e terzo direzionale, mentre gli ultimi piani saranno destinati a residenze di qualità.
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solo se stessa. A tal fine questa sarà ripulita e consolidata ed è stata immaginata (in questa fase) una rete in metallo a maglia larga che disposta sopra gli archi, riproporrà l’immagine spaziale dell’ex magazzino, senza per questo impegnare staticamente la struttura ma consentendo agli elementi atmosferici di attraversarla, creando nei mesi estivi una piacevole ombreggiatura. In alcuni punti, piano seminterrato e primo, il Sigarone vero e proprio si relazionerà con il nuovo stabile che accoglierà le destinazioni d’uso attive del progetto: un incontro che genererà qualche interazione tra i due edifici in modo tale da ottimizzare la struttura statica del complesso.
Le destinazioni d’uso 3.200 mq 2.200 mq 3.000 mq 500 mq 500 mq 1.000 mq 1.400 mq 11.800 mq
piazza pubblica sopraelevata piazza pubblica al primo livello commerciale, di cui 1.500 metri quadrati di superficie di vendita Conad; pubblico esercizio centro benessere (artigianato alla persona) uffici (direzionale) residenza (circa 20%) equivalenti a 12 alloggi/attici totale
La parte interna del Sigarone che rappresenta la spazialità più interessante dell’edificio esistente, verrà mantenuta quasi inalterata
Sostenibilità ambientale e risparmio energetico Anche se in fase di studio preliminare, il progetto si pone l’obiettivo della sostenibilità ambientale e del risparmio energetico. La prima verrà perseguita attraverso l’utilizzo per il recupero di materiali naturali, ecosostenibili, non nocivi e riciclabili. All’interno del Sigarone è poi prevista un’area verde nel margine nord che si raccorda al parco della torre sul canale di Cino Zucchi, mentre dal piano seminterrato a servizio sono state previste alberature che lo attraversano, sbucando con le chiome al livello della grande piazza pubblica. Per quello che riguarda il risparmio energetico, sia la tecnologia costruttiva sia gli impianti tecnologici saranno scelti e utilizzati in maniera tale da realizzare un edificio dalle importanti performance contenitive come consumi di energia e caratterizzato da un’importante classificazione come classe energetica .
Esempi e riferimenti Ogni progetto è unico, ma lo studio del panorama architettonico internazionale, nel caso delle eccellenze, riserva sempre spunti e indicazioni, e anche nel nostro caso riportiamo due progetti totalmente diversi fra loro, ma che a loro modo hanno influenzato positivamente il nostro intervento.
Il primo esempio è il “restauro/ristrutturazione” dell’Operà di Lione a opera di Jean Nouvel, dove il celebre architetto francese realizza uno dei suoi interventi meglio riusciti e suggestivi. In sintesi, mantiene integri solo i muri perimetrali dell’esistente edificio classico, per intervenire, all’interno di questi, inserendo la nuova struttura in vetro e acciaio, che svetta con una copertura a botte di grandi dimensioni che è diventata l’emblema della città di Lione. La cifra stilistica dell’in-
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tervento viene dettata dal formidabile e bellissimo contrasto tra la storicità delle mura perimetrali (che Nouvel preserva) e la contemporaneità dell’acciaio e vetro del nuovo che le attraversa. Il secondo esempio è la copertura a parabola del giardino lineare nel parco delle Arti e della Scienza a Valencia, a opera di Santiago Calatrava, dove semplicemente questo è coperto da una struttura metallica leggera a parabola che ricorda molto
da vicino il nostro Sigarone, che ha il compito di ombreggiare il giardino. Infatti tale manufatto non è chiuso ma realizzato con delle nervature sottili dove la pioggia possa scorrere, in questo modo la struttura può essere molto più esile in quanto deve sostenere solo il peso proprio e non i carichi accidentali (vento, neve). Deresponsabilizzando in questo modo la struttura , questa diviene semplice atto plastico/scultoreo di grande suggestione architettonica, e offre nei mesi caldi una piacevole ombreggiatura al soggiorno nel giardino. Come si vede questi due esempi virtuosi, seppur distanti fra loro, offrono un’idea di recupero e di spazialità urbana estremamente vicina alle problematiche incontrate nel recupero del nostro Sigarone. NUOVOSTUDIO – Italia . Ravenna Gianluca Bonini Emilio Rambelli Con Stefania Bertozzi, Giovanni Mecozzi, Marcello Pernisa, Andrea Sperandio . www.nuovostudio.com www.world-architects.com www.italian-architects.com/nuovostudio
In alto, il rendering di una veduta del “nuovo Sigarone” presa virtualmente da via Trieste. Qui a fianco uno schema “esploso” delle componenti che formano i volumi del progetto.
RECUPERO ARCHITETTONICO
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In una rubrica i consigli dello chef Faccini per conoscere ingredienti, cotture, attrezzature, caratteristiche degli alimenti e vivere appieno uno dei momenti più appaganti dell’abitare
PENTOLE E PROVETTE
Da anni ormai la riflessione sull’arte culinaria domestica viaggia grazie all’impegno di operatori del settore, critici, cuochi, gourmet, presenti nell’editoria, nella carta stampata, in tv e in ultimo nella rete in forma di blogger, tutti impegnati in un confronto continuo sulla preparazione di vivande, fra piatti della tradizione, proposte classiche ed esperimenti avanzati. La tecnica, l’equilibrio, la creatività albergano stabilmente nelle cucine di tanti appassionati, alle prese con la scoperta e riscoperta di nuove frontiere, di antichi sapori rivisitati, di ricette, di storie e immagini che scaldano il cuore e solleticano il palato. Poco si conosce e si scrive invece su ciò
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Dolci segreti e alchimie in cucina che accade in cucina prima dell’impiattamento finale, dell’assaggio, della messa in opera di ricette e prima di indossare il grembiule e mettere le mani “in pasta”. Ingredienti, cotture, caratteristiche degli alimenti, attrezzature, l’organizzazione degli spazi di lavoro, la fisica e la chimica degli alimenti governano in silenzio le preparazioni, e conoscerne i principi è il vero segreto per avventure emozionanti in cucina. Vale la pena allora avviare un viaggio in più puntate con una guida di esperienza per apprezzare insieme uno dei momenti più appaganti dell’abitare: cucinare. In compagnia dello chef Stefano Fac-
cini troveranno soluzione i tanti quesiti insoluti che mettono a dura prova il più abile dei cuochi di casa e alle volte deprimono apprendisti alle prime armi. Diviso fra l’insegnamento all’istituto professionale di Stato Servizi per l’enogastronomia e l’ospitalità alberghiera di Cervia, i corsi di alta formazione, le consulenze per alberghi e aziende alimentari, Faccini, si è fatto promotore di una nuova cultura gastronomica. Attualmente consulente dell’hotel Michelangelo di Milano Marittima, vanta esperienze nella cucina di Paul Bocuse, di Fredy Girardet in Svizzera, ed è Chef Eurotoque, Commandeur de la Com-
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meanderie des Cordons Blues de France, e discepolo di August Escoffier. Entrando in cucina non si può non pensare prima di tutto al momento della preparazione dei dolci, la pasticceria ha regole ferree e non ammette approssimazioni. Per evitare insuccessi, esiti sconcertanti o anche solo per migliorare prestazioni, apprezzate da parenti e amici occorre sapere che: «Non è bene – assicura lo chef - misurare gli ingredienti con brocche millimetrate, l’inclinazione e l’effetto ottico possono infatti indurre in errore. Quindi la pesatura deve avvenire anche per i liquidi così come per i fogli di colla di pesce. In caso di torte lievitate il passaggio al setaccio è d’obbligo non solo per la farina ma vale anche per il lievito, che vede aumentare il proprio potere all’interno del composto. I lieviti (chimico, quello compresso per panificazione ovvero di birra e quello naturale) non devono mai entrare a contatto con le materie grasse (burro, farina, margarina, tuorlo d’uovo), perché si viene a creare un effetto di saponificazione e il lievito non espleta la propria funzione che è quello di creare anidride carbonica». Domande come: il sale aiuta a montare gli albumi? Per lo chef hanno risposte nette: «Il sale influisce negativamente nel montare gli albumi perché diminuisce la stabilità della schiuma: gli ioni positivi e negativi si contendono i possibili legami sulle molecole, con il risultato di diminuire il legame tra le stesse». E ancora: Perché i grassi hanno un’influenza negativa quando si devono montare gli albumi? «I grassi riducono il volume delle chiare d’uovo montate perché rendono difficile
PENTOLE E PROVETTE
la loro coagulazione. È inoltre sconsigliato montare gli albumi in recipienti di plastica, poiché contengono polimeri con catene di idrocarburi che costituiscono anche la maggior parte delle molecole dei grassi». Meglio quindi utilizzare recipienti in vetro o d’acciaio, magari prima passati con succo di limone e aceto. Quanto all’uso della frusta elettrica o manuale, lo chef ricorda di non partire mai dalla massima velocità, ma procedere per gradi. «Di certo il composto non si offenderà se viene mescolato da destra verso sinistra o viceversa, ciò che importa è che venga incorporata la quantità d’aria necessaria. Per i dolci si mescola dal basso verso l’alto. Se l’azione rimane solo in superficie si crea un effetto gorgo che precipita gli elementi sul fondo, ipotecando per certo, l’abbassamento del composto». Infine se la preparazione prevede l’uso di un uovo sodo, ma è una regola generale, la cottura ideale – svela lo chef è a 68 gradi per 25 minuti. «Sprovvisti di un termometro si può ovviare all’eccessivo indurimento con una cottura per 5 minuti in acqua a 100 gradi, per poi lasciare l’uovo a raffreddare nella stessa acqua. Sopra infatti gli 85° l’uovo indurisce e diviene meno digeribile persino di un fritto cotto a lungo». Per rispondere alle domande più comuni in cucina: Perché succede? Dove sbaglio? Cosa mi manca? Quale utensile usare, quale attrezzatura? E per molto altro, lo chef Faccini è a disposizione dei lettori all’indirizzo e-mail: redazione@trovacasa.ra.it
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«C’è un connubio ancestrale, un contatto antico tra creatività e cucina, specialmente in Italia, descritta spesso nell’ambito cinematografico, Tognazzi su tutti, che si riflette anche in quello progettuale. Ci sono architetti bravi a cucinare non solo da noi, ma da tempo anche a Londra e Parigi».
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Vecchiacanala una romantica e seducente locanda “parigina” nella campagna ravennate di Paolo Bolzani
La doppia natura dell’architetto polivalente Stefano Martini che coniuga la professione di progettista con la passione per la ristorazione contemporanea insieme alla moglie Federica
Con questo articolo rivolgiamo lo sguardo alla figura dell’architetto polivalente e iniziamo dall’architettoste, vale a dire quell’architetto/interior designer che si occupa, nelle proprie attività, anche di ristorazione. Oggi incontriamo Stefano Martini, bolognese classe 1965, ravennate di importazione. Dopo il Liceo Scientifico nella città felsinea, si laurea in architettura a Firenze e intraprende una fortunata carriera professionale dedicata prevalentemente all’interior design.
Nello stesso tempo frequenta i corsi di culinaria di Vittoria Mucciarelli, all’anagrafe peraltro anche sua mamma, che nel frattempo ha creato una scuola di cucina in una casa colonica della campagna ravennate. Questa casa è sorta nel secondo dopoguerra in fregio ad un’antica linea d’acqua artificiale che, abbandonati gli spalti orientali del fiume Lamone per dirigersi verso Ravenna, irriga tuttora le campagne distese tra Santerno e Piangipane. Da qui il nome di
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quella che ora è conosciuta come locanda Vecchiacanala. Per capire meglio il personaggio bisognerà riportare il fatto che Martini, «in mezzo ai fornelli da sempre», ha inoltre lo studio professionale in un capanno sulla via Marabina, vale a dire «la cosa più creativa e dispersiva che ci sia». Il suo filo conduttore è «la creatività, sia nell’interior design sia nella ristorazione», a partire dalla necessità di «creare degli spazi in cui le persone si sentano bene». «Il problema – ammette – è miscelare il mio interesse per la locanda con la professione di architetto, senza che una non cannibalizzi l’altra. Confesso che è il nodo principale della mia vita e ancora non sono riuscito a risolverlo». Per quanto riguarda la locanda, durante il nostro colloquio la riflessione assume una vena inaspettatamente antropologica: «c’è un connubio ancestrale, un contatto antico tra creatività e cucina, specialmente in Italia, descritta spesso nell’ambito cinematografico, Tognazzi su tutti, che si riflette anche in quello progettuale. Ci sono architetti bravi a cucinare non solo da noi, ma da tempo anche a Londra e Parigi». La locanda nasce ufficialmente nel capodanno del 1998 e da quel momento tramite un capillare passa parola il locale si è fatto conoscere sempre di più, anche e spesso al di fuori di Ravenna. L’arredo della Vecchiacanala è un work in progress: «aggiungo e tolgo oggetti continuamente», rivela Martini, «mantenendo un riferimento fisso al gusto dei locali francesi, parigini in particolare, dove la memoria si deposita progressivamente negli oggetti, nelle foto, nelle dediche di chi vuole lasciare un’impressione, un ricordo piacevole. Da tutto questo si è sedimentata la storicità del locale». Non meraviglia perciò scoprire come l’arredamento sia in realtà una ben dosata miscellanea di stili, oscillante tra «vintage, in parti-
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colare del periodo dal 1910 al 1940, e arredi di design, come le sedioline di Starck della Kartell o alle lampade a cappello in pergamena di Santa&Cole». Questo recupero della golden age primo Novecento, per la quale il sedersi in un divano è anche fare un tuffo nella memoria, è stato progettato da Martini sotto gli influssi benefici della sua musa ispiratrice, Federica Piani, all’anagrafe peraltro anche sua moglie, «senza la quale nulla sarebbe stato creato». Entrambi dirigono la linea culinaria del locale che, per ovvie ascendenze personali, rivela un timbro emiliano-bolognese, trionfante nel «miglior gnocco fritto di Ravenna e dintorni, a parte un ottimo pesce e carne». Da qualche anno il ristorante è stato inoltre implementato di un servizio di pernottamento, dotandolo di tre suite al primo piano, «dove si può tranquillamente cenare in camera». Quali aggettivi si potrebbero utilizzare per descrivere la Locanda di Stefano e Federica? «Qualcuno dice che la Vecchiacanala è bello anche senza gente», sorride sornione il nostro architettoste, mentre evoca la scelta per il damascato e per le stoffe operate, per l’«ipercolorato» nelle camere, personalizzate anche nella scelta musicale e dotate di bagni con sanitari neri di design e con arredi vintage, che si rivela sempre «un incrocio vincente». Molta attenzione viene dedicata alla capacità di discrezione del personale, che è una componente essenziale, in quanto «con le camere ci vuole “molta mano” così come nel servizio ai tavoli». In questo Martini è il grande regista, che deve presenziare alla scena anche fino a tarda sera; ma alla mattina «bastano due alkaseltzer e via andare». In definitiva si tratta di un locale dove si sta bene, plasmato da una vena romantica di gusto parigino, dove «di solito l’atmosfera è descritta come “calda”, “seducente”, studiata sia negli ar-
L’arredo della Vecchiacanala è un work in progress: «aggiungo e tolgo oggetti continuamente, mantenendo un riferimento fisso al gusto dei locali francesi, parigini in particolare, dove la memoria si deposita progressivamente negli oggetti, nelle foto, nelle dediche di chi vuole lasciare un’impressione, un ricordo piacevole. Da tutto questo si è sedimentata la storicità del locale».
redi sia nell’illuminazione affinché tutto vada a segno», rincara la dose il nostro architettoste. E qui il cronachista lascia che il lettore viaggi con la propria immaginazione sulle molteplici evoluzioni della dinner affinity, complice il giardino estivo. Disegnato da Martini «a semicerchi crescenti a partire da un gazebo, con schermate successive per articolare la profondità» e nel tempo cresciuto oltre la immaginazione del suo progettista, è divenuto la quinta naturale verde e fiorita, sede appropriata per rinfreschi e pranzi di matrimonio. Ma è tempo di ritornare ai tavoli da disegno. L’intervista è finita e, con un sospiro, si ripensa fugacemente al destino della polivalenza, delizia e dilemma dell’architetto.
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Un “film” tricolore le lotte e le fatiche per addomesticare acque e terre Storia delle imprese di bonifica nel territorio romagnolo, dall’unità di Italia ad oggi, in una ricerca a cura di Tito Menzani di Pietro Barberini Le celebrazioni dei centocinquant'anni di “unità”, al di là delle suggestioni celebrative, hanno permesso di delimitare spazi d'indagine in campi talvolta trascurati, come lo sviluppo infrastrutturale. Così è la ricerca a cura di Tito Menzani, pubblicata recentemente con il titolo L’attività di bonifica nel territorio romagnolo. Percorsi di sviluppo in 150 anni di Talia unita (18612011), dalla casa editrice La Mandragora. I confini dell'agire legislativo nei confronti dell'assetto idrogeologico del territorio, spesso sono netti e precisi: hanno date d'inizio lavori, che procedono per stralci, seguendo progetti attuativi, con tempi d'esecuzione rapidi. Nel nostro terri-
TOPOGRAFIA E STORIA
torio la guida di questi lavori ha trovato ordine dopo l'unità d'Italia, producendo significativi, se non epocali, ambiamenti. Lo Stato unitario ha promosso importanti lavori di bonifica e il riassetto idrogeologico, inizialmente riattivando i lavori della “Cassa di Colmata” del fiume Lamone, dove l'intelligenza e la perizia dei tecnici dello Stato pontificio, avevano tracciato un grande progetto. Era stata già creata una rete di canali, “savanelle” e arginature che circondavano le zone ancora acquitrinose, per ricavarne terreni da utilizzare per la coltivazione del riso, prima di raggiungere la “quota di stralcio” ed essere così destinati alle colture “asciutte”. Seppur intralciata da
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I segni si sovrappongono con strati alluvionali che coprono la “vernice” vecchia della storia molti proprietari agrari, la bonificazione del territorio proseguì, scandita dai ritmi lenti determinati dall'afflusso delle torbide primaverili ed autunnali, che un sistema di regimazione consentiva di regolare. Vennnero pian piano bonificati vasti terreni paludosi, ricoperti di fertile “humus” trasportato dai versanti collinari della valle del Lamone, sebbene i concessionari delle risaie all'azzardo cercassero di impedire, con mezzi quasi sempre illeciti, l'alluvionamento determinato dalle piene del fiume, con la conseguente perdita della redditizia produzione risicola. Ma la bonifica idraulica proseguì inarrestabile! La costruzione di strade carreggiabili e carraie di servizio, chiuse, canali di scolo e ponticelli, richiese l'utilizzo di molta manodopera: “terrazzieri”, scarriolanti, birocciai, muratori e operai giornalieri. Un gran numero di persone, provenienti da Ravenna e dalle frazioni di Piangipane, Santerno, Mezzano e Savarna. Il territorio non è nuovo a grandi progetti di bonificazione, dalla Clementina (1531) alla Gregoriana del 1578. L'opera non venne circoscritta e finalizzata soltanto alla conquista di nuove terre, bensì integrata in un progetto di riassetto idrogeologico di una vasta parte della pianura romagnola, compresa fra il torrente Sillaro, il fiume Reno e il
Acque e terre separate in maniera stabile l'attività dei consorzi di bonifica. Monitoraggio e manutenzione nel presidio del territorio mare Adriatico a nord dei fiumi Uniti. La dimensione locale e quella nazionale, trovarono così un obiettivo comune nella crescita della stessa rete infrastrutturale, arricchita di ferrovie, capaci non solo di abbreviare le distanze, ma di dare un impulso straordinario al trasporto delle merci. Anche a livello figurativo il treno rappresenta il mondo moderno! Il volume, edito con il fondamentale sostegno del Consorzio di bonifica della Romagna occidentale, permette di cogliere il rapporto fra dimensione locale e quadro nazionale: «... lo Stato unitario ebbe la capacità di promuovere il riassetto idrogeologico attraverso un nuovo quadro legilsativo, dall'altro varie compagini romagnole si fecero carico di portare avanti la bonifica e con essa lo sviluppo economico e il progresso sociale. Fra queste, vanno sicuramente ricordati i consorzi di bonifica, custodi di saperi millenari e di competenze pratiche in fatto di acque, e come tali fra i principali attori del processo di modernizzazione». Nel volume, come si legge in una nota, «questi aspetti sono analizzati da differenti angoli visuali, che contribuiscono a gettare nuova luce su queste vicende storiche. La dimensione istituzionale, l'iconografia, la geologia storica, la business history
Nella pagina precedente, due mappe di Coronelli e di Magini che, fra la fine del ‘500 e quella del ‘600, tracciano la corografia del territorio ravennate. In questa pagina, la pianta attuale del distretto di pianura del Consorzio di Bonifica della Romagna Occidentale.
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– solo per ricordare alcuni approcci disciplinari – sono qui utilizzate per approfondire o analizzare ex novo i vari passaggi che hanno accompagnato la Romagna nell'ultimo secolo e mezzo. Le zone acquitrinose e prive di sicurezza idraulica, in cui braccianti e agricoltori si affannavano a ricavare i frutti della propria sussistenza, sono diventate aree in cui le terre e le acque sono separate in maniera stabile, tali da consentire insediamenti antropici, attività agro-alimentari, manifatturiere e del terziario, che hanno poi portato all'attuale società del benessere. I consorzi di bonifica continuano ancora oggi a svolgere il proprio compito di presidio del territorio, perchè nulla è dato per sempre e il complesso sistema di canali, chiaviche, impianti idrovori e simili necessita di un costante monitoraggio e di una frequente manutenzione, nonché di innovazioni legate alle sempre nuove esigenze socio-economiche e alla disponibilità di tecnologie più avanzate». Quando si parla di bonifica, nella nostra pianura piatta, il pensiero va sempre all'acqua; eppure la tutela dell'assetto idrogeologico non può prescindere dalla collina. I lavori di “gradonatura” dei versanti collinari, la forestazione
Nelle due immagini d’epoca, la visita del Re alle bonifiche ravennati (1918) e, in basso, lavori di ripristino dell’argine del fiume Senio nei pressi di Fusignano (1949).
dei pendii e crinali, la costruzione di briglie e “brigliette” per frenare l'erosione, soprattutto nelle zone calanchive sono fondamentali per non “scaricare” i problemi a valle! Questi lavori, apparentemente lontani da quelli effettuati nella Cassa di Colmata del Lamone, vengono descritti nel capitolo: “Erosione del suolo e bonifica nell'Appennino romagnolo”. Non poteva mancare, in un'opera del genere, un importante spazio fotografico dal titolo “La memoria visiva della bonifica in 150 anni di immagini”. Si tratta di una scansione nella memoria di 150 anni della nostra storia, che raccoglie un secolo di immagini fotografiche, per essere esatti. La scansione è rettilinea e viene rappresentata dal canale di bonifica in Destra Reno, chiamato dalle popolazioni della bassa Romagna: “Scolo delle acque chiare”. Niente di più esatto. Infatti, questo lungo canale che attraversa tutta la provincia, da ovest, nel territorio comunale di Conselice ad est dove trova il mare presso Casalborsetti, raccoglie le acque “basse” di drenaggio e scolo naturale. Opera fondamentale, il Destra Reno, per scolare le basse acquitrinose fra i fiumi Sillaro, Santerno e Senio. Le due “botti” che passano sotto il Santerno e poi sotto il Senio, rappresentano opere d'arte del tutto indispensabili e funzionali, quanto monumentali: contrassegni della memoria! Non ci sono soltanto le “sotterranee” al fiume Senio (cinque canne) o quella a tre canne, del Santerno, presso Villa Pianta, ma anche briglie e “sfioratori a pozzo” chiuse, impianti idrovori e visite del Re alle bonifiche e alle terre sottratte alle “paludi malariche”. Ci sono poi alcune immagini scattate dal fotografo Umberto Trapani nell'autunno del 1949 presso Fusignano: riguardano la documentazione dei lavori di ripristino dell'argine del fiume Senio. Con le altre rappresentano una sorta di “fermo immagine” in quella sorta di film in bianco e nero che racconta una storia di fatiche e lotte per abitare un territorio rendendolo meno ostile. Una guerra combattuta con braccia e “paletto”, ma guidate da carte e progetti. Le mappe pubblicate riescono a consegnare all'Italia unita un territorio geografico “unitario”: una visione moderna, anche se la corografia del Coronelli è della fine del Seicento .
ANNOTAZIONI Per celebrare i 150 anni di Italia unita, il Consorzio di Bonifica della Romagna Occidentale nel volume citato si è avvalso dei contributi di: Tito Menzani, La bonifica nella pianura fra Sillaro e Lamone: aspetti legislativi ed economici. Mauro Mazzotti, La bonifica ravennate fra il Reno e la costa. La costruzione del territorio. Stefano Marabini, Erosione del suolo e bonifica nell'Appennino romagnolo. Raffaella Biscioni, La memoria visiva della bonifica in 150 anni di immagini. Fiorenzo Landi, In conclusione. L'importanza della bonifica fra passato e futuro. Anna Maria Martuccelli, L'irrigazione e la protezione del territorio nell'Italia unita: il percorso evolutivo della bonifica (1861-2011).
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La piantina è del geometra Valerio Calistri.
Le osservazioni e un progetto per far camminare un sogno “La Darsena che vorrei” di Pietro Barberini «Pronto...» «Ciao Pietro, sono Valerio, la prossima settimana c'è una grossa iniziativa, la chiamano processo partecipativo, sul tema: “la Darsena che vorrei”, andiamo a vedere?» «Perchè no!? Potremmo fare qualche proposta, tu hai le competenze tecniche e tieni lo studio nel quartiere. Sentire un po' di proposte è sempre stimolante!» Con Valerio ci si sente spesso, è uno dei tecnici e ricercatori che partecipa al tavolo di confronto “Territorio 360 gradi”. Il gran numero di persone all'Almagià preannuncia un iter fatto di incontri, gruppi d'approfondimento, giochi di ruolo per architetti, progettisti, urbanisti, ma ci sono anche insegnanti, sociologi e cittadini contenti di partecipare. Alle volte abbiamo l'impressione di tornare indietro ma l'espe-
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rienza “va in porto”, anzi arriva in Darsena! Al momento di scrivere queste note, è giunta la triste notizia dell'improvvisa scomparsa dell'assessore Gabrio Maraldi. Proprio lui aveva dato il “colpo di sirena” per questa “navigazione” tra idee e progetti, cubature e sogni utopici con il taglio non del politico, bensì dell'uomo appassionato della sua città e del suo quartiere. Gabrio Maraldi non sarà in banchina e questo dovrà spingere a rinnovare il senso comune di un desiderio e del suo ottimismo. Valerio Calistri ed io abbiamo partecipato, condiviso, appoggiato e immaginato questa Ravenna difficile da disegnare. Abbiamo dato un piccolo contributo, consegnandolo al “Processo partecipativo”.
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LA STORIA La Darsena di città si sviluppa, come terminale portuale, verso la fine del XVIII Sec., con la costruzione dei magazzini disegnati dal Morigia. Soltanto nel 1863 si creano le premesse per la crescita infrastrutturale di un quartiere industriale: viene infatti realizzata, di fronte alla darsena, la stazione ferroviaria. Sono abbattuti oltre 500 metri di cinta muraria cittadina, portati i binari a fianco delle banchine e tracciate nuove strade:una di queste, dalla chiesa di San Simone, prosegue verso est-sud est, ricalcando l'attuale, iniziale percorso di via Tommaso Gulli. Lo sviluppo di insediamenti commerciali e produttivi nella zona a sinistra e a destra del canale Candiano, avviene alla fine dell'Ottocento, per poi continuare dopo il primo conflitto mondiale, nella creazione del quartiere costituito da un reticolo di collegamenti fra via d'Alaggio e via Trieste, strada, quest'ultima, che divide la zona industriale da quella abitativa. Dalle ceneri della seconda guerra mondiale, parte la riorganizzazione della zona portuale, rinunciando all'angusta “darsenetta” le cui banchine appaiono distrutte dopo i bombardamenti dell'estate del '44. La vecchia Darsena “dei velieri” viene tombata e prende forma l'attuale terminale, dall'inconfondibile forma a “delta”. I SEGNI DELLO SVILUPPO La zona industriale lungo via Trieste si prolunga fino a congiungersi con via d'Alaggio dopo la Sarom, in località San Vitala o “ Vitalaccia”. Sulla sinistra della darsena, parallela all'asta del Candiano, via delle Industrie porta al grande stabilimento petrolchimico Anic. A “chiudere” tutto il comparto, a nord, oltre la linea della via Baiona, e i canali Drittolo, via Cupa e via Canala. In città ci sono tre linee dominanti che sostengono il progetto unitario, già oggetto di alcuni interventi edilizi. La banchina “via
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A fianco, veduta dell’inizio di via Lanciani da via Perilli, all’incrocio con via Trieste. In basso, Pietro Barberini (autore di questo servizio, a sinistra) e Valerio Calistri, geometra iscritto al Collegio dal 1995 con studio in via Lanciani 28. Nell'organizzazione professionale di Ravenna, Calistri è responsabile della Commissione Catasto.
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d'Alaggio” chiamata water front, via Trieste che, senza soluzione di continuità unisce le torri di raffreddamento della ex raffineria Sarom al parcheggio prospicente via Magazzini Anteriori che appena lascia percepire il vecchio specchio d'acqua portuale, carico di memorie e suggestioni. Una linea forte, trasversale che unisce architetture razionaliste ad edifici d'archeologia industriale, come i magazzini dell'Almagià, congiunge via Canale Molinetto con la banchina del Candiano. Un asse viario costituito da viale Filippo Lanciani e via Mederico Perilli. Un segno urbanistico forte, che unisce due linee d'acqua. Via Canale Molinetto, come suggerisce il nome, segue l'andamento del canale di scarico del molino Lovatelli, ora tombato. Precedentemente vi scorreva, dal 1300 al 1735, il fiume Ronco: ciò spiega l'andamento e la larghezza di questa doppia via (Bellucci- Destra canale Molinetto) e l'ampio spazio centrale.
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Via Lanciani ripresa verso via Bellucci all’incocio con via Tommaso Gulli.
VIVERE LA DARSENA Qualunque progetto e idea inerente alla Darsena incontra oggi molte difficolta’ per diverse ragioni. Il principale argomento che blocca le iniziative deriva dal fatto che la darsena, oggi, non è organizzata per ricevere nuovi interventi nel campo residenziale e commerciale. Qualsiasi imprenditore, non è incentivato ad investire. Gli ostacoli: recinzioni alte 3 metri, muri in cemento armato e cancelli impediscono l’accesso alla darsena la banchina non è pronta per essere “vissuta” la presenza di alcune attività industriali e produttive incompatibili. Manca l’elemento aggiuntivo che faccia propendere verso investimenti privati, costruire o ristrutturare alla darsena non è poi così diverso che farlo in periferia data la totale indisponibilità (anche visiva) dell’elemento acqua. La promessa che la darsena diventerà qualcosa di unico nel territorio ravennate non è credibile. Occorre un primo passo, un “impulso” che faccia della darsena un luogo appetibile agli investimenti privati e che inizi a far sognare. Investire quindi per creare attrazione verso un quartiere che ha le potenzialità per diventare unico, non solo nel panorama romagnolo ma anche in un contesto ben più ampio. Chi deve fare il primo passo ? Ovviamente l'Aamministrazione comunale con risorse proprie e/o fondi statali o europei. Vivere la darsena, subito, è una sorta di cura – chock! Si può partire eliminando subito le barriere che impediscono l’accesso, creando una banchina transitabile che possa ospitare una passeggiata “lungo-canale” , sistemando ed arredando lo spazio fra i fabbricati e il Candiano, decentrando le attività incongruenti con progetti residenziali e/o commerciali. Sarà sufficiente? Comunque non si potrà prescindere da questo, per nutrire la speranza che la darsena possa diventare veramente un luogo “unico” e di grande personalità urbanistica. Immaginate una passeggiata sul “water front”, dal ponte fino alla stazione farebbe nascere attività come ristoranti, bar e negozi. Il collegamento fra le due sponde della darsena potrebbe essere facilitato da un ponte mobile pedonale. IL SIMBOLO DELLA DARSENA E DELLA SUA MEMORIA La darsena ha bisogno di un simbolo della sua ristrutturazione, un'icona che rappresenti il nuovo quartiere. Di difficile esecuzione è imporre ai fabbricati ristrutturati una linea costruttiva che li accomuni. L’idea che avanziamo è mantenere alcuni simboli del passato ancora presenti sulla banchina, ciò rafforzerebbe anche un legame con il passato. Il simbolo c'è già! Su via d’Alaggio è posta una tramoggia d'aspirazione (pipa) in
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Via Lanciani ripresa verso via Trieste con alle spalle via Bellucci-Canale Molinetto
La “pipa” sulla banchina di via D'Alaggio
ferro molto alta visibile sia dal ponte mobile che dalla stazione. Una ristrutturazione mettendola in sicurezza farebbe di questa struttura l'immagine perfetta della Darsena ad un costo relativamente basso. Ovviamente le bitte presenti andrebbero salvaguardate. L'IPPODROMO “CANDIANO” SI AVVICINA ALLA DARSENA ATTRAVERSO LA RIQUALIFICAZIONE DELL'ASSE VIA LANCIANI – VIA PERILLI Le vie Perilli e Lanciani potrebbero costituire un prolungamento della “passeggiata” lungo le banchine portuali. L'arredo urbano, sostenuto da un segno di continuità basato sul colore e la tipologia del lastricato e la persistenza di elementi come le bitte, da utilizzare come marca linea o divisori, rafforzerà questa funzione. Non va dimenticato che via Lanciani collega l'area dell'ippodromo attraverso l'ingresso di via Timavo, con la Darsena. La riqualificazione delle due strade valorizzerà così l'ippodromo e le sue pertinenze attrezzate a verde pubblico. Il doppio viale di via Lanciani, andrebbe sistemato con la piantumazione di nuove alberature, ove mancano e la cura delle piante in essere. Le due vie, intitolate a due grandi tecnici che operarono per il miglioramento del territorio attraverso la bonifica e la realizzazione di importanti opere portuali, possono così rivitalizzare un collegamento vivo, sottolineando strutture architettoniche di pregio costruite nel ventennio 40-60, come le case popolari e diverse villette uni e bi-familiari.
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di Domenico Mollura
Un convegno Cna ha affrontato i problemi di tutela dei lavoratori, i principi del "ben costruire", la responsabilità dei datori di lavoro e le azioni di prevenzione
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Sono trascorsi quattro mesi dalla prima scossa di terremoto che il 20 maggio ha sconvolto il cuore dell’Emilia facendo crollare numerosissimi edifici, spezzando molte vite, facendo vacillare la classificazione sismica del territorio e, di conseguenza, la sicurezza degli edifici civili e produttivi. Una buona parte di questi ultimi, infatti, hanno dimostrato di essere altamente vulnerabili al sisma, crollando, in tutto o in parte, e causando la morte di alcuni operai che lavoravano al loro interno durante gli eventi di magnitudo più intensa. È forse questo il dato che ha maggiormente contraddistinto il sisma dell’Emilia rispetto agli altri terremoti degli ultimi decenni. Le questioni aperte dagli eventi sismici, tuttavia, travalicano i confini dei territori colpiti per estendersi all’intero Paese. Anche a Ravenna è necessario porre la questione della vulnerabilità dei fabbricati ad uso produttivo in considerazione del fatto che, almeno fino al 19 maggio scorso, Mirandola veniva classificata in zona sismica III come Ravenna tutt’oggi, in una scala che va da 4 (sismicità molto bassa) a 1 (sismicità alta). Queste tematiche sono state sviluppate nello scorso luglio dalla Cna della Provincia di Ravenna nella conferenza dal titolo “Emergenza sisma – la sicurezza negli edifici artigianali e industriali”. L’incontro è stato organizzato in collaborazione con Servin Scpa, società ravennate di servizi tecnico-professionali nei settori dell’ingegneria ambientale, della sicurezza e dell’impiantistica. Massimo Stanghellini, Responsabile Servin del settore Sicurezza e Sistemi di Gestione, ha illustrato come gli obblighi del “Testo Unico in materia di sicurezza e salute sul lavoro” ricoprano anche
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Terremoto:
la sicurezza degli edifici industriali
gli aspetti legati all’idoneità statica degli edifici produttivi. Riflettori puntati sulla sicurezza dei luoghi di lavoro, pertanto, declinata alla luce dei danni provocati dal terremoto, con attenzione alla cultura della prevenzione, al rispetto e alla tutela della salute dei lavoratori, ai principi etici e ai risvolti economici del “fare” sicurezza, alla responsabilità dei Datori di Lavoro in caso di crolli causati da sisma. Il settore produttivo è quello, dati alla mano, che ha pagato il prezzo maggiore in termini di danni materiali (circa 5 milioni di euro, oltre 65 mila le imprese presenti nelle zone colpite), senza contare che il fermo degli impianti ha provocato effetti negativi sul PIL nazionale con una contrazione pari all’1%. Per tale motivo la verifica e l’eventuale messa in sicurezza degli edifici produttivi sono interventi di stringente attualità. L’Ingegnere Alberto Gentili, consulente Servin, ha evidenziato l’eccezionalità degli eventi sismici del maggio scorso, illustrando alcuni dati relativi alle forze generate dalle scosse e la reazione delle diverse componenti strutturali dei capannoni ad uso produttivo, soffermandosi sui contenuti tecnici dei provvedimenti di legge varati per far fronte all’emergenza. Tali provvedimenti sono finalizzati a «…favorire la rapida ripresa delle attività produttive e delle normali condizioni di vita e di lavoro in condizioni di sicurezza adeguate (…)», come si legge nell’Ordinanza n. 002 del Capo del Dipartimento della
Protezione Civile, attraverso una precisa procedura per il miglioramento sismico dell’edificio produttivo, evidenziando come la sicurezza dei luoghi di lavoro sia un obbligo del titolare dell’attività produttiva (art. 18 e art. 63, c.1 D.Lgs. 81/2008, art. 2087 Codice Civile). Nel dettaglio il Decreto Legge n. 74 individua le tre fondamentali cause tecniche cha hanno provocato il crollo degli edifici produttivi, indicando al contempo altrettanti principi guida di intervento: le connessioni tra le diverse parti strutturali non devono avvenire per solo attrito; le tamponature e le scaffalature interne devono essere ancorate stabilmente alle strutture. A ciò si aggiunge la necessità di procedere alle verifiche di sicurezza attraverso le quali si ricostruisce il progetto dell’edificio con ricerche di archivio, prove sui materiali e modellazioni, al fine di fotografare la reale vulnerabilità al terremoto. Se queste ultime attività non dovessero assicurare la sicurezza sismica dell’edificio si dovrà intervenire con delle opere di adeguamento tali da garantire un livello pari almeno al 60% di quello richiesto agli edifici di nuova costruzione. Tuttavia il progetto di miglioramento dell’edificio non può essere ridotto ad una semplice sequenza di interventi “standard”. Paradossalmente, infatti, proprio la standardizzazione dei fabbricati ad uso produttivo ne ha, da un lato, semplificato le modalità costruttive ma, dall’altro, ha reso più “fragile” il suo
Nella pagina a fianco, i devastanti effetti del terremoto sulle strutture industriali emiliane, (nello specifico, la Haemotronic di Medolla) che hanno provocato oltre a ingenti danni materiali anche diverse vittime fra le maestranze che vi lavoravano. Ora si tratta di ricostruire con nuovi è più stringenti criteri di sicurezza degli impianti.
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ARCHITETTURA E SICUREZZA
Anche a Ravenna è necessario porre la questione della vulnerabilità dei fabbricati ad uso produttivo. Mirandola infatti veniva classificata prima del sisma in zona III come Ravenna tutt'oggi in una scala che va da IV (molto bassa) a I (sismicità alta).
sistema edilizio che diventa sensibile al sisma a causa dei numerosi elementi secondari non strutturali (tramezzi, finestre, binari per macchine, tettoie esterne) che rendono ogni capannone un “prototipo”. Per questo motivo non si possono programmare degli interventi validi per tutti i capannoni. Esistono tuttavia le Linee guida della Protezione Civile che costituiscono la base di partenza per il progetto di adeguamento; queste hanno valore vincolante per le aree colpite dal sisma ma costituiscono un supporto utile anche per il miglioramento sismico degli edifici produttivi in altre zone del Paese. L’Avvocato Giampiero Ricci ha poi affrontato gli aspetti giuridici che legano la figura del Datore di Lavoro alla sicurezza (da leggere anche come “idoneità statica”) del fabbricato in cui ha sede la propria attività. L’evento sismico non risponde ai criteri di “prevedibilità e controllabilità”, tuttavia, la responsabilità del Datore di Lavoro, proprietario o solo conduttore dell’immobile, entra in gioco con l’interpretazione delle norme (quella antisismica su tutte) che impongono la valutazione di tutti i rischi connessi all’attività, la sostituzione di ciò che è pericoloso con ciò che non lo è (o lo è meno) e, più in generale, la tutela della pubblica incolumità. Il regime delle responsabilità si estende, inoltre, anche ai proprietari degli immobili, ai progettisti e ai collaudatori delle opere. La sicurezza dei luoghi di lavoro, nonostante l’imponente corpo normativo che la regola, non è riducibile ad un semplice requisito di legge da rispettare ma si carica di risvolti etici e (sarebbe inutile negarlo) anche economici, non come costo, piuttosto come investimento; «si pensi – ha sottolineato ancora l’Ingegnere Gentili – ai numerosissimi tetti fotovoltaici di capannoni distrutti dal sisma e al lungo periodo necessario per rientrare dei costi di installazione dei pannelli». In quest’ottica la messa in valore dei capannoni, attraverso l’adeguamento sismico della costruzione, garantisce non solo l’incolumità degli occupanti, ma permette all’imprenditore di disporre pienamente di un bene, altrimenti classificabile come contenitore passivo della propria attività produttiva.
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Manfred Wehdorn Architekt, ovvero considerare la città come
«opera d’arte integrale» di Domenico Mollura La Scuola Superiore di Studi sulla Città e il Territorio di Ravenna e la Facoltà di Ingegneria, Corso di laurea in Ingegneria Edile – sede di Ravenna, hanno realizzato, nello scorso mese di giugno, la mostra dal titolo Manfred Wehdorn Architekt, curata da Massimilano Casavecchia e Luca Cipriani. L’esposizione, allestita presso l’Urban Center con il patrocinio dell’Ordine degli Architetti della Provincia di Ravenna, rientra nell’ambito delle attività dell’Archivio della Città Contemporanea (vedi box) ed ha avuto come protagonista l’architetto austriaco Manfred Wehdorn, già presente a Ravenna nel corso del 2010 con un workshop di progettazione urbana della Technischen Universität di Vienna incentrato sul recupero della Darsena di Città e con la successiva mostra dei progetti presentati dai propri allievi. Il riconoscimento, e l’importanza, dell’attività svolta dall’architetto viennese viene testimoniato nel catalogo della mostra, corredato di una ricca bibliografia e dal regesto delle opere, nella quale spiccano le presentazioni firmate dal Presidente della Repubblica Austriaca, dal Sindaco di Vienna (città che ha contribuito alla realizzazione della mostra con il prestito di alcuni dei materiali esposti) e dal Direttore Generale per la Cultura dell’Unesco. Attraverso questi scritti emerge in modo evidente il ruolo svolto da Wehdorn come professionista, come docente universitario, come divulgatore e protagonista della cultura della conservazione delle città storiche e del patrimonio architettonico mondiale. Tuttavia appare immediatamente chiaro che la parola “conservazione” non rappresenta per Wehdorn un dogma di immobilismo; al contrario riflette la precisa volontà di cimentarsi, in ogni progetto, con la storia in un confronto “alla pari” nel quale l’architettura contemporanea si esprime con il proprio linguaggio, lontana da mimetismi scontati (e di dubbia efficacia). Il presupposto ad ogni intervento progettuale, nel quale al restauro si coniuga l’urbanistica, è quello di considerare la città come «opera d’arte integrale», con una particolare attenzione all’archeologia industriale, ca-
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«Una città non si intende come la somma dei singoli edifici ma come opera d’arte integrale. Noi tutti ne facciamo parte». Manfred Wehdorn, Il mio credo dell’Architetto, punto n. 10
pace di esprimere dei veri e propri “monumenti” che al pari delle grandi realizzazioni del passato hanno il diritto alla tutela. È in questa prospettiva che Wehdorn, insieme ad un collaudato gruppo di collaboratori, opera come “chirurgo dell’architettura” con l’obiettivo di creare dei ponti tra l’antico e il nuovo. Per poter fare ciò è necessario porsi al centro di una complessa macchina organizzativa che prevede la compresenza delle più diverse professionalità. E il risultato a volte travalica anche i limiti del singolo progetto. Molti dei restauri coordinati dallo studio viennese, infatti, hanno avuto la forza di scatenare, in modo indiretto, la riqualificazione dell’immediato contesto contribuendo alla sua rivitalizzazione urbana.
Archivio della città contemporanea L’Archivio della Città Contemporanea è un progetto speciale promosso dalla Scuola Superiore mirato alla valorizzazione della “memoria del presente”, rivendicandone il ruolo spesso offuscato dal peso storico delle testimonianze del passato. In questa prospettiva la città contemporanea può essere raccontata attraverso tutte le forme comunicative che caratterizzano la nostra epoca e che contribuiscono insieme al linguaggio dell’architettura, a fissare i caratteri salienti delle trasformazioni urbane e territoriali più recenti anche grazie a realizzazioni (ancora) sconosciute. L’Archivio della città contemporanea si propone di raccogliere, e mettere a sistema, “immagini, plastici, progetti, archivi di architetti e di istituzioni, video e bibliografie,…”, materiali resi poi accessibili con la realizzazione di un portale dell’architettura contemporanea e l’allestimento di mostre.
Nella pagina a sinistra: immagini della riqualificazione di uno dei quattro imponenti gasometr di Vienna firmati da Wehdorn. Gli altri tre edifici di archeologia industriale sono stati riconvertiti architettonicamente e funzionalmente da J.Nouvel, Coop Himmelb(l)au, W.Holzbauer. Qui sopra (dall’alto verso il basso): restauro dell’orangerie del castello di Schonbrunn (Vienna); progetto di recupero dell’ex macello di Udine; l’Hofpavillon di Otto Wagner (Vienna); il nuovo centro turistico all’abbazia di Melk in Austria.
DOCUMENTI E PROGETTI
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Restauri al castello di Schonbrunn (Vienna). Dettaglio della posa di pavimento galleggiante per il passaggio dei nuovi impianti.
Scorrendo i progetti esposti sembra quasi di sfogliare un libro di storia dell’architettura, dominato dalle grandi costruzioni barocche austriache alle quali si alternano importanti interventi di trasformazione del costruito. Tra le “Opere scelte”, localizzate in patria, nella propria città e in diversi paesi del mondo (Etiopia, Azerbaijan e rappresentata da tavole grafiche e modelli, si possono annoverare la ristrutturazione del Castello di Schönbrunn (1994-2009), la trasformazione e l’ampliamento del convento benedettino di Melk (2007-2011), fino al progetto di restauro dell’Hofpavillion di Otto Wagner (2012). Di rilievo, per il ruolo di elementi di riqualificazione urbana l’ormai celebre progetto di ristrutturazione dei Gasometri nel Simmering (trasformati in centro commerciale, uffici e residenze, con Jean Nouvel, Coop-Himmelb(l)au e W. Holzbauer, 1999-2001) e il progetto recupero dell’ex Macello Comunale di Udine (trasformato in centro polifunzionale per attività socio-culturali, 2007-2011). All’interno della mostra ha trovato spazio anche la rassegna cinematografica “Vienna: cinema e architettura” (proiettato, tra gli altri, “Volo su Vienna” del 1918 che documenta l’impresa di Gabriele D’Annunzio) e la proiezione continua di video “ViennaTube: temi e personaggi” incentrato sulla Vienna contemporanea e sulla Secessione, con le figure di Otto Wagner, Josef Hoffmann, Koloman Moser.
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CITTÀ SOSTENIBILE
Poc tematico Darsena di città e urbanistica sostenibile A un anno di distanza dall’incontro con i cittadini all’Almagià, come proseguire il percorso di progettazione partecipata “La Darsena che vorrei”
La recentissima e dolorosissima scomparsa del nostro Assessore all’Urbanistica: Gabrio Maraldi, nonché la volontà di proseguire nel solco del cambiamento da lui tracciato, ci impongono doverose riflessioni su come continuare il suo prezioso lavoro e come accogliere la sua eredità politica. Un anno è trascorso, un anno esatto da quella serata in cui più di quattrocento cittadini si incontrarono all’Almagià, per attivare il percorso di progettazione partecipata “La Darsena che vorrei”. Un anno vissuto intensamente, in cui l’impegno di tanti cittadini attivi e la disponibilità e lungimiranza degli amministratori ha permesso di dar vita al “Piano degli obiettivi e delle azioni per il POC tematico Darsena di città” Il Piano raccoglie, sistematizza e ordina obiettivi, azioni strategiche e appunti normativi per il Poc “Darsena di città” che il Poc stesso dovrà approfondire e sui quali la Valsat, che dovrà essere redatta contestualmente al Poc, dovrà applicare le metodologie e le valutazioni di Sostenibilità Ambientale. Solo in tal modo la Valsat, oltre agli obblighi normativi e procedurali, assolverà anche al ruolo di interagire con il redigendo Poc supportandolo nelle scelte e aumentandone così il suo grado di fattibilità, qualità e rendimento. Oggi si parla molto di sostenibilità. Forse anche troppo. Aggettivando con il termine “sostenibile” diversi sostantivi (sviluppo sostenibile, turismo sostenibile, mobilità sostenibile, ecc.) o al contrario non aggettivando affatto il termine “sostenibilità” (e con ciò assumendo che la sostenibilità sia solo quella ambientale). A questo proposito è opportuno ricordare che territorio e ambiente non sono sinonimi; il territorio è lo spazio fisico sul quale si svolgono le attività antropiche e comprende l’ambiente naturale, ma anche l’accumulo materiale e immateriale che l’uomo ha sedimentato nel tempo (cultura, tradizioni, modalità d’uso e organizzazione sociale). La “sostenibilità globale” ha a che fare con la salvaguardia dell’ambiente, ma anche con la difesa delle identità locali e soprattutto con la fattibilità reale dei progetti di intervento sul territorio e con la loro accettabilità sociale. Quindi, volendo limitarsi alla sostenibilità ambientale, non si può non considerare che essa ha comunque risvolti economici e sociali: i maggiori costi che sono connessi ad ogni intervento che si faccia carico della “questione ambiente”, come pure i feedback sociali inevitabilmente associati ai programmi di contenuto ecologico (dalla sindrome Nimby alla sempre più frequente forma-
ABITARE L’HABITAT
zione dei comitati “contro”). Ma un insieme di edifici ad alta sostenibilità ambientale non sempre è un insediamento urbano sostenibile. Il tema della sostenibilità presenta specifiche implicazioni alla scala dell’insediamento urbano. L’urbanistica spesso, risponde con approcci che non sono specifici della disciplina, sconfinando nelle scienze ambientali e nella sociologia. In tema di rapporto dei nuovi interventi con il contesto fisico, di solito, ci si limita a considerare la collocazione del nuovo volume rispetto alle caratteristiche fisiche del sito (coerenza morfologica) o il suo corretto inserimento nel quadro percettivo. Ma la questione fondamentale riguarda il carico incrementale che l’aggiunta del nuovo elemento antropico comporta per il sistema naturale preesistente (sia in termini di approvvigionamenti, che di smaltimenti). Il tema centrale della sostenibilità dell’insediamento riguarda, la “capacità di carico” del territorio. Prima che l’uomo decidesse di “tagliare il cordone che lo legava alla comunità naturale” (Karl Marx), la presenza dell’uomo nel territorio era “sostenibile”: il carico antropico non superava (né si avvicinava) alla soglia di guardia. Oggi, invece, per il modello di vita che l’uomo ha, il rapporto uomo/territorio non è più sostenibile. Questi ragionamenti riguardano le questioni più generali di sostenibilità globale dell’insediamento sul territorio. Alla scala urbanistica, è possibile tentare il governo di altri fenomeni, altrettanto influenti sulla dinamica globale della sostenibilità. L’urbanistica non può pretendere di modificare il comportamento delle persone (quanto e cosa consumano, quanto e come si muovono, quanto e come immettono rifiuti nell’ambiente). L’urbanistica non può nemmeno pretendere di influire sulle dinamiche globali dei mercati e sulle scelte generali di politica ambientale. Può, invece, proporre (e realizzare) soluzioni spaziali che garantiscano alcuni principi di compatibilità dell’insediamento con l’ambiente, lasciando ad altri strumenti l’arduo compito di modificare abitudini e stili di vita, ma facendosi carico dell’obiettivo che può perseguire: una nuova modalità di organizzazione dello spazio insediativo che garantisca i livelli minimi di quella che possiamo definire “sostenibilità urbanistica”. Quali sono i livelli minimi della “sostenibilità urbanistica”? Certamente, in primis, quelli che sono alla base della “compatibilità” tra vita umana ed ecosistema (compatibilità ecologica). Ma anche quelli garanti la “sopravvivenza tecnica” dello stesso sistema antropico (compatibilità tecnologica). Ed infine quelli che assicurano il giusto inserimento degli edifici nel territorio (compatibilità morfologica). La sostenibilità dell’insediamento urbanistico si verifica, dunque, rispetto: (1) al mantenimento dell’integrità dell’ambiente naturale,
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(2) al corretto funzionamento delle reti tecnologiche e (3) alla qualità delle soluzioni spaziali. L’urbanistica si deve inevitabilmente confrontare con queste tre principali problematiche; può influire sulle dinamiche di trasformazione dell’insediamento urbano solo se abbandona le “due fantasie dell’ordine e dell’onnipotenza” (Rem Koolhaas), rinunciando alle pretese di onnicomprensività e accingendosi a progettare interventi (localizzati, limitati) capaci di produrre effetti spaziali sulla struttura urbana. “Progettare i luoghi” è l’unica speranza dell’urbanistica contemporanea: progettarli con “consapevolezza scalare” (Patsy Healey) con una visione strategica d’insieme (quadro di coerenza) e con l’obiettivo di aumentare il livello di sostenibilità ambientale dell’insediamento urbano. Dunque, l’urbanistica deve saper declinare le tre questioni prima richiamate, usando lo strumento del progetto. Innanzitutto, la compatibilità ecologica dell’insediamento umano sul territorio. Si tratta di proporre forme di organizzazione dello spazio insediativo fondate sull’esigenza di contenere consumo di suolo, attraverso forme di riuso del patrimonio edilizio esistente e garantendo la massima permeabilità del terreno. Sistema insediativo che deve perseguire l’obiettivo dell’autosufficienza energetica residenziale, favorendo gli accorgimenti bioclimatici e ponendo nel progetto stesso le premesse per una utilizzazione massima delle FER. E deve garantire, all’interno del perimetro urbano, il raggiungimento degli obiettivi globali sul ricambio di CO2. Poi, la compatibilità tecnologica del sistema insediativo. Il nuovo progetto urbanistico deve essere fondato su un sistema di mobilità alternativa ecosostenibile, deve porre al centro dell’impostazione iniziale lo smaltimento differenziato dei rifiuti e deve tener conto del carico totale sulle reti tecnologiche ed il suo incremento connesso alle nuove previsioni insediative. Infine, la compatibilità morfologica dei nuovi interventi sul territorio. Ovvero il tema della qualità delle soluzioni spaziali. Il nuovo progetto urbanistico, liberato dai limiti del piano, può tornare a svolgere il suo compito: “disegnare la città senza disegnare gli edifici”, dando forma consapevole allo “spazio compreso tra gli edifici”. Attraverso il disegno dello spazio insediativo facentesi carico del rapporto tra città privata e città pubblica, partendo dal progetto delle “dotazioni territoriali” (l’armatura) individui scelte formali a livello strutturale con flessibilità nelle scelte tipologiche e stilistiche degli interventi privati. Un progetto che comprenda i vuoti e gli spazi aperti, tornando a ragionare sull’idea complessiva di insediamento umano sul territorio. Attraverso una rinnovata attenzione alle scelte strutturali alla grande scala. Attraverso regole di coerenza “formale” degli interventi rispetto al paesaggio. Attraverso previsione di corridoi ambientali che facciano entrare la natura in città (oltre la città nella natura). Solo alla grande scala la città contemporanea può essere compresa e progettata. È alla grande scala che si definisce la nuova “forma” della città e quindi si governa la sostenibilità dell’insediamento urbanistico. Ripensare la forma complessiva dell’insediamento umano nel territorio è allo stesso tempo la sfida del nuovo progetto della città e l’occasione per affrontare e risolvere le questioni della sostenibilità ambientale. Allargare la visuale alla scala vasta, consente di chiamare in gioco temi e materiali che non sono tipicamente compresi nel progetto urbanistico e che possono utilmente contribuire ad affrontare le problematiche ambientali: le aree agricole, le aste fluviali, gli ambienti naturali protetti, ecc. Il piano urbanistico tradizionale non riesce ad imprimere alla forma della città alcun senso compiuto. Un progetto che deve necessariamente cambiare paradigma culturale, travalicando il tradizionale campo disciplinare dell’urbanistica e allargando l’orizzonte di interesse a tutto il sistema di “governo del territorio”.
Il nuovo progetto dei luoghi, non può prescindere dal rapporto con altre discipline che si occupano dello spazio fisico alla grande scala (scienze della terra, ingegneria del territorio, geografia economica), e del governo delle trasformazioni (economia, procedure giuridico-amministrative, controlli di gestione). C’è però una specificità del progetto di spazio che, riguarda la configurazione formale di interventi sul territorio. Governo del territorio e progetto dei luoghi sono, dunque, due aspetti imprescindibili della progettazione dell’insediamento urbanistico. Ma gli obiettivi della sostenibilità urbanistica si possono perseguire solo operando su una dimensione transcalare, oltre che interistituzionale. Così, il coinvolgimento interistituzionale è indispensabile per affrontare insieme programmi d’azione facenti capo ai diversi soggetti (gli enti locali, le agenzie di settore, i gestori di rete, ecc.), l’allargamento di scala è necessario per comprendere nel progetto urbanistico contenuti che consentono di affrontare grandi questioni ambientali (spazi aperti, campagna, coste, fiumi, serbatoi di naturalità, ecc.). Quindi, le indispensabili condizioni di metodo per la realizzazione di un’urbanistica sostenibile sono: (1) l’allargamento del quadro di coerenza ad una dimensione intercomunale; (2) la formulazione di opportuni accordi interistituzionali su contenuti irrinunciabili di visione strategica; (3) l’intervento per progetti localizzati e disegnati nel rispetto delle decisioni assunte alle scale superiori. La prima delle suddette condizioni è già in procinto di essere raggiunta. Manca, invece, la cultura dell’accordo interistituzionale capace di garantire la seconda condizione. L’impegno al rispetto delle scelte in materia di politica urbanistica o ambientale è considerato ancora troppo vincolante rispetto alla volontà di autonomia decisionale degli enti locali. Sull’ultima delle condizioni di metodo suddette, due questioni sono ancora aperte. Riguardo il contenuto dei progetti di intervento locale, e riguardo le verifiche di coerenza dei progetti rispetto le opzioni irrinunciabili sulle quali si è concluso l’accordo. I nuovi progetti di intervento locale capaci di offrire un contributo determinante in termini di miglioramento della sostenibilità del sistema insediativo devono essere visti come strumenti di attuazione propositivi della visione strategica. Essi devono quindi applicare in concreto le strategie condivise, confrontandosi con la operatività della attuazione esecutiva (fattibilità tecnica, convenienza economica, praticabilità sociale). Nel certificare, però, la loro capacità di contribuire effettivamente al raggiungimento delle aspettative, si tratta di superare la verifica puramente “conformativa” (mero controllo di conformità del progetto alle prescrizioni di livello superiore), introducendo il concetto di verifica “performativa” (controllo della performance che i singoli progetti sono in grado di garantire rispetto allo stato generale del sistema insediativo). È evidente, dunque, che l’efficacia dei programmi d’azione, rispetto agli obiettivi della sostenibilità, non dipende solo dalla loro capacità propositiva (in termini di destinazioni funzionali, organizzazione degli spazi e configurazione formale), ma è fortemente connessa alla capacità di fare sinergia con il contesto e di apportare un contributo operativo all’interno delle strategie di sistema. D’altra parte, parafrasando Jovanotti, “L’urbanistica non è paura di perdersi ma voglia di ritrovarsi”, vero Gabrio?...
Marco Turchetti, Ugo Guidi [Progettare Sostenibile - Ravenna] info@progettaresostenibile.com
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CONSULENZA E INTERMEDIAZIONE IMMOBILIARE
iCasa e la passione che muove. In sintonia con la filosofia imprenditoriale di Apple la visione del mediatore Fiaip come consulente, appassionato e competente, di un innovativo “sistema operativo immobiliare” Steve Jobs spiegava che le imprese di successo si possono riconoscere per la condivisione di una visione, per l'innovazione apportata al servizio del consumatore e per la passione che tutti i soggetti coinvolti ripongono nel proprio lavoro. Il fondatore di Apple invitava dunque a ricercare una strada, nella professione come nella vita, che permettesse di perseguire tutti e tre i fattori, suggerendo un percorso diretto non solo alla crescita in ambito aziendale, ma anche come recita l’articolo 3 della Costituzione italiana - al pieno sviluppo della persona. In un mondo di commistioni fra i generi, che grazie alle tecnologie vede azzerare le distanze e globalizzare le culture, appare azzardato ma non troppo proporre un parallelo tra la visione di Jobs e l'universo di aspirazioni, scelte e soluzioni che gravita attorno all'immobile. Per lungo tempo il nostro settore ha peccato, per una sorta di colpevole coerenza lessicale, di immobilismo: le metodologie di lavoro si sono perpetuate negli anni finendo, in alcuni casi, col determinare uno scollamento tra il valore del servizio offerto e le attese della clientela, e ci sono volute crisi dei consumi e della fiducia dei consumatori per far percepire a quali aspetti del nostro operato fossero venute meno, se non la passione, almeno la visione e la capacità di innovare. La visione dell'agente immobiliare come consulente, perseguita da Fiaip con aggiornamento continuo e azione sindacale unitaria, ben si inserisce nella filosofia dell'inventore di iPhone, iPad ed iPod. In un documento del 1977, Apple cercava finanziamenti privati per facilitare la crescita della società, e lo faceva con un memorandum che riassumeva i benefici del personal computer per il cittadino americano: risparmio di tempo e denaro, possibilità di prendere decisioni finanziarie in modo più consapevole, sicurezza delle informazioni ed eliminazione degli sprechi erano tra le promesse più allettanti, ed è facile notare come esse non abbiano perso oggi di attualità né di appeal, potendo anzi costituire elementi auspicabili nella trattazione degli immobili da parte del professionista moderno. Un ipotetico concetto di “iCasa” ci racconterebbe dunque di tecnologie innovative per la domotica, il risparmio energetico e il benessere; di immobili proposti con competenza tecnica e passione, di clienti consigliati per ogni genere di esigenza relativa all'acquisto, di imprenditori che non esauriscono la propria missione costruendo un appartamento, ma che perseguono il benessere di tutta la famiglia attraverso una progettazione consapevole, con senso di responsabilità e capacità di ascolto. Se la chiave per un'innovazione di successo è la coesistenza di una passione autentica con un'attitudine (all'in-
MERCATO IMMOBILIARE
ventore inglese James Dyson servirono cinque anni e 5127 tentativi falliti prima di ottenere un aspirapolvere senza sacchetto che funzionasse bene) , creatività ed energia non sono meno importanti. Donald Trump disse che senza passione non abbiamo energie, e senza energie non siamo nulla: amare ciò che si fa è il miglior carburante per continuare a lavorare, a migliorare e ottenere la vita che vogliamo. In quest'ottica, l'agente immobiliare deve farsi interprete vivente di quella interfaccia-utente che, parallelamente, ha reso così intuitivo l'utilizzo dei prodotti della Mela: competenze acquisite e capacità di comunicazione devono essere gli strumenti attraverso i quali il cliente possa muoversi con sicurezza all'interno del “sistema operativo immobiliare”, con la stessa naturalezza con la quale i bambini su Youtube si destreggiano con tablet e smartphone di ultima generazione. Se tutto questo pare fantascienza, come sembrava agli investitori di Apple più di trenta anni fa, vanno valutati con interesse i più recenti dati ufficiali Istat, che ci parlano di alcuni aspetti in via di miglioramento, come il sentimento relativo al clima economico generale, l'indicatore del clima corrente e i giudizi sulla situazione economica dell'Italia. Una maggiore stabilità globale, anche solo percepita, può dare stimolo vero alla ripresa del mercato immobiliare: in un settore che, tradizionalmente, riconosce all'emotività, all'amore a prima vista suscitato dalla visita di un immobile, un ruolo centrale nel processo decisionale di acquisto, il valore di una percezione serena e positiva risulta evidente. Inoltre, compiere una scelta consapevole e ragionata non significa dover necessariamente rinunciare all'emozione, al trasporto, alla proiezione che si crea immaginando le persone che ci stanno a cuore all'interno di spazi nuovi, più ampi, più luminosi edin grado, con una semplicità che varrebbe la pena riscoprire, di “migliorare la vita delle persone”. Questa è la nostra visione, innovativa e appassionata come l'avrebbe immaginata Steve Jobs.
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