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E così da bestie >> Maria Francesca Di Feo IIC 15 marzo – il treno austriaco Attraversiamo pianure, cumuli di neve, argini e fiumi densi e sopiti, masse fluide agglomerate nel buio. Tutto fuori appare netto, pulito e definito; le luci saltuarie sono oniriche, generose e incantate. Le superfici riposano, morbide, e il treno traballa più e più volte. Si ferma, serpeggia, tartaglia… le scosse si confondono con i canti, le luci, i battiti di mani. La chitarra si impenna, la fisarmonica langue, la tromba freme… blues… folk… i ragazzi dei Flexus afferrano il microfono nel vagone spoglio: “Rock ‘n roooooll”.
“Avevamo vent'anni oltre il ponte oltre il ponte ch'è in mano nemica, vedevamo l'altra riva, la vita, tutto il bene del mondo oltre il ponte. Tutto il male avevamo di fronte tutto il bene avevamo nel cuore, a vent'anni la vita è oltre il ponte oltre il fuoco comincia l'amore.” Cinquanta e più voci- maldestre, scatenate, timide o grintose- si alzano sulle note dello splendido brano scritto da Italo Calvino. Saltiamo a ritmo, ci abbracciamo. Le nostre chiacchiere si confondono con le rughe delle Mondine scatenate, donne libere e fiere della vita trascorsa nelle risaie. Sono belle, luminose, ispirano sentimenti di profonda ammirazione e smodata simpatia. “Che cos’è l’amor?” incalza il cantante dei Flexus, in una versione riadattata del brano di Vinicio Capossela “…E’ un sasso nella scarpa” “Altro che sasso, giovane, l’è un giaròn!” esclamano le signore dai visi aperti, saggi di una saggezza popolare. Verso l’una e mezza ci fermiamo a Salisburgo. La mia compagna di stanza e io rimaniamo a chiacchierare dopo il concerto, e la mondina ci rivela: “Ragazze, no, dicevo per dire: ne ho avuti di amori… è giusto… adesso sono in stand-by”, e ride. A notte inoltrata ci stendiamo nelle brandine strette e striminzite, spalanchiamo il finestrino della cuccetta, stendiamo una mano verso i campi ignoti ricoperti di neve. Si avverte un suono: non riusciamo a distinguere se è il fischio del treno o l’urlo di un ragazzo che si è sporto dai vetri, dopo la prima lattina di birra.
16 marzo – l’arrivo
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Durante la notte non si dorme mai tutti. Ci si rigira, ci si aggira per i corridoi, si scambiano battute tra i bagagli ammucchiati alla meglio. La mattina ci svegliamo piano, mentre inizia a cadere qualche fiocco di neve e il treno è fermo in un’anonima stazioncina della Repubblica Ceca. Il paesaggio cambia: distese e distese sottili di steppe, serre, recinti, ampi prati, stradine strette, vecchie case di campagna gialle, ocra e color pesca, dai larghi tetti arzigogolati e spioventi. Incontriamo persino vecchie macchine abbandonate, e un pub affacciato alla ferrovia, con un’ampia insegna. Fanno effetto anche i cartelli di stop, rossi e mime-
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nacquero nuovamente uomini And men from animals were born men again
tizzati tra i passaggi ferroviari, piccoli frammenti di universale, contornati da scritte in ceco. Ripartiamo, è la volta di un lago ghiacciato, e alle otto e venti un sms della nostra compagnia telefonica ci avvisa: siamo in Polonia. Sostiamo nel piccolo spiazzo di Zebrzydowice, in cui troneggia un edificio grigio, pare quasi uno di quegli antichi istituti da film dove bacchettavano i bambini… è facile immaginarli correre e giocare al vento. Il sole sferza gli occhi attraverso la tendina carica di polvere, socchiusa: parrebbe quasi che ci fosse caldo. Il treno fischia una, due, tre volte; vola il cappello di un passante solitario. Il suo piccolo sacchetto giallo continua a ondeggiare al nostro passaggio. A Zabrzeg c’è un supermercato, e un mucchio di insegne colorate, scomposte, che profumano di est. Un rivolo d’acqua ghiacciata costeggia i binari; le case hanno larghe scalinate, viene voglia di scivolarci sopra. Al nostro passaggio ci sono disposti in fila furgoni con colori sgargianti, volti dipinti, stilizzati e calcati come i cosmetici delle pubblicità degli anni ’50. Sotto alcune grondaie color azzurro acceso spuntano stalattiti di ghiaccio che scintillano, vivaci. Sorridendo penso per un istante che siamo lo scompartimento meglio assortito del treno, un gruppo variegato, emblematico: aggregati di corpi, conversazioni e silenzi che convergono con spontanea cortesia.
17 marzo - Birkenau La vita, la morte, le risa. Tutto si ingigantisce, tutto diventa follia.
“Tell me, do you think mankind’s insane? Insane, incomprehensible, aren’t they the same?” Iniziamo la visita al campo seguiti da Paolo Nori e scortati da Margherita, la nostra guida polacca. E’ una donna minuta, mora, di mezz’età; presto si dimostra mite e affettuosa tanto quanto appassionata al suo lavoro. Parla un italiano più che discreto ma composto da frasi semplici, nude e crude. “Meglio così”, credo di non essere l’unica a pensare, “meglio ridursi all’essenziale, meglio che ci siano limiti espressivi a quello che di per sé sarebbe inesprimibile”. “Mamma mia, non ci sono parole” è un ritornello che così ci accompagna lungo tutto il percorso; mentre spiega, i suoi lineamenti slavi sono corrucciati e gli occhi sbarrati. Ogni racconto sembra poi finire con la frase: “Iniezione di fenolo al
cuore”, pronunciata con lo stesso inconfondibile timbro discendente e un accento che in altri contesti suonerebbe comico. Raggiungiamo un boschetto di betulle, nell’ala destra del campo sterminato. Si tratta di un luogo del tutto particolare, una sorta di locus amoenus che non mi sarei aspettata: nondimeno, ha ospitato gran parte delle fucilazioni, e tanti cadaveri vi sono stati ammassati prima di essere inviati ai forni. Margherita, camminando tra i tronchi, ricalca il fatto che neanche i bambini erano oggetto della benché minima compassione. Bambine e ragazze erano costrette a mentire sull’età, perché se troppo piccole sarebbero state considerate inabili al lavoro, un semplice peso, e perciò inviate subito nelle camere a gas. Veniamo anche a sapere che una prigioniera partorì durante un appello –la cui durata poteva variare dal sadismo della SS di turno – e che le compagne, per evitare che fosse scoperta, strangolarono il minuscolo neonato e lo seppellirono nella melma che ricopriva il piazzale.
18 marzo - dopo pranzo, ad Auschwitz I Un’insegna luminosa, con quadratini rossi in rapida ripetizione, recita “Meble kuchenne”: si tratta di mobili per la cucina. Alcune bambine bionde tornano da scuola con gli zainetti sulle spalle, mentre noi saliamo sul pullman per tornare al campo. Stamattina abbiamo visitato il vero e proprio museo, con mostre e teche, mucchi di protesi e capelli: non è semplice descrivere come simili quantità si scontrino con un senso terribile di vuoto. Per le strade del piccolo centro adocchio colori esotici, malinconici, spenti. “Oswiecim”- per chi non lo sapesse- è il nome polacco, per così dire “originale”, del centro vicino al quale fu fondato il campo di Auschwitz. E’ incredibile quanti negozi di abiti da sposa ci siano, a Oswiecim.
18 marzo - Auschwitz- Birkenau Un’altra dimensione. Penetra, è penetrata, adesso è un carico per alcuni attimi lievi, appena pungente, per altri opprimente, gravoso, violento. Osservo i volti degli altri turisti come loro occhieggiano il mio, come se fossimo tutti curiosi, in attesa della prima lacrima o di un gesto inconsulto e disperato. Anche se ognuno porta in sé un segno e questo segno si manifesterà con sorpresa, anche se dai miei occhi o da quelli di un altro traspare l’orrore, una cosa è certa: non durerà a lungo, non sarà senza interruzione. Non saremo mai costanti, non fino in fondo: è la riprova che la tragedia non attecchisce, la tragedia scivola sull’uomo. E’ una pacifica necessità, forse il vero motivo della complessità della natura umana. Se la nostra simpatia, intesa nell’autenticità del termine greco di “soffrire insieme”, potesse essere totale, continua, perenne, non esisterebbe vita dopo Auschwitz. Chi ha vissuto l’orrore e poi, sopraffatto dai ricordi e dai sensi di colpa, ha
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4 ceduto alla disperazione, spesso ha aspettato anni per farlo. Come si sopravvive al dolore è una questione che mi ha sempre tormentata. Come riuscire a sopportare la morte di una persona amata, come gioire ancora, una volta trascorso il periodo più o meno lungo di elaborazione del lutto? Succede, è ciò che la vita stessa ci impone di fare. Tuttavia c’è chi non ce l’ha fatta, chi si è ucciso, chi certamente avrebbe preferito morire… sommersa tra il fango del campo, la vita sembra quasi un torto all’amore. Attraversando le baracche mi viene da pensare che, nonostante i legami che naturalmente stringiamo, non siamo e non saremo mai indispensabili a nessuno. E così proprio qui, sopra i resti nudi di queste latrine, l’individualità mi pesa in modo insopportabile. Sono stati torturati e uccisi loro, perché non veniamo torturati e uccisi tutti? Perché la solitudine del singolo? “D’amore non si muore”, è la convinzione attorno a cui ruotano le vicende della protagonista di uno dei miei film preferiti, “Hiroshima Mon Amour”, un capolavoro del cinema ambientato nel Giappone in ricostruzione circa un ventennio dopo la fine della guerra. Eppure, continuo a scoprirmi non del tutto d’accordo; eppure, ha ancora senso perpetuare la memoria, perché in ognuno di noi c’è una zona recondita, un qualcosa che, pur dentro la diversità e il nostro vivere quotidiano, può essere inciso, smosso, e può renderci persone migliori e più consapevoli. Forse d’amore non si muore, e forse in qualche modo è giusto che sia così, anche se dinnanzi a tali atrocità ce ne sfugge il motivo. “Che giustizia c’è?”- ci domandiamo allora- “La giustizia è che d’amore si può vivere”, potrebbe essere la risposta. Ho moti viscerali di insofferenza e selvaggia irritazione: sul nostro pullman nessuno- a parte i pochi con cui sto parlando e che sento vicini- pare smettere di blaterare prima e dopo la commemorazione, e blaterare del nulla. Cose futili, sputate con compiaciuta disinvoltura. Nel momento di massima desolazione c’è la massima misantropia, e la massima vergogna. Credo che si possa sfiorare il dolore, toccarlo, impugnarlo, compiangerlo, confonderlo tra tempi e giornate come facciamo noi, fronteggiarlo con la mente per un pugno di minuti e piegare le ginocchia… ma non si può “impersonare” il dolore. Non si potrà
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mai completamente incorporarlo in noi. Impersonare la misera. Scavare nella pochezza di ognuno, nella nostra inguaribile e necessaria allegria, nella nostra vitale deficienza. L’allegria è necessaria, sì, e penso che sia questo il motivo per cui alcuni ridono come rideranno stanotte in albergo, dopo un pugno di patatine e qualche capatina su Facebook; Etty Hillesum, d’altronde, rideva davanti agli interrogatori delle SS semplicemente perché si trattava di esseri umani, e, dall’alto delle sue competenze di filosofia e psicologia junghiana, si chiedeva candidamente se la loro crudeltà gratuita ai limiti del grottesco fosse riconducibile al fatto che “erano forse stati traditi dalla loro ragazza”. Appare dunque evidente la necessità di semplificare l’orrore: semplificazione è, in fondo, conoscenza. Crediamo di conoscere quando ci è possibile schematizzare, ridurre sensazioni e immagini all’osso, come se si trattasse di matematica o, volendo, del riassunto di una fiaba. E’ così per la Shoah ed è così per le nostre vite, di cui spesso rischiamo di perdere le sfumature. Birkenau si mostra come un vasto parco rigido e spoglio, un grappolo geometrico di case, un boschetto di betulle. Birkenau lascia l’incubo dell’incompletezza.
“Mom, what does it mean an apple Mom, what does it mean a chicken Mom, what does it mean a human being…”
19 marzo – Krakow Cracovia (“Krakow”, con accento cupo tendente alla “u” alla fine) è una città dove, dalla torre della cattedrale, un pompieretrombettista suona ogni ora, da secoli, la melodia interrotta di un’antica leggenda. Cracovia è la città dove centinaia di tombe di ebrei, all’epoca oltre 70 mila nel quartiere fondato da Casimiro il Grande, vennero salvate dalla furia nazista grazie a cumuli di immondizia che le ricoprivano. Cracovia è il capoluogo della “małopolskie”, la “piccola Polonia”, che comprende la parte meridionale del paese. E’ un centro sotto certi aspetti noioso, e, volendo estremizzare, quasi provinciale e campanilista: non tutti si dimostrano sempre accoglienti, non tutti parlano inglese, ma tutti appaiono profondamente patriottici. In realtà, ho adorato Cracovia. Ho adorato le sue pasticcerie sontuose, i suoi caffè con le coperte calde disposte sui tavolini all’aperto, il suo freddo fastidioso e penetrante, le sue insegne orientaleggianti, gli umili –nonché inutili- omini della pubblicità che sorreggono i cartelli con un thermos di the caldo in mano. Nei mattoni rossi di stile gotico impilati riga per riga sino al cielo si può trovare tutta la solidità delle fondamenta e tutta la sensuale voluttà del superfluo.
Un ringraziamento particolare ai miei compagni di gruppo - Nicole, Sofia, Federica, Pier Paolo, Pietro, Francesca, Martina e Giulia - in nome dei quali credo di parlare. Ci mancheranno le chiacchiere autoironiche, la confusione in cuccetta, le notti in bianco, i tormentoni, le emozioni analizzate insieme. Un ringraziamento anche agli amici di altre scuole che abbiamo conosciuto in viaggio, e alla preside che ci ha accompagnati.
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>> Nicole Gasparini Casari 4° E Birkenau, 17 Marzo 2013 Oggi è stata un’idea stupida ad implodere in me, come un fascio di luce fortissimo, però diverso, era fatto di comprensione. Stamattina, si, erano appena le undici, appena varcata la soglia del primo campo di sterminio che vedevamo in vita nostra, ci hanno lasciati per dieci minuti liberi, per osservare… per prendere le nostre misure penso. Ma liberi in realtà mi sembra inesatta o forzata come definizione. Noi eravamo stati messi li e qualcosa ci legava fermamente al punto di terra precedente quello in cui avremmo capito davvero in che posto mai ci trovavamo. Quindi in definitiva se devo dire la mia, non eravamo liberi, no. Eravamo lì e aspettavamo una reazione: la nostra personale e necessariamente traumatica reazione! E man mano che questa non arrivava ci guardavamo, ok la smetto di generalizzare, mi guardavo intorno in attesa.
tà. Quattro centimetri sono forse la libertà. Non ho mai, e penso in tanti non abbiano mai, riflettuto a fondo su che cosa ci sia in una suola di gomma termica od impermeabile; ma soprattutto su che cosa permetta a me oggi qui su questo metro quadrato dove indubbiamente qualcuno è morto di infezioni, è stato fucilato o trascinato al crematorio, d’indossare comodi scarponcini. Non è forse questa nostra democrazia, rispetto ai millenni precedenti, considerabile come un fragile, fresco, imperfetto margine di quattro centimetri appena sulla monumentale babele di ere passate? Siamo tutti in pericolo, siamo tutti pericolosi.
Cercavo negli occhi degli altri, quasi spaventata dal vedere se loro avessero trovato la chiave di volta prima di me.
Siamo nulla senza la nostra storia.
Cercavo la guida, volevo che mi dicesse qualche cosa, una qualsiasi sul serio: cosa cercare, dove cercare, quali sensazioni far riaffiorare…ma niente.
In corriera
Così ho preso a giocherellare coi sassolini a terra, vicini e per metà immersi in una piccola pozzanghera, li sentivo cigolare lì sotto alla mia suola. La mia suola di gomma tra me e quel terreno sporco, sporco ben più in profondità di quanto ci lasciasse vedere. E l’idea poco brillante di cui parlavo all’inizio è qua che mi sorprende; mi dico: quattro centimetri di gomma stanno tra me e la veri-
Sono le cinque emmezza del 18 Marzo 2013, il nostro ultimo giorno nei campi, i nostri ultimi momenti a Birkenau per la precisione, e la cerimonia. Durante la lettura dei vari brani scelti la mia mente si perde, non la riesco a controllare. Mi dice che c’è qualcosa di più, deve esserci… ho le idee annebbiate, non trovo la mia solita passionalità ma neppure la razionalità che in questo tipo di situazioni solitamente riesco a fare mia. Sono… qualcosa d’altro. Auschwitz tutto è qualcosa d’altro. Io sono già un’altra da quella che ero e ancora nessuno lo sa, forse nessuno lo saprà… ma è mai possibile una cosa simile?
Una domanda ricorrente in questi giorni quella riguardante la possibilità reale che qualcosa sia così e non sia diverso da quello che è, da quello che è stato. A volte però cercare di trovare un’altra spiegazione temo sia segno di co-
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6 dardia… provare ad addolcirsi la maledetta pillola risulta inutile quasi quanto la domanda stessa. Ed allora cosa ci resta? Domanderanno i più che un po’ come me prima di questo viaggio non volevano cedere, smettere di cercare un’altra risposta. Forse violentare la nostra mente con i racconti dei campi? Ascoltare testimonianze, guardare fotografie, immaginarci nei panni dei detenuti e dei detentori, insomma dobbiamo usare davvero questo tipo di violenza su noi stessi per capire? Bene, qualora noi vogliamo realmente farlo, la risposta non può essere che sì…e no allo stesso tempo. La negazione e l’affermazione in questo caso si fondono perché questa non è una violenza e per quanto faccia male la lenta ma irrefrenabile presa di coscienza che ciò porta, dobbiamo accoglierla come una perla rara o un amico sincero che non vediamo da tempo, che in qualsiasi momento arrivi va fatto entrare spalancando le braccia e va fatto accomodare e poi…va ascoltato.
ce ed è lei a colpirmi. Non è il suono della tromba bensì l’emozione, che si sentirebbe offesa sapendosi definita tale; non è mera emozione, è uno stato mentale che ho appena raggiunto e non so come evolverà e di questo ho quasi paura. Non so quali manifestazioni di sé darà né quanto durerà, ma ora mi sento forte e quindi voglio fermarla a questo preciso istante, cristallizzarla così che nessuno possa più prendermela.
E se siamo acuti a sufficienza sapremo far tesoro dei suoi consigli e portare le sue esperienze ed errori con noi, così da non trovarci ad affrontare i suoi stessi problemi.
È mia. È cresciuta con me, in me, tra il cuore e la pancia, si è adattata ai miei spazi ed io mi sono lasciata incrinare da lei. Ed ora che è nata e si fortifica in me mentre in lei cresco anche io, so che dovessi anche condurre la vita più vuota immaginabile, non sarei uno zero.
Poi la tromba che aveva aperto il memoriale ricomincia per chiudere il nostro saluto sempli-
Non sentirò questo timore, mai più. Io sarò migliore e farò in modo che anche gli altri lo siano.
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Voglio condividere questo sentimento che mi ha travolta come un’onda calda, che mi ha trovata impreparata, lasciandomi poi così determinata. E se mai riuscirò a vedere negli occhi di qualcuno comprensione e condivisione per questo, allora potrò dirmi felice e tanto. Queste mie divagazioni tipiche mi portano lontano; più in alto, ma pur sempre lontano ed ora è tempo di tornare giù, mi sento in dovere di farlo. Come quei fiocchi di neve che ci battono il viso negli ultimi minuti di camminata verso l’uscita – uscita che in migliaia non hanno mai fatto, continuava a ripetermi qualcosa dentro – devo trovare il mio posticino a terra tra miliardi di altri fiocchi. Dura però la vita di un fiocco di neve, ho pensato ad un certo punto del mio delirio, è il vento a decidere dove andrà a finire, il sole a decidere se porre fine alla sua esistenza, la notte a decidere se renderlo più forte, ghiacciandolo.
E lì ho capito di voler essere il mio vento, il mio sole e la mia notte; perché è fondamentale che io faccia la scelta giusta quanto lo è non lasciarla fare al caso o ad altri al posto mio.
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Alice Manzini 4°F Con il 9 maggio, giornata della memoria dedicata alle vittime del terrorismo, alle porte, il nostro liceo ha (ben) pensato di dedicare la sua assemblea d’Istituto proprio allo stragismo, e così il giorno 21 marzo si è tenuta l’assemblea, dal titolo Lo stragismo italiano degli anni ’70. Durante le cinque ore di assemblea, sono stati ripercorsi, grazie all’intervento dei relatori, gli avvenimenti più importanti dei cosiddetti “anni di piombo”, quel periodo di terrore e terrorismo sviluppatosi nel nostro Paese prevalentemente durante gli anni ’70 del Novecento. La prima parte dell’assemblea, curata dalla professoressa Ricci e dallo storico Giovanni Taurasi, è stata dedicata ad un’analisi meramente storica ed eventografica dei fatti, ed è seguita la proiezione di un v+ideo tratto da “La storia siamo noi” in cui si mostravano in ordine cronologico le stragi più efferate del periodo. Alla visione del documento è poi seguito il dibattito. Nella seconda parte dell’assemblea, invece, il Procuratore Capo di Modena Vito Zincani ha fatto una riflessione su quelle che potevano essere le cause e gli effetti di queste stragi che hanno avuto pesanti ripercussioni sulla vita del nostro Paese. Nel suo intervento, il Procuratore Zincani non solo ha ricordato quelle che sono state le stragi più tragiche, come gli attentati di Piazza della Loggia a Brescia o della Stazione di Bologna, ma ha anche dato conto a grandi linee delle caratteristiche salienti del terrorismo cosiddetto “rosso” o “nero”, e le differenze che esistono fra i due. Durante tutta l’assemblea, il leitmotiv è stato la citazione di un famoso articolo di Pier Paolo Pasolini, apparso su Il Corriere della Sera il 14 novembre 1974, che diceva: “Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che in realtà è una serie di "golpe" istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di "golpe", sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti. Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974). Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il '68, e in seguito, sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del "referendum". Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizza-
zione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli. Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari. Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.” Durante i loro interventi i relatori, riprendendo anche l’articolo di Pasolini, hanno ripetutamente esortato gli studenti a ricordare. Ricordare questo periodo buio della storia del nostro Paese. Ricordare quelle vittime che non hanno avuto giustizia; ricordare per fare in modo che barbarie del genere non accadano più. Ricordare, infine, perché stanno cercando di farci dimenticare. La rimozione della memoria per quanto riguarda questi avvenimenti è innegabile. E grave. Il ritornello più usato, quando si parla di questo argomento è: “Delle stragi non si sa niente”. Falso. Delle stragi si sa molto, ma un molto scomodo che, per ragioni che non ci è dato sapere, è meglio nascondere e sperare che si dimentichi il prima possibile. Credo che tutti noi conosciamo l’importanza della memoria come migliore arma di prevenzione, allora perché non ricordare tutto questo? Perché lasciare che cada tutto nell’oblio? Ricordiamo, allora, ed evitiamo che atrocità del genere accadano una seconda volta.
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Filippo Cioli Puviani IIIA
QUANDO LE IDEE DIVENTANO PROPRIETß Pronunciare la parola "proprietà" fa subito venire in mente recinzioni, cancelli, siepi e passi carrabili, cioè barriere che, se valicate, offrono il brivido di vedersi materializzare davanti una lingua penzolante di un bulldog, lo strenuo difensore dello spazio sacro appena violato. Se però aggiungiamo l'aggettivo "intellettuale", i bulldog non sono più sufficienti a garantire una difesa contro i saltatori di ostacoli con il vizio del furto, perché parliamo di una proprietà non più fisica, ma immateriale. Sono però molto materiali i denari sborsati alla Siae da chiunque di noi abbia mai organizzato un evento musicale: addirittura il Ballo del Qua Qua è protetto dai diritti d'autore! Ma anche la sentenza del tribunale di appello londinese che ha decretato l'innocenza della Samsung, accusata dalla Apple di avere violato il diritto di brevetto sull'Ipad nel realizzare il suo tablet Galaxy Tab, è molto materiale, visto che la concorrenza della casa coreana sta incrinando il monopolio di fatto sui tablet della Mela di Steve Jobs.
essere stati messi a punto, hanno già fatto il giro del mondo senza che il programmatore, dopo una vita da nerd, si sia messo in tasca un soldo!" Peccato che molto spesso quel povero nerd non si metta comunque in tasca nemmeno un soldo, a meno che non sia uno Steve Jobs o un Mark Zuckerberg. Molto spesso l'applicazione del diritto alla proprietà intellettuale nelle leggi dei vari stati o nei regolamenti dell'Ue permette alle grandi aziende e società di vedere sempre difese dai loro avvocati-bulldog la proprietà intellettuale su brevetti o copyright ormai ammuffiti e spremuti fino all'ultima goccia, mentre i singoli individui creativi, portatori di nuove e fresche idee, sono facile preda del primo "copione professionale" con il portafoglio. E così questo tanto celebrato "diritto al riconoscimento del talento e della libera creatività" diventa solo l'ennesimo coltello di schiavitù nelle mani dei poteri forti. Per esempio, le nazioni ricche impongono alcune leggi alle nazioni povere, per spremere loro denaro, sotto la bandiera della "difesa della proprietà intellettuale", che forse sarebbe meglio parafrasare "colonizzazione legislativa".
La proprietà intellettuale è quindi uno spazio invalicabile in cui, al posto di immobili o terreni, ci sono idee. E c'è anche chi con le idee ci mangia, c'è chi con le idee riesce a dare lavoro a migliaia di persone, c'è chi con le idee crea divertimento e istruzione, c'è chi con le idee cambia la vita delle persone. Tutte cose molte materiali, che nascono da qualcosa di immateriale come la creatività, il tema proposto dalla Organizzazione Mondiale per la "Proprietà Intellettuale" (WIPO) per la prossima Giornata Mondiale della Proprietà Intellettuale, che si terrà il prossimo 26 aprile. In questa occorrenza annuale la WIPO ci ricorda che "dietro ogni grande innovazione , sia artistica che tecnologica, c’è un percorso frutto della curiosità, dell’intuito e della determinazione degli individui" e quindi non riconoscere il valore delle idee di questi individui, anche attraverso una tutela di tipo economico e giuridico, significa disincentivare l'innovazione e il "progresso". In realtà non vi saprei dire cosa voglia dire questa ultima parola, visto che sono 3000 anni e forse più che ce lo stiamo chiedendo, ma evidentemente la WIPO lo sa e, proprio in nome del progresso, di fatto rappresenta gli interessi dei detentori dei copyright, dei brevetti e dei marchi commerciali, pur dipendendo formalmente dalle Nazioni Unite. E voi direte: "Bé, ci sembra il minimo che vengano riconosciuti i diritti d'autore in un mondo pieno di marchi contraffatti dai cinesi, album e film scaricati gratis peer to peer e software che, 24 ore dopo
Dicendo questo non vi voglio né spingere alla pirateria o all'acquisto di materiale contraffatto (anche se non sono certo i vucumprà che mandano in fallimento Armani o Gucci), visto che non dobbiamo meravigliarci se la Siae ci salassa o se i biglietti per i concerti dei nostri cantanti preferiti sono carissimi, quando siamo noi i primi a scaricare da Emule: se esiste una giustizia a questo mondo, da qualche parte dovranno pur prenderli i soldi che rubiamo loro all'uscita di ogni album. Nonostante questo, però, bisogna sempre ricordare che non è tutto oro quello che luccica: quello che, in teoria, dovrebbe essere la salvaguardia della creatività e del riconoscimento del talento, è spesso solo un ostacolo alla libera circolazione di idee e un carico di frustrazione ulteriore per chi ha veramente voglia di cambiare il mondo, e vede ridotta la propria libertà a schiavitù intellettuale. Per concludere una piccola soluzione a questa nostra impotenza nei confronti di chi fa solo i propri interessi: cerchiamo di sostenere quelle piccole iniziative che mettono a disposizione di tutti le idee dei singoli, ben felici di spendere gratuitamente il proprio talento per la comunità. Un esempio è il gruppo bolognese Wu Ming, che scrive romanzi a più mani e mette sul suo blog il prodotto del proprio lavoro scaricabile for free e marchiato da un "copyleft", l'esatto opposto del copyright. Come loro gratuitamente e spontaneamente hanno messo a nostra disposizione il loro talento, anche noi utenti possiamo dare loro spontaneamente non solo un riconoscimento economico, ma anche la stima umana molto spesso negata dalla riduzione a merce, a prodotto, a "proprietà" delle idee.
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Eric Zizzi IIA
Anche quest’anno il 22 Aprile si terrà la Giornata della Terra, il cosiddetto “Earth Day”, dedicato alla salvaguardia del pianeta. Nato nel 1970, si pone l’obiettivo di organizzare e supportare in numerosi paesi del mondo iniziative di vario genere per la sensibilizzazione nei confronti delle più cruciali problematiche legate all’ambiente, grazie all’intervento dell’Earth Day Network, nato lo stesso anno, che comprende poco meno di 20.000 organizzazioni in quasi 200 paesi, comprese numerose ONG, e che riesce ogni anno a mobilitare per la ricorrenza circa un miliardo di persone a livello globale. Ma facciamo un passo indietro. L’evento chiave che portò all’Earth Day è da molti identificato con l’incidente della Union Oil nel 1969 al largo di Santa Barbara, California, che provocò la fuoriuscita di 16.000 m3 di petrolio, riversati in mare in un lasso di tempo di circa 10 giorni. E’ in questi anni che inizia a nascere una vera e propria sensibilità dell’opinione pubblica (soprattutto americana) sulle tematiche legate all’ambiente. Sensibilità che fortunatamente oggi cresce anche grazie alle numerose iniziative promosse in occasione della Giornata della Terra. Per quanto riguarda l’Italia ad esempio, anche quest’anno ci sarà il “Concerto per la Terra”, lo stesso 22 Aprile, al Teatro della Luna di Assago, sponsorizzato da Earth Day Italia. L’associazione Think Green Factory ha invece organizzato l’ECOFESTIVAL 2013 a Roma, col patrocinio dell’Ente Parco Appia Antica e fra le associazioni che aderiscono all’iniziativa troviamo anche Greenpeace e Legambiente. Tematiche come l’agricoltura biologica e “riciclare anziché gettare” sono anche affrontate nelle giornate 19 -22 Aprile a Vignola, per la festa della Giornata della Terra. Le iniziative, in Italia e nel mondo, non mancano. Ma avere a cuore il nostro pianeta non è solo questo. E’ anche la somma di tutti i piccoli gesti che milioni di persone compiono (o dovrebbero compiere) quotidianamente. E’ una lotta in prima persona, e i comportamenti potenzialmente dannosi per l’ambiente sono seminati qua e là nella vita di tutti i giorni. Si pensi ad esempio al confezionamento dei cibi, spesso composto da svariati strati di plastica e/o cartoncino. Quanto costa all’ambiente avere un prodotto “iperconfezionato”? C’è poi quella miriade di dispositivi elettronici che lentamente ma inesorabilmente stanno colonizzando le nostre case, rigorosamente lasciati in “standby”. Ebbene, la piccola spia rossa da cui spesso ci mettono in
guardia consuma mediamente in Italia 472 kWh/anno (dati EURECO 2003), pari circa al 15% dei consumi domestici complessivi in Italia. E se è vero che da una parte i dispositivi diventano sempre più efficienti da un punto di vista energetico, dall’altra essi diventano sempre più numerosi. Ciò significa che un gesto semplice come spegnere completamente i dispositivi può portare a una riduzione istantanea e considerevole dei consumi energetici, evitando inoltre l’usura degli apparecchi, che in questo modo durano più a lungo. Ma in fondo, che importa? L’obsolescenza pianificata è una politica assai comune nel design industriale: i dispositivi dopo un po’ diventano obsoleti e si rompono, è “normale”, e i costi di riparazione sono volutamente proibitivi: basta sostituirli. L’Earth Day deve essere anche un’occasione per riflettere seriamente sull’ambiente in cui viviamo: veramente c’è bisogno di questo continuo ricambio, che porta a buttare e sostituire gli apparecchi dopo un po’ (magari nel frattempo sono anche passati di moda...), anziché ripararli? C’è veramente la necessità, anche a scuola, di continue comunicazioni cartacee per ogni avvenimento (problema che, peraltro, dubito si risolva con maxischermi stile Times Square)? I cellulari vecchi, le cartucce delle stampanti, le batterie consumate finiscono negli appositi contenitori? O è più comodo buttarli nell’indifferenziata? A costo di sembrare scontato, credo che si possa dare un segno di autentico rispetto dell’ambiente, nonché di senso civico, rispettando queste (e altre) piccole norme, e prestando attenzione a tutti quei piccoli gesti quotidiani che moltiplicati per svariati anni e per milioni di persone comportano per il luogo in cui viviamo, nonché per l’intero pianeta, un consumo significativo e totalmente inutile di risorse. Questo è, per chi scrive, il senso più profondo dell’Earth Day.
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10 18 aprile, Teatro Storchi
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ono le otto e mezza e fuori dal teatro si incontrano alcuni prof, genitori e parenti, ma soprattutto gli studenti di ieri e di oggi. L’impressione è proprio quella di un ritrovo: siamo tutti qui per assistere, come ogni anno, allo spettacolo del Muratori, al nostro spettacolo. Attori, registi, tecnici.. sono tutti nostri compagni, nostri amici, volti noti che ci fanno sentire parte di una comunità. La solennità del teatro Storchi contribuisce a rendere l’atmosfera ancora più emozionante. Lo spettacolo inizia. La prima scena si apre con la notizia della morte di un uomo, padre di cinque giovani sorelle, che si ritrovano così abban-
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donate a se stesse, divise tra loro e lasciate sole anche dalla madre, una donna arrivista e venale, interessata esclusivamente all’eredità. Tra dramma e ironia, Amaranta, Elena, Elettra, Eugenia e Grushenka, vengono private di ogni cosa: la loro unica speranza è un testamento costituito da cinque misteriose lettere. Ovviamente, spinte dalla curiosità, vorrebbero scoprirne subito il contenuto, ma il padre ha incaricato un anziano e sarcastico notaio di assicurarsi che le ragazze, prima di aprire le lettere, superino una grande prova: imparare ad essere sorelle, vincendo i contrasti che le dividono, perché, come dice Amaranta, la maggiore, “non c’è concordia senza sacrificio”.
Così, confinate in una piccola stanza, devono fare i conti con se stesse, crescere e rendersi conto di quanto possano valere l’una per l’altra. Qui la saggia Amaranta guida la maturazione delle sorelle, Elena, cinica e un po’ nevrotica, insegna loro come divertirsi insieme, le adolescenti Eugenia e Elettra mettono da parte i loro battibecchi e la silenziosa Grushenka si rivela attenta e matura per la sua età. Quando finalmente riescono ad accettare le loro diversità, la prova è superata e possono aprire la scatola con le lettere, che rivelano non contenere altro che i loro cinque nomi. Il padre ha lasciato loro l’eredità più importante: il fatto di essere una famiglia.
11 Il finale è stato di grande impatto emotivo, soprattutto grazie alla bravura degli attori, che hanno impedito una caduta nel banale, considerata la morale un po’ prevedibile. Molto belle le musiche, sebbene il volume alto talvolta coprisse le voci degli attori e costumi e trucco veramente ben riusciti (in particolare quello del Notaio, interpretato da una ragazza perfettamente travestita, e quello della madre, che ben rendeva la frivolezza del personaggio). Prima ancora che di giovinezza, The Youth parla del diventare adulti, un tema che ci tocca molto da vicino. Come maturano le cinque sorelle, così anche noi siamo chiamati a crescere e a sviluppare le nostre potenzialità durante e attraverso i nostri percorsi di vita.
La giovinezza rappresenta un trampolino di lancio per l’età adulta, le difficoltà che si trovano sulla strada sono riti di passaggio da superare stando uniti. Per citare la colonna sonora dello spettacolo: “in spite of the weather, we could learn to make it, together”.
Dietro
le quinte...
Una breve intervista a due delle attrici: Chiara e Martina, nel gruppo rispettivamente da 5 e 3 anni. Come avete vissuto l’esperienza, anche in relazione agli anni passati? C: Era l’ultimo anno per me e quindi, nonostante abbia sempre messo l’anima nel gruppo, quest’anno è stato speciale e sono stata felice di vedere che tante ragazze del biennio si sono interessate al teatro.
The Youth, MGMT This is a call of arms to live and love and sleep together We could flood the streets with love or light or heat whatever Lock the parents out, cut a rug, twist and shout Wave your hands Make it rain For stars will rise again The youth is starting to change Are you starting to change? Are you? Together
M: È cambiato il gruppo ma i requisiti di base sono gli stessi: vai sul palco e reciti. Ovviamente abbiamo avuto i nostri alti e bassi, ma direi ne sia valsa la pena.. siamo riusciti a mettere su uno spettacolo fantastico! Frequentate entrambe la quinta. Parliamo di voi come ragazze più grandi della compagnia.. C: Da un lato, c’era il senso di responsabilità verso i più piccoli, che magari non erano mai stati sul palco, quindi andavano rassicurati.. dall’altro, dato che già mi conoscevano, ho sentito per tutto il tempo la fiducia e l’appoggio dei registi.
In a couple of years Tides have turned from booze to tears And in spite of the weather We could learn to make it together The youth is starting to change Are you starting to change? Are you? Together
M: Io non sentivo tutto questo “istinto da mamma chioccia” nei confronti dei miei compagni. Voglio dire, se avevano bisogno di un consiglio mi faceva piacere dar loro una mano, ma non me la sentivo di assumere un ruolo di guida nei loro confronti.. anche perché già fatico a gestire me stessa, figuriamoci gli altri!
The youth
Cosa consigliate a chi vorrebbe entrare nel gruppo il prossimo anno? C e M: Buttatevi, non abbiate paura di essere giudicati perché è una bellissima esperienza. Un’esperienza che fa divertire, crescere, conoscere nuove persone, con le quali magari normalmente non parlereste.. M: ..quindi arruolatevi! C: No Martina, è banale!!
Beatrice Tioli Elena La Vista Beatrice Bompani 5°G
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14 giungimento di risultati gratificanti che portino al successo. Per questo la Benziger ha scoperto e stilato “Le due Regole Fondamentali della vita” (che consiglio di tenere come piccoli vademecum!)
NEUROFITNESS Greta Scozzi IB Vi siete mai chiesti perché con certe persone non riuscite proprio ad andare d’accordo, nemmeno a comunicare, mentre con altre basta uno sguardo per capirsi al volo? Oppure perché dopo aver studiato come matti quella determinata materia vi sentite abbattuti da risultati mediocri? O ancora, vi siete mai stupiti della facilità con cui svolgete determinati compiti e del piacere che ne traete? Esistono risposte a tutte queste domande, risposte che provengono dall’applicazione di conoscenze nel campo della psicologia a conoscenze neuroscientifiche sulla struttura e la fisiologia del cervello, un contributo che si deve agli studi della dottoressa americana Katherine Benziger.
Vediamo un po’ come funziona. La corteccia cerebrale (la cosiddetta materia grigia) nella quale viene gestito il nostro pensiero, è divisa da due scissure, una centrale e una longitudinale, in quattro aree, ognuna responsabile di una diversa modalità di pensiero.
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Area Basale Sinistra: ordine e abitudine, procedure ordinate, routine sequenziali Area Basale Destra: ritmo e feeling, memorie emotive, esperienze spirituali Area Frontale Sinistra: matematica astratta, analisi struttutrale, ragionamento logico, priorità
Area Frontale Destra: immagine interna, espressività, immaginazione, metafore Secondo la legge della Dominanza, ognuno di noi, sin dalla nascita, presenta una sostanziale Preferenza in una delle quattro modalità, ovvero, è portato ad agire in maniera più semplice e meno faticosa nell’ambito delle funzioni regolate da una sola di queste aree in particolare. Ciò avviene perché “la resistenza elettrica all’interno dei e tra i neuroni nella nostra area di Preferenza è talmente più debole che, quando li usiamo per pensare, sfruttiamo solo la centesima parte dell’ossigeno o dell’energia disponibili”. Esiste inoltre un altro parametro da tenere in considerazione: il livello di introversione ed estroversione. Esso dipende dal nostro livello di risveglio, cioè dal nostro stato di allerta quando siamo svegli e il modo in cui veniamo raggiunti e reagiamo agli stimoli esterni. È importante rendersi conto di quanto questi fattori siano determinanti per il nostro benessere fisico e psichico e quindi per il rag-
Regola 1: Per sviluppare o alimentare la tua autostima, come anche per assicurare la tua efficienza e il tuo successo immediati, scegli attività e persone che corrispondono alle tue preferenze. Regola 2: Per assicurare la tua sopravvivenza, così come per garantire la tua efficacia e il tuo successo nel lungo periodo, tratta consapevolmente e con molta attenzione attività e persone che non corrispondono alle tue Preferenze e, se possibile, procurati il supporto e l’assistenza di altre persone con “cervelli” complementari al tuo. Purtroppo, avvalersi in maniera naturale della propria Preferenza non è sempre così scontato. Ogni giorno, la maggioranza di noi affronta pressioni esterne per sopravvivere, sentirsi parte di qualcosa e adattarsi, o, altrimenti, cerca di assecondare le proprie esigenze interne di sentirsi rispettata e premiata. La reazione di molti a queste situazioni è la Falsificazione del Tipo, ossia la tendenza a fare o essere qualcosa che va contro la propria Preferenza. Tale atteggiamento, dopo un lungo periodo, può essere causa di disagi quali affaticamento, alterazioni del sistema immunitario, indebolimento della memoria, scoraggiamento, depressione. In “NEUROFITNESS – BTSA, la
bussola per la tua Vita Professionale e Personale”, il libro della Benziger (pubblicato in Italia nel 2009) ho trovato un valido supporto per una profonda analisi introspettiva. Grazie ad esso e al mini-test collocato nelle prime pagine, ho iniziato a conoscere me stessa, a valorizzare i miei punti di forza, ma anche ad accettare e apprezzare la diversità. Se volete svolgere l’assessment BTSA (Benziger Thinking Styles Assessment) oppure ottenere ulteriori informazioni potete consultare i sitI www.btsa.it e www.benziger.it.
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CI SONO ANCORA LE MEZZE STAGIONI? Lorenzo Tagliazucchi IIA Con l’avvento della primavera e del periodo caldo- o almeno così la maggior parte di noi spera- ho pensato in questo numero di parlarvi dell’origine etimologica dei nomi delle stagioni. Partiamo con un banale interrogativo… Cosa significa stagione? Molto probabilmente sta ad indicare due concetti tra di loro poi non così differenti: da “stare”, statiónem e “seminare”, satiónem, da quest’ultima proviene seison, divenuto l’attuale saison in francese nonché in versione inglese, season. Seguendo questa strada, il termine “stagione” potrebbe aver avuto in origine il senso di “periodo dell’anno in cui seminare”, tantoché è ancora rintracciabile nella moderna parlata quando diciamo: “I frutti della prossima stagione”. Autunno è un vocabolo di origine latina arrivato nei nostri dizionari attraverso trasmissione delle popolazioni etrusche, che pronunciandolo si riferivano al loro dio del raccolto. Il termine pare infatti svilupparsi dalla radice del verbo augeo (“accrescere”), da cui auctumnus, proprio poiché era in autunno che si accrescevano le ricchezze di una società soprattutto agricola, e l’etimo puro si riavrebbe a sua volta nel sanscrito. “*av”, appunto, come radice, ritorna nel verbo avati, ovvero “godere” o meglio “trarre beneficio” (dei frutti della terra nel nostro caso specifico). E’ interessante poi il fatto che in greco la stagione delle foglie secche (che gli ellenici pronunciavano fthinòporon letteralmente “che porta via i frutti” o meglio “consunzione dell’estate”) non trovi alcuna corrispondenza con la famiglia etimologica in questione,
e tenda anzi ad indicare quasi il contrario di auctumnus, decisamente più positivo e ottimistico. Ma non dilunghiamoci troppo e passiamo subito a discussioni più fredde… La parola inverno, che ha rimpiazzato i tre termini dell'antica Roma hiems, hiemps e hiemis in tutte le lingue romanze, deriva dall'aggettivo latino hibernus (invernale) ; possiamo affermare con certezza che i tre vocaboli sopra citati derivano da una radice di nuovo sanscrita, ovvero *him (quasi sicuramente *ghim in indoeuropeo), da cui si sviluppano in seguito hemàn (“inverno”, appunto, ma anche “neve” per analogia), che in greco giunge come chéimon, nonché chiòm (“neve”), rimasto pressoché invariato in greco antico nella forma chìon. Nelle lingue nordiche abbiamo invece Winter sia in inglese sia in tedesco, nonché in olandese, mentre in danese e svedese troviamo vinter. Come è evidente, la radice di questa fredda stagione si è diffusa in quasi tutti i ceppi indoeuropei moderni, mentre autunno trova riscontro solo in inglese, dove la forma americana più pura e anglosassone fall si affianca al nostrano e comprensibile Autumn. La tanto rassicurante e vivace primavera si dice in latino ver, in modo molto simile al greco antico (f)eàr. I fondatori della citta capitolina lo utilizzavano molto spesso nell'espressione primum ver (tautonomico nella traduzione, perché suona come “l’inizio della primavera stessa”), a volte anche primum tempus, come oltretutto è rimasto nel francese
primtemps.
La derivazione di ver dall'indoeuropeo *wer è del tutto ipotetica e,
forse, poco probabile. Più ragionevole sembrerebbe invece farla risalire ancora una volta al sanscrito vasantas (primavera) tramite una radice comunque indoeuropea sebbene più complessa (*veser) che non ritroviamo in nessuna parola direttamente ma sembra potesse avere significato di “ardere” (tesi sostenuta dal fatto che in latino la dea del focolare, e quindi dell’ardere, è proprio la divinità Vesta), da cui il già sopra menzionato greco eàr con caduta del digamma F iniziale. Di derivazione più certa invece nelle lingue nordiche, dove troviamo l'inglese Spring dalla radice indoeuropea *sprengh “scaturire”, in tedesco Fruhjahr (letteralmente primo anno, vale a dire la prima parte dell'anno, poiché in primavera si risveglia la natura e comincia un nuovo anno) mentre lo svedese con vår si rifà al latino ver. E’ curioso infine il fatto che in provenzale il termine sia rimasto del tutto identico a come lo pronunciavano secoli fa i latini, e che nel dialetto veneziano primavera suona qualcosa come “verta”. Dulcis in fundo, la stagione forse più amata da tutti. Il latino aestas, atis, secondo Varrone, deriva da ab aestu (aestus, us = calore ardente); sia aestas sia aestus si fanno discendere da un tema in *es attestato dal sanscrito edhah = legno da bruciare che può essere confrontato con il greco àithos “tizzone”, ma in greco estate si dice théron dall'antico indiano haras “vampa”. In francese abbiamo été, ma in spagnolo e in portoghese verano e verão, quasi che in maniera molto poetica la primavera sia il primum ver e l'estate la sua continuazione.
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LIVING THINGS Marcello Vaccari L'inizio del nuovo millennio è quanto mai lontano. Sono ricordi sbiaditi i tempi delle felpe larghe e dei pantaloni a cavallo basso, lo Streetwear e la sua correlazione al mondo dell'underground che qualche volta fuoriesce impetuoso per illuminare il mainstream della sua torbida luce come nel caso dei Linkin Park. Erano gli anni di Meteora, capolavoro sensazionale, e prima ancora di Hybrid Theory, pietra miliare del genere e manifesto musicale di quella generazione. Ecco, con questa nuova fatica intitolata Living Things i Linkin Park ribadiscono la loro distanza da un modello musicale che non gli appartiene più. La svolta era stata quel Minutes To Midnight del 2007, che aveva aperto nuovi orizzonti rock, pop, electro alla band di Los Angeles. Living Things prosegue sull'onda cavalcata da Minutes To Midnight in poi. Non solo, ha le sue radici nel riflesso sbiadito di quel mondo underground che nonostante tutto la band non riesce a scrollarsi di dosso completamente. L'album si apre col classico pezzo potente “Lost In The Eco” ca-
ratterizzato da un rap serratissimo e da un ritornello tanto potente quanto catchy e melodico. Al posto dei potentissimi riff di chitarra ora abbiamo campionamenti e synth, cosa che può (e deve?) far storcere il naso al fan medio. Ma il brano scorre tanto potente e intenso che non si può che ben sperare. Si passa ad una serie di brani che rappresentano al meglio ciò che possono offrire i Linkin Park allo stato attuale. “In My Remains, Burn It Down, I'll Be Gone, Roads Untravelled” scorrono piacevoli in una commistione vivace di elettronica (forse troppo preponderante) POP (non a caso maiuscolo) e rock potente. Cori a non finire, armonizzazioni vocali, sovrastano la struttura pop di brani da radio. Ancora pezzi come “Lies Greed Misery, Until It Breaks” con il loro hip pop sorretto dagli arrangiamenti elettronici possono ricordare l'underground dei primi Linkin Park.Ovunque i brani sono addolciti da sezioni fin troppo pop melodico oriented. Menzione a parte meritano “Castle Of Glass” e “Victimized”. La prima, profonda (leggere il testo), si arrampica sul riflesso di certe antiche Breaking The Habit
(con il dovuto rispetto). La seconda, tiratissima,cattiva, riff elettronico, dalle sfumature Hardcore, impreziosita dalla voce ruggente di Chester. L'album nel complesso scorre veloce e piacevole, pingue di richiami, nostalgico di un passato vicino ma irraggiungibile. Escono ancora una volta vincenti le voci, magnifiche, potenti, complesse e mature di Chester e Mike. Meno convincente a mio parere la proposta generale del gruppo, che sforna una serie di canzoni usa e getta, pop, radiofoniche, (potrebbero fare tutte potenzialmente successo). Questo album mischia le carte ma non aggiunge nulla di nuovo alla causa. Ha il grande merito di farsi ascoltare dall'inizio alla fine rispetto al precedente “A Thousand Suns”, ma risulta nel complesso sterile, già sentito. La differenza col passato è troppo insistente, latente, preponderante per non essere considerata. I Linkin Park sembrano aver definitivamente vestito i loro nuovi panni, camicie a quadri e jeans stretti, e aver definitivamente cambiato il loro guardaroba. Una lacrima di nostalgia è inevitabile.
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17 LIBRI
"Il destino è come il cuore, è dentro di noi fin dal primo istante, quindi è inutile cambiare strada." Margaret Mazzantini propone ai suoi lettori "Venuto al mondo per raccontare una storia di guerra e pace, amore e odio, forza e debolezza. Un romanzo variegato, dai forti contrasti, fatto dalle contraddizioni che normalmente sono insite nelle persone, senza la paura di farle uscire allo scoperto. Siamo a Roma, nel 2008. Gemma, donna non più giovanissima decide improvvisamente di partire per la Bosnia portando con sé il figlio Pietro. Nonostante il tempo sia trascorso trascinandosi via le orme del passato, cambiando i volti delle persone e la conformazione delle strade, vuole che il ragazzo conosca la terra in cui è nato, in cui i genitori si sono conosciuti e amati. I ricordi di Gemma ci guidano a Sarajevo nel 1984. E' l'anno delle Olimpiadi invernali e la città è in pace, festosa. La sera prima di tornare in Italia conosce Diego, un fotografo genovese dal carattere sensibile e solare, a tratti bizzarro e strampalato. Tra i due in apparenza così diversi, lei razionale controllata e borghese, lui estroverso e creativo, di origine proletaria, nasce un grande
amore. E' l'inizio di un lungo cammino insieme, segnato da tanta felicità ma anche da intenso dolore, dal desiderio e dalla demolizione del sogno di avere un figlio perché Gemma è sterile. Ma smania disperata li porta nel 1992 in Bosnia, dove trovano una realtà completamente diversa: la bella Sarajevo è sotto assedio, segnata dalla violenza e dalle atrocità della guerra. In questo luogo infernale Gemma e Diego, risucchiati in una tragedia storica, vanno inconsapevolmente incontro al compiersi del loro drammatico destino… Procedendo in modo sapiente avanti e indietro nel tempo, tra l'Italia e la Bosnia, Margaret Mazzantini racconta la storia di Gemma e del sentimento che la lega a Diego, dell'umano desiderio di diventare genitori che si trasforma in una ricerca sempre più frustrante da renderli prigionieri e portarli a oltrepassare la soglia del rispetto per se stessi e della legalità. "Venuto al mondo" è un romanzo che ricerca la profondità, che si catapulta in realtà spesso contraddittorie facendoci assaporare i gusti della diversità, della sco-
perta, del confronto, soprattutto con le cose che ci fanno paura perché ci mostrano fragili. La "piccola" storia personale di un uomo e una donna si intreccia e si fonde con la "grande" storia: un Paese lacerato dalla guerra, dalla crudele violenza e dall'immensa sofferenza e povertà che porta con sé. Nonostante la scrittura talvolta troppo ricercata e poetica si legge con voracità; l’attenzione è catturata dalle complesse ed emozionanti vicende dei protagonisti e dei personaggi che ruotano loro intorno, tutti delineati con grande forza narrativa. Pagina dopo pagina, spiazzanti colpi di scena e abili intrecci narrativi sorprendono il lettore che divora la storia per scoprire il mistero che si cela dietro la nascita di Pietro. Sarà il finale del racconto a conferire valore a tutto.
"Forse questo è l'amore quando raggiunge la sua vetta. Ebbro come uno scalatore che s'è arrampicato e poi è arrivato, e più su di così non può andare, perché comincia il cielo".
Teresa Camellini IIA
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CINEMA
deltà. Lo consiglio, specialmente in lingua originale; basta fare un attimo l’orecchio all’accento dell’Alabama e poi sembrerà anche a voi di trovarvi seduti sotto un albero ad ascoltare la voce di Ninny che vi racconta di “quella volta che le anatre hanno portato con loro un lago fino in Georgia”.
Alabama, 1924. Nella piccola cittadina di Whistle Stop, ha inizio l’amicizia di Idgie e Ruth, due giovani donne bianche che decidono di rompere ogni schema per ribellarsi al razzismo e al maschilismo. La prima, di buona famiglia, ribelle e dinamica, lotta contro i pregiudizi di petto ed impulsivamente; Ruth, invece, colpisce tutti quanti per i suoi modi dolci ma non per questo meno efficaci. Insieme gestiscono una locanda che diventa il simbolo di un paese che non vuole ancora smettere di odiare. Alabama, 1985. Qualche giorno prima di Natale, alla “Rose Terrace Nursing Home”, Evelyn Couch, una signora di mezz’età con un livello davvero minimo di autostima, incontra l’ottantenne Ninny, un’ospite del pensionato, che la prende a cuore e nasce tra loro un legame che va al di là della semplice complicità. L’energica Ninny inizia a raccontare la storia di Ruth e Idgie ad Evelyn. In lei si sveglia allora un inaspettato desiderio di combattere contro le proprie paure ed insicurezze e cambia vita. In questo film (basato sul libro Fried Green Tomatoes at Whistle Stop Cafè), si intrecciano così le storie di 4 donne che hanno visto nell’amicizia un modo per riscattarsi e per fare valere i propri diritti e quelli degli altri. I temi serissimi del razzismo e della violenza sono mescolati alla vivace atmosfera colloquiale del sud degli Stati Uniti unendo momenti comici ad altri si spietata cru-
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1942, Myriam e Nour vivono entrambe nello stesso quartiere di Tunisi. La loro amicizia è salda nonostante la prima sia ebrea e l’altra di religione islamica, fino a che le leggi razziali antisemite dilagano anche nella Tunisia occupata. Le famiglie ebree vengono emarginate e Nour riceve il divieto di frequentare l’amica. Entrambe si vedono costrette ad affrontare culture maschiliste e razziste che non voglio cambiare. Attraverso questo racconto di amicizia si scoprono le aspettative, le emozioni e la ricerca di un’identità che coinvolge i giovani di tutti i tempi e luoghi. La storia narrata non è così lontana dalla nostra realtà e fa riflettere sul perché tante cose, seppur sbagliate, rimangono sempre le stesse. Film come questi sono proprio come gli amici, si contano sulle dita di una mano.
Beatrice Bompani 5°G
19 "E' il contatto fisico.." "Cosa?" "In una città vera si cammina, sai no? Sfiori gli altri passanti, sbatti contro la gente.. Qui a Los Angeles non c'è contatto fisico con nessuno.. Stiamo tutti dietro vetro e metallo. Il contatto ci manca talmente che ci schiantiamo contro gli altri solo per sentirne la presenza."
L'incomunicabilità in una realtà perennemente collegata.. è questo il paradosso della nostra vita di tutti i giorni, e "Crash", film statunitense del 2004 con Matt Dillon e Sandra Bullock, ne è la prova. E in effetti, per quanto possa sembrare strano, è nei momenti di scontro, nella tensione della quotidianità sconvolta che riusciamo a sentirci veramente a contatto con le persone intorno a noi. L'intolleranza e il razzismo sono i maggiori danni causati dalla nostra esclusione degli altri. Nel film tante storie di personaggi diversi si intrecciano, o meglio, si scontrano, e chi crede di aver dato una direzione definita alla propria vita si accorge di non aver fatto poi tanta strada. Questo film mostra una Los Angeles problematica e violenta, in cui una pistola puntata alla tempia capita di trovarsela con molta facilità, in cui l'assistenza medica è quella che è, e nonostante l'apparente facciata cosmopolita episodi di discriminazione sono all'ordine del giorno. E allora in un mondo così si devono per forza raggiungere dei compromessi, sopportare umiliazioni, finché non ci si rende conto di aver perso dignità e di essere comunque al punto di partenza. Credo che "Crash", sia un film commovente, a volte violento, ma che rispecchi totalmente la realtà della nostra vita e che fornisca un quadro assolutamente lucido dei problemi di razzismo e dei pregiudizi che si creano in una società multietnica come quella americana. Non esistono buoni o cattivi, ogni personaggio si trova ad affrontare un doloroso esame di coscienza, a convivere con i propri fallimenti e a riconoscere i propri errori. A volte è necessario lo scontro con l'altro da sè per riconoscersi, per autodeterminarsi, per cambiare e ricordarsi che accanto ai nostri percorsi quotidiani scorrono infinite strade.
"Quando ti muovi alla velocità della vita.. Scontrarsi è inevitabile."
In un mondo dove il tempo è denaro (e non tanto per dire) e i secondi che separano dalla fine sono scanditi da un timer impiantato nel braccio, me ntre alcuni immortali conducono un esistenza felice nel quartiere di New Greenwich, altre persone vivono perennemente ad un passo dalla morte, con meno di 8 ore di vita guadagnate giorno per giorno e i prezzi del cibo, dei trasporti, pagati in minuti, in continuo aumento. E' questo l'universo immaginato da Andrew Niccol, e il protagonista del film, Will Salas, che vive nei quartieri più poveri, si ritrova per caso a possedere un secolo di vita. Ha inizio quindi l'avventura tra gli "immortali" i ricchi miliardari che nella nuova società non invecchiano più. E' sicuramente interessante il fatto che la ricchezza sia vincolata alla vita stessa, e la crudele verità "per pochi immortali, la maggioranza deve morire" potrebbe non riguardare solo la realtà in pellicola. C'è una separazione totale, una discriminazione a priori, quando una parte dell'umanità si eleva a rango di semi-dei e chi ha il potere può di fatto vivere meglio e di più. Non penso che solo il realismo più fedele sia in grado di descrivere pienamente la realtà , ma che anzi una prospettiva insolita possa analizzare un problema attuale in maniera più che chiara, sferzante.
I "gamberoni" sono atterrati sulla terra, e sono assolutamente disgustosi. Un'astronave è piazzata su Johannesburg ormai da 20 anni e un milione di questi alieni sono da gestire nel distretto 9, una baraccopoli che causa sempre più proteste da parte della popolazione umana, spaventata e sempre più esasperata. Il riferimento del titolo stesso del film è al district six, il quartiere residenziale di Città del Capo, teatro del regime dell' apartheid sudafricano, ed infatti l'intera pellicola affronta xenofobia e segregazione razziale, anche se in maniera assolutamente anticonvenzionale. Gli alieni "sbarcati" sul pianeta vivono nel caos e organizzazioni criminali si sono già inseriti nel business, e gli organi istituzionali sudafricani, seguiti dai mass media di tutto il mondo, temono per la sicurezza nazionale, sopraffatti dai disordini causati dagli invasori e le proteste della popolazione . Anche i sostenitori dei diritti umani in una situazione così si ritrovano a temere e disprezzare, per l'appunto, i "non umani". Credo che la forza di questo film sia nel ribaltamento dei ruoli caratteristici: l'alieno diviene paradossalmente l'unica creatura capace di provare sentimenti profondi e sinceri, di non seguire le ciniche leggi che ormai regolano le relazioni interpersonali, quelle del profitto. "District 9" è un drammatico documentario, infatti è così che viene presentato, con tanto di filmati girati con telecamere amatoriali, video di sicurezza, cellulari, interviste e reportage per la stampa. Acquista così una impronta di realismo assolutamente affascinante e che contribuisce ad aumentare la resa degli effetti speciali assolutamente efficaci. Il film diventa quindi l'ultimo servizio televisivo di un incontro ravvicinato alieno, del cinismo spietato di organizzazioni internazionali e di un uomo solo davanti a una terribile realtà, tuttavia non è solo questo, è anche una storia di fiducia e di affetto. L'azione non manca, e neanche la tensione, posso assicurare. A dire la verità non credo manchi proprio nulla a questo film. Buona visione!
Giulia Sala IIIB Maggio 2013
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Omofobia: etimologicamente “paura dell’uguale”, ma in realtà, paradossalmente, “paura del diverso”, paura (o meglio avversione) di coloro che amano persone del proprio stesso sesso. Se lo spieghi a un bambino, non capisce. Mio fratello stesso, a dieci anni, tornò a casa da scuola raccontando come a educazione sessuale la maestra abbia speso diverse parole a favore di questi “omosessuali”, insistendo sul fatto che non fossero pericolosi, che non bisognasse odiarli, che fossero persone come tutte le altre. Mio fratello non capì come mai fosse necessario sottolinearlo: era scontato. Tuttavia, nel mondo dei grandi, così scontato non è: l’ignoranza, nel senso più proprio del termine, insieme al pregiudizio, porta molte persone a essere omofobiche, a odiare con ostinazione uomini che hanno come unica “colpa” l’amare un altro uomo e donne che hanno come unica “devianza” l’amare un’altra donna. Ci sono diversi tipi di omofobia. C’è l’omofobia violenta, quella dei raid anti-gay che massacrano singoli individui, giovani coppie o luoghi di aggregazione omosessuale. C’è l’omofobia istituzionale, quella dei politici che ritengono l’omosessualità “contro natura” o che, in modo non meno nocivo, non prendono posizione. Sono gli stessi che boc-
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ciano le leggi anti-omofobia, non tutelando una parte di popolazione che, a loro piaccia o no, esiste e ha bisogno di protezione. Sono gli stessi che partecipano alle manifestazioni in difesa della famiglia tradizionale, magari essendo divorziati o conducendo uno stile di vita non esattamente in linea con i dettami religiosi tradizionali. Poi c’è l’omofobia fintamente “razionalista”, quella degli pseudo-giuristi o degli pseudofilosofi che vanno a ricercare nella natura o nella religione il motivo del loro odio, cercando di stordire gli ascoltatori con mille giri di parole apparentemente colte e con le loro argomentazioni costruite sul pregiudizio. Infine, c’è l’omofobia sottile, quella del non detto, quella degli sguardi di superiorità, di odio o di scherno, quella dei sussurri malevoli, delle risatine e delle battute spiacevoli. Quest’ultima è quella nelle scuole, quella di coloro che dovrebbero essere i tuoi amici, quella dei familiari: quella che, insomma, fa più male. Ciò che ogni omosessuale vorrebbe far capire a chi lo circonda, innanzitutto, è che non c’è alcuna diversità, non c’è nessuna innaturalità, non c’è nulla di cui avere paura o da cui sentirsi minacciati: anche loro si innamorano, anche loro non vedo l’ora stare accanto alla persona che amano, anche loro sono gelosi, esattamente come te. Però ci sono cose che
loro, a differenza tua, non possono fare. Non possono camminare tranquilli per strada tenendo la mano al proprio compagno, non possono baciarlo se non chiusi nella loro stanza, non possono presentarlo subito alle altre persone per quella che è per loro. Non possono fare tutto ciò senza provare una paura di fondo che paralizza, umilia, sconforta e li fa vivere male con se stessi e con tutte le altre persone che li circondano. Gli omosessuali sono esattamente come tutti voi. Non sono né superiori né inferiori. Vorrebbero fare parte del vostro mondo e condividere il loro amore e il loro modo di essere con i parenti, con gli amici, e i semplici conoscenti, senza doversi nascondere come colpevoli di un crimine che nessuno riesce a precisare. Non si è preparati ad essere omosessuale, semplicemente si cede all’amore quando non si può più tenere nascosto. Forse non tutti possono capire cosa significhi dover tenere nascosta la voglia di urlare al mondo che si è innamorati, di urlare quanto sia meraviglioso aver trovato il proprio posto nel mondo. È difficile e, soprattutto, fa male. Gli omosessuali non vogliono essere violenti, non vogliono conquistare il mondo, non vogliono rovinare le vostre famiglie, non sono dei mostri depravati. Vogliono solo essere felici, rispettati e tutelati come qualunque essere umano. Perché? Perché non ci siano più, nel mondo, omosessuali torturati o condannati alla pena di morte poiché l’omosessualità costituisce ancora un reato tanto grave quanto l’omicidio, perché non ci siano più omosessuali che decidono di suicidarsi non riuscendosi più neanche a guardare allo specchio, convinti ormai anche loro di essere mostri perché così la società li vede. Vorrei dire una cosa a voi studenti (e non) che leggete queste parole: l’omofobia, come l’ignoranza, va combattuta innanzitutto nelle scuole. E’ facile, basta parlarne. Parliamone. Impariamo il reale valore delle parole, non veliamo il significato di Libertà, Tolleranza, Condivisione, Confronto e Rispetto. L’omofobia, come ogni paura, va affrontata insieme, proteggendo chi ne è vittima e facendo capire a chi ne è colpevole che sta facendo del male a una persona. L’odio non è un’opinione, è solo e sempre un enorme pericolo. Perché perdere tempo ad odiare, se si può amare? L’amore non è qualcosa di cui aver paura, ma qualcosa di cui essere felici. Se amare è un crimine, allora non esistono più valori al mondo.
Lidia Bonifati Diletta Marchesi
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BADALUCCO ORIZZONTALI
Laura Fregni IIA VERTICALI
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Codeluppi: “Dico cose
Pianesani: “è inutile piangere sul dentifricio versato.. eh si perché non puoi
Paradisi: “Voi siete pagati per tradurre i dimostrativi con relativi”.
Di Marco: “Scrivere tragedie non è come partecipare a MasterChef!”
Codeluppi, si mette gli occhiali da sole: “Ora valorizzo le pause e faccio un sonnellino”.
di una tale saggezza che vanno al di là della comprensione immediata, più che perle di saggezza,
Visentin: “E’ un segnale di difesa dell’organismo: vado in bagno per difendermi da Biologia!” Traduzione “violento e frizzante” Paradisi: “Sì, sì, come il lambrusco!”
grandi verità"
Ruini: “Si raccoglie. Do you know raccogliere?”
Pianesani: “Campana fa rima con... non lo voglio dire”. Filoni: “Van Gogh voleva seguire le orme del padre: diventare un pastore... non un pecoraio eh! “
Paradisi: “Come si chiamano quelli lì...in bicicletta…” Alunno: “Ciclisti?” - quelli che predicano in bicicletta...di Geova”.
Alunno: Prof! Che cosa ha fatto sto tipo di utile? Pianesani : “È morto”. Paradisi: "..volerne due da 20 al posto della moglie da 40"
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Paradisi: “Quando fate le versioni state 10 minuti su un verbo...poi trovate quello sbagliato!
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FOTO DI MARTINA DI TORO
FAHRENHEIT 451 Redattrice e grafica Rexhina Saraci IIA
Eric Zizzi Cecilia Caliumi Muriel Ferraresi
Beatrice Bompani Giulia Sala Lorenzo Tagliazucchi Elena Cavazzoni Martina di Toro Teresa Camellini Ginevra Cerami Alice Manzini
Laura Fregni Sara Magli Greta Malavolti Giulia Ghirelli Matteo Rivoli
COPERTINA BY GIUSEPPE ZUCCARATO Walt Disney tenta di spremere il suo cervello per trarne profitto, ma né lui né i suoi discendenti possono farlo.
- Perché non ti trovi un lavoro decente?
- Non ci sono lavori decenti. Se un artista non riesce a campare creando, vuol dire che è morto. - Oh, smettila, Carl! Al mondo ci sono miliardi di persone che non campano creando. Vuol dire che sono morte? - Sì Charles Bukowski, a sud di nessun nord (1973)
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