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Le Storie di LPP | LUIGI PELLEGRIN TRA UTOPIA E NECESSITÀ

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LUIGI PELLEGRIN tra utopia e necessità

di Luigi Prestinenza Puglisi illustrazione di Roberto Malfatti

Gli anni Sessanta e Settanta furono memorabili per l’architettura italiana. Furono attraversati da personaggi del calibro di Maurizio Sacripanti, Francesco Palpacelli, Leonardo Savioli, Sergio Musmeci, Vittorio Giorgini, Aldo Loris Rossi, Manfredi Nicoletti. Due spiccavano per bravura e talento: Luigi Pellegrin e Leonardo Ricci. Bravissimo e sregolato, Pellegrin era capace di realizzare opere entusiasmanti per sensibilità ambientale e per articolazione spaziale. E altre che ancora ci lasciano stupiti come la scuola Concetto Marchesi a Pisa, con la sua copertura inclinata che funge da piazza e che ha anticipato di diversi decenni le opere cerebrali e anti-graziose di Rem Koolhaas. Pellegrin non amava i formalismi. Ormai anziano criticava i giovani Hadid, Koolhaas, i decostruttivisti, i postdecostruttivisti e tutti gli architetti bloboidali. L’architettura per lui nasce da un concetto etico. La forma non è mai un’invenzione di semplice linguaggio ma la conformazione necessaria che acquista la materia per svolgere un compito. Una trave storta è una trave storta se non svolge un compito specifi co che impone proprio quella inclinazione. Le forme di Gehry gli sembravano incomprensibili, pure masturbazioni intellettuali, perché quelle curvature erano dei metallici carter di rivestimento e non delle sintesi che nascevano da un’idea originale di struttura come, per capirci, avveniva nei ponti di Sergio Musmeci o nelle coperture di Félix Candela. E poi per Pellegrin l’architettura non deve seguire le mode, ma essere antichissima, per puntare ad arrivare all’origine dei problemi. In questo senso il tempo non esiste, esiste solo la classicità, la forma perfetta che però non è detto che sia semplice, banale o simmetrica. All’architetto il compito di organizzare l’umanità indicando la strada della sintesi tra Natura e Cultura. Proprio per questa ragione, pur essendo un progettista eccezionalmente dotato che ha costruito alcune delle case più belle del dopoguerra, quali la bifamiliare sull’Aurelia a Roma (1964) e pur avendo avuto una vita professionale molto attiva con centinaia di opere realizzate, Pellegrin ha preferito dedicare la gran parte delle proprie energie all’invenzione di habitat che avrebbero mostrato all’uomo come si possa vivere meglio, rispettando il pianeta. Alcuni pensati per fl ottare nello spazio e disegnati sino al minimo dettaglio. Tutti caratterizzati da una colpa originaria: la volontà dell’architetto demiurgo di imporre agli abitanti la propria fi losofi a di vita. Una visione autoritaria che lo accomuna ad altri grandi utopisti quali per esempio Paolo Soleri e agli Archigram. Forse è stato l’ultimo dei grandi progettisti italiani, di coloro che pensavano che il mondo si potesse cambiare per davvero con la buona architettura. E che per giungere a questo risultato hanno sacrifi cato – nel senso che l’hanno spinta sino all’ultima frontiera che è segnata dal kitsch e dall’anti-grazioso – la loro immensa bravura formale. Non poteva essere altrimenti: in fondo erano bravi proprio perché avevano questa visione integralista e utopista del mondo. Una visione che impediva loro di confezionare abitini con tessuti dalle belle trame, e li costringeva ad ogni progetto a scontrarsi con il cosmo, anche sapendo che alla fi ne ne sarebbero usciti con le ossa rotte ■

‘Ho schizzato brandelli di geometria cosmica’ scrive Pellegrin dei suoi disegni, come “Il primordiale ricordato scende e tocca il pianeta”, del 1974, qui ripreso da Roberto Malfatti.

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