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di Paolo Bolzani
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Ennio Nonni e la Faenza città virtuosa della “biourbanistica”
di Domenico Mollura
Tempo d’estate: trionfano le verdure e i sapori dell’orto
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Controcopertina Il tema portante di questo numero non è un edificio ma un’intera città: Faenza e gli esiti del suo strumento urbanistico pluripremiato, varato nel 1996. Ne firma il progetto Ennio Nonni, architetto e urbanista, dal 1994 a capo del Settore territorio del Comune di Faenza, con sede nel palazzo ottocentesco di via Zanelli, memorabile fin dal bancone di accettazione di Filippo Monti, omaggiato dagli interventi di Pietro Lenzini...
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Faenza, città virtuosa della “biourbanistica”
Sopra: 1987 - Parco Botanico al centro del Peep dei Cappuccini. Progetto: ing. Pier Domenico Casadio, arch. Ennio Nonni, arch. Monica Zauli. A sinistra: 1987 - Palazzo di via Barbavara. Arch. Ennio Nonni, arch. Fausto Cortini. Immagine a lavori appena ultimati
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Per la prima volta questa rubrica privilegia il tema urbanistico a quello architettonico. Ma il caso emblematico di Faenza e dell’urbanista Ennio Nonni consente questa anomalia tematica di Paolo Bolzani
Oggi il tema di questa rubrica non è un edificio ma un’intera città: Faenza e gli esiti del suo strumento urbanistico pluripremiato, varato nel 1996. Ne firma il progetto Ennio Nonni, architetto e urbanista, dal 1994 a capo del Settore territorio del Comune di Faenza, con sede nel palazzo ottocentesco di via Zanelli, memorabile fin dal bancone di accettazione di Filippo Monti, omaggiato dagli interventi di Pietro Lenzini. L’urbanistica a Faenza ha favorito la creazione di architetture contemporanee di qualità – per esempio le opere degli architetti Lelli e Cristofani – attraverso una pluralità di interventi, «ivi compresi accordi specifici, come è avvenuto per l’edificio in ceramica di Ettore Sottsass a Faenza, unico nel suo genere in Italia». Il Prg ‘96 prende avvio nell’ottobre 1994, con l’approvazione di un documento di indirizzi per la redazione del nuovo Piano, «con proposte decisamente alternative rispetto al dibattito urbanistico corrente, illustrate con un linguaggio semplice e aperto alla partecipazione dei cittadini» (Nonni). Nel 1995 il progetto preliminare viene presentato ai cittadini in una seduta aperta del Consiglio Comunale. Già in questa fase emergono gli elementi “di novità”
Sopra: 1986 - Palazzo Tassinari, nella Piazza di Santa Lucia. Progetto: arch. Ennio Nonni, arch. Fausto Cortini Al centro: 1986 - Chiostro dell’ex convento di Santa Chiara. Progetto: arch. Ennio Nonni, arch. Fausto Cortini. In basso a sinistra: 2000 - Chiesa di San Lazzaro in via Emilia Levante. Progetto: arch. Ennio Nonni, arch. Silvia Laghi In basso a destra: 1995 - Chiesa di San Giuseppe. Progetto: arch. Ennio Nonni, geom. Vittorio Maggi
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Prg ’96: “la cultura della norma deve lasciare spazio a quella del progetto”. «Bisogna passare – spiega Nonni da una verifica di contabilità, dove fai delle periferie approvate ma brutte, con ambienti non vivibili, ad una verifica prestazionale, dove valgono i criteri di sicurezza, sostenibilità e identità».
del piano, tra cui un patto di sussidiarietà tra Amministrazione Comunale e privati, basato su azioni compensative: «abbandonati gli espropri, messi in soffitta i Peep, le aree per servizi e quelle residenziali pubbliche dovevano essere acquisite mediante “patti operativi” col privato». Inoltre si prevede «l’utilizzo degli oneri di urbanizzazione per riqualificare gli spazi periferici, gli incentivi volumetrici per la bioedilizia, l’introduzione degli indici di permeabilità dei terreni e l’obbligo della raccolta delle acque meteoriche». Il Piano verrà adottato nel 1996, approvato nel 1997, autorizzato dalla Provincia
In alto: 2000 - Cortile di Palazzo Zanelli, sede del Settore Territorio del Comune di Faenza. Progetto: arch. Ennio Nonni, geom. Oliviero Ponti Al centro: 1998 - Palazzo Zanelli, sede del settore Territorio del Comune di Faenza. Bancone per accettazione e libreria in legno e acrilici. (Filippo Monti e Pietro Lenzini) In basso: 2010 - Piano Strutturale dei Comuni dell’Ambito faentino. Progetto: arch. Ennio Nonni, Gruppo di progetto: arch. Mauro Benericetti, arch Federica Drei, ing. Devis Sbarzaglia, ing. Gabriele Tampieri. A destra: Piazzetta del Suffragio adiacente a Corso Mazzini con l’opera di Stahler. Progetto: arch. Ennio Nonni, arch. Silvia Laghi
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In alto: 1997 - PRG ‘96. Progetto: arch. Ennio Nonni, geom. Giovanni Alboni, arch. Mauro Benericetti, ing. Franco Emiliani, geom. Oliviero Ponti In basso: 1999 - Tre immagini del quartiere Santa Lucia. Progetto: arch. Ennio Nonni, arch. Silvia Laghi In basso, a sinistra: 2000 - Intersezione fra Corso Mazzini e Via Cavour. Progetto: arch. Ennio Nonni, ing. Franco Emiliani, arch. Silvia Laghi.
nel 1998. In base allo slogan «la cultura della norma deve lasciare spazio a quella del progetto», si promuove la valutazione di compatibilità, il sistema del verde, la qualità della nuova architettura, la bioedilizia. Si dice no a «una normativa di divieti», sì a «una normativa descrittiva di opportunità e incentivi, con abolizione dei parametri edilizi». Si dice no a nuove direttrici di espansione, sì alla «ricucitura del tessuto urbano e del completamento dell’assetto attuale della città, ubicando le aree nell’ambito dei confini della città». Il primo punto dell’urbanistica sostenibile è quindi un limite netto fra
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«Si tratta di compiere un salto culturale. In questo modo – spiega Nonni anche il progettista può tornare ad appassionarsi al progetto. Nella creazione della norma devono valere delle regole presuntive e non prescrittive. Dalla prescrizione si passa alla prestazione; così si libera la creatività del progettista».
città e campagna. Come compensazione, all’interno del centro abitato si consente la massima libertà, ma mantenendo la residenza e aumentando la popolazione, non decentrando i servizi pubblici e le attività di interesse generale, e favorendo un mix di destinazioni d’uso. «Bisogna passare da una verifica di contabilità – dove fai delle periferie approvate ma brutte, con ambienti non vivibili – ad una verifica prestazionale, dove valgono i criteri di sicurezza, sostenibilità e identità. Compiendo questo salto culturale anche il progettista può tornare ad appassionarsi al progetto». Nel requisito di identità si condensano i concetti di bellezza, qualità ed espressività, a patto che sia chiaro cosa si intenda per qualità. «Vi è quella sociale, per implementare il patrimonio di edilizia sostenibile e sociale. Vi è quella insediativa, rivolta a mutare volto alle periferie con azioni sostenibili che mirino ad aumentare il fermento e la vivibilità urbana. Vi è inoltre quella paesaggistica, che punta a demolire le strutture incompatibili in ambito rurale e valorizzare le eccellenze del territorio. Infine c’è quella ecologica, che rappresenta lo sforzo concentrato nell’abbattimento dei consumi energetici e di acqua, mentre si cerca di elevare l’utilizzo delle energie rinnovabili». Il principio è quello dell’albero della sostenibilità, in base al quale tutte le strategie urbanistiche ed edilizie hanno reciproche interferenze ad ogni scala di intervento. Per esempio: se prevedo una riduzione del verde a terra, allora decido di compensarlo recuperandolo sul tetto. In questo ambito progettista e ufficio comunale devono abbandonare i parametri edilizi tradizionali (indici territoriali, fondiari, di fabbricabilità, volumi massimi ammissibili, distanze dai confini), per confrontarsi su progetti specifici pensati per ogni singola area, verificando volta a volta l’altezza massima del fabbricato e l’indice di permeabilità di piantumazione arborea, utilizzando materiali di qualità e garantendo la pari accessibilità da parte dei disabili.
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Pagina a sinistra, dall’alto: 2010 - Due immagini dell’Oratorio di San Rocco in via Ravegnana. Progetto: arch. Ennio Nonni, arch. Roberta Darchini. A seguire: 2009 - Quartiere di via Fornarina. Foto aerea e disegno . Progetto: arch. Ennio Nonni Più sotto: 2001 - Quartiere San Rocco. Progetto: arch. Ennio Nonni, arch. Silvia Laghi. In basso: 2005 - Parco delle Arti e delle Scienze “Evangelista Torricelli”. Progetto: arch. Ennio Nonni, arch. Roberta Darchini, geom. Antonello Impellizzeri. In questa pagina: 1999 - Tre immagini del Quartiere Santa Lucia. Progetto: arch. Ennio Nonni, arch. Silvia Laghi
Il Prg ‘96 nel 1999 sarà vincitore del Premio Enea - Sviluppo Sostenibile; nel 2001 sarà esposto a Rotterdam alla Biennale delle città e degli urbanisti; nel 2002 sarà menzionato a Parigi dal Consiglio europeo degli urbanisti; nel 2003 vincerà il 1° Premio nazionale alla Fiera Urbanistica di Trieste per le città maggiori di 50.000 abitanti; nel 2004 a Roma vincerà il Premio nazionale «100 progetti al servizio dei cittadini», conferito dal Dipartimento della Funzione pubblica alle Norme del Prg per gli incentivi urbanistici finalizzati alla qualità ambientale. Nella motivazione del Premio romano si plaude alla «semplificazione delle norme» e all’adozione di «regole non prescrittive ma presuntive»: «in particolare sugli edifici esistenti (in campagna e nel centro storico) si dà la possibilità di modificare delle regole prestabilite senza necessità di variare il Prg». In pratica è nel permesso per costruire che si definisce con esattezza, a seguito di analisi storiche puntuali, il miglior tipo di intervento sul fabbricato. Derivano dal Prg ’96 gli ecoquartieri pubblici in cui sperimentare la biourbanistica, come il Peep S. Lucia (1998), che «sperimenta una forma urbana alternativa a quella razionalista» e prevede, abbandonato il vincolo delle distanze dai confini, l'obbligo della bioedilizia e il contributo di artisti contemporanei. L’«Ecoquartiere sperimentale sostenibile S. Rocco» - di cui Nonni risulta autore insieme all’architetto Silvia Laghi nel 2001 – è esito di un laboratorio di progettazione partecipata con le scuole e sperimenta un insediamento «che riprende in chiave contemporanea il modello insediativo dai centri storici: alta densità e contiguità edilizia, bioedilizia ed utilizzo di materiali del luogo, tipologie aggregative libere, energie rinno-
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vabili, mix funzionale e arte. Nel 2009 a Roma il Prg di Faenza vince il 1° Premio nazionale conferito da Forum Pa, Consiglio dei Ministri, Upi e Lega Autonomie per la strategia “Più sostenibilità = più volume”. «Lo sforzo – spiega Nonni - è rivolto ad avere dei quartieri belli, creativi, vivibili e un centro storico sempre più denso e riqualificato, attraverso il dialogo tra architetti e artisti. Ciò rappresenta un valore aggiunto per il luogo, come dimostra la scultura in cotto di Franz Stahler nella piazzetta del Suffragio (2000) o l’intervento di Pietro Lenzini, Germano Sartelli e Guido Mariani nel restauro e allestimento artistico della chiesa medievale di S. Lazzaro in via Emilia Levante (2000), l’inserimento della spettacolare Gaia e la balena (2009) di Stefano Bombardieri nella rotonda di via Granarolo - con cui gli abitanti hanno subito iniziato ad interagire - fino alla risistemazione delle Anfore di Franz Stahler su esili aste in ferro nella rotatoria posta all’ingresso ovest della città (2012)». I principi del Prg ’96 sono stati portati avanti nei successivi piani faentini e sono culminati nel Piano Strutturale Comunale del 2010 – progetto Nonni – che da Faenza si è esteso ai Comuni di Solarolo, Castelbolognese, Riolo Terme, Brisighella e Casola Valsenio.
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Il fiume che i Da Polenta divertirono... di Pietro Barberini
Storia di acque, presidi abitativi e terre nuove lungo la "riviera" sinistra del .
Una volta, quando non dedicavo parte del mio tempo allo studio e alla ricerca, il direttore del Consorzio di Bonifica di Ravenna, l'ingegnere Ernesto Spizuoco, mi disse: «I fiumi divertono e divagano!». La concisione dell’ingegnere, tipica del suo modo di esprimersi non solo in ambito tecnico, indirizzò la mia curiosità sull’idrografia romagnola. Avevo sentito il termine “divertito” a proposito delle deviazioni fluviali avviate dal Cardinale Legato, Giulio Alberoni. Le imponenti opere realizzate in poco più di cinque anni, interessarono i fiumi Ronco e Montone portati in un nuovo cavo, quindi “divertiti”. Divertire, dal latino di(s) e vertere, “volgere altrove, al-
TOPOGRAFIA E STORIA
Montone
lontanare”, riesce a cogliere valenze doppie. Nel significato di “distogliere” e in senso astratto si può “…divertire la mente e l’animo”, distraendo da preoccupazioni e cattivi pensieri. I fiumi che circondavano Ravenna in una sorta di incombente minaccia, per tutto il XVII Sec. non fecero dormire sonni tranquilli agli abitanti. Allontanati dalla città, cessarono le rotte e le alluvioni. Eppure il fluire del Montone – Liviense lungo le mura occidentali, dalla Torre Zancana (il Torrione) seguendo le mura fino alla Rocca Brancaleone e volgendo a sud-est, così da incontrare il Ronco – Acquedotto, era stato il frutto di altre diversioni alla fine del XIII Sec.
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I signori di Ravenna si trovarono nella necessità di trovare un nuovo assetto idraulico, utile al rifornimento idrico e alla difesa della città. Da tempo, infatti, il Teguriense – Lamone le cui acque bagnavano Ravenna da svariati secoli, era stato allontanato, (divertito) da Federico II nell’estate del 1240. Per il Lamone iniziò una lunga stagione ricca di “diversioni” e “divagazioni”. Il fiume Montone, chiamato anche Liviense, poiché proveniva da Forlì (Forum Livii) spagliava nelle valli “de Montonis” corrispondenti all’attuale zona denominata “il manzone”, posta a mezzogiorno di Fornace Zarattini e San Michele. Forse antica Cassa di Colmata a occidente della Fossa Augusta, queste valli circondavano Ravenna in età tardo bizantina. La bonifica iniziò con l’escavo di canali di scolo come la via Cupa e il Valtorto, capaci di drenare le acque “basse” a sinistra del Montone. Maestranze veneziane furono “assoldate” per indurre il “divagante” flumen Montonis ad obbedire alle leggi dell’idraulica: scorrere in un cavo artificiale e ben arginato verso Ravenna, bisognosa di acque per muovere le ruote dei mulini e per difendersi. Lo scenario ripropone i grandiosi ed imponenti lavori della Ravenna romana (I Sec.) e anticipa quelli pontifici (1734 - 1739). Centinaia di uomini con pale e carriole, carri e carretti, buoi, cavalli e asini, in un polveroso e indaffarato teatro coperto dove i richiami in dialetto veneziano erano dominanti, soprattutto per rango e funzione. Dove questi lavori furono più intensi e prolungati, si sviluppò un villaggio con ricoveri e casupole costruite in materiale povero: legno, laterizi e canna palustre. A lavori ultimati non tutti tornarono in Laguna, molti si fermarono per terminare le opere di sistemazione e bonifica idraulica e lavorare i terreni portati all’asciutto. Pian piano il villaggio diventa una borgata e viene eretta una chiesa dedicata al patrono di Venezia, San Marco. Le case stanno “rannicchiate” sotto l’argine del Montone, alzato a forza di braccia per portarlo sotto le mura di Ravenna. Quando Dante arrivò in città, i lavori erano completati e il Sommo Poeta cantò quel fiume che dalla cascata dell’Acquacheta corre fino al mare, dove si trovava il Porto di Santa Maria: «…nostra Donna in sul lito adriano…».
Nella pagina a fianco: Pianta della città di Ravenna, Capitale della Romagna, colle proposte per la regolazione de’ fiumi Ronco, e Montone di Vincenzo Coronelli (Venezia, Accademia degli Argonauti, 1697, incisione su rame). L’immagine è tratta dal volume La Romagna nella cartografia a stampa dal Cinquecento all’Ottocento, a cura di Sandra Faini e Luca Majoli (Luisé editore, Rimini, 1992). In questa pagina, dall’alto: il fiume Montone alla Chiusa di San Marco; e due scorci del Canale Lama che proprio all’altezza della chiusa passa con un condotto-sifone sotto il fiume. Il canale (evidenziato anche nella pianta di cui sopra) proviene dalla campagna in un tracciato da ovest a est, e attualmente continua a percorrere la città a sud per innestarsi, infine, nella parte terminale del Canale Candiano.
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Sulla terra portata dal fiume crescono le idee di Matteo. Il ritorno alla campagna dei giovani Matteo Maioli da cinque anni fa l’agricoltore, seguendo le orme del bisnonno paterno. Ha iniziato, seguendo un potente richiamo esercitato da quelle terre, appena terminati gli studi superiori. Da cinque anni Villa Capra è il suo centro aziendale e la cantina è ritornata a riempirsi degli odori della fermentazione: una piccola produzione dove entra anche il Marzamino (uva Barzamèna), poche viti piantate dal bisnonno Alberto Valli. La produzione viticola è data dal trebbiano, 6 ettari e da Chardonnay e Fortana, 1 ettaro. Oltre al vigneto, Matteo coltiva altri 35 ettari, tutte colture a pieno campo: piselli da seme e “fresco”, frumento, sorgo, mais. Matteo, è associato alla Cooperativa di Villanova di Ravenna, che fornisce assistenza meccanica per alcune operazioni, mentre l’uva la conferisce ad Agrintesa di Godo, che gli garantisce anche l’assistenza tecnica necessaria. Il resto è passione per quella terra ai piedi del fiume, voglia di fare e sperimentare, ritrovando forza e la spinta di nuove idee sotto i limoni, che come nel mito di Persefone, figlia di Demetra, dea delle messi, stanno sei mesi al sole e sei mesi al buio. Le stagioni rassicuranti ripetono lune e calendari. Allora anche il tempo indaffarato del giovane agricoltore sembra rallentare..
Dove il fiume "divagava", una villa fra acqua e terra Fra San Pancrazio e San Marco il fiume Montone corre quasi fosse sospinto dal vento di libeccio, la curéna. In prossimità di un’ampia “esse”, ad un paio di chilometri da San Marco, sorge Villa Capra, una bella dimora di campagna, con la peculiarità di essere collegata al fiume del parco che si allunga sopra un terrapieno inclinato. Rivolta a mezzogiorno, rifornita dall’acqua e dotata di ampie cantine, magazzini e locali per la servitù, la villa differisce da analoghe costruzioni della campagna ravennate, non avendo un viale d’accesso centrale. Fu eretta a metà del XVII Sec. dal colonnello Capra, comandante di una guarnigione pontificia. Da scritti e carte consultati dal comproprietario Alberto Maioli, pare sia stata costruita dai soldati: le linee architettoniche sono solide e l’edificio, a base rettangolare (28 metri X 14), è di austera eleganza. Il tetto è a quattro falde con due camini sulla facciata e due sul lato opposto, a settentrione. Uno scalone esterno, a podio, porta ad un bel salone centrale, che si sviluppa a doppia altezza. Il secondo piano era destinato ai servizi e alla servitù. La famiglia Capra si estingue in epoca napoleonica e la bella villa passa a Federico Rasponi che la la lascia in dote alla figlia Carlotta con l’adia-
Alcune immagini di Villa Capra, nella campagna lungo il corso del Montone, nei pressi di San Marco. Dall’alto, due foto d’epoca con la grande limonaia nel giardino. La facciata (si notino ancora diverse piante di limone) e il retro del palazzo come si presentano attualmente.
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cente casa colonica e le terre attorno al fiume. Passa così a Giovanni Valli, console di Francia. Dal matrimonio con Carlotta nasce, nel 1850, Paolo Valli che sarà fra i fondatori della Cassa di Risparmio di Ravenna. Il conte Alberto Valli, nato nel 1874, ebbe tre figlie: Paola, Fernanda e Luisa. Quest’ultima, ultra novantenne, vive a Ravenna. L’assenza di un erede maschio lascia decadere il nome Valli e la discendenza nobiliare, ma il figlio di Paola, che porta il nome del nonno, ne eredita anche i ricordi. Alberto Maioli parla con entusiasmo di quella “casa” e delle necessarie cure e manutenzioni. Abituato a risolvere problemi fiscali, (Maioli è un libero professionista, titolare di uno studio commerciale) non indietreggia davanti alle striminzite risorse messe a disposizione per salvare dal degrado questi immobili “storici” tutelati dalla Soprintendenza. È un dovere morale quello assolto da Alberto Maioli e dalla sua famiglia: la figlia Carlotta (porta il nome della nobildonna che portò in dote Villa Capra ai Valli…) e il primogenito, Matteo. Fino agli anni Settanta del secolo scorso la Villa era residenza estiva di famiglia, con le sue piante di limoni centenari (sono presenti dall’inizio del Novecento) ad abbellire il parco che “sale” verso l’alto spalto erboso del Montone. Durante la guerra queste piante rimasero all’aperto ininterrottamente per due anni senza patire troppi danni. La Villa colpita da una cannonata, le schegge sono ancora conficcate nelle travi sopra la cantina, minata dai tedeschi in ritirata, resta testimone della storia delle nostre belle campagne. Quasi fosse un contrassegno del tempo, costruita là dove il fiume ricorda il suo carattere bizzarro, Villa Capra appare e scompare, giocando a rimpiattino con quell’acqua preziosa e vitale.
Dall’alto: il Montone all’altezza di Villa Capra. L’autore del servizio Pietro Barberini con il giovane Matteo Maioli che custodisce la villa e coltiva i terreni circostanti di di proprietà della sua famiglia. Veduta e particolare del cippo commemorativo dell’eccidio nazista di Villa Capra, perpetrato nel 1944.
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Il cippo dell'eccidio di Villa Capra Durante l’avanzata del fronte di guerra, nel 1944, Villa Capra era sede del Comando tedesco che aveva “scacciato” i proprietari. Alberto Valli sistemò la sua famiglia nella vicina borgata di Villanova; lui andava e veniva cercando di portare avanti i lavori con il contadino che continuava a vivere nella casa colonica. Con l’avanzare dell’autunno le operazioni belliche si intensificarono. Con i colpi delle cannonate ormai vicini, si moltiplicarono sanguinose e brutali rappresaglie che colpirono la popolazione inerme. Ci fu un rastrellamento e 13 contadini, abitanti fra Ragone e Ravenna furono condotti prigionieri a Villa Capra. Il mattino seguente furono fucilati a poche centinaia di metri a ponente. Un cippo eretto nel ’45 e successivamente restaurato, ricorda il martirio. Sorte migliore fu riservata all’edificio: sotto l’incalzare delle truppe alleate, la cui ondata era costituita da militari indiani che portavano il turbante, i tedeschi abbandonarono in fretta la Villa e pur minandola non riuscirono a farla saltare. Si ritornò così a riparare i danni materiali causati dal passaggio della guerra che aveva lasciato dolore e segni incancellabili.
Un grande giardino (e una casa) fra fiume e campagna. Divagazioni e magie del paesaggio Il fiume Montone, da San Pancrazio a San Marco, corre da ponente a levante, la sponda sinistra è caratterizzata da marcata sinuosità: numerosi eventi di rotta da quella parte hanno lasciato colature alluvionali che rendono, ancor oggi, il terreno “mosso” e degradante. Su quella sponda, appoggiata al rivale, una casa colonica che pian piano vedo trasformarsi. Ogni volta che passo sulla via alzaia pedalando verso San Pancrazio, noto lavori e colori nuovi. Da poco sulla falda a sud del tetto sono stati installati pannelli fotovoltaici e viene completata la recinzione. Una bella ristrutturazione a pochi passi da Ravenna, come tante, ma il fiume e il parco retrostante invitano ad approfondire… L’occasione è arrivata sulle ali del caso: una festa con una jam jession pianoforte, percussioni e tromba. Il padrone di casa, Giordano Bezzi che ha tirato su la casa con la moglie Anna Pina Mastrogiuseppe, prima di dar vita al concerto con le note della sua tromba, ha illustrato agli ospiti il progetto sull’utilizzo del parco. Mentre passavo fra canne nostrane e bambù, siepi e alberi, installazioni dove arte e natura si incontrano, talvolta misteriosamente, ho colto l’essenza di quello spazio. Un diverso utilizzo della terra, ai confini di una nuova agricoltura maggiormente rispettosa di spazio e tempo per passeggiare e pensare, contemplare e assaporare. L’insieme risulta sorprendentemente gradevole, sposando i volumi abitativi al “fuori”. Il verde si apre in spazi, l’uno diverso dall’altro con prospettive insolite ed originali.
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«Quando comprammo la casa Guerrini nel 1993 era un rudere con 2 ettari e mezzo di terra a frutti e vigna. IL contratto fu stipulato a patto che ci insegnassero, filare su filare, cosa dovevamo fare. Ovvie le dicerie dei contadini confinanti nei riguardi di due cittadini sprovveduti: e invece… E invece abbiamo messo la nostra tenacia al lavoro giorno dopo giorno: sette anni da contadini, quattro anni la ristrutturazione in economia, ora siamo al giardino ( già visitabile) e parco che diventerà uno spazio accessibile costituendo un’Associazione, e tutto con le sole nostre braccia! Un’altra funzione di questa gestione(se l’energia ci seguirà ancora), è quella di organizzare eventi culturali e artistici, ma questo è futuro. La scenografia paesaggistica sfrutta la collocazione, simile ad altre case sotto l’argine dei fiumi, cioè il terreno in leggera discesa, ma la dislocazione di un boschetto in questo gradiente, il gioco di scale sul retro, accompagnano all’immaginazione collinare. Il pullulare di selvaggina attirata dal verde abbondante ad offrire rifugio, dà slancio e vita ulteriore. Suggestione di luoghi inconsueti per essere a 5 chilometri dalla città. Infine per dare un tocco di individualità , spuntano qua e là installazioni e oggetti strani che incuriosiscono e permettono di proiettarsi in tematiche meditative e di indagine. Tutto questo, (per presentarci) è all’insegna della comunicazione e della accoglienza: Giordano farmacista senza farmacia, sportivo, musicista, creativo, che si diletta in arte povera, performance e altre stranezze. Pina è l’artefice del giardino fiorito, nonché “azdora” e ottima intrattenitrice culinaria, oriunda del Molise. La magia di questo tratto del fiume Montone da San Marco a San Pancrazio, nel lato sinistro, è conferita dalla vegetazione più rigogliosa e selvaggia, essendoci pochi abitanti. Qui incomincia il vero distacco dal traffico, le voci si sentono da lontano e dall’argine la visione si dilata a tutta la Romagna e può iniziare un cammino poetico aiutato dai tramonti e dai chiari di luna che appagano la fatica trasformandola in vero stile di vita”. .
Alcuni particolari del vasto e originale parco-giardino della casa di Giordano Bezzi e consorte, nella campagna sotto gli argini del Montone, poco fuori Ravenna.
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Le ore italiche Storia di un sistema orario plurisecolare Non tutti sanno che in Italia, fino alla metà del 1800, le ore si contavano in modo assai diverso da oggi...
di Mario Arnaldi
Sopra: orologio meccanico dipinto da Paolo Uccello nella chiesa di santa Maria del Fiore a Firenze nel 1443. (foto, M. Cowham) A destra in alto: orologio solare costruito da Egnazio Danti nel 1557 a Firenze, sulla facciata di Santa Maria Novella. È il più antico orologio solare fisso italiano mostrante le ore italiche comuni. (foto, S. Bartolini) A destra in basso: Dittico in osso custodito nel Museo Nazionale di Ravenna (2a – orologio orizzontale ad ore oltramontane [tavoletta superiore, faccia superiore] A.F.S. Neg. N. 38018; 2b – orologio solare verticale ad ore italiche [tavoletta superiore, faccia inferiore] A.F.S. Neg. N. 38020; 2c – orologio solare orizzontale ad ore italiche con la data 1531 [tavoletta inferiore, faccia superiore] A.F.S. Neg. N. 38019). Si tratta del più antico orologio datato mostrante le horae ab occasu comuni.
CITTÀ E TEMPO
Nella nostra Penisola si usava suddividere il giorno in 24 ore, senza dividerle fra 12 antimeridiane e 12 postmeridiane (metodo che perdura ancora oggi), iniziando il computo dopo il tramonto del Sole (in seguito spostato mezzora dopo). In altre parole, la ventiquattresima ora del giorno terminava quando il disco solare scompariva sotto l’orizzonte, e il ciclo ricominciava d’accapo assieme al nuovo giorno. In realtà un metodo simile era già noto nell’antichità; Marco Terenzio Varrone (Rieti 116 a.C. – 27 a. C.), in un capitolo del suo Antiquates rerum humanarum, scriveva che gli ateniesi erano usi iniziare il giorno dal tramonto del Sole. Questa notizia fu ripresa da Plinio il Vecchio (Como circa 24 – Stabia 79) e poi da Aulo Gellio (Roma circa 115 – 165) e molti altri autori per buona parte del Medio Evo. In Italia, però, il giorno civile iniziava dalla mezzanotte, come ci ricorda Censorino ancora nel III secolo, mentre quello comune iniziava con la levata della nostra stella per terminare con il
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suo tramonto. E così fu fino agli inizi del secolo XIV, quando un’imponente rivoluzione oraria coinvolse l’intera Europa in un cambiamento radicale. A quel tempo nessuno poteva immaginare che l’antico sistema orario, in vigore fin dai tempi dell’antica Grecia, potesse essere messo in discussione, e invece furono proprio i cambiamenti politici e i nuovi stili di vita a pretendere una rivoluzione oraria. L’Imperatore pretendeva l’autonomia dal papato che il rappresentante di Pietro non voleva e non poteva concedere. Fra le popolazioni sempre più urbanizzate, incominciavano a farsi strada nuove classi lavorative: quelle degli artigiani, dei mercanti e dei banchieri. Il tempo, che fino allora era stato diretto, ed esclusivo, dominio della Chiesa (cioè di Dio), lentamente non si adattò più alle nuove necessità e pretese di rispondere a nuovi padroni. Il tempo divenne laico, divenne ‘denaro’. L’aria di quegli anni era satura di malcontento. Fu così che nel XIV secolo i popoli europei decisero quasi contemporaneamente di svincolarsi dall’antico sistema orario per adottarne uno più consono alle nuove esigenze e alla propria nazione. L’Italia, insieme a molti altri Paesi europei come la Polonia, la Boemia, la Slesia, la Moravia, l’Austria ecc., adottò il sistema delle horae ab occasu solis (cioè contate a partire dal tramonto del Sole). Altri Paesi, come le Baleari, le horae ab ortu solis (dalla levata del Sole). Norimberga e altre città del suo cir-
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25 ANNI DI ESPERIENZA
CITTÀ E E TEMPO TEMPO CITTÀ
condario ne adottarono un tipo misto fatto di ore ab occasu e ab ortu che in seguito detto “ora di Norimberga” (molto difficile da spiegare in un breve articolo come questo). Il resto delle altre nazioni adottò il sistema delle ore a media nocte (a partire dalla mezzanotte), detto “alla francese” o “oltramontano”, talvolta (impropriamente) “astronomico”, ma che alla fine diventerà quello “europeo” ufficiale. Questo cambiamento fu, sicuramente, determinato dall’invenzione dell’orologio meccanico. I primi tentativi risalgono alla seconda metà del Duecento, ma fu solo nel Trecento che i fabbri specializzati riuscirono a possedere la tecnologia adatta per costruire grandi macchine di ferro in grado di suonare le ore sulle torri civiche. Nel 1300 Parigi ha il suo primo orologio pubblico e Milano nel 1309. Si trattava quasi certamente di orologi senza “mostra” e senza “sfere”, a maglio (a determinati intervalli un martello percuoteva una campana per dare i segnali orari: la sensazione di essere truffati sul tempo era del tutto legittima!). Solo la costruzione dei primi orologi con la ‘mostra’ oraria fu accolta con grande giubilo dalla popolazione; le antiche cronache ce li descrivono come «prodigi di arte metallurgica … in grado di battere le ore una ad una». Erano pesanti, ingombranti, pieni di rotismi dentati azionati da pesi enormi e ancora notevolmente imprecisi; costavano una fortuna ma ogni città faceva a gara per averne uno montato sulla propria torre civica, i cittadini pagavano volentieri tasse speciali per finan-
Orologio solare di Carmagnola (To). È il più antico orologio solare fisso italiano mostrante le ore italiche comuni. (foto F. Garnero)
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ziarne la costruzione ed il mantenimento. In Italia, il primo orologio battente 24 ore, di cui si possiede la documentazione, fu installato a Milano nel 1335, sulla chiesa del San Gottardo; seguirono: Padova (1344), Firenze e Genova (1353), Bologna (1356), Siena (1359), Ferrara (1362), Vicenza (1378) e così via. Nel 1371 le città di Forlì, Faenza e Cesena annoverano fra i loro pubblici ufficiali regolarmente stipendiati un magister horologii. Ravenna ebbe certamente un orologio meccanico attorno al 1400, ma non ne sappiamo molto. Sappiamo che a Imola fu costruito un orologio meccanico da torre attorno al 1465 in sostituzione di un primo ormai molto vecchio, ma la città si dotò del primo vero grande orologio pubblico con “mostra” e “sfere” solo nel 1501 per opera del maestro orologiaio Antonio Burchiello da Reggio, da tempo però abitante in quella città. Lo stesso Burchiello fu chiamato dal Comune di Ravenna a costruire il grande orologio pubblico sulla chiesa di San Sebastiano (oggi sede della Banca Nazionale del Lavoro) nella Piazza Maggiore (oggi Piazza del Popolo) di fronte al palazzo comunale. Al Burchiello fu richiesta un’opera molto complessa e difficile, ricca di automatismi e suoni di campane, così complicata che, sebbene ne fosse stata decisa la costruzione già nel 1510 si poterono iniziare i lavori solo nel 1516. Nella prima metà del secolo XVII, sebbene gli orologi solari continuassero a mostrare le ore italiche comuni, le campane cittadine iniziarono a suonare le ore posticipandole di due quarti d’ora. La ventiquattresima, quindi, non più al tramonto ma mezzora più tardi, cioè al suono dell’Avemaria. Questa variante fu detta “ora da campanile” o ad usum campanae. I primi metodi corretti per costruire orologi solari “secondo l’uso della campana” iniziarono ad apparire, però, più tardi: fra il 1675-1688 nei testi di Giuseppe Maria Figatelli e di Bartolomeo Scanavacca. Le linee orarie di questi orologi solari non si espandono radialmente da un punto di origine, ma s’inclinano notevolmente da un lato, quasi parallelamente le une con le altre. Ravenna possiede due soli orologi solari ad ore italiche (uno “comune” e l’altro “da campanile”), ma detiene un primato: uno dei due è il più antico che si conosca. È datato 1531 e si trova nel Museo Nazionale, esposto nella sala degli avori assieme ad altri orologi solari. Si tratta di un piccolo “dittico” (tipologia di orologio solare portatile composto di due tavolette incernierate su un lato) di osso, probabilmente costruito in una bottega dell’area veneziana dalla quale provengono certamente altri tre esemplari (non datati) custoditi nei musei di Würzburg e Oxford. I più antichi orologi solari ad ore italiche fissi (cioè non portatili) risalgono, invece, al 1557 (sono solo tre: quello collocato da Egnazio Danti sulla facciata di Santa Maria Novella, quello dipinto da Francesco Cugiaro di Chieri a Carmagnola e quello dipinto sul monastero delle suore benedettine a Claro, Bellinzona). Sebbene l’ora del tramonto fosse sempre alla stessa (la ventiquattresima), l’istante in cui il Sole tagliava l’orizzonte era continuamente differente da un giorno
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all’altro (più anticipato d’inverno, più ritardato d’estate), generando ciò che i detrattori di questo sistema consideravano «il suo difetto principale»: il continuo spostamento del mezzogiorno. In realtà era solo una scusa, perché l’istante del passaggio al meridiano locale restava, ovviamente, inalterato, cambiava solo l’ora in cui quest’istante era mostrato sul piano dell’orologio, e in una società rurale come la nostra ciò aveva ben poca importanza. Era fondamentale conoscere quanto tempo di luce restava per completare il lavoro della giornata, piuttosto che sapere a quale ora pranzare. Se le campane battevano ventitré colpi, era immediatamente noto a tutti che il Sole sarebbe rimasto sopra l’orizzonte ancora un’ora, e bisognava affrettarsi. l’Italia rimase fedele al suo metodo, basato sul tramonto del Sole, sebbene le altre nazioni europee avessero ormai da tempo accettato delle ore a media nocte (cioè quello usato ancora oggi), e per questo già nel Seicento il sistema fu definito “ora italica”. I viaggiatori stranieri che nel Settecento si recavano in visita nella nostra Penisola, si sentivano spesso disorientati, incapaci di regolarsi con un sistema orario – a sentir loro – così bizzarro. Nei resoconti di viaggio leggiamo le più discordanti opinioni: c’era chi si scagliava furibondo contro il sistema italico, considerandolo il parto antico di «uomini rozzi» e barbari (Charles Marie de La Condamine, Extrait d’un journal de voyage in Italie, 1762), chi invece era più comprensivo o addirittura ne manifestava la preferenza, giungendo a scrivere «Gli usi della società civile non sono stati fissati in origine dalle persone che dormono il giorno e si divertono la notte, ma da popoli laboriosi che finivano il loro lavoro quando non c’era più la luce naturale» (Joseph Jerôme de Lalande, Voyage in Italye, 1786). Anche il grande Johan Wolfgang Goethe, nel suo Viaggio in Italia (1788), ebbe modo di esporre la sua opinione sul nostro inveterato sistema orario: «In un Paese in cui durante il giorno si gode, ma specialmente durante la sera si prova la gioia di vivere, è di singolare importanza il cadere della notte. Cessa allora il lavoro; la gente ritorna dalla passeggiata, il padre va a riveder la figlia a casa, la giornata è finita; ma che cosa sia realmente questa giornata noi altri delle regioni cimmerie non lo sappiamo. In un’eterna e fosca nebbia, che sia giorno o che sia notte, per noi è sempre lo stesso; quanto tempo possiamo noi veramente uscire all’aperto e goderci l’aria libera? Qui, invece, come subentra la notte, il giorno, che consiste nella serata e nella mattinata, è bell’e finito. Sono passate 24 ore; il tempo s’incomincia a contare da capo, suonano le campane, si recita il rosario, e la servetta che entra nella vostra stanza con la lampada accesa vi dice: “Felicissima notte!” Naturalmente questo momento della giornata varia ad ogni stagione; ma l’uomo, che qui vive una vera vita, non può esserne turbato, perché ogni piacere della sua esistenza non si riferisce all’ora, ma al momento della giornata. Se si volesse costringere questo popolo a computare le ore all’uso tedesco, ne nascerebbe per lui una gran confusione, essendo il suo uso intimamente connesso alla natura…» (un po’ troppo bucolico forse, ma certo diverso dall’aspro giudizio di La Condamine)! L’ipotesi scongiurata da Goethe nell’ultimo passaggio del testo appena citato, si avverò. Le campagne napoleoniche in
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Italia costrinsero definitivamente la popolazione ad adottare, per legge, le ore oltramontane, che all’epoca erano comunemente dette ‘francesi’. Non fu comunque cosa semplice; nonostante gli editti dei vari governatori, la popolazione italica male rispose all’imposizione dividendosi fra filo-francesi e papalini. Le argomentazioni a favore e contro le ore alla francese si sprecavano, furono pubblicati diversi opuscoli inneggianti ai meriti dell’uno o dell’altro sistema orario. Non fu neppure facile fare adottare l’ora di Francia a tutta la Penisola tant’è vero che a Modica, ancora nel 1891, fu costruita una linea meridiana ad ore italiche nella chiesa di San Giorgio, e a Roma si terminò di regolare le mostre degli orologi pubblici con il nostro sistema solo agli inizi del 1900.
Nella pagina a sinistra, in alto: orologio solare di Cavona (Vb). Il più vecchio orologio solare fisso italiano (datato 1695) mostrante le ore italiche “da campanile” (foto R. Baggio). Al centro: l’editto emanato il 23 ottobre 1786 dal conte De Wilzeck a Milano, nel quale si ordina l’uso del nuovo sistema orario europeo, detto anche “alla Francese”. Per facilitare il passaggio dal vecchio al nuovo sistema orario, la carta reca anche una tabella giornaliera di conversione delle ore. In basso: antico orologio solare con doppia numerazione (ore italiche e “astronomiche”) del Collegio dei Gesuiti (ora Scuola Pubblica ) di Castelnuovo Scrivia (Al) fondato nel 1620. Restauro di Guido Tonello e Giovanni Bonardi (foto G. Tonello). In questa pagina, in alto: orologio solare ad ore italiche a Varallo Sesia (Vc), Palazzo Baldissarri Pitti. Restauro di Lucio M. Morra (foto LMM). In basso: orologio solare ad ore italiche e oltramontane sulla chiesa di San Cristoforo ad Ascoli Piceno. Restauro Antonio Giorgi (foto A. Giorgi).
Per maggiori informazioni sul sistema orario italiano si veda: M. Arnaldi, Le ore italiane. Origine e declino di uno dei più importanti sistemi orari del passato (prima parte), in “Gnomonica Italiana” n. 11, 2006, pp. 10-18; M. Arnaldi, Le ore italiane. Origine e declino di uno dei più importanti sistemi orari del passato (seconda parte), in “Gnomonica Italiana” n. 12, 2007, pp. 2-10; M. Catamo e F. Proietti, L’evoluzione della misura oraria nel tempo e le Meridiane di Civita Castellana, ed. Comune di Civita Castellana, 2008. Per maggiori informazioni sul dittico d’avorio di Ravenna si veda: M. Arnaldi, Un particolare dittico d’avorio custodito nel Museo Nazionale di Ravenna, in “Gnomonica”, Bollettino UAI, sez. Quadranti solari, n. 5, 2000, pp. 44-47; M. Arnaldi, Ravenna, Würzburg, Oxford; quattro dittici d’avorio italiani a confronto, in “Gnomonica Italiana” n. 9, 2005, pp. 26-29; marnaldi@libero.it
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Il ruolo dell’Architettura contemporanea:
ospite delle conferenze nelle cantine di Palazzo Rava
Ennio Nonni, l’urbanista che ha cambiato il volto di Faenza Quinto incontro, il 20 giugno, per la rassegna ideata da Emilio Rambelli e promossa dalla nostra rivista, dedicata alla progettazione italiana ed europea di qualità. Protagonista il dirigente (dal 1994) del Settore Territorio del Comune di Faenza che parlerà di «Una nuova urbanistica è possibile?»
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Prosegue la serie di conferenze promosse e organizzate dal questa rivista e dal Gruppo Ravimm, con il patrocinio del Comune di Ravenna e Ravenna 2019, e curate dall’architetto Emilio Rambelli di Nuovostudio. Giovedì 20 giugno, alle 21, nelle Cantine di Palazzo Rava ((via di Roma 117, a Ravenna) è in programma il quinto appuntamento del ciclo con Ennio Nonni, architetto-urbanista, dirigente dal 1994 del Settore Territorio del Comune di Faenza. Autore di diversi piani regolatori fra cui Faenza nel 1998, il Piano Regolatore di Brisighella e 1999, Solarolo (2001), il Piano Strutturale dei Comuni di Faenza, Brisighella, Casola Valsenio, Castel Bolognese, Riolo Terme e Solarolo (2010) e nel 2012 il Prg di Atri. Molti lavori di urbanistica hanno ottenuto importanti riconoscimenti nazionali ed europei fra cui i più importanti: 1999 primo premio nazionale Enea al Prg di Faenza; 2002 - menzione a Parigi al Prg di Faenza da parte del Consiglio Europeo degli urbanisti; 2004 – Roma, premio nazionale del Dipartimento della Funzione Pubblica per l’introduzione degli incentivi applicati all’urbanistica; 2008 - Venezia il 1° premio nazionale dell’Istituto nazionale di urbanistica e Ministero dell’ambiente al quartiere San Rocco; 2009 – Roma 1° premio al progetto “Più sostenibilità = Più volume” da parte del Forum P.A.; 2009 - al Piano Strutturale Associato, viene conferito a Modena il 1° premio della Regione Emilia Romagna per la categoria urbanistica; 2009 - il Piano Strategico del Centro Storico di Faenza riceve nell’ambito del premio Gubbio 2009 una menzione da parte della Associazione nazionale centri storici; 2012 – Trento, 1° premio nazionale allo studio del paesaggio contenuto nel Psc da parte della fondazione Spadolini. Parallelamente all’attività progettuale urbanistica è autore di molti saggi in riviste specialistiche che documentano costantemente il punto di vista sulla progettazione urbana ed è relatore nei più importanti convegni sull’urbanistica. Tra le pubblicazioni si citano: Faenza Prg 2000 (tipografia MF 2000),
Faenza 100 anni di edilizia 1° volume (1900-1950) (Casanova editore, 2006), Un eco quartiere mediterraneo: il quartiere San Rocco di Faenza (Grafiche Zattoni 2008), Faenza, un Piano Strategico per la città storica (Carta bianca 2008), Oratorio di San Rocco un progetto per la città (edizione Rendi 2010), Territorio e Ceramica (Graphic Line, 2010), Faenza 100 anni di edilizia 2° volume (1950-2010) (Casanova editore), Psc 2010. Una esperienza urbanistica associata (La Rapida Tipolitografia Giulianova 2012). Assertore dell’insostituibile azione dell’arte contemporanea nella cultura urbana, ha promosso, sia la collaborazione di grandi artisti nei progetti urbanistici, che il programma di incentivi per la diffusione dell’arte, ha redatto il progetto per la realizzazione di cabine Enel da parte di artisti e il Museo all’aperto di opere d’arte contemporanea nel Comune di Faenza, il progetto di allestimento Sacro Contemporaneo della trecentesca Chiesa di San Lazzaro (2000), il ripristino della neoclassica chiesa di San Giuseppe (1995) e sempre a Faenza il restauro del Palazzo ottocentesco, attuale sede del Settore Territorio del Comune di Faenza anche quale contenitore di opere d’arte. Prima dell’intervento dell’architetto Nonni è previsto l’intervento di Francesco Rinaldi, ad del Gruppo Ubisol, sul tema dell’efficienza energetica degli edifici (in collaborazione con Libellula srl). La serie di conferenze “Il ruolo dell’Architettura contemporanea” è resa possibile grazie al fondamentale sostegno del gruppo bancario Banca Mediolanum e delle aziende ravennati Tozzi Industries, Ciicai, Tavar, Copre e Nadep-Ovest. Gli appuntamenti proseguiranno dopo l’estate giovedì 3 ottobre, sempre alle 21 alle cantine di Palazzo Rava, con l’ingegnere Gianluca Bonini che parlerà della filosofia e dei progetti di Nuovostudio di Ravenna.
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Osserviamo proponiamo condividiamo
Ecco la filosofia progettuale del giovane studio di architettura di Madrid Estudio [SIC]
di Domenico Mollura Il quarto appuntamento del ciclo di conferenze Il ruolo dell’architettura contemporanea è “tornato” in Spagna ospitando presso le Cantine di Palazzo Rava il giovane studio madrileno Estudio SIC. Dopo le opere del sivigliano Vázquez Consuegra l’iniziativa, curata dall’architetto Emilio Rambelli e organizzata dalla rivista Trovacasa Premium con il contributo del Gruppo Ravimm, ha ospitato ancora una volta l’architettura iberica con un gruppo emergente rappresentato da Miguel Jaenicke Fontao. La giovane età – 34 anni – di uno dei fondatori dello studio (insieme ai colleghi Esaú Acosta Pérez, e Mauro Gil-Fournier Esquerra) ha dato lo spunto per riflettere sul diverso peso dell’età nei due paesi – come sottolinea Rambelli che ricorda come in Italia si sia “giovani architetti” fino a 50 anni (!). I progetti dello studio madrileno – con il quale ha collaborato anche l’italiano Alfredo Borghi, laureato alla Facoltà di Architettura di Ferarra e presente alla conferenza – nascono quasi tutti da una competizione con-
LO STATO DELLʼARTE
corsuale, il vero strumento, se ben utilizzato, per fare emergere il merito e garantire il pluralismo architettonico. La biografia dello studio SIC, infatti, ha inizio nel 2004 con il concorso per il monumento alle vittime dell’attentato alla stazione di Atocha (Madrid, 11 marzo 2004). Il progetto – un volume luminoso capace di racchiudere nel ricordo un “vuoto” materiale e spirituale – si guadagna il primo posto e diventa in breve tempo opera costruita, facendo dei giovani architetti una delle realtà più interessanti del panorama spagnolo al “tempo della crisi”. L’architetto Fontao, in Italia per partecipare alla Biennale dello Spazio pubblico di Roma – dove SIC ha vinto il primo premio per l’allestimento del-
Due rendering di progetti per concorsi di architettura firmati da Estudio SIC di Madrid.
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Comune di Ravenna
Il ruolo dell’Architettura contemporanea Panbianco
Ciclo di conferenze organizzate e promosse dal Gruppo Ravimm - Le Cantine di Palazzo Rava in collaborazione con la rivista dell’abitare TrovaCasa Premium (edizioni Reclam), con il patrocinio del Comune di Ravenna e Ravenna 2019 Coordinatore Emilio Rambelli
Tarroni
Calendario 2013 Tutti gli incontri si terranno presso Le Cantine di Palazzo Rava Via di Roma 117 - Ravenna. Inizio alle ore 21
Giovedì 21 febbraio
Filippo Pambianco parlerà di Studio G.V. Consuegra - Siviglia
Giovedì 21 marzo
Michele Tarroni parlerà di Studio Stanton Williams - Londra
Giovedì 18 aprile
Gabriele Lelli parlerà di Studio Lelli e Associati - Faenza
Lelli
Borghi
Nonni
Giovedì 16 maggio
Alfredo Borghi parlerà di Studio Estudio Sic - Madrid
Giovedì 20 giugno
Ennio Nonni parlerà di Una nuova urbanistica è possibile? Bonini
Giovedì 3 ottobre
Gianluca Bonini parlerà di Nuovostudio - Ravenna
Giovedì 31 ottobre
Antonella Ranaldi parlerà di Restauro contemporaneo
Giovedì 21 novembre
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LO STATO DELLʼARTE
l’esposizione principale – ha esordito inquadrando il principio progettuale cardine dello studio spagnolo che indaga prima dello spazio oggetto di intervento, le persone che lo vivranno. L’architettura dà forma ad un sistema di relazioni umane, richiamando quanto già espresso in più occasioni durante gli incontri di Palazzo Rava. Tale principio non poteva non tradursi in forme originali di progettazione partecipata che trovano spazio in una piattaforma web creata dallo stesso studio SIC. Lo spazio virtuale di confronto, spessissimo controparte immateriale di uno spazio concreto di incontro e discussione tra cittadini, prende il nome di Vic (viveroiniciativasciudadanas.net), acronimo di Vivero de Iniciativas Ciudadanas che potrebbe tradursi come “incubatore di iniziative urbane” nato alla luce di analisi non convenzionali sugli spazi della città e – come detto – della vita che vi si svolge. La pagina principale del sito è suddivisa in tre sezioni principali il cui titolo definisce già un percorso creativo partecipato: «Osserviamo, Proponiamo, Condividiamo». La scelta di declinare questi tre verbi nella prima persona plurale fa capire l’impostazione pluralista e non generica dell’idea che SIC ha dell’elemento città; da segnalare, sempre all’interno del sito, lo spazio denominato Glossario abierto, ovvero un dizionario libero all’interno del quale chiunque può introdurre una parola nuova (legata alla vita urbana) e descriverne i significato. La parola nuova che definisce un nuovo concetto di città ha il medesimo ruolo del progetto dà forma ad un’idea. I concorsi presentati durante l’incontro riguardano progetti per lo più ubicati in Spagna (ma si è accennato anche ad progetto per la vicina Forlì) e i cui esiti manifestano da un lato il grande entusiasmo del giovane gruppo e dall’altro i limiti imposti dalla crisi economica che lascia “sulla carta” buona parte dei progetti vincitori. Il progetto per la sede della casa biofarmaceutica Genhelix di Armunia (León, 2008-2011) rivede l’idea precedente (firmata da un gruppo di ingegneri) che organizzava l’area del lotto seguendo alla lettera le richieste della committenza: la necessità di cinque distinti spazi si è tradotta in 5 semplici volumi dei quali uno, tondeggiante, ne è quello più rappresentativo. L’idea di SIC ribalta quella precedente considerata dispersiva. Infatti il progetto si ricompatta in un unico volume (minore occupazione di suolo e minori costi). L’edifico, in particolare, si “ap-
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Renderig di un progetto per un concorso internazionale bandito dalla città di Forlì.
poggia” sul terreno allungandosi sul piazzale ai piani superiori con una struttura a sbalzo. La superficie esterna (la facciata” di tale volume) diventa poi veicolo dell’immagine aziendale. L’edificio, infatti, sorge con un lato parallelo alla linea dell’alta velocità e il punto di vista sempre diverso ha suggerito l’idea di una facciata dinamica realizzata in lamiera preforata e dipinta che “porta” impresso il nome della casa farmaceutica. Sempre a León (2008-2010) SIC interviene con un progetto che ha avuto una genesi dai tempi strettissimi (per evitare alla municipalità di perdere dei finanziamenti). L’obbiettivo era quello di riqualificare una zona ferroviaria destinata alla riparazione dei treni in parte dismessa e trasformarla in spazio creativo-culturale per i giovani della città. Fontao precisa che il progetto non doveva creare una piazza “verde” ma una plaza dura, ovvero uno spazio costruito che garantisse un “uso totale”. Il “verde” compensativo trova ospitalità sulla copertura del nuovo edifico – precisa Fontao – molto utilizzato e che e rappresenta la sintesi del rapporto tra spazio culturale e riqualificazione urbana. Sperimentali e visionarie le torri in concorso in Corea del Sud e Dubai (in entrambi i casi non vincitrici). L’idea di fondo nasce da un elemento molto diffuso in particolare nel secondo paese: la torre petrolifera. Si tratta di tre grandi montanti in tralicci metallici che sostengono una piattaforma (del diametro di 60 metri) ascendente (fino a 350 m) utilizzabile per eventi in “quota” o come spettacolare veicolo di messaggi pubblicitari. Nel racconto progettuale trovano spazio anche le residenze, declinate nella forma dell’housing sociale. Per il progetto dalla Viviendas Cocheres Bravo Murillo di Madrid (2008) SIC progetta 110 alloggi su un bando inflessibile sui dati dimensionali (n. minimo di abitazioni, costi, superfici) ma estremamente aperto sotto l’aspetto dei contenuti architettonici. La tortale libertà permette di sperimentare nuove tipologia di quartieri a molti studi di giovani architetti. Tuttavia il progetto per la società per l’edilizia pubblica della capitale (EMVS) resta in sospeso a causa della crisi. La descrizione dei progetti è uno degli elementi caratterizzanti la freschezza delle proposte dello studi SIC. Ne sono esempio evidente la scelta dei colori accesi e mai mimetici delle aree, dei percorsi e delle superfici progettate.
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Lungo il Cammino di Santiago SIC progetta all’interno di una chiesa uno spazio espositivo attraverso l’ideazione di arredi mobili speciali con la funzione (oltre che contenitiva e di servizio) di rendere flessibile lo spazio stesso. A Tenerife (2005) SIC si confronta ancora con uno spazio sacro. Si tratta della prima chiesa della città che tuttavia un incendio priva della copertura spingendo prima a trasformarla in orto (conclusus) e successivamente al suo abbandono. Il progetto prevede la realizzazione di un nuovo centro culturale e l’immagine crepuscolare ormai storicizzata della chiesa non viene considerata sa SIC quale elemento di degrado quanto piuttosto come elemento da valorizzare con il progetto. Pertanto verde (la cui conservazione non era richiesta nel bando) e copertura divengono gli assi principali della proposta. Nel primo caso si studiano piani sfalsati in pianta e in altezza che lasciano spazio ad ampie zone verdi, tutti i servizi vengono concentrati nell’area dell’abside, men-
tre la copertura che “lavora” in condizioni climatiche “estreme” (essendo la città a sud della Spagna) deve garantire la protezione dell’irraggiamento solare in funzione del diverso ambito interno. Pertanto le lamelle che filtrano la luce (pannelli in policarbonato posti immediatamente al di sotto proteggono gli interni dall’acqua piovana) si distanziano in maniera differente creando varie regioni luminose all’interno delle antiche mura. Anche questo progetto risulta sospeso. Un’ultima notazione, in conseguenza di una domanda del pubblico, sposta l’attenzione direttamente sullo strumento del concorso. L’arch. Fontao afferma che le competizioni garantivano – fino a qualche anno fa – una partecipazione libera e una valutazione realmente oggettiva principali requisiti per dare la possibilità a tutti di confrontarsi sulle idee e sulla qualità. Tuttavia – prosegue uno dei fondatori di SIC- si è notato un lieve peggioramento della situazione (oltre alla sensibile diminuzione dei concorsi). La motivazione principale – continua – è dovuta a una modifica della modalità di nomina delle giurie. Fino a quando la composizione della giuria era nota già dalla pubblicazione del bando il progetto di concorso veniva impostato anche in funzione della “qualità” di chi giudicava. Venendo meno tale presupposto gli ultimi concorsi hanno avuto esiti maggiormente generici e privi di carattere qualitativo.
Nelle foto due scorci, all’esterno e all’interno, dell’Espacio VIAS a Leon, in Spagna, che ha trasformato un’area ferroviaria dismessa in un centro culturale giovanile.
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La città giardino dell'Adriatico Nelle librerie un nuovo volume dell’architetto Gabriele Gardini dedicato al centenario della fondazione di Milano Marittima Un nuovo libro viene ad aggiungersi alla già notevole produzione editoriale, uscita in occasione del centenario di Milano Marittima. Si tratta del volume dal titolo Milano Marittima. La città giardino dell’adriatico. Visioni progetti realizzazioni, edito per i tipi di Alinea Editrice di Firenze. Firma l’opera Gabriele Gardini, laureatosi in Urbanistica e Pianificazione territoriale nel 1979 e in Architettura nel 1993 all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, attualmente dirigente del Servizio Cultura della Provincia di Ravenna, dopo aver diretto il Servizio Casa e Territorio dal 1984. I suoi campi di ricerca riguardano le trasformazioni urbane in età moderna e contemporanea ei rapporti tra iconografia urbana e paesaggio. Tra le sue opere più note figura il ricco volume Cervia. Immagine e progetto. Le rappresentazioni della città dal XV al XX secolo, edito da Longo editore Ravenna nel 1998. Dopo Cervia ora la città balneare, sorta cento anni fa immediatamente a nord della prima. Gardini riprende tutti i fili della storia antica di quella che avrebbe dovuto essere una città-giardino e poi è diventata ben altro. Ripercorre le vicende della nascita e le successive evoluzioni che si sono sovrapposte al piano originariamente concepito dal pittore milanese Giuseppe Palanti, iniziando con il primo capitolo, dedicato a Il paesaggio all’inizio del Novecento: la selvaggia pineta e lo stabilimento balneare. Nel 1935 Giuseppe Palanti deciderà di allontanarsi da Milano Marittima per dissidi con alcuni componenti della società Milano Marittima e la società CIVAM - Ville e Alloggi, e venderà anche la villa in viale Toti. Non tornerà più a Cervia fino alla morte nel 1946. Il volume di Gardini, ricco di un apparato iconografico completo, racconta le trasformazioni sociali ed urbane di una città che è diventata parte essenziale del turismo nel contesto nazionale e internazionale.
G. Gardini, Milano Marittima. La città giardino dell’adriatico. Visioni progetti realizzazioni, Firenze, Alinea editrice, 2013.
Nelle immagini affiche e foto d’epoca che segnano nei primi decenni del Novecento la nascita della città giardino dell’Adriatico, Cervia-Milano Marittima
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Trionfano le verdure: chimica organica e sapori dell’orto Delizie vegetali, fra cotto e crudo, dolce e piccante nei consigli dello chef Faccini per conoscere ingredienti, cotture, attrezzature, caratteristiche degli alimenti e vivere appieno uno dei momenti più appaganti dell’abitare Con un esordio stentato è arrivata l’estate, dopo una primavera incerta e piovosa. Negli spazi dell’abitare dominano tessuti e materiali chiari, leggeri, per complementi di arredo da interno e da esterno. La cucina quando il clima alza le temperature si fa teatro per vere e proprie composizioni fatte con ortaggi e frutta e per preparazioni colorate e gustose a base di verdure. Per carpire i segreti in materia di chimica e d’igiene alimentare, ancora una volta lo chef Stefano Faccini smette i panni di consulente di ristoranti, di aziende alimentari e alberghi e quelli di insegnante, per indossare la veste dell’esperto a disposizione dei lettori di Trovacasa Premium. Prosegue quindi il focus sulle verdure. È meglio mangiare vegetali crudi o cotti? «È un dilemma sul quale si discute molto. Vi sono gli strenui difensori delle verdure crude: è verosimile che questo atteggiamento abbia origine da uno stomaco in grado di sopportare senza conseguenze molte verdure crude. Non vi è dubbio che la cottura altera o fa scomparire alcuni importanti componenti (un esempio tipico è la vitamina C, rapidamente distrutta dal calore). Anche le sostanze antiossidanti, presenti nelle verdure sono in parte distrutte dalla cottura, al contrario molti vegetali vengono resi più accettabili al nostro digerente, molti vegetali "duri" ricchi di cellulosa, aventi una consistenza quasi legnosa. Quindi la risposta esatta a mio modesto avviso è: dipende da quale verdura». Quale apporto di sostanze "utili" e principi nutritivi ci aspettiamo dall'ingestione delle verdure? «La parola verdure, stando all’etimologia, evoca i vegetali a foglia (spinaci, bietole, lattuga ecc.) ma in molti casi erroneamente possono essere compresi piselli e fagiolini che sono alimenti abbastanza diversi per composizione chimica. Tornando al punto, ovvero a quali sono i principi nutritivi contenuti nei vegetali, nel caso di verdure a foglia cotte dobbiamo aspet-
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Tempo d’estate tarci un apporto di fibra, sostanza che aiuta l'intestino a lavorare, e quindi ad avere un organo ben funzionante». E cos’altro? «Un altro importante apporto è dato dalle vitamine specialmente le vitamine A e C e qualche sostanza minerale. I precursori della vitamina A cioè i pigmenti carotenoidi, non sono solubili in acqua, ma le vitamine B e C lo sono e quindi finiscono nel liquido di cottura. Io quando cuocio le carote aggiungo sempre un pizzico di zucchero di canna che le rende, in alcuni periodi dell'anno quando sono dure e un poco legnose, più gradevoli, condite poi con un filo di olio extravergine». Sale? «Mai... rende le verdure dure e legnose. Un altro consiglio è quello di utilizzare l'acqua di cottura per creme, passati o semplicemente da bere». Il peperoncino nemico dello stomaco o amico del gusto? «In un centro medico americano molti pazienti sono stati sottoposti ad un esperimento di massa. Nutriti a lungo con peperoncino e successivamente sottoposti a controlli
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con l'endoscopio non presentarono nessun esito di infiammazione. Lo stesso esperimento fu ripetuto inserendo con una cannula del peperoncino direttamente sopra la parete dell'intestino e non fu notata nessuna azione corrosiva. Il principale ingrediente piccante del peperoncino è la capsaicina, presente anche nel pepe. I peperoncini quindi anche se possono eccitare le fibre nervose del dolore, e particolarmente in bocca, non hanno in realtà una reale azione corrosiva, stimolano la salivazione, attivano il transito intestinale, non provocano sensazioni di bruciore anale e danno una sensazione di benessere dopo il pasto. Perché? Forse stimolano la secrezione di sostanze oppioidi endogene, le endorfine, cugine della morfina, a causa della loro azione sul sistema nervoso del dolore, comunque vada, il "fuoco" del peperoncino non vi consumerà». Perché le fave provocano gonfiore? «Il raffinosio, uno zucchero presente anche nei piselli, è uno zucchero composto da una catena di tre anelli chimici, uno di fruttosio, uno di glucosio, e uno di galattosio. Lo zucchero da tavola che noi mangiamo, composto di glucosio e di fruttosio, viene scomposto dagli enzimi digestivi, ma il raffinosio è troppo grosso per i nostri enzimi e passa senza essere decomposto nell'intestino crasso, dove viene assimilato dalla flora intestinale, i microrganismi liberano idrogeno, anidride carbonica e metano. Sono questi 3 gas a gonfiare la pancia e a provocare le ben note manifestazioni rumorose». È corretto saltare le verdure al burro? «È meglio unire al burro anche un poco di acqua, in proporzioni minime, per compensare la perdita di quella che compariva nella preparazione iniziale. Naturalmente se si dispone di un forno a microonde, il problema di riscaldare non si pone più».
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Per rispondere alle domande più comuni in cucina: Perché succede? Dove sbaglio? Cosa mi manca? Quale utensile usare, quale attrezzatura? E per consulenze professionali, lo chef Faccini è a disposizione dei lettori all’indirizzo e-mail: faccini_stefano@libero.it
Diviso fra l’insegnamento all’istituto professionale di Stato “Servizi per l’enogastronomia e l’ospitalità alberghiera” di Cervia, i corsi di alta formazione, le consulenze per alberghi, ristoranti e aziende alimentari, Faccini, si è fatto promotore di una nuova cultura gastronomica mentre vanta esperienze nella cucina di Paul Bocuse, di Fredy Girardet in Svizzera, ed è Chef Eurotoque, Commandeur de la Commeanderie des Cordons Blues de France e discepolo di August Escoffier.
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La cittadella del Vino Visita al centro nevralgico dei
Poderi dal Nespoli
di Paolo Bolzani Diesis, Diapason, Maestoso. Sono questi i tre vini Poderi dal Nespoli dai nomi significativi, inseriti nella speciale selezione di Trilogia d’Autunno. Vendemmia e Musica d’Autore dedicata a Ravenna Festival. Il luogo però non è Ravenna, e la persona che li sta mostrando a noi non è Cristina Muti. Siamo infatti nella sala vendita e mescita di un’azienda agricola di 150 ettari situata nell’Alta Valle del fiume Bidente, che nel ravennate si chiama Ronco e che il Re Teodorico percorse all’inizio del VI seguendo l’Acquedotto già realizzato dall’imperatore Traiano. Il paesaggio è, come direbbe il poeta, “ameno”, costituito da “vaghe” colline verdi, pronte ad ac-
cogliere lungo i propri pendii le lunghe distese dei vigneti. I personaggi chiave di questa storia sono invece Fabio Ravaioli, vicepresidente dell’azienda che si dedica al marketing, agli aspetti commerciali e alle pubbliche relazioni, sua cugina Celita Ravaioli, che invece cura le vigne, e Scipione Giuliani, che è il capo enologo al controllo del processo dalla cura dell’uva alla qualità e al tipo di prodotto. Nell’azienda lavora complessivamente una trentina di persone, 5-6 delle quali nella catena di produzione dell’area di imbottigliamento, mentre il gruppo di riferimento per la grande distribuzione è MGM (Cristof Marc, Roger Gabb e Alfeo Martini). I prodotti di punta
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I personaggi chiave di questa storia sono Fabio Ravaioli, che si dedica al marketing, agli aspetti commerciali e alle pubbliche relazioni, sua cugina Celita Ravaioli, che invece cura le vigne, e Scipione Giuliani, che è il capo enologo al controllo del processo dalla cura dell’uva alla qualità e al tipo di prodotto.
Fabio Ravaioli, vicepresidente dei Poderi dal Nespoli
sono il Sangiovese Superiore del Podere dal Nespoli e soprattutto il Prugneto, che è il vitigno più rappresentativo del territorio. Il top della gamma di produzione è il Sangiovese Nespoli Gran Riserva, ma si arriva anche ad un buon Pagadebit. In realtà noi ci troviamo in un grande complesso di fabbricati, che ha origine nella vecchia fattoria del XVIII secolo e si è dotato nel tempo e tuttora si sta dotando di una serie di ambienti speciali che vanno dal grande ambiente per la vinificazione al “gazebo” a pianta triangolare e con vertici posti a quote differenziate, all’anfiteatro all’aperto, agli uffici. Tutti gli ambienti, da quelli rappresentanza, iniziando dalla fattoria, a quelli in cui si svolgono tutte le fasi di vinificazione per fi-
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nire a quelli di stoccaggio, sono stati soggetti ad una attenta cura nella scelta dei materiali e delle soluzioni funzionali. Progettista è Filippo Flamini, studente nella Scuola di Architettura di Cesena, che ha vinto le reticenze del padre, l’architetto Fabio Eugenio Flamini ed ha disegnato gran parte di quello che stiamo osservando. In questo modo l’androne centrale dell’antica fattoria, su cui transitavano le mucche provenienti dalle stalle, ora è un elegante sala d’accoglienza con parquet a listoni, su cui si aprono una serie di ambienti che vanno dall’ufficio di Ravaioli – dotato di singolari tavoli telescopici della Hafele con movimentazione elettronica – alla sala riunione. Un luogo speciale è la sala degustazione, caratterizzata da una grande isola centrale rifinita in corian bianco, attorniata da mensole di appoggio per il pubblico, mentre nel piano di appoggio del blocco frigoriferi sono state ricavate delle particolari sputacchiere in acciaio inox cromato. Ciò che però maggiormente lascia sorpresi è la vasta sagoma della cantina in cui si sviluppa tutta la filiera produttiva del processo di vinificazione. Si tratta di un notevole fabbricato dalla sagoma singolare, coperta da una grande struttura in legno lamellare ad andamento curvilineo, rivestita con lastre di alluminio di co-
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In alto, il cuore della cantina dei Poderi dal Nespoli, che ospita innovative attrezzature per il conferimento delle uve e la vinificazione a temperatura controllata (in basso a sinistra, l’edificio prima della realizzazione della copertura). Sotto, l’edificio per l’esposizione, la mescita e la vendita di prodotti aziendali e altre specialità alimentari del territorio.
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Sopra: la moderna struttura per la vinificazione. Sotto: l’interno reparto vinificazione, eleganza, funzionalità e impeccabile pulizia Nella pagina a destra in alto: una suggestiva immagine di uno dei cunicoli per la veicolazione dei vini A destra, sotto: l’androne di ingresso della zona accoglienza, ricavato in un’antica fattoria.
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lore verde rame. Nel lato rivolto a valle risulta tamponato da una grande vetrata in lastre termiche bronzate polistratificate. Ravaioli è molto soddisfatto della sua cantina dalla grande sagoma movimentata e lo spiega in questo modo: «la forma curvilinea della copertura ha inizialmente rappresentato un messaggio subito non compreso dalle autorità del territorio. Poi hanno capito l’importanza dell’investimento, anche in relazione all’importanza dell’Azienda. L’intenzione progettuale è stata quella di lasciare qualcosa di moderno alla nostra storia, cercando di ottimizzare la qualità funzionale e la bellezza architettonica con una spesa ragionevole. La forma architettonica, pur avendo una certa imponenza, mi sembra riesca ad armonizzarsi con la forma delle colline, perciò si dimostra capace di integrarsi nel paesaggio». Aggiunge Filippo: «questa linea curva mi è venuta naturalmente. Non volevamo avere il classico “capannone” e nello stesso tempo avevamo bisogno di una certa altezza prestabilita dai grandi serbatoi in acciaio, che sono stati montati nel 2010. Successivamente abbiamo costruito la copertura, che venne eretta direttamente sopra i serbatoi del vino già posizionati e in produzione». Il cuore del fabbricato, che si presenta perciò come una grande cantina–cattedrale, è costituito da una serie di alti serbatoi vinificatori in acciaio inox, reciprocamente collegati da molteplici tubi, passerelle e scale in graticcio metallico per il controllo in quota. Il pavimento della cantina, in cemento “elicotterato” (industriale) e con successiva finitura in resina colorata rosso vino, è estremamente pulito. Basta infatti uno sguardo all’imponente ambiente e al pavimento per capire la filosofia di Ravaioli, le cui parole d’ordine sono due: ordine e pulizia. Ma non si tratta di questioni legate alla semplice rimozione della polvere. La temperatura all’interno della cantina e in ogni serbatoio è preriodicamente monitorata affinché si mantenga sempre costante tra i 15 e i 16 °C, mediante il collegamento ad una cen-
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Ravaioli è molto soddisfatto della forma della sua cantina: «l’intenzione è quella di lasciare alla nostra storia qualcosa di moderno, cercando di ottimizzare la qualità funzionale e la bellezza architettonica a costi sostenibili. La forma architettonica, pur avendo una certa imponenza, mi sembra riesca ad armonizzarsi con la forma delle colline, perciò si dimostra capace di integrarsi nel paesaggio».
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tralina touch screen. «Stiamo parlando di una produzione che – argomenta con giustificato orgoglio Ravaioli – pur condotta con la cura dell’artigiano raggiunge i più grandi importatori del mondo: Usa, Canada, Germania, Svizzera, Paesi Scandinavi e Regno Unito. A questi nel tempo si sono uniti i cinesi, per i quali il vino è sempre più un prodotto di grande distinzione e quindi un valore aggiunto. Per qualificare le degustazioni in giro per il mondo, la nostra cantina perciò si accompagna con il cuoco del Ristorante La Frasca». Un lungo cunicolo a sezione quadrata 2x2 metri collega la cantina con l’ambiente in cui avviene l’imbottigliamento, che ha una potenzialità di 7.000 bottiglie all’ora. La catena di produzione prevede lavaggio, riempimento, intappatura e successiva etichettatura delle bottiglie. Nell’etichetta può anche essere inserito il QR Code, in cui, oltre al marchio Nespoli, è possibile collegarsi a un sito o a un intervista allegra stile “Iene” a Fabio e Celita Ravaioli e a Scipioni. Poi si procede all’inscatolamento. Per certificare la tracciabilità del prodotto tutte le bottiglie sono dotate di un codice in cui si riporta data, ora e temperatura utilizzata al momento dell’imbottigliamento. Ma è tempo di concludere la visita al complesso, per raggiungere la barricaia. Perciò scendiamo nell’interrato, dove il profumo di vino penetra nelle narici, mentre lo sguardo spazia sulle lunghe file di botti in rovere francese da 2 ettolitri. A questo punto si ritorna all’aperto, per raggiungere lo spazio commerciale, ben curato in ogni dettaglio, dove avviene la vendita al dettaglio di vino e gadgets e prodotti tipici dell’Alta Valle del Bidente.
Due immagini della sala di degustazione.
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L’ingresso allo sportello Avvocato di strada in via Cavour, 6. Foto di Alberto Giorgio Cassani
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Una prospettiva sulla giustizia Il primo anno dello sportello Avvocato di strada di Marina Mannucci
È trascorso un anno da quando anche a Ravenna è stato aperto lo sportello “Avvocato di strada” ed è importante informare cittadine e cittadini sull’esperienza di questo indispensabile servizio sociale. Lo sportello nasce in partnership con La Caritas Diocesana e trova ospitalità, grazie al Ceis, in via Cavour 6. Il progetto Avvocato di strada, realizzato per la prima volta nell’ambito dell’Associazione Amici di Piazza Grande, nasce a Bologna alla fine del 2000, con l’obiettivo fondamentale di tutelare i diritti delle persone senza dimora. L’esperienza nasceva dalla necessità, sentita da più parti, di poter garantire un apporto giuridico qualificato a quei cittadini oggettivamente privati dei loro diritti fondamentali. Gli sportelli legali di Avvocato di strada sono legati dall’Associazione Avvocato di strada Onlus, nata nel febbraio 2007 per cercare di favorire una crescita comune delle esperienze, condividere, attraverso il confronto di esperienze, un’idea comune sugli obbiettivi e le modalità di intervento, riflettere sulle caratteristiche e sui cambiamenti del contesto sociale, favorire lo scambio di informazioni tra gli operatori di territori diversi per migliorarne le competenze e renderle più specifiche e adatte alle diverse realtà. All’attività degli sportelli partecipano a rotazione avvocati e praticanti legali che forniscono gratuitamente consulenza e assistenza legale ai cittadini privi di dimora. Vi sono anche volontari/ie che si occupano della segreteria, della conduzione dello sportello, dell’accompagnamento nei vari uffici pubblici di utenti smarriti dalla burocrazia incombente. L’azione di assistenza e orientamento legale riguarda diverse tipologie di intervento. Incidenti stradali, permessi di soggiorno, problemi inerenti l’assistenza sanitaria, residenze o domicili, sfratti esecutivi già ottemperati, diritti dei minori e delle donne, diritto del lavoro. Per quanto riguarda la provenienza degli assistiti, si evidenzia la presenza di persone sia Extra-UE, sia cittadini comunitari ed italiani. Di
seguito le interviste a Emanuela Casadio, Coordinatrice Avvocato di strada Ravenna e a Chiara Tabanelli, giovane praticante avvocato, dalle quali ben si evince che il contributo dello sportello Avvocato di strada è per Ravenna reale azione civile e sociale che tende alla costruzione di una società più giusta, in cui tutte le persone siano davvero uguali davanti alla legge e tutti i diritti siano egualmente tutelati. Emanuela, ci puoi dare un resoconto di questo primo anno di attività dello sportello Avvocato di strada di Ravenna? «È stato un anno impegnativo che ha visto lo sportello affrontare diverse situazioni, sia dal punto di vista giuridico, sia dal punto di vista di ri-conoscimento dello sportello. In primis, anche su suggerimento dell’avvocato Mumolo, Presidente dell’Associazione onlus, si sono presi contatti con i vari uffici pubblici che si occupano di persone senza fissa dimora, sia stranieri sia italiani. Abbiamo quindi instaurato proficue relazioni con i funzionari e le funzionarie di ASP, del servizio anagrafe, dell’ufficio immigrazione del Comune di Ravenna. Questo ci ha permesso di affrontare e risolvere in molteplici casi pratiche di diritto amministrativo, quali la residenza nella strada fittizia creata dal Comune di Ravenna (Via dell’anagrafe) o situazioni riguardanti permessi per cittadini stranieri, sia comunitari sia extracomunitari. Abbiamo stretto accordi con la Camera del Lavoro per affrontare pratiche e conteggi relativi a materie previdenziali e di lavoro. Molte volte, le persone che si accostano allo sportello, più che di consulenza giuridica vera e propria, hanno bisogno di orientamento e conoscenza degli uffici già preposti a diverse attività di assistenza, come i patronati, il Sunia, l’assistente sociale. In particolare il problema della residenza sta diventando sempre più cogente. Averla o non averla implica, molte volte, essere privati dei diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, quali il diritto alla salute, al lavoro, alla Previdenza. Molte sono le persone che si sono rivolte allo sportello per problematiche connesse al lavoro: un numero senza dubbio legato al perdurare della crisi economica. Perdere il lavoro significa molte volte perdere la casa e quindi la residenza. Una cifra di tutto rilievo è quella relativa alle pratiche di persone che hanno avuto problemi di sfratti. Non potendo assistere persone che hanno ancora la casa, nonostante lo sfratto ese-
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cutivo in essere, ci limitiamo, in questi casi, a fornire un orientamento ed un’indicazione del nominativo di associazioni che si occupano di tali problematiche. Tra le pratiche di diritto amministrativo vi sono ad esempio quelle riguardanti le cartelle esattoriali per mancato pagamento d’imposte, tasse e tributi o semplici multe. Sono, questi, debiti comuni alla maggior parte delle persone che vivono in strada, che non possono pagare e vedono crescere di anno in anno le cifre da loro dovute. Questi debiti sono un ostacolo insormontabile per chi non ha nulla. Molte, naturalmente, sono anche le pratiche che concernono i fogli di via a seguito dell’emergenza nord Africa o ai dinieghi che le commissioni comminano a chi chiede lo status di rifugiato. Ci è capitato anche di occuparci di diritto penale, per persone che non sapevano di avere condanne esecutive da scontare o giudizi penali pendenti in varie città d’Italia. In questa situazione Avvocato di strada, avendo più di 700 avvocati associati in varie parti del Paese – gli sportelli attivi a tutt’oggi sono circa 27 – è un valido strumento per reperire domiciliatari che possono dare una mano in caso di bisogno. Voglio però riportare un dato nazionale per rovesciare un pregiudizio che vede le persone senza dimora come autori di reato: la cronaca ci dimostra che è chi vive in strada ad essere spesso vittima di aggressioni e mala giustizia. Lo staff di avvocati è assolutamente in grado di affrontare ogni tipo di problematica giuridica e lo fa con entusiasmo e competenza notevole. Ad oggi, i ricorsi proposti e vinti sono il 100%, grazie alla bravura ed alla dedizione dei legali e delle legali presenti tutti i venerdì allo sportello. Stessa cosa penso dei volontari/ie. Sono pregevoli nella loro dedizione e nella loro pazienza e sensibilità verso gli utenti, sia allo sportello sia nell’accompagnamento nei vari uffici e ambulatori medici». Da pochi mesi presso lo sportello Avvocato di strada è attivo anche il servizio Psicologo di strada, vero? «Sì, al progetto Avvocato di strada si è affiancato il progetto Psicologo/a di strada. Anch’esso fondato sul servizio totalmente gratuito prestato da psicologi/ghe, per affrontare vari tipi di disagio sociale, spesso poco visibili, ma estremamente drammatici. Il servizio ha cura di tutte quelle persone che vivono situazioni critiche dal punto di vista dell’inserimento nella società, del mantenimento di un adeguato equilibrio psico-fisico, dell’accessibilità e del godimento dei propri diritti, al fine di garantire loro la conservazione della propria dignità e progettualità. La dottoressa Elisa Magnanensi, la nostra psicologa, ha affrontato fino dall’inizio situazioni molto difficili. Tutt’ora si sta prendendo cura di persone, in particolare donne, con problematiche psicologiche notevoli dovute anche all’estrema povertà materiale nella quale vivono. Come sportello siamo presenti anche al “Tavolo delle povertà” e al “Tavolo permanente contro ogni forma di discriminazione” recentemente costituitosi. In quest’ultimo, la dottoressa Magnanensi è presente per dare un contributo anche come sportello Avvocato di strada». Emanuela, da questo osservatorio così vicino alle situazioni di disagio sociale ed anche, direi, di vuoti di applicazione della Costituzione italiana, mi sembra di capire che
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sarebbero indispensabili alcuni urgenti interventi da parte della pubblica amministrazione, in primis riguardo al diritto alla salute? «L’esenzione dal pagamento del ticket sanitario per indigenti è senza dubbio uno dei primi interventi da realizzare. Purtroppo, l’accordo Stato-Regioni per l’applicazione delle norme in materia di assistenza sanitaria a cittadini stranieri e comunitari, elaborato il 20 dicembre 2012, dal Tavolo Interregionale “Immigrati e servizi sanitari”, al momento non ha ancora trovato applicazione. L’Accordo fornisce indirizzi operativi per la corretta ed omogenea applicazione della normativa, vista la riscontrata difformità di risposta interna di accesso alle cure da parte della popolazione straniera. La questione del riconoscimento di cure e trattamenti sanitari gratuiti agli indigenti, immigrati e non, è fondamentale per assicurare il rispetto del diritto alla salute sancito dall’art. 32 della Costituzione al cui comma I è scritto che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Allo sportello abbiamo inoltre rilevato la necessità d’interventi di sostegno economico riguardo al pubblico trasporto che potrebbero essere avviati attraverso una convenzione tra servizi sociali e Start Romagna. Attualmente le uniche tariffe agevolate per il trasporto di linea sono di limitata applicazione. Non possono, infatti, usufruirne le persone che non hanno fissa dimora – ossia coloro che ne necessiterebbero di più versando in uno stato di marginalità – ed anche per le categorie aventi diritto, come i richiedenti asilo, i titolari di protezione internazionale e di permessi per motivi umanitari, i requisiti di accesso sono stringenti. Oltre ad essere titolari di permessi per motivi umanitari, rilasciati a seguito di proposta delle Commissioni Territoriali Riconoscimento Protezione Internazionale o ex art. 20 D.Lgs. 286/98, devono essere in possesso di certificazione consegnata dai servizi sociali del Comune in cui risultano residenti o a qualunque titolo domiciliati e, soprattutto, deve essere attestata la loro presenza a un progetto di inserimento sociale, pari ad un anno, eventualmente prorogabile di un ulteriore anno». Se non sbaglio, l’attuazione dell’accordo Stato-Regioni per l’applicazione delle norme in materia di assistenza sanitaria non necessiterebbe di ulteriori atti, essendo già operativo di per sé: la mancata applicazione è il risultato di un rimpallo di responsabilità tra Ausl e Regione. La buona fede e la volontà di un giusto operare sono, quindi, presupposti importanti rispetto ai risultati dell’esercizio della pubblica amministrazione? «Leggendo l’accordo sembra essere proprio così». Chiara, per quale ragione hai deciso di diventare volontaria di Avvocato di strada di Ravenna? «L’idea di collaborare con Avvocato di strada di Ravenna non è stata casuale. L’associazione mi era nota, avendo fatto l’Università a Bologna, e la volontà di farne parte c’è sempre stata. L’apertura dello sportello a Ravenna, luogo in cui risiedo, mi ha incentivato a compiere il passo. Dopo
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Uno degli uffici. Foto di Alberto Giorgio Cassani
aver conseguito la pratica forense, ho messo alla prova le mie capacità anche in un contesto diverso, al servizio di chi vive in condizioni di estrema marginalità e di indigenza. Originariamente l’idea era quella di collaborare con Avvocato di strada presso il Loro ufficio (il c.d. sportello) solo un venerdì al mese: la mia partecipazione si è fatta, però, via via sempre più assidua. Lo sportello è diventato per me non solo un impegno a fornire tutela legale ai senza fissa dimora, ma un’esperienza di crescita, sia da un punto di vista professionale che umano, specialmente quando vedi che il frutto del tuo lavoro porta a dei risultati che, ancorché piccoli, costituiscono un respiro per i nostri utenti. Nello svolgimento dell’attività non solo mi è capitato di affrontare problematiche mai trattate, ma, ciò che è più stimolante, anche per la mia crescita professionale, è l’indiscusso supporto e l’ottimo rapporto instauratosi con il team di avvocati che collabora con l’associazione, la responsabile dottoressa Emanuela Casadio e Patrizia Miglietti, volontaria sempre presente e molto attiva all’interno dello sportello. Il progetto di Avvocato di strada di Ravenna, in cui credo fermamente, auspico possa essere una visione sempre più condivisa perché, come sottolineato dal presidente dell’associazione nazionale Avvocato di strada onlus, Antonio Mumolo, “Spesso le istituzioni e i cittadini stessi improntano a
rigidità e ad atteggiamento difensivo la propria relazione con il soggetto che esula dal modello corrente di normalità, privilegiando la colpevolizzazione alla comprensione, il rigore burocratico-giuridico all’elasticità richiesta da bisogni sociali sempre più complessi e poliedrici, soprattutto in questo periodo di crescente impoverimento di categorie che vedono erodersi i margini di sicurezza del proprio tradizionale standard di vita”». In aprile, in occasione della campagna nazionale di raccolta fondi a favore del Programma Italia di Emergency, si è svolta a Ravenna, presso la sala Buzzi, un’iniziativa, ideata dal gruppo territoriale di Emergency Ravenna in collaborazione con i volontari di Avvocato di strada Ravenna. Puoi riportarci qualche informazione in merito? «Come avete già evidenziato sia tu che Emanuela, nonostante sia un diritto riconosciuto, anche in Italia il diritto alla cura è sovente disatteso: migranti, stranieri, poveri spesso non hanno accesso alle cure di cui necessitano per scarsa conoscenza dei propri diritti, difficoltà linguistiche, incapacità a muoversi all’interno di un sistema sanitario complesso. Da questa consapevolezza nascono gli interventi del Programma Italia di Emergency che attraverso l’apertura di
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Bacheca. Foto di Alberto Giorgio Cassani
Poliambulatori – nel 2006 a Palermo, nel 2010 a Marghera, nel 2012 a Sassari – garantiscono assistenza sanitaria gratuita, di base e specialistica, e orientamento socio-sanitario ai migranti, con o senza permesso di soggiorno, e a tutti coloro che ne abbiano necessità. Nel 2011 due pulmann si sono trasformati in ambulatori mobili portando assistenza sanitaria dove più c’è bisogno. Entro fine 2013 saranno operativi altri due poliambulatori in sede fissa, a Napoli e a Polistena (RC) e verranno allestiti altri due ambulatori mobili per fornire cure ai braccianti agricoli. L’evidente interesse comune nell’attività svolta da Emergency ed Avvocato di strada riguardo a chi vive in situazioni di marginalità e vulnerabilità sociale è la ragione di questa collaborazione all’incontro pubblico “La Costituzione Italiana e il diritto alla salute”». Lo sportello di Avvocato di strada Ravenna è attivo dal giugno 2012, i legali volontari ricevono tutti i venerdì dalle 15 alle 17 presso il Centro Ravennate di Solidarietà, in via Cavour 6, a Ravenna.
CITTÀ E SOCIETÀ
Emanuela Casadio Laureata in Giurisprudenza presso l’Università di Bologna nel 1981. Docente presso Centro di formazione professionale per circa due anni, lavora ora presso un ente pubblico di Ravenna. Le piace non farsi gli affari propri; per questo si è sempre interessata dei diritti degli ultimi. Non sopporta le discriminazioni e vorrebbe il pane e le rose per tutte le persone, anche per i dannati della terra. Per questo, nella sua antica gioventù, annovera simpatie e militanza in un gruppuscolo di estrema sinistra, è fiera di essere stata nel movimento del 1977 di Bologna ed è rimasta irrimediabilmente una idealista. Rompe il silenzio e non solo quello e apre lo sportello di Avvocato di strada, sperando di chiuderlo per mancanza di utenti, cioè per mancanza di povera gente.
Chiara Tabanelli Praticante avvocato abilitato al patrocinio, è iscritta all’Ordine degli Avvocati di Ravenna. Si è laureata in Giurisprudenza a Bologna nel 2010. Ha conseguito la pratica forense presso uno studio legale di Ravenna, dove collabora, occupandosi principalmente di diritto civile, con particolare riferimento alle materie di risarcimento danni, infortunistica stradale, diritto delle assicurazioni, responsabilità civile, procedure esecutive e di diritto commerciale, fallimentare e societario. Attualmente svolge attività professionale nei limiti dell’abilitazione al patrocinio e collabora con lo sportello di Avvocato di strada di Ravenna.
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CITTÀ SOSTENIBILE
Due anni dal Referendum: rinnovare le energie per rinnovare noi stessi Sono passati due anni dalla schiacciante vittoria del referendum sul nucleare. Il tempo giusto per riavvolgere il nastro, ricordare le bizzarre proposte dei fautori dell'atomo e capire cosa è successo a questa tecnologia nel mondo e, al contempo, come si stanno sviluppando le fonti rinnovabili. In sei anni solare ed eolico hanno più che compensato il calo della generazione da nucleare. A due anni dal referendum, quando il 95% dei votanti (oltre 25 milioni di voti) ha definitivamente seppellito l’opzione nucleare, è interessante fare delle considerazioni sul nostro Paese e, più in generale, sul quadro internazionale. I fautori nostrani dell’atomo possono solo ringraziare la consultazione perché si troverebbero oggi in grandissima difficoltà, costretti loro stessi a rinviare il programma dopo aver speso inutilmente molti soldi. Il calo della domanda elettrica (18% in meno tra il 2008 e quest’anno) e la potenza termoelettrica in forte eccesso (80 GW contro una potenza di punta di 56 GW) avrebbero infatti scoraggiato anche l’investitore più volenteroso. E poi, a rendere impraticabile ogni espansione, c’è stata l’esplosione delle rinnovabili che quest’anno consentirà di coprire il 32% dei consumi elettrici e il 36% della produzione nazionale. Ricordiamo le farneticazioni di Scajola che parlava di 25% di elettricità nucleare e di 25% di rinnovabili al 2030, una data in cui l’elettricità verde si avvicinerà al 50%. Certo, si dirà, la scelta nucleare avrebbe comportato una decisa frenata nei confronti dell’elettricità verde negli ultimi due anni. Ma, come
ABITARE LʼHABITAT
sappiamo, il treno era già lanciato e la stretta si è avuta comunque. Sulla scena internazionale l’incidente di Fukushima ha provocato un rallentamento generalizzato dei programmi per la revisione dei sistemi e delle procedure di sicurezza e per alcune importanti decisioni di abbandono della tecnologia. Oltre all’Italia, anche la Germania, la Svizzera e il Belgio hanno deciso di uscire dal nucleare e nella stessa Francia si è aperto un dibattito volto a ridurre la dipendenza dall’atomo. Molto incerta la situazione del Giappone dove solo 2 dei 54 reattori sono stati riattivati. Il nuovo governo di Shinzo Abe è propenso ad una progressiva riapertura dei reattori, ma il dissenso nella popolazione cresce. In un sondaggio dei primi di giugno solo il 28% dei cittadini si è detto a favore della rimessa in moto delle centrali nucleari. Significativamente, invece, il programma del fotovoltaico sta andando benissimo e probabilmente il Giappone con oltre 7 GW installati potrebbe quest’anno divenire il numero 1 mondiale sorpassando Cina e Germania. Abbiamo poi chi vuole rottamare i vecchi impianti per costruirne dei nuovi. È il caso del Regno Unito la cui politica incontra però forti difficoltà per l’imprevisto impatto economico di questa scelta. Esemplare il caso della centrale di Hinkley Point da 3,26 GW. Visti gli elevatissimi costi - 16,5 miliardi ¤ - previsti per realizzare l’impianto, la francese EDF ha richiesto al governo un riconoscimento garantito di 117 ¤/MWh a fronte di una proposta governativa di 94 ¤/MWh. Parliamo cioè di prezzi doppi rispetto a quelli di mercato, un extracosto da scaricare sulle bollette dei cittadini. Ma, per tornare ai sogni nostrani, il nucleare non si doveva realizzare per ridurre il prezzo delle bollette? Situazione critica anche negli Stati Uniti, dove quest’anno verranno chiusi 4 reattori: due in California (per il cui smantellamento sono previsti 3 miliardi $), uno in Wisconsin e l’ultimo in North Carolina. Ma è tutta l’industria nucleare statunitense, obsoleta, a soffrire per il basso prezzo del gas e la concorrenza delle rinnovabili. Qualcosa si costruisce ancora nel mondo. Attualmente, sono 69 i reattori avviati (18 in attesa da molti anni), con il 63% della potenza concentrata in Cina, Russia e India. Difficilmente la loro connessione in rete riuscirà, però, a compensare le chiusure di un parco centrali che sta progressivamente invecchiando.
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Un calo già visibile in termini di generazione. Complessivamente su scala mondiale, la produzione elettrica nucleare è infatti calata del 12% tra il 2006 e il 2012. Infine è interessare paragonare l’evoluzione del nucleare con quella delle rinnovabili. Nel periodo 2005-12 la variazione netta di potenza del solare e dell’eolico (tralasciando biomasse, idro e geotermia) è stata 60 volte superiore rispetto a quella del nucleare. Per quanto riguarda la produzione di elettricità, la nuova potenza solare ed eolica ha generato in questi 7 anni cumulativamente 550 TWh, mentre il nucleare nello stesso periodo è calato di -440 TWh (-280 TWh escludendo il blocco delle centrali giapponesi). Sole e vento hanno cioè più che compensato il calo nucleare. Insomma, non c’è storia, le rinnovabili si apprestano ad avere un ruolo centrale sulla scena mondiale. Secondo un recente rapporto di Bloomberg il 70% della potenza elettrica globale che verrà installata entro il 2030 sarà verde, mentre la quota del nucleare sarà solo del 5%. Considerate le centrali che nel frattempo verranno chiuse, il futuro atomico è piuttosto fosco. L’unica certezza è l’eredità di scorie radioattive che dovremo subire per migliaia di anni. E l’Italia, che seppure in modo scomposto, ha acquisito una leadership nell’elettricità verde e che vede un altissimo consenso dei cittadini sul solare (recente sondaggio di Mannheimer per Confindustria), dovrebbe gestire con intelligenza la delicata transizione energetica verso un futuro in cui efficienza e rinnovabili garantiranno oltre che indipendenza anche vantaggi economici per il paese. Per lungo tempo abbiamo coltivato illusioni, che non costano niente e valgono ancor meno, sulla capacità del pianeta di sostenere il peso di tanti esseri umani e un modello di comportamento irrazionale. La speranza è fatta di materia più consistente, non cresce sul nulla, si costruisce con una nuova visione del mondo, rapporti solidali fra gli uomini, dedizione, lealtà, onestà. La speranza che coltiviamo è l’espressione della fiducia nella parte migliore di noi, persone e comunità. Oggi è sopraffatta da convenzioni sociali e comportamenti individuali che anziché unire dividono, invece di premiare la virtù la irridono. Per rianimarla occorre partire da qui, tra cultura, politica, storia e territorio c’è un rapporto di interazione profondo. Semplificare i nodi del mondo per ignoranza o per calcolo, è pericoloso. Però tutti abbiamo il dovere morale di rinnovarci, di dare alla comunità le idee e le persone migliori. La gente chiede di esserci, di contare. E non è mai! troppo tardi per farlo.
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CONSULENZA E INTERMEDIAZIONE IMMOBILIARE
Scatta la normativa europea per l'attestato di prestazione energetica di un’abitazione. Ce ne parla il presidente Fimaa di Ravenna Pierluigi Fabbri
«L’Italia si adegua alle norme europee sul tema della certificazione energetica degli edifici – afferma Pierluigi Fabbri, presidente di Fimaa Ravenna -. Così rispetto al passato, quando valeva comunque il principio dell’obbligatorietà, da ora in poi possono pure scattare delle sanzioni». La novità è contenuta nel decreto legge n. 63 del 4 giugno 2013 che recepisce, per l’appunto la direttiva dell’Unione Europa n. 31 del 2010 e del consiglio del 19 maggio 2010 sulla prestazione energetica degli edifici. Viene così integralmente sostituito l’art. 6 del decreto legislativo n. 192 del 19 agosto 2005. Anzitutto, con la nuova norma, l’attestato di certificazione energetica viene ora definito attestato di “prestazione energetica”. Rilasciato da esperti qualificati, serve per attestare la prestazione energetica di un edificio attraverso l’utilizzo di specifici descrittori e per fornire raccomandazioni per il miglioramento dell’efficienza energetica dell’edificio stesso. «Con l’entrata in vigore della nuova normativa – aggiunge Fabbri -, l’attestato deve essere prodotto dal proprietario dell’immobile oggetto di costruzione, vendita o locazione. La norma precisa che, in caso di nuova costruzione, deve essere a cura direttamente dal costruttore, sia esso committente che società di costruzione e che il proprietario dell’immobile deve rendere disponibile l’attestato al potenziale acquirente o al nuovo locataria all’avvio delle trattative. In più è scritto che, in caso di nuovi contratti di vendita e locazione, deve essere prevista una clausola con la quale l’acquirente o il conduttore dichiarano di aver ricevuto tutte le informazione e la documentazione inerente la prestazione energetica dell’edificio». Un punto saliente è poi quello delle sanzioni a capo del proprietario dell’immobile. Nel caso di vendita, per mancata predisposizione dell’attestato, il proprietario è punibile con una sanzione amministrativa non inferiore a 3 mila euro e non
MERCATO IMMOBILIARE
superiore a 18 mila, mentre in caso di locazione con una multa dai 300 ai 1.800 euro. Nel caso di vendita o locazione, per mancata indicazione nell’annuncio dei parametri energetici, il responsabile dell’annuncio è punibile con una multa non inferiore a 500 euro e non superiore a 3 mila. Nel caso di edifici di nuova costruzione o ristrutturazione importante, il costruttore o il proprietario possono essere puniti con una sanzione dai 3 mila ai 18 mila euro. La norma precisa che “un edificio esistente è sottoposto a ristrutturazione importante quando i lavori, in qualunque modo denominati, insistono su oltre il 25 per cento della superficie dell’involucro dell’intero edificio, comprensivo di tutte le unità immobiliari che lo costituiscono, a titolo esemplificativo e non esaustivo, rifacimento di pareti esterne, di intonaci esterni, del tetto o dell’impermeabilizzazione delle coperture”. «Se questa è l’ultima novità del settore – conclude il presidente Fimaa , il mercato immobiliare ravennate si appresta a entrare nel secondo semestre del 2013 in salute. Sul fronte delle compravendite c’è un crescente interesse da parte di chi è alla ricerca di un buon investimento, mentre il mercato delle locazioni va a gonfie vele, a causa soprattutto dell’alto numero di persone che con la crisi fanno fatica a procurarsi un mutuo». .
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Editore Reclam Edizioni & Comunicazione srl . viale della Lirica 43 . 48124 Ravenna . Iscrizione al Tribunale di Ravenna n. 1240 del 8/11/2004 . Redazione 0544.271068 . redazione@trovacasa.ra.it . Pubblicità 0544.408312 . info@trovacasa.ra.it
n. 83 GIUGNO-LUGLIO 2013
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RAVENNA n. 83 giugno luglio
2013
ALL’INTERNO
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