Trovacasa Premium ottobre 2012

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n. 77 OTTOBRE 2012

RAVENNA n. 77 ottobre

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contenuti

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La villa sulla duna di Milano Marittima, dialogo fra natura e architettura

casa bella casa

pentole e provette

città e società

di Pietro Barberini

Le parole sono le cose. A margine delle polemiche sullex magazzino Sir

teorie e progetti

arti e design

di Paolo Bolzani

L’impronta di Venezia. Testimonianze urbanistiche della Serenissima a Ravenna

topografia e storia

testimonianze

ottobre 2012

di Alberto Giorgio Cassani

In memoria di Claudio Baldisserri: la scrittura incontra l’architettura di Domenico Mollura

La materia che supera il tempo: l’eccellenza del Mic di Faenza di Paolo Bolzani

La versatilità della crema pasticciera secondo lo chef Faccini di Chiara Bissi

Via della povertà. Riflessioni sulla giornata mondaile del 17 ottobre di Marina Mannucci

Universo Immobiliare . Savorani&Co 14 . Romagna . Studio Effe 15 . Case d’Autore 21 . Idea Casa . Gesticasa 24 . Euroimmobiliare 25 . Scor . Scor Duomo . Fratelli Savorani 26 . Eurobusiness 27 . Casacooptre 34 . Eurocase . Futura 35 . Mazzini Casa . La Dimora di Magdala 36 . Jolly Service 37 . Francesca Leonzi . Russi Casa 48 . Baccarini 49 .

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Controcopertina Scopriamo allora come questa architettura, giĂ una prima volta coronata dal magico cerchio degli ombrelli dei pini, nella sua algida parte superiore si concluda con un cornicione lavorato in pietra che nel bianco splendore dentellato del reggi gronda le fa assumere una vena mediterranea, echeggiando motivi che in qualche modo quasi ricordano il timbro di una masseria salentina.

Autorizzazione Tribunale di Ravenna n. 1240 del 8 novembre 2004 Direttore responsabile: Fausto Piazza Consulenza redazionale: Paolo Bolzani Collaborano alla redazione: Andrea Alberizia, Federica Angelini, Pietro Barberini, Roberta Bezzi, Chiara Bissi, Alberto Giorgio Cassani, Serena Garzanti (segreteria), Maria Cristina Giovannini (grafica), Linda Landi, Marina Mannucci, Luca Manservisi, Erika Marchi (grafica), Domenico Mollura, Serena Simoni. Progetto grafico: Quadrastudio - www.quadrastudio.info Referenze fotografiche: Maurizio Montanari, Paolo Genovesi, Fabrizio Zani Redazione: tel. 0544.271068 redazione@trovacasa.ra.it - www.trovacasa.ra.it

Editore: Reclam Edizioni e Comunicazione srl viale della Lirica 43 - 48124 Ravenna - tel. 0544.408312 info@reclam.ra.it - www.reclam.ra.it Direttore generale: Claudia Cuppi Stampa: Tiber spa - Brescia - www.tiber.it

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piano. Per questo motivo, protetti verso viale Matteotti dalla quinta in alloro, raggiungiamo un’ampia scala laterale che conduce ad una nuova ampia terrazza, da cui è possibile guardare da vicino il particolare cornicione di coronomento della villa, che da lontano rivela l’assenza di falde e quindi sottolinea il prevalere della linea orizzontale, seppur frastagliata dal susseguirsi di corpi, logge e terrazzi. Scopriamo allora come questa architettura, già una prima volta coronata dal magico cerchio degli ombrelli dei pini, nella sua algida parte superiore si concluda con un cornicione lavorato in pietra che nel bianco splendore dentellato del reggi gronda le fa assumere una vena mediterranea, echeggiando motivi che in qualche modo quasi ricordano il timbro di una masseria salentina. Entriamo nella zona giorno del secondo

appartamento, ricavata nella parte della villa soggetta all’ampliamento operato qualche anno fa, che ora stiamo descrivendo, mentre la zona notte ne costituisce la parte originale. Tramite un grande infisso a bilico centrale, dal soggiorno si accede ad un terrazzo coperto con una leggera struttura di legno bianca, con cui la villa si articola in una nuova loggetta sulla IX traversa e in cui ritroviamo i grossi davanzali in cemento smaltati anch’essi del medesimo colore. Nel gioco di piani reciprocamente sfalsati e della bicromia ska, per mezzo di una piccola scala a chiocciola in ferro scuro da qui si può scendere ad un ulteriore terrazzo sottostante, che costituisce il punto migliore della villa per godere della vista della Pineta che non lontana si distende rigogliosa, “spessa e viva”.

Nelle foto, alcuni scatti della zona notte e del bagno, dove prevale in maniera esclusiva il bianco presente anche nella pavimentazione in assito di larice verniciato.

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L’impronta di Venezia

TOPOGRAFIA E STORIA


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Aprono dentro e chiudono fuori, i dominatori dell'Adriatico che conquistano Ravenna nel 1441 di Pietro Barberini

Una pianta di Ravenna risalente alla seconda metà del 1400, nell’epoca del dominio veneziano

Nel 1847 entra nel porto canale di Ravenna la prima nave a vapore, è il piroscafo “Città di Venezia”, la cui costruzione è stata finanziata dalla facoltosa famiglia Guiccioli. Nonostante questo forte messaggio “promozionale”, la borghesia cittadina e l'imprenditoria locale non riescono a cogliere il cambiamento epocale nei trasporti marittimi e i vantaggi di avere la darsena “sotto” le mura... Di ben diverso impatto era stato l'arrivo di Venezia in città nel 1441. Una gran mole di provvedimenti sostengono e accompagnano la dominazione. I primi Podestà “veneziani” sono chiamati “provveditore”, titolo che conferisce loro l'incarico di governare un territorio. La Serenissima interviene con uno schema consolidato e diffuso, promuovendo opere pubbliche e di grande “rinnovamento”, convogliando interessi commerciali e produttivi. I ceti mercantili veneziani hanno buone possibilità d'investire sulla loro crescita, che, successivamente, avrebbe garantito un ritorno “fiscale” alle casse del Doge!

I veneziani allargano il porto e promuovono il rinnovamento della città Una politica economica espansionistica, giustificata dal fatto che Venezia, non avendo un territorio agricolo sufficiente al suo crescente fabbisogno, lo cercasse altrove. I miglioramenti fondiari e tutte le opere idrauliche vengono facilitate dalla grande forza commerciale della città lagunare.

Venezia è dotata di una potente flotta, con una rete portuale in grado di garantire rifornimenti di merci, derrate alimentari e materiali da costruzione. A Ravenna riattivano lo scalo portuale di S. Maria (Porto Fuori) ampliandolo e dotandolo di nuove difese a mare, le “palate”, nella cui realizzazione i veneziani erano maestri. Ricchi d'esperienza amministrativa i podestà “veneti” emettono obblighi e prescrizioni: chiusura di tutte le fosse e fogne a cielo aperto, abbattimento dei portici per allargare le strade cittadine ridotte ad angusti viottoli ove transitavano liberamente gruppi di maiali. I provvedimenti di sanità, come quello di scavare pozzi profondi o il divieto di abbeverare i bovini nei canali, favoriscono la razionale disposizione di spazi per mercati, con l'adozione di acciottolati nelle principali vie cittadine e loggiati coperti. Gli obblighi spesso sono onerosi e suscitano il malumore del clero: abbazie e monasteri sono restii a “pagare” per abbellire la città. La Piazza Maggiore era uno spazio erboso dal quale non si raggiungeva la platea major, il corso. Con un arioso taglio prospettico, la piazza appare ridisegnata come luogo simbolico, ma anche pratico e funzionale. Ravenna risulta aperta al suo interno e protetta al suo esterno: con tutte le porte e pusterule chiuse, tranne Porta Sisi, San Mama e Porta Adriana. Le mura ormai insufficienti per altezza e “ruinate”, sono rafforzate, rialzate e dotate di torrioni. Uno di questi è

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Sopra, la cosiddetta Porta Nuova dei veneziani, oggi inglobata in un giardino privato lungo via Rocca Brancaleone (in alto a sinistra, si intravvedono le mura della fortezza). Sotto, la Loggetta Lombardesca [Foto di Claudio Notturni tratta da volume di Paolo Bolzani e Claudio Notturni, Idea di Ravenna, ed. Airplane, 2005].

TOPOGRAFIA E STORIA

la cosiddetta “torre Zancana”, poi Madonna del Torrione: il baluardo difensivo è l'ultima opera restaurata in quella parte della città, dove il fiume Montone era stato condotto dai Polentani (fine XIII sec.). La chiusa sul fiume che alimenta il canale del Molino abbisogna di importanti interventi, così scrive Giuseppe Morini nel suo prezioso Stradario storico di Ravenna, edito nel 1986: «Tale chiusa era stata costruita al tempo della dominazione veneta; i lavori iniziati nel 1489 sotto la direzione del maestro Dionigi da Viterbo, furono portati a compimento da Bartolo di Tomaso dei Guaccimanni che aveva vinto


BELLA VENEZIA TC:Layout 1 29/10/12 18.52 Pagina 1

Ristorante Bella Venezia

Il Ristorante Bella Venezia, nel cuore del centro storico di Ravenna, da più di trent'anni offre a chi ama la buona tavola una vastissima scelta di piatti di raffinata qualità che nel tempo si sono integrati con specialità sempre nuove. Era il 1969 quando Carlo Bazzani prendeva in gestione il locale portando da Bologna la sua abilità e le sue conoscenze nella nostra città. Ora i figli Amos, Nada e la signora Irma, propongono all'interno del menù, portate della tradizione non solo romagnola bensì emiliano-romagnola di ampio respiro. Piatti unici nello stile che hanno reso famoso il locale come il Risotti Bazzani, la Petroniana con zucchine, le patate fritte al profumo di rosmarino e aglio (prenotale prima però!) ed il nodino Bazzani. Inoltre il Ristorante può vantare pientanza non solo regionali ma anche nazionali, come ad esempio gli spaghetti alla bottarga, vera prelibatezza preparata secondo la ricetta originale, ed internazionali, da scoprire immergendovi nell'ambiente raffinato ed accogliente di questo locale veramente elegante. Particolare enfasi viene riservata ancora ai tipici prodotti di stagione come i funghi porcini e il tartufo, lavorati per creare portate che trasferiscono in tavoli i profumi dell'autunno. Il Ristorante della famiglia Bazzani è l'ideale per pranzi o cene sia d'inverno che d'estate dato che da quattro anni la Bella Venezia mette a diposizione dei suoi clienti il raffinatogiardino estivo per ritrovare un angolo di pace e riportare a nuova vita il centro città, divenendo così vivibile anche durante la stagione calda.

Via IV Novembre, 16 - Ravenna - Tel. 0544 212746

www.bellavenezia.it

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L’impronta di Venezia

TOPOGRAFIA E STORIA


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Aprono dentro e chiudono fuori, i dominatori dell'Adriatico che conquistano Ravenna nel 1441 di Pietro Barberini

Una pianta di Ravenna risalente alla seconda metà del 1400, nell’epoca del dominio veneziano

Nel 1847 entra nel porto canale di Ravenna la prima nave a vapore, è il piroscafo “Città di Venezia”, la cui costruzione è stata finanziata dalla facoltosa famiglia Guiccioli. Nonostante questo forte messaggio “promozionale”, la borghesia cittadina e l'imprenditoria locale non riescono a cogliere il cambiamento epocale nei trasporti marittimi e i vantaggi di avere la darsena “sotto” le mura... Di ben diverso impatto era stato l'arrivo di Venezia in città nel 1441. Una gran mole di provvedimenti sostengono e accompagnano la dominazione. I primi Podestà “veneziani” sono chiamati “provveditore”, titolo che conferisce loro l'incarico di governare un territorio. La Serenissima interviene con uno schema consolidato e diffuso, promuovendo opere pubbliche e di grande “rinnovamento”, convogliando interessi commerciali e produttivi. I ceti mercantili veneziani hanno buone possibilità d'investire sulla loro crescita, che, successivamente, avrebbe garantito un ritorno “fiscale” alle casse del Doge!

I veneziani allargano il porto e promuovono il rinnovamento della città Una politica economica espansionistica, giustificata dal fatto che Venezia, non avendo un territorio agricolo sufficiente al suo crescente fabbisogno, lo cercasse altrove. I miglioramenti fondiari e tutte le opere idrauliche vengono facilitate dalla grande forza commerciale della città lagunare.

Venezia è dotata di una potente flotta, con una rete portuale in grado di garantire rifornimenti di merci, derrate alimentari e materiali da costruzione. A Ravenna riattivano lo scalo portuale di S. Maria (Porto Fuori) ampliandolo e dotandolo di nuove difese a mare, le “palate”, nella cui realizzazione i veneziani erano maestri. Ricchi d'esperienza amministrativa i podestà “veneti” emettono obblighi e prescrizioni: chiusura di tutte le fosse e fogne a cielo aperto, abbattimento dei portici per allargare le strade cittadine ridotte ad angusti viottoli ove transitavano liberamente gruppi di maiali. I provvedimenti di sanità, come quello di scavare pozzi profondi o il divieto di abbeverare i bovini nei canali, favoriscono la razionale disposizione di spazi per mercati, con l'adozione di acciottolati nelle principali vie cittadine e loggiati coperti. Gli obblighi spesso sono onerosi e suscitano il malumore del clero: abbazie e monasteri sono restii a “pagare” per abbellire la città. La Piazza Maggiore era uno spazio erboso dal quale non si raggiungeva la platea major, il corso. Con un arioso taglio prospettico, la piazza appare ridisegnata come luogo simbolico, ma anche pratico e funzionale. Ravenna risulta aperta al suo interno e protetta al suo esterno: con tutte le porte e pusterule chiuse, tranne Porta Sisi, San Mama e Porta Adriana. Le mura ormai insufficienti per altezza e “ruinate”, sono rafforzate, rialzate e dotate di torrioni. Uno di questi è

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Sopra, la cosiddetta Porta Nuova dei veneziani, oggi inglobata in un giardino privato lungo via Rocca Brancaleone (in alto a sinistra, si intravvedono le mura della fortezza). Sotto, la Loggetta Lombardesca [Foto di Claudio Notturni tratta da volume di Paolo Bolzani e Claudio Notturni, Idea di Ravenna, ed. Airplane, 2005].

TOPOGRAFIA E STORIA

la cosiddetta “torre Zancana”, poi Madonna del Torrione: il baluardo difensivo è l'ultima opera restaurata in quella parte della città, dove il fiume Montone era stato condotto dai Polentani (fine XIII sec.). La chiusa sul fiume che alimenta il canale del Molino abbisogna di importanti interventi, così scrive Giuseppe Morini nel suo prezioso Stradario storico di Ravenna, edito nel 1986: «Tale chiusa era stata costruita al tempo della dominazione veneta; i lavori iniziati nel 1489 sotto la direzione del maestro Dionigi da Viterbo, furono portati a compimento da Bartolo di Tomaso dei Guaccimanni che aveva vinto


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A fianco la Palazzina Diedi, appartenuta ad una famiglia veneta trasferita a Ravenna durante la signoria dei veneziani. [Foto tratta dal libro di Umberto Foschi, Case e famiglie della vecchia Ravenna, Longo, 2001]. Sotto, l’attuale (e storico) albergo Cappello, originariamento Palazzo Bracci, poi delle famiglie Maioli Prandi e Minzoni, prima di essere trasformata in locanda.

TOPOGRAFIA E STORIA


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l'appalto il 20 luglio 1490». L'anno successivo, il podestà Andrea Zancano ordina di ultimare i lavori, imponendo forti penali per sveltire l'esecuzione... Serpeggia un'imprecazione: «Zancan, fiol d'un can!» Sono “cattivi” i veneziani? Non più di altri dominatori. A ben vedere arrivano in città bagliori di architettura rinascimentale, ariosa urbanistica, palazzi di prestigio come il nuovo monastero dei canonici di Porto, la Loggetta Lombardesca, il palazzetto veneziano e le colonne della piazza. Fra le tante abitazioni, costruite nel periodo, spiccano l'elegante palazzina Diedi, Ca' Loredan di via Cairoli, casa Maioli di via Paolo Costa, dove c’è un pozzo all'interno del tipico giardino e l'attuale albergo Cappello, antica dimora gentilizia che si staglia di fianco a San Michele in Africisco sulle “fondamenta” del Padenna, ormai tombato.

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La rocca difende, e controlla, la città Una poderosa rocca viene eretta là dove il vento di bora schiaffeggia le mura, vicino ai Campi Coriandri. La posizione si presta a sostenre un attacco esterno, anche se il nemico, da quella parte, si sarebbe trovato allo scoperto, in posizione esposta. La fortezza, non solo a Ravenna, controlla la città: non tanto da improbabili insurrezioni popolari, quanto da avversari penetrati in città. Le bocche da fuoco erano rivolte verso l'esterno ma anche verso l'interno. «Tale opera ebbe inizio attorno al 1457 ed i lavori procedettero con grande rapidità fino a chè si potè disporre di materiali ricavati sul posto. Quando però occorse far venire da lontano, e anche da oltre il mare, il necessario per continuare l'impresa, le operazioni dovettero procedere più a rilento. Tuttavia, dopo 13 anni all'incirca, la maestosa fortezza fu terminata. La prima vittima illustre che cadde sotto i colpi del piccone distruttore, immolata per erigere quest'opera bellica, fu l'antichissima Chiesa Gotica che sorgeva nei pressi del luogo della costruzione. Era una basilica Teodoriciana (Sant’ Andrea dei Goti n.d.a.) sorta fra il 493 e il 526. Di questo tempio furono salvate le colonne di cui alcune furono poste in opera nel 1461 per la costruzione del portico del nuovo palazzo comunale. Ancora vediamo scolpito in alcune di queste colonne della piazza il monogramma del Re goto e che si scioglie in due parole: Theodoricus Rex».

Una poderosa fortezza viene eretta là dove il vento di bora schiaffeggia le mura, vicino ai Campi Coriandri... Le bocche da fuoco erano rivolte verso l’esterno ma anche verso l’interno della città

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La parte superiore della facciata di Casa Maioli, in via Paolo Costa, con le grandi finestre a bifora e i caratteristici comignoli in mattoni.

Il piccone ...costruttore Venezia si trova ad operare in una situazione d'emergenza: non potendo disporre di mattoni, utilizza quello che trova, abbatte da una parte e costruisce dall'altra. Una sorta di “domino” nel quale i mattoni romani passano dalle mura di Odoacre a quelle della Porta Nuova dei Veneziani, aperta di fianco alla Rocca Brancaleone. Mattoni che serviranno per costruire il Ponte Nuovo quasi tre secoli dopo... Continua la bella cronaca di Giuseppe Morini: «Per la costruzione della Rocca furono usati anche materiali di disfacimento presi un po' dovunque. A questo proposito possiamo citare un reclamo presentato da una nostra Congregazione religiosa che lamenta “...l'illustre locale dominio ha distrutto le Mura della città di Cesarea (sic!) poste vicino al monastero di Classe, per la costruzione della cittadella della Rocca...”. Inoltre tutte le fornaci da mattoni, esistenti nel territorio, furono impegnate per fornire i materiali occorrenti, lavorando giorno e notte. Ricordiamo fra tante quelle situate in vicinanza della Città: a) Fuori di Porta S.Mama, la fornace di Gaspare di Budo (Pignatta) e quella degli eredi di Nicola Alvisi; b) Alle bocche dei fiumi, la fornace dei Monaci di S. Maria in Porto Fuori c) Fuori di Porta Sisi, la fornace già di proprietà polentana,

TOPOGRAFIA E STORIA

di Ursicino Aldobrandini, famiglia abitante in via Ponte Marino; d) Fuori di Porta Adriana, la fornace dei monaci di S. Vitale. Quando i lavori di costruzione furono compiuti, apparve un vasto fortilizio che, unitamente alla cittadella, occupava un'area di 16.180 metri quadrati. Aveva poderosi bastioni e torri merlate, quartieri comodi per l'alloggiamento della guarnigione, cisterne, armeria, arsenale, un mulino e una fabbrica per le polveri e per le palle di ferro e di piombo».

Un segno di pietra d'Istria sulla sponda del golfo di Venezia La sottolineatura al segno architettonico veneziano è rappresentata dalla pietra d'Istria. Pochi sapienti tocchi: un balconcino, un portale, un angolare, una vera da pozzo o le colonne del chiostro del Monastero di Porto. Una costruzione di tipo “industriale”, quella della “Loggetta”, con le colonne preparate in laguna (o forse proprio nei luoghi d'estrazione del marmo), trasportate via mare a Ravenna e messe in opera... Quel candore lapideo protegge un loggiato che ora s'affaccia sui giardini pubblici ma l'occhio della memoria corre verso il chiarore del mare. Quel mare, che sulle carte nautiche di tutto il mondo è chiamato “Golfo di Venezia”.


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Le parole sono le cose A margine delle polemiche sull’ex magazzino S.I.R.

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La querelle sull’ex Magazzino S.I.R., che sta scuotendo le acque, di solito abbastanza immobili, della nostra Città (evviva!), non ha forse tenuto conto, finora, della difficoltà di far quadrare il cerchio in un ambito, quello del recupero di un edificio storico (anche se di una storia recente), che tanto inchiostro ha fatto scorrere, nel corso di più di un secolo, in ambito accademico. Si dirà, ecco che il “maestrino” di turno sale in cattedra. In realtà la questione è realmente complessa, anche se ad alcuni potrà sembrare, come si suol dire, argomento di “lana caprina”, o il solito stucchevole tentativo di “spaccare il capello in quattro”. Preferirei dire che si tratta di mettere “i puntini sulle i”. Infatti, le ragioni della “conservazione”, del “restauro” e del “progetto del nuovo” – questi sono i tre avversari, mai troppo esplicitati, scesi in campo nella contesa per le sorti del ribattezzato SigarOne –, sono realmente “l’un contro l’altra armate”. Innanzitutto, “conservazione” e “restauro” sono due pratiche radicalmente distanti l’una dall’altra: la conservazione prevede che nulla della materia originaria, l’hic et nunc di benjaminiana memoria (vedi L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica) vada toccato, comprese le aggiunte fatte nel corso degli anni, anche “povere” o “brutte”, perché tutto concorre alla storia dell’edificio e, dal punto di vista della conservazione ha la stessa rilevanza. Non per nulla le parti aggiunte al corpo originario di un’opera – quello appena uscito dal cantiere, nuovo di zecca e senza la minima impronta del tempo – sono definite, dal restauro e dai restauratori (dell’Ottocento, ma anche di oggi), con termine dispregiativo, “superfetazioni”, parola che porta già in sé un gran senso di colpa. Il restauro, di contro, lavora per far ritornare l’opera proprio al suo cosiddetto “primitivo splendore” (termine che l’insipienza televisiva e giornalistica ripete ormai, come un

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Sopra: John Ruskin, Il Fondaco dei Turchi, Venezia, disegno, particolare. Sotto: Eugène Emmanuel Viollet-le-Duc, Progetto di restauro della facciata della basilica di SainDenis (Île-de-France, Francia).

TEORIE E PROGETTI

che, guarda caso, non è avvertita come devastazione del territorio che da poche, inascoltate Cassandre. A questo proposito un “conservatore” ante litteram come John Ruskin – a ben vedere sarebbe più corretto definirlo un “manutentore”: era per la cura assidua di un’architettura, da vigilare e proteggere finché le leggi biologiche l’avessero inevitabilmente fatta cadere allo stato di rovina, anche se, Ruskin se l’augurava, il più tardi possibile – sosteneva che, piuttosto che avere un “simulacro”, frutto dell’opera di quei restauratori da lui tanto odiati, era assai meglio distruggere fin dalle fondamenta l’opera e costruire un edificio nuovo, soddisfacendo così, almeno, un bisogno di novità, piuttosto che compiacere desideri da necrofili. Dunque, di cosa parliamo quando parliamo di salvare l’ex Magazzino S.I.R.? Se ci mettessimo dalla parte della pura (e dura) conservazione, ci dovremmo limitare al semplice consolidamento dell’edificio, senza abbattere alcunché (nemmeno la sua copertura così labile) e senza ricostruirlo “com’era dov’era”, slogan, fra l’altro, probabilmente coniato dal nostro illustre conterraneo Corrado Ricci a proposito di come riedificare il campanile di San Marco a Venezia dopo il crollo del 1902, e da allora divenuto topico. Solo così avremmo mantenuto l’autenticità dell’opera, il suo hic et nunc. Se invece parliamo di restauro, allora possiamo giustificare qualunque intervento di abbattimento e di successiva ricostruzione à l’identique (come dicono i francesi sulla scia del capostipite dei restauratori dell’Ottocento, il grande e vituperato Eugène Emmanuel Viollet-le-Duc), continuando ad illuderci di avere sotto gli occhi lo stesso edificio (quando invece, per gran parte, non c’è più). Attenzione, dunque, ad usare senza cautele questo pericoloso termine... Trattandosi poi di un edificio dell’età industriale, seppure abbastanza recente, lo stato di rovina della struttura non “seduce” come nel caso di un’opera antica in mattoni e pietre, non si carica del “fascino” di cui parlavano gli scrittori e i viaggiatori romantici, per cui il rischio è che lo stato attuale dell’edificio appaia tristemente quello di un “rudere” (termine che riguarda gran parte degli edifici dell’età contemporanea, costruiti in cemento armato e acciaio e belli finché sopravvive la liscia pelle che li riveste, che sia di candido intonaco o di materiali non tradizionali e dunque assai poco resistenti all’azione del tempo). Ragion per cui, dal punto di vista dei restauratori, l’intervento di “rifacimento” si richiede a maggior ragione che se si trattasse di un edificio pre-industriale. Se infine ci mettiamo nell’ottica del progetto del Nuovo, i fans delle giuste esigenze di quest’ultimo direbbero che, se l’uomo avesse voluto conservare (o restaurare) tutto, saremmo rimasti ancora alle capanne primitive e non avremmo avuto la sto-


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ria dell’architettura. Il ragionamento è senz’altro un’estremizzazione, ma contiene una certa dose di verità. E allora? Come se ne esce? Per i difensori strenui di ognuna di queste diversissime pratiche, per l’appunto, non se ne esce affatto, se non sacrificando due delle tre posizioni. Non entro poi qui nel merito del “riuso”, cioè di cosa far entrare – o non entrare – nel capace ventre dell’ex S.I.R. Naturalmente ha un impatto differente sul contenitore storico che si scelga un supermercato, un auditorium, un campetto da calcio, una discoteca, oppure nulla, la pura contemplazione del vuoto (ma forse il proprietario dovrebbe essere un seguace del buddhismo zen). E allora, di nuovo? Se avessi una risposta, la darei, ma non ce l’ho. D’altro canto mi sembra che ben pochi ce l’abbiano, a leggere i frequentatissimi blog che stanno animando il dibattito in città, fatti più di botte e risposte che di proposte efficaci e condivise. Una cosa, per me, però, in tutta questa vicenda è partita, fin dall’inizio, col piede sbagliato: il fatto che non c’è mai stata la possibilità di discutere pacatamente – o anche non pacatamente, ma sempre nei limiti di una civile dialettica – di come operare concretamente sull’ex magazzino. Anche tenendo conto, forse, modestamente, delle precisazioni di cui sopra. Ora mi pare tardi per una conciliazione. Gli animi sono troppo esacerbati, così come lo sono, tra loro, conservazione, restauro e progetto del Nuovo. Per arrivare ad una soluzione bisogna conciliare l’inconciliabile, o, forse, rimettere in gioco la partecipazione di tutti. Ci sono appena state le Olimpiadi: l’importante non è vincere, ma partecipare.

Sopra: Le rovine della chiesa di San Marco a Venezia. Foto storica (Museo Statale di Architettura Shchusev, Mosca). Sotto a sinistra: Nuovostudio, Ravenna, Schizzo di progetto (il progetto del Nuovo). Sotto a destra: Cosa resta della partecipazione? [foto di Alberto Giorgio Cassani]

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«Avvicinati pericolosamente a quel punto limite chiamato semplicità oltre al quale c’è solo la banalità». Claudio Baldisserri

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DOCUMENTI E TESTIMONIANZE


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Quando l’architettura incontra la scrittura Sul convegno e la mostra in ricordo della personalità e delle opere del compianto Claudio Baldisserri di Domenico Mollura Le cose della vita si susseguono in un continuo “sciogliersi e riannodarsi”. La mostra Claudio Baldisserri architetto scrittore (1942-2010) è stata la dimostrazione che le parole dell’architetto ravennate, scomparso due anni fa, possono immaginarsi come strumenti per ridisegnare lo spazio e il tempo. L’esposizione, preceduta lo scorso 13 ottobre dal convegno Architettura e scrittura, è stata l’occasione per riunire nel ricordo di Claudio Baldisserri le persone che gli sono state compagne di molti viaggi (non solo in senso letterale) e per avvicinare alla sua architettura/poesia chi non lo ha mai conosciuto: Lorenzo Sarti, Aldo Aymonino, Paolo Bolzani, Aida Morelli, Emilio Rambelli, Gianluca Bonini, Gioia Gattamorta, Stefano Dosi. Per questi ultimi, forse, Claudio Baldisserri appare come nelle profonde e intime parole dello scrittore Eugenio Baroncelli (che con l’architetto coltivava una grande amicizia, concreta ma mai reciprocamente “confessata”) il quale lo paragona ad un emporio aperto su una spiaggia assolata che finge, tutta-

via, di essere chiuso. Spingendo la metafora nel campo dell’architettura si potrebbe paragonare il carattere tratteggiato da Baroncelli alle basiliche di questa città, che “nell’eleganza dell’ombra” delle mura immutabili celano la ricchezza cangiante dei loro mosaici. Numerose e commosse le testimonianze che hanno misurato con le loro parole il vuoto lasciato dal collega, dall’amico. Tutte hanno avuto sullo sfondo la profondità dell’uomo Baldisserri, tramutata sempre in poesia dall’architetto/scrittore Baldisserri. La scrittura, tuttavia, è un’urgenza che nasce relativamente tardi. Forse l’incontro con l’Africa (“mondo […] così diverso e affascinante”) è stato l’innesco di questa forma di comunicazione che permette di allargare la platea dei propri interlocutori. Scrivere equivale a mettere in ordine la vita e i sistemi che la regolano, come ha evidenziato l’architetto Aldo Aymonino. Africa vuol dire, tra le molte cose, Lalibela (Etiopia), ovvero il luogo magico nel quale Baldisserri (insieme a

Uno scatto che ritrae l'architetto Claudio Baldisserri, in Africa, nel sito delle chiese copte di Lalibela, Etiopia.

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ARTIFICIO E NATURA


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Aymonino e all’ingegnere Lorenzo Sarti, allora uniti nel sodalizio Teprin Associati) immaginò di costruire un cielo per coprire cinque chiese ipogee scolpite nella roccia (sito Unesco), aggiudicandosi il primo premio in un concorso di progettazione internazionale nel 1999. Un cielo architettonico bianco, come gli abiti della tradizione locale, e informe, per non intaccare la pura stereometria lapidea dei luoghi di culto copti, resi quasi immateriali dalle stelle artificiali che di notte le sospendono tra la terra alla quale appartengono e il cielo (quello vero) che come un manto nero li protegge. “L’architettura deve avere un proprio pathos e colpire alla vista” – commenta l’ingegnere Sarti, cofondatore con Baldisserri di Teprin nel 1978 – parlando dal centro della sala rotonda del Palazzo dei Congressi, progettato proprio da Teprin (1994-99), nell’ambito del più ampio Piano di Recupero di Largo Firenze. L’esposizione è stata allestita lungo lo spazio che circonda la Sala Convegni, accostabile ad un grande “vaso greco – prosegue Sarti – anche nei colori”. La circolarità del percorso espositivo suggerisce, simbolicamente, il percorso della vita sintetizzato da un preciso elemento. Si tratta di una seduta in legno, disegnata da Baldisserri per il Palazzo dei Congressi e posta nel punto che segna inizio/fine dell’esposizione. Su di essa sono stati appoggiati i libri scritti da Baldisserri: una perfetta sintesi della sua creatività che coniuga l’architettura dello spazio (il Palazzo), l’attenzione al dettaglio (la seduta) e la scrittura (i libri). Il percorso viene salutato da tre piccole civette che alludono al simbolo utilizzato come ex libris da Baldisserri insieme alle proprie iniziali (CB); il rapace amante dell’ombra, inoltre, doveva essere il protagonista di un libro di favole illustrato (“La civetta vanitosa”) che CB ha lasciato incompiuto in cinque paragrafi. Il materiale esposto è stato suddiviso in sei sezioni: parole, progetti, case, disegni, donne, Africa; due i video, uno sul progetto e la realizzazione delle coperture di Lalibela e l’altro con le testimonianze dirette di amici e colleghi. Alle pareti molti disegni popolati di ombre, architetture color “oro e porpora” e cieli sgargianti che riportano ad un fare elegantemente artigianale dell’architettura. Le foto raccontano le diverse fasi della carriera di Baldisserri (dal sodalizio con gli architetti Minardi e Grossi degli anni ’70, fino a Teprin Associati, passando per Ludovico Quaroni, con il quale ci fu una collaborazione per il concorso per il recupero dell’ex Manifattura Tabacchi di Bologna). I progetti realizzati tracciano un profilo importante della Ravenna contemporanea: Parco Teodorico, il Centro di Medicina Preventiva (CMP), l’ampliamento delle Terme di Punta Marina (progetto raccolto nella “Selezione Architettura Emilia-Romagna 2010”, dall’Istituto regionale per i Beni Culturali), il complesso residenziale a Porto Corsini (che importa a Ravenna, l’idea di una casa africana, già sognata da Baldisserri). La mostra è stata, infine, accompagnata dalla presentazione del volume La ragione dell’Architettura. Teprin Associati 1978-2012, architettura realizzate, progetti e concorsi. Si tratta di una selezione, a cura dello stesso Baldisserri, lungo un trentennio di lavori completata dai colleghi che proseguono l’attività professionale dello studio ravennate, con i testi introduttivi degli architetti Paolo Bolzani e Aldo Aymonino.

Nella pagina, alcune delle realizzazioni firmate da Claudio Baldisserri con Teprin Associati. In alto uno scorcio del Centro di medicina prevenzione, Cmp; al centro il Dea, dipartimento emergenza accettazione; sotto il palazzo dei congressi di Largo Firenze e l’area del parco Teodorico.

OTTOBRE

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La materia che supera il tempo: l'eccellenza del Museo internazionale delle ceramiche

Esattamente un anno fa abbiamo lanciato una serie di puntate sull’arte del mosaico e della ceramica, con l’intento di mettere in luce i contesti in cui sembra meglio esplicarsi il rapporto tra spazio e decorazione musiva o ceramica, sia nella scala architettonica che in quella urbana. Oggi riprendiamo il tema con una inter vista a Claudia Casali, dal marzo 2011 direttrice del Mic – Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza – e negli ultimi dieci anni curatore responsabile dell'Ufficio mostre del Mar – Museo d’Arte della Città di Ravenna – in cui ha coordinato numerose iniziative dedicate alle giovani promesse.

ARCHITETTURA ARTI E DESIGN E SICUREZZA


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di Paolo Bolzani

La prima domanda sorge spontanea dalla consultazione del suo lusinghiero curriculum vitae: laureata in Conservazione dei Beni Culturali all'Università di Udine, dove ha inoltre conseguito un dottorato di Ricerca in Storia dell'Arte, poi specializzata all'Université de Savoie a Chambery e Grenoble e con infine un Master in Organizzazione e Comunicazione delle Arti Visive, Management e Curatorship all'Accademia di Brera. Per la costruzione di una figura professionale come la sua, consiglierebbe a una giovane studentessa in conservazione dei beni culturali un iter accademico come quello ora brevemente elencato? «La mia esperienza lavorativa mi porta concretamente a dire di sì. Purtroppo oggi la laurea non fornisce la completa preparazione ed apertura mentale verso il mondo del lavoro. Fondamentali sono le esperienze di tirocinio presso grandi strutture dove si possono fare incontri interessanti accanto ad esperienze lavorative a volte uniche (penso ad allestimenti di grandi mostre o preparazioni di significativi cataloghi). Il momento di studio all’estero poi è formativo

al massimo poiché ti obbliga ad interagire con modalità didattiche e culturali differenti dalla nostra. Oltre all’esperienza post-laurea, io feci l’esperienza Erasmus a Parigi, studiando alla Biblioteca Nazionale che ricordo ancora oggi per il fondamentale supporto ai miei studi. Il dottorato infine è un completamento di un percorso di studi: può servire a proseguire la carriera universitaria o, come nel mio caso, può affinare una metodologia di studio e ricerca, sempre utile per uno storico dell’arte. Nel momento di studio universitario bisogna sapere cogliere e cercare opportunità di apprendimento: gli stages e i tirocinii servono a questo, a comprendere quali settori ci possono interessare per un futuro e sui quali investire risorse».

In primo piano, una delle sale del museo internazionale delle ceramiche.

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«Lo stupore della bellezza delle opere d’arte e l’energia che esse trasmettono devono sovrastare qualsiasi intervento umano». Come si configura il suo rapporto di museologo con il Mic? «Il Mic è una straordinaria struttura, una vera e propria eccellenza museologica internazionale. Ha molti dipartimenti (biblioteca specializzata fornitissima, laboratorio di restauro eccellente, didattica non solo ceramica, settore conservativo ed espositivo, molte possibilità di rapporti con grandi istituzioni mondiali) e purtroppo poche risorse umane ed economiche. È un’eccellenza che ti porta ad applicare ed ideare tantissimi progetti, proprio grazie al ricco patrimonio che possiede. Qualsiasi museologo andrebbe a nozze in questo museo: io ho avuto la fortuna di studiare con una grande museologa come Adalgisa Lugli, che mi ha insegnato a guardare il museo sempre con occhi nuovi e diversi. Questa è una grande fortuna: lo stupore della bellezza delle opere d’arte e l’energia che esse trasmettono devono sovrastare qualsiasi intervento umano. Per questo sono molto scettica e critica sugli interventi troppo spesso invasivi degli architetti allestitori… Stiamo predisponendo importanti progetti di allestimento, nuovi e vivaci, per fare esaltare il contenuto, valorizzando disposizioni e illuminazione a led, con grandi risparmi nei consumi e per avere una migliore fruizione da parte del pubblico».

Nella foto una porzione del patrimonio in ceramica esposto. Sono in previsioni nuovi allestimenti per esaltare il valore delle opere.

ARTI E DESIGN


EDILRAVENNA TC:Layout 1 25/09/12 18.24 Pagina 2

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SETTEMBRE

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Il Mic si sviluppa in diversi dipartimenti: dalla biblioteca specializzata, al laboratorio di restauro, alla didattica non solo ceramica, al settore conservativo ed espositivo. Ambiti che offrono molte possibilitĂ di rapporti.

ARTI E DESIGN


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Parliamo ora del suo rapporto con Faenza, città delle ceramiche. Ritiene che la città stia sviluppando tutte le proprie potenzialità artistiche, anche alla scala urbana? «Faenza è una bella città con grandi potenzialità. È molto attiva su più fronti e l’avere un museo come il Mic che ha fatto transitare dalla città importanti artisti contemporanei ha avuto un grande riflesso sulla creatività del territorio. Su scala urbana, grazie al Museo d’Arte all’Aperto, abbiamo un territorio ricco di interventi artistici disseminati ovunque con criteri di valorizzazione dell’arte ceramica contemporanea, con grandi nomi e notevole impatto anche urbano. E per questo bisogna ringraziare l’architetto Ennio Nonni e il Settore Territorio del Comune di Faenza». Torniamo per un attimo al suo passato ravennate. Se le elenco una serie di luoghi, noti per l’utilizzo in ambito urbano del mosaico - Parco della Pace (1988), Ardea Purpurea (2004), Monumento a Pierpaolo D’Attorre, la Torre mosaicata Gerusalemme Celeste davanti alla Stazione nel Giardino Speyer, la fascia verticale musiva realizzata sul fronte della galleria niArt di via Anastagi – cosa pensa?

«Io credo che ogni luogo debba mostra la propria specificità e il proprio tempo. Come Faenza per la ceramica, Ravenna deve guardare al mosaico. Gli interventi devono essere misurati e contenuti, anche perché il contesto storico non va scardinato, eleganti ed essenziali, mai invasivi. Devono avvicinare e non allontanare, creare una sana curiosità, non un rigetto». In chiusura. C’è un luogo nel mondo – o più luoghi – in cui secondo lei meglio si raggiunge lo zenit tra arte e ambiente urbano o naturale? «Credo che il connubio migliore tra arte e ambiente naturale si possa raggiungere nello straordinario Parco delle Sculture della Fattoria di Celle a Santomato di Pistoia, dove Giuliano Gori da anni ha fatto realizzare importanti interventi ad artisti internazionali. Un luogo magico, fortunatamente aperto al pubblico. Una città, invece, dove trovo veramente la pace dei sensi è Venezia, un luogo magico soprattutto d’inverno quando i turisti si intravvedono, quando l’acqua è alta e la nebbia si affetta nelle calli… uno spettacolo»!

Nella pagina una delle installazioni contemporanee presenti nel giardino del Mic.

OTTOBRE

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MONTAGGI TC 2012 10:Layout 1 29/10/12 19.10 Pagina 48

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In una rubrica i consigli dello chef Faccini per conoscere ingredienti, cotture, attrezzature, caratteristiche degli alimenti e vivere appieno uno dei momenti più appaganti dell’abitare

PENTOLE E PROVETTE

Dopo la prima puntata introduttiva riprende il viaggio avviato per apprezzare uno dei momenti più appaganti dell’abitare: cucinare. Grazie alla guida esperta dello chef Stefano Faccini anche la cucina di casa può diventare luogo di alchimie, di preparazioni sane e di grandi soddisfazioni. Da anni la riflessione sul cibo si ferma alla preparazione di piatti fra tradizione e innovazione. Poco si conosce e si scrive su ingredienti, cotture, attrezzature, sulla fisica e la chimica degli alimenti, saperi che rappresentano la chiave per avventure emozionanti in cucina per il più abile dei cuochi di casa ma anche per apprendisti alle prime armi. Con lo chef Stefano Faccini in cucina, è ancora una volta di scena la pasticceria e dopo le indicazioni sulle farine, i lieviti, gli albumi e le uova, l’indagine prosegue grazie alla scomposizione e analisi di una delle preparazioni fondamentali: la crema pasticcera. Regina dei dolci appare nelle crostate, nelle paste choux (bignè, eclair), nei dolci di pasta sfoglia (cannoli, vol-au-vent, millefoglie), ma anche nel pan di Spagna senza dimenticare semifreddi, budini e moltissime delizie al cucchiaio. Ecco allora una prima descrizione: «Una buona crema pasticcera deve essere liscia, lucida, di media consistenza, con un buon profumo di


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Morbida, classica, senza tempo: va in scena la crema pasticcera vaniglia e limone, non deve opporre resistenza e non deve risultare farinosa al palato». E ancora: «Una cottura insufficiente produce creme semiliquide che si scompongono in fretta e ridiventano acquose e molli, perché l'amido non si è gelatinizzato in maniera completa. Diversamente se la crema è troppo cotta il tutto si riduce a una massa zuccherata senza nessun valore, senza storia, dal gusto sgradevole di zolfo o di altre sostanze. I tuorli sono composti da ferro, ponti di solfuro, idrogeno. Una cottura troppo prolungata porta a esalazioni di cattivi odori e a una colorazione verdognola assai sgradevole». Infine, assicura lo chef, le creme cotte devono essere coperte o spolverate con zucchero o zucchero al velo e raffreddate velocemente per aumentarne la conservazione. «La crema raffreddata completamente e pronta all'uso deve essere rimescolata prima dell'uso». A questo punto serve un sguardo attento agli ingredienti principali. Il latte: possibilmente fresco o intero o la panna ( si può detrarre fino a 300g di latte su un litro e sostituirlo con la panna) che grazie alla presenza di grassi e alla minore presenza di acqua farà sì che la crema si mantenga più a lungo e imprimerà un sapore molto più fine. I tuorli: possono essere presenti da 160g fino a 600g (x litro di latte). Maggiore è la presenza di tuorli, minore dovrà essere la presenza di amido (farina, o amido di mais o di riso o altri leganti) mentre si deve aumentare la presenza di zuccheri per evitare la veloce coagulazione del prodotto. Lo zucchero: deve essere impiegato dai 250g ai 500g, ha la funzione di conservante e deve essere sbattuto assieme ai tuorli, infatti se lo si lascia a contatto di questi ultimi senza mescolarlo, esso assorbe l'acqua cristalizzandone le proteine e dopo l'aggiunta di latte si formerebbero dei puntini insolubili e assai sgradevoli. La farina, l'amido di riso o di mais: gli amidi si usano per fare addensare la crema e sono introdotti nella base perché aggiungono brillantezza alla crema e imprimono vischiosità diversa a secondo della loro origine vegetale. In genere i diversi tipi di amidi legano alle seguenti temperature: amido di frumento da 81 a 94 gradi, amido di mais da 72 a 84 gradi, amido di riso da 76 a 92 gradi. La vaniglia: è l'aroma più utilizzato nelle preparazioni delle creme e il baccello dovrà essere sottile morbido e pieno. Va inciso nel senso della lunghezza e scavato, i semi vanno aggiunti al composto e il baccello vuoto unito al latte caldo, oppure a freddo, aumentando i tempi di infusione. La quantità di vaniglia corrisponde ad un baccello per ogni litro di latte. La vaniglia è una liana erbacea della famiglia delle Orchideaceae ed è originaria dell'America Centrale, mentre la vanillina è ri-

cavata sinteticamente dagli oli essenziali dei chiodi di garofano o dalla lignina contenuta dagli scarti di legname che però non è paragonabile all'aroma della vaniglia vera». Forti dei preziosi consigli dello chef non resta altro che accendere i fornelli e provare la:

Crema pasticcera di base latte intero fresco g 1000 - amido di riso g 40 - farina g 40 tuorli g 250 - bacca di vaniglia n 1 - zucchero g 300 - sale g 1 (Come già indicato dallo chef nella precedente puntata, in pasticceria non si ricorrere all’uso di contenitori millimetrati, ma la pesatura avviene per i liquidi, al fine di ottenere una maggiore precisione)

Procedimento: sbattere a lungo i tuorli con lo zucchero, unire l'amido e la farina setacciati e amalgamare in maniera corretta. Aggiungere la polpa della vaniglia e il sale. A parte portare a ebollizione il latte con il baccello svuotato della vaniglia. Unire il composto e mescolare energeticamente fino a raggiungere la consistenza desiderata. Stendere in un recipiente e coprire con carta da forno, o pellicola o spolverare con lo zucchero. Porre velocemente a raffreddare. Prima dell'uso sbattere la crema.

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La posta dello chef Salve chef Faccini, per la prima volta nella mia vita posso scegliere come impostare la sequenza degli elementi della mia cucina in linea, ma non so decidermi. Perché tutto sia funzionale come devo inserire lavello, piano cottura e spazio preparazione vivande. Può aiutarmi? Carlo Carlo, la posizione del lavello deve essere funzionale alla possibilità di appoggio e lavaggio di verdure e stoviglie. Il lavello deve essere possibilmente attorniato da materiale di facile pulizia, ben sigillato e ampio (sempre che ci siano spazi sufficienti). Per il forno io mi indirizzerei su un modello ventilato, elettrico ben isolato per mantenere meglio le temperature ed evitare gli sprechi, con la rilevazione delle temperature digitali; mentre il piano cottura deve essere ampio per dare la possibilità se necessario di lavorare anche con più tegami nello stesso tempo, con alcuni elementi potenti (fornelli), e deve permettere una facile pulizia. Il piano d'appoggio infine deve essere studiato in funzione del numero di persone che vive la casa e quindi della mole di lavoro e in relazione alle macchine che pensi di posizionarvi (microonde, macchina del caffè, tostiera, affettatrice, ecc).

alla quantità di prodotto da cuocere per dare la possibilità al calore di arrivare velocemente sul contenuto. Sia l'alluminio che i materiali antiaderenti sono ottimi conduttori di calore, ma io aggiungerei anche il silicone che al momento di sformare il dolce è facile da utilizzare. Per rispondere alle domande più comuni in cucina: perché succede? Dove sbaglio? Cosa mi manca? Quale utensile usare, quale attrezzatura? E per molto altro, lo chef Faccini è a disposizione dei lettori all’indirizzo redazione@trovacasa.ra.it

Buongiorno chef, quando si prepara una crema o una salsa come si fa a non far impazzire le uova nel momento in cui entrano in contatto con il latte caldo? Sara Cara Sara, per non "stracciare" le uova quando viene aggiunto il latte caldo è opportuno sbatterle prima con lo zucchero fino a farle diventare chiare, e unire un pizzico di amido (farina, amido di riso, maizena, fecola ecc). Lo zucchero e gli amidi si interpongono tra le proteine dell'uovo e ne ritardano la coagulazione, ma attenzione al primo bollore ritirare comunque il tegame dal fornello per evitare di stracciare la salsa. Per la cottura dei dolci il materiale del contenitore è indifferente o è da preferire di volta in volta l’alluminio, il silicone, il vetro o il metallo antiaderente? Franca Certo Franca, utilizzare diversi materiali per la cottura dei dolci è essenziale. Ma non esiste un materiale ad hoc per ogni situazione. Il principio fondamentale per la cottura è quello di “far girare” l'aria in modo uniforme. La prima regola è posizionare la tortiera sopra alla griglia del forno e non sopra a una teglia, la seconda regola è di utilizzare un recipiente ben proporzionato

PENTOLE E PROVETTE

Diviso fra l’insegnamento all’istituto professionale di Stato Servizi per l’enogastronomia e l’ospitalità alberghiera di Cervia, i corsi di alta formazione, le consulenze per alberghi e aziende alimentari, Faccini, si è fatto promotore di una nuova cultura gastronomica. Attualmente consulente dell’hotel Michelangelo di Milano Marittima, vanta esperienze nella cucina di Paul Bocuse, di Fredy Girardet in Svizzera, ed è Chef Eurotoque, Commandeur de la Commeanderie des Cordons Blues de France, e discepolo di August Escoffier.


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Due immagini della parte terminale del canale Candiano a Marina di Ravenna

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POESIA E PAESAGGI


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In versi la Ravenna liquida di Luciano Benini Sforza Nella raccolta “Dopo questo inverno” istanti quotidiani, paesaggi industriali fra terra e mare, fissati dal poeta ravennate di Chiara Bissi Nel dibattito asfittico delle città di provincia sul mancato fervore culturale, sul quel che non c’è, quello che non succede, quello che si dovrebbe fare e quello che non si fa, rimane sommessa e privilegiata la voce di un intellettuale, che invece sente e racconta la propria città, tutta protesa verso il mare, seguendo il canale fino a Marina di Ravenna. Luciano Benini Sforza a distanza di due anni dalla raccolta poetica “Nel fondo aperto degli occhi” torna con “Dopo questo inverno” editore L’arcolaio, arricchita dalla prefazione di Jean Soldini, filosofo, storico dell’arte e poeta svizzero di lingua italiana, ospite del Cisim di Lido Adriano lo scorso anno. Ancora una volta unico e contemporaneo, lo sguardo di Benini Sforza tramuta l’ambiente antropizzato e industriale, il brulicare degli operai al lavoro, la pineta, la frenesia della spiaggia in un contesto poetico. Immagini che occhi distratti riconoscono come familiari e mute nella mente del poeta si tramutano in versi e significati. Dalla biografia importante, come i veri ravennati, asciutto e schivo, Benini Sforza, si è formato alla Normale di Pisa. Ha firmato diverse pubblicazioni critiche, pubblicato raccolte poetiche, con cui ha vinto premi letterari, mentre insegna in un liceo ravennate, e coltiva una stretta amicizia poeti come Nevio Spadoni, Giuseppe Bellosi, Carolina Carlone. In “Dopo questo inverno” torna con prepotenza la realtà palpabile, dal mare arrivano gli elicotteri che riportano gli operai dalle piattaforme, i gabbiani ci sono ma “sono schiacciati sotto la bora”, gli stradelli retrodunali si tramutano il sabato notte in “un’immensa anaconda coperta di polvere spessa, dorata”. Poi astratta si profila Marinara con “La torre bianca e azzurra/guarda il mare come un cappello/ di clown rovesciato/ o un’astronave,/ la costa/ ti incanta di alberi che ondeggiano/ musicali/ in mezzo al buio della sera”. Paesaggi liquidi, fra terra e mare, una frontiera permeabile in movimento precisa Soldini

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Prospettive umane

nella prefazione, sulla quale si innesta la memoria. «Benini Sforza – scrive Soldini – mentre ci consegna Ravenna, il mare, il canale, così convincenti da permettermi di ritrovarli nei suoi versi come li ho sempre percepiti, quelle immagini si distruggono sostituite da altre come fanno le corde con la loro impetuosa plasticità». Un tempo presente, un riflesso percepito, nella dignità di istanti quotidiani, scanditi dal “lavorio delle squadre/ delle gru marziane sbarcate fra le montagne/ di sabbia/ per costruire il nuovo porto/ nello zero fra la terra e il mare”. Un irrompere quieto di gesti consueti, persino il traghetto sul canale si fa teatro in versi mentre nei mesi caldi trasporta “un popolo galleggiante, un grande predatore a caccia di una radura estiva”. Nella pineta “la quiete è un anello d’oro/ d’aria/ è un salto sottile/ momentaneo”. E nella lirica “Sotto il cielo” la forza visiva della poesia di Benini fotografa “Quando le gru del porto/ e le sue ciminiere/ sono giraffe sbilenche sotto il cielo/ o una passeggiata/ fino ai primi ammassi/ grigi della zona industriale/ spesso/ è il tuo infinito aperto/ immagini un mondo vero ma diverso/ non frantumato o artificiale, / e neppure perso”.

Il volo esterno del porto-canale, appena salutata la città, non è mai fermo, e i vapori ora bianchi ora gialli delle ciminiere faticano a tenere il passo di questa crescita. Dove c’erano erbe ora vanno come nastri trasportatori senza orari le strade, e qui fra sequoie di metallo e corde calate lungo le pareti a strapiombo dei container o dentro il guscio delle navi si muovono respirano, scompaiono gli uomini. Senza lasciare traccia. Ma dopo solo qualche chilometro trovi la spiaggia, solcata pista d’atterraggio, e i locali scesi da astronavi luminose e troppo umane. Traboccanti di birre, suoni o vite che a fasi invadono e lasciano la costa a ritmi inarrestabili. *** Ravenna è una sintesi in bilico, aperta, un pavimento che riaffiora dal terreno, dove scorre la pioggia e ristagna, dove il muschio cova l’arsura e viceversa. *** Tu, quando a un’ora non definita Capiterai in una città come la mia, replica né migliore né peggiore di tanti altri luoghi più grandi o sagomati da un’ombra di automobile o di betulla nel bosco occidentale, ti sentirai un pendolare qualunque. Un cittadino. Uno sposo. Ma anche uno senza copione, una macchia di sporco, di colore. Un uomo che fugge.

Nella pagina due scatti del porto turistico di Marinara

POESIA E PAESAGGI


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25 ottobre 2012 n. 508

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CHE PAURA HALLOWEEN

Un’immagine tratta dalla pellicola The Last Will and Testament of Rosalind Leigh, in concorso alla decima edizione del Nightmare Film Festival

La Chiesa teme per le radici cristiane, mentre si festeggia in piazze e cinema Il vescovo annuncia una sera di preghiera il 31ottobre, mentre a Santa Maria in Porto il parroco sta portando avanti una crociata per contrastare la sempre più diffusa celebrazione di Halloween, che riguarda i bambini ma anche gli adulti. Dalle storiche feste in piazza, come Riolo Terme, ai pomeriggi dedicati ai più piccoli all’Almagià, fino al festival dell’horror Nightmare, che guarda casa si svolge proprio tra l’ultima settimana di ottobre e la prima di novembre, anche a Ravenna questi saranno giorni dedicati alle creature delle tenebre e alla misteriosa barriera che separa il mondo dei vivi da quello dei morti e alle zucche (magari da mangiare). Irremediabilmente colonizzati dalla cultura americana? Non proprio, a sentire l’antropologo Eraldo Baldini. SERVIZI ALLE PAGINE 10, 11, 13, 17 E 20

PROVINCIA

Tutti i dilemmi dell’unificazione ALLE PAGINE 4-5 PORTO FUORI

Cmc e Comune incontrano i cittadini A PAGINA 8 CULTURA

Mostra e performance sulle forme del suono A PAGINA 15

Ravenna&Dintorni va a ruba

e il nuovo quotidiano on line

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Via della povertà Riflessioni sulla giornata mondiale del 17 ottobre «Il fenomeno della povertà, che è sempre stato molto marginale nell’agenda politica italiana, sembra del tutto sparito; proprio quando, accanto ai gruppi tradizionalmente più a rischio e alle cause “classiche”, le nuove incertezze economiche del mercato del lavoro e della famiglia stessa allargano l’area della vulnerabilità a individui e gruppi sociali che credevano di esserne protetti». Chiara Saraceno, Pierluigi Dovis, I nuovi poveri: politiche per le diseguaglianze, Torino, Codice Edizioni, 2011 Logo creato da Andrea, studente del primo anno del Corso di Stampa dell’Engim di Ravenna.

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di Marina Mannucci

Qualche anno fa mi è capitato di seguire una lezione sulla democrazia di Gustavo Zagrebelsky in cui spiegava che una società non democratica è «una società in cui esistono discriminazioni e disuguaglianze, tali che una parte, per così dire, viva bene sopra un’altra che vive male e questa differenza alimenta odio e violenza. È una società dove se non ti “integri”, cioè non ti rendi irriconoscibile nella tua identità, non hai diritto di cittadinanza; dove la povertà e il disagio sociale sono abbandonati a se stessi, nella solitudine; dove il lavoro non è considerato un diritto, ma solo un fattore dell’impresa subordinato alla sua logica e dove i disoccupati e i precari sono solo un accidente fastidioso di un “sistema” e non un problema per tutti; dove l’istruzione e la cultura sono riservati ai figli di coloro che possono; dove la salute è il privilegio di chi può permettersi d’affrontare le spese che la sua cura comporta. Noi avvertiamo queste discriminazioni in modo sempre più acuto. La povertà, l’insicurezza e la solitudine aumentano, anche se spesso hanno vergogna di mostrarsi, come bene sanno coloro che operano nei servizi sociali, pubblici e privati. Il divario tra chi può curare la propria formazione culturale e chi non può aumenta, e spesso si manifesta in questa forma odiosa e umiliante per il nostro Paese: chi può manda i suoi figli fuori dell’Italia. La disuguaglianza giunge a segnare i corpi, divide quelli bene curati e quelli degradati: addirittura lo stato dei denti è diventato, anzi ri-diventato qual era un tempo, segno di condizione sociale». Hannah Arendt in Was ist Politik? (inediti del 1950, pubblicati nel 1993, trad. it. Che cosa è la politica? Torino, Comunità, 2001, p. 5) asserisce che compito della politica è l’essere collocata infra, in mezzo, tra le persone e che la virtù politica è propria di coloro che amano stare “con” le altre persone, non “sopra”, nemmeno “accanto” o, peggio, “altrove”; di coloro che conducono la loro vita insieme a quella degli uomini e delle donne comuni, stando dentro le relazioni personali e di gruppo, quelle relazioni che, nel loro insieme, fanno di una semplice somma d’individui una società. Sono anch’io fermamente convinta che chi disdegna di stare con le persone comuni, credendosi diverso, frequentando piuttosto salotti, accademie, fondazioni culturali, tavole rotonde può essere una “brava” persona: ma non è adatto alla politica. Benjamin Seebohm Rowntree, uno

CITTA E SOCIETA

dei pionieri negli studi sulla povertà dell’inizio del 1900, nel definire il paniere dei beni essenziali in relazione al quale stabilire il confine tra indigenza e sussistenza dignitosa, vi includeva – oltre ai generi di prima necessità – anche un po’ di tabacco e di tè, oltre alla possibilità di pagarsi ogni tanto una pinta di birra al pub: tutte cose che, a suo giudizio, permettevano a quel tempo a un individuo di sentirsi parte di una comunità. Ed è, infatti, proprio l’esclusione dalle abitudini e dagli stili di vita uno dei primi e più difficili gradini da superare per chi entra nella morsa dell’indigenza, magari dopo una vita passata a lavorare. Di là delle sacche storiche di povertà (barboni, persone soggette a disagio mentale, sans papiers...), la novità che stiamo vivendo è costituita da tanti lavoratori o ex lavoratori: la crisi sta aumentando le disuguaglianze economiche, con un mutamento sempre più marcato delle società in cui viviamo e una perdita secca di diritti e di opportunità.

«Minoranza siamo tutti, maggioranza non è nessuno» Gilles Deleuze Il 17 ottobre di ogni anno, i più poveri e tutti coloro che rifiutano la miseria e l’esclusione sociale, si riuniscono nel mondo intero al fine di testimoniare la loro solidarietà ed il loro impegno perché la dignità e la libertà di tutti siano rispettati: in questo modo è nata la “Giornata Mondiale del Rifiuto della Miseria”. La Giornata fu celebrata per la prima volta il 17 ottobre 1987 a Parigi, quando centomila difensori dei diritti umani di ogni paese, condizione e origine, si riunirono sul Sagrato dei Diritti dell’Uomo, al Trocadéro, su iniziativa di padre Joseph Wresinski. “Giornata” che fu riconosciuta ufficialmente dalle Nazioni Unite nel dicembre 1992 ed il cui messaggio è racchiuso in queste parole di padre Wresinski: «Laddove gli uomini sono condannati a vivere nella miseria, i diritti dell’uomo sono violati. Unirsi per farli rispettare è un dovere sacro». In Italia, quest’anno, in occasione di questa ricorrenza, l’Istat ha diffuso dati relativi all’anno passato dai quali si evince che una famiglia italiana su tre è costretta a risparmiare sull’acquisto del cibo. Ecco alcune cifre: il 35,6% delle famiglie nel 2009 ha speso meno per i generi alimentari; il 63% delle stesse afferma di risparmiare sulla quantità di cibo acquistata, mentre il 15% risparmia anche sulla qualità, tanto che la spesa media mensile è scesa dell’1,7% rispetto al 2008. Il prodotto più penalizzato, i cui acquisti sembrano essere calati del 50%, è il pane; si tratta comunque di tagli generalizzati, salvo qualche eccezione. Dati preoccupanti poiché evidenziano situazioni di debolezza e fragilità sociale: testimoniano, e al contempo sottolineano, quel che già sapevamo, ossia che la crisi economica non è solo un affare dei mercati, delle banche, delle grandi società finanziarie, ma è un problema che incide sulla vita di tutti i cittadini. La strategia del Consiglio d’Europa


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per combattere la povertà “dovrebbe” essere diretta a rafforzare la coesione sociale in Europa e prevenire e combattere l’esclusione sociale. Il Consiglio d’Europa dispone, infatti, di strumenti giuridici quali la Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, che stabilisce i diritti e le libertà fondamentali, e la Carta Sociale europea, che stabilisce i diritti sociali, ivi compreso il diritto alla protezione contro la povertà e il diritto all’alloggio. Il 17 ottobre è quindi un’occasione importante per informare, denunciare, avvicinare e condividere, ed è anche la giornata in cui le organizzazioni non governative ricordano che esiste una terza possibilità, oltre a quella di morire chiedendo la carità o di morire con un fucile in mano: lottare per l’accesso ai diritti economici e sociali, richiamando i governi al loro rispetto e alla loro applicazione.

«Quelle che incontravamo erano persone classificate come normali, vestite in maniera usuale, con un dire appropriato e con modi molto più spaesati, come di qualcuno che si trovi per la prima volta in un ambiente non suo. Sembravano casi singoli, non anelli di una catena più grande» Chiara Saraceno, Pierluigi Dovis, I nuovi poveri…, cit. Anche a Ravenna in occasione della “Giornata Mondiale del Rifiuto della Miseria”, per la prima volta, si sono svolte importanti manifestazioni, grazie ad iniziative di singoli cittadini, di alcune associazioni, degli studenti di Scuole Professionali e con il supporto del patrocinio della Pubblica Amministrazione locale. Sabato 13 ottobre, in piazza San Francesco, il gruppo Con-cittadini e altre associazioni locali hanno organizzato un fitto programma che prevedeva dibattiti, momenti di divertimento e cena “sotto le stelle” con sfondo musicale. Informare, denunciare, avvicinare e condividere le storie e i volti di persone che da un momento all’altro si sono trovate in estrema difficoltà è il motivo che ha spinto il gruppo spontaneo di Con-Cittadini ad organizzare questa giornata, obiettivi condivisi anche dalle altre associazioni che hanno aderito al progetto e dall’Assessorato alla partecipazione ed ai servizi sociali, con il conseguente patrocinio del Comune concesso a Villaggio Globale, partner del progetto. Grazie alla collaborazione della parrocchia del Torrione e di San Michele e di tanti cittadini, il gruppo promotore del progetto ha potuto allestire due cene di autofinanziamento a sostegno dei costi necessari per la realizzazione della giornata del 13 ottobre. Complessivamente hanno aderito centosettanta persone che oltre a mangiare e lasciare un contributo, hanno mostrato un inte-

resse autentico, dichiarando la loro disponibilità per la realizzazione dell’evento del prossimo anno. Sempre a Ravenna, il 17 ottobre, lo sportello Avvocato di strada di Ravenna ha organizzato una “Passeggiata della solidarietà” che ha visto insieme homeless, giovani delle scuole, cittadine e cittadini in una visita ai luoghi della città che accolgono e sostengono le persone senza casa, povere e in difficoltà. La Passeggiata ha preso avvio dall’Asilo notturno Re di Girgenti di via Mangagnina, gestito da volontari del Comitato cittadino antidroga di Ravenna, con tappe successive al Buon Samaritano San Rocco, alla Mensa del Buon Samaritano, alla Caritas in Piazza Duomo, al Punto dei Cappuccini, all’ARCI, con arrivo in via Cavour alla sede del “Progetto Tracce” e dello sportello di Avvocato di Strada Ravenna ospitati nei locali del CEIS. In piazza Andrea Costa si sono svolte performance, concludendo la passeggiata con una merenda/aperitivo equosolidale. L’iniziativa è stata organizzata in collaborazione con il Comitato Rompere il silenzio, ENGIM Emilia-Romagna, IAL Emilia-Romagna, ALFA, Scuola Arti e Mestieri Angelo Pescarini e ha il patrocinio del Comune e della Provincia di Ravenna. Di seguito alcune riflessioni di Emanuela Casadio, volontaria e responsabile dello sportello Avvocato di Strada di Ravenna. «Alla fine di giugno è stato aperto anche a Ravenna lo sportello Avvocato di Strada che fa parte, assieme agli altri trenta sportelli già in funzione, di una rete composta da circa settecento avvocati e altrettanti volontari presente in tutta Italia. Lo sportello di Ravenna agisce in collaborazione con la Caritas cittadina ed ha lo scopo di dare tutela giuridica, sia stragiudiziale che giudiziale, alle persone senza fissa dimora o che vivono presso dormitori, case-famiglia, in povertà estrema

In basso: performance delle allieve della Scuola “Passi di Danza” di Bagnacavallo, coreografa Paola Ponti, piazza Andrea Costa. Foto di Francesca Tassinari A sinistra un momento della performance organizzata dal gruppo Con-cittadini e altre associazioni locali, in vista della Giornata mondiale contro la povertà (17 ottobre). Foto di Francesca Tassinari.

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Sopra: passeggiata della solidarietà, organizzata dall’Associazione “Avvocato di Strada” di Ravenna in occasione della “Giornata mondiale contro la povertà” (17 ottobre). Foto di Francesca Tassinari. In basso: logo creato da Fiorella, studentessa del primo anno del Corso di Stampa dell’Engim di Ravenna. Nella pagina a destra: installazione realizzata dagli studenti del Corso di Operatore del punto vendita dell’Engim di Ravenna, Foto di Roberto Ceccanti.

o vittime della tratta. Gli avvocati volontari dello sportello sono sette, cui si sommano alcuni studi legali che hanno dato la loro disponibilità per eventuali problemi specialistici, mentre i volontari che svolgono il ruolo di accoglienza ed orientamento sono circa una ventina. Lo sportello è aperto tutti i venerdì dalle 15 alle 17 in via Cavour 6, presso il Ceis che collabora anche con il centro diurno Tracce diretto da don Claudio Ciccillo. Nei primi tre mesi di apertura, i casi affrontati sono stati circa una quarantina, alcuni conclusi altri invece ancora in essere; molti riguardano stranieri, immigrati, altri invece italiani alle prese con il problema della residenza fittizia, con cause inerenti il riconoscimento dell’invalidità civile, sfratti, licenziamenti, problematiche concernenti i rapporti con i servizi sociali. Purtroppo essere senza una casa e quindi senza una residenza diventa sempre più facile rispetto a quello che sembra e questo lede diritti soggettivi elementari e difesi dalla nostra Costituzione, come ad esempio il diritto alla salute. Infatti, chi è senza fissa dimora non ha diritto al medico di base ma solo alle cure urgenti del Pronto Soccorso, come non ha diritto alla pensione, al lavoro, all’assegnazione di una casa popolare etc. Avvocato di strada cerca di dare

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una mano nel risolvere le controversie giuridiche e, in primis, si batte perché la residenza fittizia convenzionale, che a Ravenna è denominata via della Anagrafe 1, venga estesa a tutti i soggetti, in regola con le norme vigenti, che ne fanno richiesta. Il primo passo per passare dall’invisibilità alla visibilità è proprio questo: avere una carta di identità sulla quale vi è posto un indirizzo, pur convenzionale, ma sempre indirizzo e quindi essere residenti. Dal punto di vista del sociale, per il prossimo inverno, Avvocato di Strada di Ravenna lancia una campagna di solidarietà atta a comprare posti letto nelle strutture alberghiere della città o in bed and breakfast per far fronte all’emergenza freddo che i singoli e le famiglie dovranno affrontare ed invita la cittadinanza ad uno slancio di generosità verso i più deboli e fragili». Per la giornata mondiale della povertà, L’Engim (Ente Nazionale Giuseppini del Murialdo) – associazione senza fini di lucro finalizzata alla formazione professionale, sorta all’interno di attività di sostegno a favore del mondo operaio avviate da san Leonardo Murialdo nella metà del secolo scorso – ha elaborato un progetto di sensibilizzazione sul tema, rivolto trasversalmente a tutti gli studenti iscritti al Centro di formazione. Attraverso il coordinamento delle diverse competenze formative, oltre ad affrontare ed approfondire il tema della povertà, gli studenti hanno realizzato in tempi velocissimi il progetto grafico della campagna pubblicitaria dell’evento organizzato per il 17 ottobre dallo sportello Avvocato di Strada ed hanno collaborato all’allestimento dello spazio espositivo che la scuola riserva periodicamente ai lavori prodotti dagli studenti, dedicato, in quest’occasione, interamente al tema della povertà. Anche la Scuola di arti e mestieri “Angelo Pescarini” di Ravenna ha avviato un percorso di sensibilizzazione sul tema della povertà grazie al contributo di Gianluca Pipitone, giurista dello Sportello Avvocato di Strada di Ravenna, che ha spiegato agli studenti il valore di universalità dei diritti fondamentali dell’uomo, dell’originarietà dei diritti dei minori, della cittadinanza e di come tali istituti rappresentino solidi avamposti di tutela della nostra società.


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A fine reportage, voglio trascrivere le parole di Andrea e Fiorella, due giovani studenti del primo anno del Corso di Stampa dell’Engim. Le loro riflessioni semplici, ma significative e profonde, hanno preso avvio dalla domanda che ho posto loro: se avevano paura della povertà. Andrea: Sì, la povertà mi fa paura perché la stiamo vivendo tutti, è una realtà che ci segue ovunque; in famiglia è un argomento sempre più frequente. Fiorella: È vero, in famiglia è un argomento col quale sempre più spesso noi giovani siamo “costretti” a fare i conti. Secondo me, però, questo nuovo problema con il quale dobbiamo confrontarci ha anche degli effetti positivi: ci obbliga a crescere. Nella mia famiglia, ad esempio, abbiamo cominciato a collaborare tutti di più, stiamo attenti a risparmiare, a non sprecare, a riflettere su quello che effettivamente e necessario e su ciò che invece è superfluo. Andrea: Sì, da questo punto di vista sono d’accordo con te. A me, questa grave crisi ha fatto sentire il bisogno di applicarmi di più nello studio e di riflettere in maniera meno superficiale sull’importanza di costruirmi un futuro per poi poter trovare un lavoro. In ogni caso, ribadisco che “mi piglia proprio male” vedere quanta gente povera si veda adesso in giro. Ad esempio, se passi il pomeriggio davanti al Liceo Classico, sui gradini vedi tante persone e si capisce immediatamente che sono “uscite fuori dal giro”. Fiorella: Il problema, secondo me, è che se le persone che diventano povere si sentono abbandonate dalla società inevitabilmente rischiano di diventare più aggressive ed insofferenti a quelle istituzioni sociali dalle quali a loro volta si sono sentite abbandonate. Forse in Italia per il momento non siamo messi male, ma in ogni caso è evidente anche a noi che le persone non si concedono più certi lussi. Andrea: Un luogo comune sui giovani è di additarci sempre come assenti dalla scena, indifferenti e poco coinvolti, ma non è così; in realtà noi, a differenza di quelli della sua generazione abbiamo molti più problemi personali ed anche sociali, problemi che ci riguardano da vicino e che vanno affrontati in tempo reale. Tutto questo ci distrae dal sociale, aiutare gli altri è un lusso che non sempre noi giovani, a differenza di voi, possiamo permetterci. Fiorella: Sappiamo bene che quello che succede là fuori ci riguarda e che siamo tutti legati e responsabili di un destino che in parte è “comune”. Un grazie di cuore da parte mia ad Andrea e Fiorella; le loro parole sono un ottimo punto di partenza per avviare riflessioni sul tema della povertà da parte del cosiddetto “mondo adulto”.

Majid Rahnema è un signore iraniano di 85 anni, che al Salone dell’editoria sociale di Roma ha presentato il libro, scritto con Jean Robert, “La potenza dei poveri” (Jaca Book, 2010), naturale continuazione del suo “Quando la povertà diventa miseria” (Einaudi, 2005). Rahnema, esperto di povertà, è nato a Teheran, ha studiato a Beirut e Parigi, è stato ministro dell’Istruzione del suo paese tra il 1967 e il 1971, rappresentante dell’Iran alle Nazioni Unite, poi esule, diplomatico di alto livello per il programma dell’Onu per lo sviluppo, rappresentante dell’Onu in Mali e commissario in Rwanda durante la guerra civile, quindi membro del Consiglio esecutivo dell’Unesco. Sostenitore delle politiche di sviluppo negli anni ’70, quando si pensava che l’economia potesse cambiare le sorti dei paesi “arretrati” fino a raggiungere l’Occidente e poi magari sorpassarlo, ne è diventato poi il principale oppositore. Oggi è una figura di riferimento, uno dei grandi pensatori “eretici” del nostro tempo, ponte tra un’antica sapienza persiana d’ispirazione sufi e il mondo occidentale, fondatore di un’antropologia che ingloba tanti saperi e contesta l’economia. Da quando incontrò il pedagogista e filosofo Ivan Illich e il pensiero di Spinoza, ha abbracciato un punto di vista teso allo smascheramento dei falsi miti, prima di tutto quello dello sviluppo. Il titolo del libro, “La potenza dei poveri”, ricalca il concetto di potenza di Spinoza, il filosofo ebreo scomunicato che, mentre meditava, si guadagnava da vivere come tornitore e pulitore di lenti, seguendo il suggerimento dei rabbini che consigliavano di apprendere almeno un’arte manuale. La potenza è per Rahnema proprio questo, poter essere se stessi, permettere a ciascuno di vivere secondo le proprie capacità, la propria “epistéme” e il proprio saper fare: allora ognuno diventa Dio. Potenza è permettere ai poveri di sviluppare abilità nel loro contesto e non sradicarli dal loro mondo. Viceversa, le campagne di aiuto dirette dall’alto sembrano contro la povertà, ma finiscono con essere contro i poveri; tradiscono una epistéme egemonica, degna di Giano bifronte, l’epistéme della dominazione, tipica di un “Primo” mondo che, dietro le buone intenzioni apparenti, è interessato solo a perpetrare i propri interessi ed esercitare il controllo. E così, per Rahnema, che nelle sue missioni per il mondo ha verificato la contraddizione di pratiche sociali ambigue, la povertà degenera in forme di abbrutente miseria, proprio a causa di interventi politico-economici miliardari irrealistici e fallimentari perché concentrati sulle conseguenze anziché sulle cause della povertà. Il termine stesso povertà è diventato ambiguo, secondo Rahnema, perché «è una delle parole più usate e più colonizzate nella storia». Anche la colonizzazione dei vocaboli da parte delle maggiori istituzioni mondiali è per il pensatore iraniano un fenomeno emblematico; infatti asserisce che «Il problema non è aiutare, ma capire come soffrono i 2/3 del mondo. Tra questi 4 miliardi di persone che stiamo conducendo alla miseria, ci sono degli Einstein, i miserabili siamo noi» (tratto da Piera Lombardi, “I volti della depressione: da malattia sociale a occasione di cambiamento”, 2012).

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La villa sulla duna di Milano Marittima Nella casa Fontana su viale Matteotti il felice dialogo tra natura e architettura In questa villa natura e architettura convivono fin dall’inizio in base ad un tacito accordo, e la prima si mostra pronta ad accogliere docilmente la seconda, sollevandola come un pacifico cetaceo che emerga per un istante dal mare magnum cittadino.

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di Paolo Bolzani

Milano Marittima: incrocio tra viale Matteotti e IX traversa, angolo sud-ovest. In un ampio lotto, omaggiato dalla fortunata presenza di un’antica duna costiera, si erge la grande villa della famiglia Fontana di Bologna, esito di un felice progetto di ampliamento e ristrutturazione di un precedente fabbricato, portato a termine tra il 2009 e il 2011 su progetto e direzione dei lavori dell’architetto Lorenzo Zaganelli di Ravenna e Maria Teresa Rossi, con Jessica Salmin e Valentina Rossetti. Non di rado e particolarmente nelle residenze di nuova costruzione realizzate lungo le strade provinciali di campagna, capita di vedere enfatizzato l’ingresso alla casa, ponendolo al termine di una più o meno lieve salita. Evidente in questi casi si manifesta lo sforzo di “sacralizzare” l’accesso alla dimora, ponendola su un vago monticello sul cui pendio sovente si mette in scena un vero artefizio scenografico, con libera posa di piante più o meno autoctone, mentre il percorso pedonale del visitatore verso l’ingresso si dipana in un gaio rincorrersi di rettifili e curve, rampe e scalinate. In questo caso invece, natura e architettura convivono fin dall’inizio in base ad un tacito accordo, e la prima si mostra pronta ad accogliere docilmente la seconda, sollevandola come un pacifico cetaceo che emerga per un istante dal mare magnum cittadino. Dalla strada dunque osserviamo la villa innalzarsi nel corso di questo morbido movimento marino, oppure come per esito cristallizzato di un inaspettato lento effetto tellurico. Nel medesimo tempo una serie di quinte verdi sale a proteggerne l’affaccio sull’ampio viale, uno degli

assi principali della località che, come già si è detto più volte, quest’anno compie 100 anni. È in questo modo che scopriamo come il disegno del giardino sia diretto da una sapiente regia, che lo sottopone ad una doppia articolazione di schermature e terrapieni, con un’alta siepe di gelsomino invernale sviluppata lungo il viale Matteotti e, più internamente a protezione della parte meridionale del lotto, di un filare di piante di alloro, che verso il centro prosegue con una serie di piante di rose bianche. Da parte sua la natura assolve il compito che le compete al centro della composizione, disegnando attorno alla villa una preziosa corona di grandi e rugosi tronchi scuri di pini domestici, uno dei quali dialoga con una lunga terrazza, attraversando il solaio e posandosi a terra con un piccolo basamento squadrato, coperto di pillole di fiume bianche. Se la natura si pone a ornamento e protezione dell’architettura, a sua volta quest’ultima, per non soggiacere passivamente a tale manifestazione “sacra” della prima, volentieri ne dà testimonianza, scomponendosi elegantemente in una serie di piani sfalsati, logge e terrazzi. L’effetto è ben visibile fin dal viale e dalla traversa laterale, ma si sperimenta de facto nella salita della scala esterna che dal marciapiede, scavando nel terrapieno erboso, giunge in cima al podio stereometrico con cui si manifesta all’esterno la duna antica. Come per sottolineare il primigenio binomio natura/architettura, l’intera composizione della villa si declina a livello cromatico in due soli toni: attacco a terra dipinto con la nuance grigio-marrone dei tron-

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Come per sottolineare il primigenio binomio natura/architettura, l’intera composizione della villa si declina a livello cromatico in due soli toni: attacco a terra dipinto con la nuance grigio-marrone dei tronchi dei pini, cui si sovrappone il primo piano, a sua volta risolto in total white, tono che timidamente si mostra anche al piano terra, nel legno delle persiane e delle lamelle delle veneziane, nell’acciaio bianco degli infissi scorrevoli e delle grandi finestre, dove viene subito delimitato dai bancali verniciati a smalto total brown.

Nella pagina, alcuni scorci dell'esterno della villa con grande loggia pavimentata con pietra quarzite indiana.

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chi dei pini, cui si sovrappone il primo piano, a sua volta risolto in total white, tono che timidamente si mostra anche al piano terra, nel legno delle persiane e delle lamelle delle veneziane, nell’acciaio bianco degli infissi scorrevoli e delle grandi finestre, dove viene subito delimitato dai bancali verniciati a smalto total brown. Già nel corso della salita il tema del colore della terra è declinato dal ricorso ad un materiale antico, la pietra quarzite indiana fiammata e spazzolata, dal tono beige-grigio nella modalità “grigio tortora”, ma con una vena dorata. Davanti a noi, mentre gli scalini lasciano il posto ad un pavimento di lastre rettangolari della stessa pietra, si apre una grande loggia, ornata con mobili da esterno di Roda e un grande tavolo in doghe di legno. Lo spazio-giorno esterno entra nel soggiorno, in cui la quarzite ora viene posata a grandi quadrotti. L’ambiente, con funzione passante tra la loggia e la cucina, è risolto dalla composizione di due divani affiancati, che riprendono il tono cromatico dominante, cui fanno da contrappunto le pareti bianche, in cui si disegna uno schermo televisivo incassato, mentre in un angolo un grande vaso di design olandese evoca il respiro del Mare del Nord, con le sue conchiglie affogate nella resina. L’ambiente è dominato da una gigantografia, posta sulla parete opposta alla grande finestra che si affaccia sul viale, in cui viene ritratta la spiaggia di Marina di Ravenna in una giornata fuori sta-

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Scopriamo allora come questa architettura, già una prima volta coronata dal magico cerchio degli ombrelli dei pini, nella sua algida parte superiore si concluda con un cornicione lavorato in pietra che nel bianco splendore dentellato del reggi-gronda le fa assumere una vena mediterranea, echeggiando motivi che in qualche modo quasi ricordano il timbro di una masseria salentina.

Esemplari integrazioni fra artificio costruttivo e presenze naturali.

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gione, con la torretta del salvataggio ad affrontare la massa scura e increspata del mare. Sotto la gigantografia la parete è ornata da un lungo mobile in legno bianco disegnato da Zaganelli, che riserva una piacevole sorpresa: l’elegante e austero plasticismo bianco della abat-jour Atollo progettata da Vico Magistretti per Oluce, premio Compasso d'Oro 1977, posta ad illuminare e segnalare la salita alla zona notte, risolta a sua volta da una breve serie di scalini bianchi. Bianco: è questo il tono che ritroveremo adottato in maniera quasi esclusiva nelle stanze da letto e nei bagni, iniziando dalla pavimentazione in assito di larice verniciato bianco, che ci condurrà alla terrazza omaggiata dall’alto tronco passante del pino domestico. In questo primo appartamento trascorre le vacanze la famiglia di Luigi, di professione oculista, che soddisfatto ammette: «questa è una casa dalla grande abitabilità; sono stati ricavati molti spazi, ben sfruttabili; materiali e finiture sono particolarmente studiati». Usciamo, per recarci alla visita di un secondo appartamento, inestricabilmente intrecciato al primo, mentre gli si sovrappone al primo


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piano. Per questo motivo, protetti verso viale Matteotti dalla quinta in alloro, raggiungiamo un’ampia scala laterale che conduce ad una nuova ampia terrazza, da cui è possibile guardare da vicino il particolare cornicione di coronomento della villa, che da lontano rivela l’assenza di falde e quindi sottolinea il prevalere della linea orizzontale, seppur frastagliata dal susseguirsi di corpi, logge e terrazzi. Scopriamo allora come questa architettura, già una prima volta coronata dal magico cerchio degli ombrelli dei pini, nella sua algida parte superiore si concluda con un cornicione lavorato in pietra che nel bianco splendore dentellato del reggi gronda le fa assumere una vena mediterranea, echeggiando motivi che in qualche modo quasi ricordano il timbro di una masseria salentina. Entriamo nella zona giorno del secondo

appartamento, ricavata nella parte della villa soggetta all’ampliamento operato qualche anno fa, che ora stiamo descrivendo, mentre la zona notte ne costituisce la parte originale. Tramite un grande infisso a bilico centrale, dal soggiorno si accede ad un terrazzo coperto con una leggera struttura di legno bianca, con cui la villa si articola in una nuova loggetta sulla IX traversa e in cui ritroviamo i grossi davanzali in cemento smaltati anch’essi del medesimo colore. Nel gioco di piani reciprocamente sfalsati e della bicromia ska, per mezzo di una piccola scala a chiocciola in ferro scuro da qui si può scendere ad un ulteriore terrazzo sottostante, che costituisce il punto migliore della villa per godere della vista della Pineta che non lontana si distende rigogliosa, “spessa e viva”.

Nelle foto, alcuni scatti della zona notte e del bagno, dove prevale in maniera esclusiva il bianco presente anche nella pavimentazione in assito di larice verniciato.

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CITTÀ SOSTENIBILE

Ricostruire l’Italia Le città sono chiamate sempre più ad aprire nuove relazioni con gli abitanti e il proprio territorio. In termini di ecologia urbana e sostenibilità economica e sociale

Le realtà urbane italiane, piccole e grandi, sono nel loro insieme una straordinaria risorsa umana, economica, storico-culturale ed ecologica, generatrici di energie creative, di capitale sociale, di cultura e saperi. In esse vivono persone, storie, speranze, attraversate da conflitti e solidarietà, da fiducia e nuove povertà. L’ampiezza e la profondità delle libertà individuali, fondate su diritti e istituzioni, dipendono dalla dimensione comunitaria e dal perseguimento di beni condivisi, che hanno nella città massima espressione e per questo risorse per la democrazia.

Il 70% degli italiani vive in aree urbane, in cui si produce l’80% della ricchezza. Nella nuova epoca apertasi con la rivoluzione tecnico-scientifica, la globalizzazione e l’instabilità climatica avanzano nuovi bisogni e nuovi problemi, che reclamano un rinnovato ruolo dei centri urbani. La nuova città sarà chiamata a superare l’individualismo e l’egoismo sociale, la speculazione, gli abusi, l’inefficienza, l’accaparramento dei beni comuni, le diseguaglianze, la precarietà del lavoro e la disoccupazione dei giovani e delle donne, effetti drammatici delle politiche neoliberiste. Una città costruttrice di nuove relazioni con il proprio territorio. Dalle città occorre affermare la dignità e la libertà delle persone, la responsabilità verso l’ambiente, il diritto alla formazione e al lavoro, l’accoglienza e la coesione, rapporti umani equi e stili di vita sobri e solidali. È dai livelli di governo più vicini ai cittadini che può essere ricostruito e sostenuto un “nuovo civismo”, energia per ridare futuro all’intero Paese. Senza il rilancio della funzione strategica delle città, la più importante infrastruttura, nel suo farsi sistema moderno e integrato al servizio della comunità, non c’è sviluppo per il Paese. Le città sono sempre più sole nell’organizzazione del territorio, del welfare locale, dei flussi migratori, nelle emergenze, nella realizzazione di infrastrutture ambientali e dotazioni territoriali, nella produzione di servi-

ABITARE L’HABITAT

zi, essenziali per lo sviluppo economico e la coesione sociale. In tanti casi i governi locali non sono stati all’altezza del loro compito, generando sprechi, inefficienze e logiche clientelari, assecondando un uso speculativo e insensato delle risorse naturali e in primo luogo del suolo. Nell’ultimo decennio, tagli lineari delle risorse, una fiscalità locale inadeguata e contraddittoria, l’erosione dell’autonomia locale, disordine normativo, assenza di strategie nazionali per la rigenerazione urbana, le infrastrutture ecologiche, la mobilità, la difesa del suolo hanno colpito i comuni, spesso penalizzando i più attivi. Questo è stato il federalismo ideologico e inconcludente che, sull'altare di un localismo egoista, ha ignorato la funzione storica del sistema urbano, quale struttura portante del Paese, rilanciando una pratica centralista. La separazione dei territori da una prospettiva nazionale, ha in particolare penalizzato il Nord, limitando la dinamicità di tante realtà territoriali, che va invece sostenuta. Più pesante l’effetto nelle regioni meridionali, dove le emergenze si sono cronicizzate e si è fatta sentire l’emigrazione dei giovani, mentre vanno fortemente valorizzate le tante buone esperienze sul fonte dell’energia rinnovabile, nell’imprenditoria manifatturiera e agricola di qualità e nel turismo sostenibile. Le recenti ripetute emergenze ambientali, vedi Taranto, che hanno colpito in diversa misura tante aree urbane, sono il segno della loro fragilità. Sono gravi i costi umani ed economici del non fare, del ritardo strutturale, che va colmato. Si avverte ad un tempo l’affanno dei territori colpiti dalla crisi e la dichiarata, attiva volontà di riprendere il cammino, per un diverso sviluppo urbano.

Una società ecologica urbana Questione urbana, questione sociale e questione ecologica s’intrecciano. Le città non sono solo i luoghi del consumo intensivo di risorse, dell’inquinamento, ma sono storicamente il modo più efficace di organizzare la vita e le attività umane, l’impresa, la ricerca e il lavoro. Per questo sono i soggetti primi e decisivi nella costruzione di una società ecologica, della green society, che abbia nelle città e nei loro territori molteplici opportunità di impresa e buon lavoro. Le città in Italia e nel mondo avanzato stanno realizzando interventi in campo energetico, nella gestione delle risorse naturali, nello sviluppo delle reti tecnologiche, nella mobilità, per creare strutture urbane capaci di stimolare e supportare stili di vita sostenibili. Su idee forti si promuove impegno e responsabilità degli attori sociali, per ridefinire insieme, con la partecipazione attiva, il mix di diritti e doveri di cittadinanza, necessario per affrontare le nuove sfide globali. È dalla qualità di questo progetto, espresso nelle città, che in larga misura dipende il rapporto virtuoso tra momenti della produzione e quelli della riproduzione sociale. Da qui la centralità del sistema di welfare che, traducendosi in servizi sociali (scuola, sanità, cultura, tempo libero, ecc.), permette alla


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comunità di svilupparsi in modo libero, democratico e coeso, rendendo ognuno “cittadino”. È questo valore straordinario delle città che, nell'Italia delle mille città, ne fanno un “bene comune”. La ricostruzione di un nuovo rapporto tra urbanesimo, tutela e promozione del capitale naturale, è necessaria anche per la credibilità del brand Italia, fatto di paesaggi e bellezza delle città, di tipicità e cultura nelle produzioni agro-alimentari, di innovazione e creatività nella manifattura, di capacità attrattiva del suo patrimonio storico-culturale, che va mantenuta e in più punti ricostruita e sostenuta. Con l’economia ecologica, la green economy, le città possono correggere le storture di un modello di sviluppo, che ha consumato suolo, spezzato il rapporto città-campagna e sprecato risorse naturali, oltre limiti sostenibili. Questo è spesso avvenuto in modo disordinato e abusivo, compromettendo la sicurezza dell’ecosistema urbano, la bellezza del paesaggio, quale patrimonio culturale ed economico. In modo particolare e specifico nel Sud, dove i problemi economico-sociali si accompagnano alla crisi ecologica dei territori, serve una politica per le città, a partire da una diversa valorizzazione delle straordinarie risorse naturali, storico-ambientali urbane.

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Città: motore della ripresa economica sostenibile La priorità è la ripresa economica, la crescita dell’occupazione soprattutto giovanile e femminile, imprimendo una decisa correzione alle politiche monetariste e recessive, contro il permanere di fallimentari pratiche iperliberiste. L’economia urbana è stata troppo a lungo ostaggio della rendita immobiliare, organica alla speculazione finanziaria. Occorre liberare le città da questa deriva e farne luoghi di attrazione per investimenti produttivi, generatori di buona occupazione. Le aree urbane sono in gran parte snodo storico del fondamentale rapporto tra lavoro, risorse finanziarie e naturali, alla base dei cicli sui quali si fonda l’economia reale. Sono convinto che con un programma di rigenerazione delle città, grandi e piccole, sia possibile costruire un nuovo progetto di politica industriale per il Paese. Un progetto di ricostruzione delle strutture manifatturiere e di servizio, fondato su quella cultura urbana che ha fatto grandi le nostre città e che è stata immolata sull'altare della rendita. Un progetto industriale da finalizzare alla sostenibilità attraverso un impegno serio nell’innovazione ecologica, tecnologica, infrastrutturale, possibile se stimola convenienze economiche e sociali, attrattive per investitori nazionali e internazionali. Senza un progetto nazionale è più difficile per città e territori utilizzare i fondi comunitari, quelli nazionali e stimolare la creazione di nuovi strumenti di finanziamento degli interventi. Gli investimenti nelle città dei soggetti pubblici, sostenuti da coerenti politiche e iniziative nazionali sono una concreta spinta anticiclica necessaria a orientare la ripresa, riformare meccanismi economici, attrezzare e innovare le strutture urbane. Si tratta di produrre un forte rinnovamento nelle prassi di governo delle città promuovendo l’attiva partecipazione dei cittadini nei processi decisionali, nell’organizzazione dei servizi (welfare society), nella gestione della città pubblica. Stato e regioni sono chiamati a condurre con le città, coi comuni, un processo di progressiva riorganizzazione istituzionale dei livelli di governo locale, non più rinviabile, quale parte fondamentale per la democrazia e il rinnovamento della politica e delle istituzioni.

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CONSULENZA E INTERMEDIAZIONE IMMOBILIARE

In tempo di crisi è boom di locazioni. Aumenta la disponibilità e la qualità di appartamenti da affitare. Ma i canoni restano elevati. Ce ne parla Pierluigi Fabbri, presidente Fimaa della provincia di Ravenna A fronte di un mercato delle compravendite immobiliari poco dinamico, quello delle locazioni sta conoscendo in questi ultimi mesi un vero e proprio boom. Basta girare per Ravenna e rimanere colpiti dall’alto numero di cartelli con la scritta “Affittasi”. «Rispetto a tempo fa, c’è molta più scelta per chi sta cercando una casa da affittare – afferma Pierluigi Fabbri, presidente provinciale Fimaa -. Ed è anche più facile riuscire a trovare immobili appetibili, anche con arredo seminuovo o nuovo. La nota dolente restano i prezzi, in quanto a Ravenna è praticamente impossibile trovare qualcosa sotto i 400 euro. Ma, in media, con 500/600 euro si riesce a prendere un bel bilocale o trilocale. Tutto dipende dallo stato dell’immobile, dalla posizione, dai servizi, etc. Sopra questa cifra, si trovano case o appartamenti di pregio e di metrature più generose. La novità è che ora a ricercare sono, non più solo gli stranieri, ma anche gli italiani, in particolare giovani coppie». D’altra parte, come capita quando il sogno di comprar casa diventa irraggiungibile, l’unica valida alternativa è l’affitto. La crisi economica ha innescato un meccanismo perverso per cui, la difficoltà di trovare o mantenere un lavoro porta con sé una difficoltà nel reperire credito bancario, condizione indispensabile per investire sul mattone, se non si dispone di altre risorse. «Le banche sono sempre più guardinghe – aggiunge Fabbri -. Mentre fino a poco tempo fa, i mutui potevano coprire anche il 90-100 per cento del valore dell’immobile da acquistare, ora si arriva al massimo al 70-80 per cento. Va da sé che, chi non dispone di un fondo iniziale, corrispondente almeno al 30 per cento della cifra totale, è poi costretto a ripiegare sulla locazione». Anche il mercato degli investimenti sta attraversando un periodo positivo. Chi ha denaro da investire può infatti comperare pensando di mettere subito a reddito l’immobile, sia in città sia al mare o nel forese. «La maggiore staticità del mercato delle compravendite

MERCATO IMMOBILIARE

– conclude il presidente provinciale Fimae – ha un risvolto positivo. Consente una maggiore tranquillità nelle trattative e di poter strappare prezzi migliori. In questi ultimi mesi, per esempio, molti costruttori hanno preferito abbassare un po’ le loro richieste per riuscire a smaltire il nuovo invenduto. Un vantaggio economico dunque per chi compra, che si aggiunge all’opportunità di avere immobili ad alto risparmio energetico che solo fino a cinque anni fa non erano disponibili sul mercato. L’altra faccia è che i proprietari di abitazioni datate devono ridimensionare le loro pretese, in quanto l’eventuale acquirente deve mettere in conto una adeguata ristrutturazione, i cui costi restano alti». Tra alti e bassi, vi sono pertanto diversi modi di guardare al mercato immobiliare. Per poter intravedere segnali positivi, sarebbe necessario partire da una maggiore chiarezza in materia di Imu, in vista della prossima scadenza dei pagamenti.

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n. 77 OTTOBRE 2012

RAVENNA n. 77 ottobre

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