Sir Gellindotto de’ Ghiandedoro e i cavalieri della Tavola Rotonda
3 - In soccorso ai deboli I RACCONTI DEL BOSCO DELLE VENTI QUERCE - FIABA DI MAURO NERI - ILLUSTRAZIONI DI FULBER
Faceva proprio una gran bella figura, Sir Gellindotto de’ Ghiandedoro, cavaliere invincibile e senza paura che procedeva pian piano in groppa a Bradamante, con la corazza addosso, il vessillo celeste e rosso stretto in mano e la visiera calata sugli occhi. Il fido scudiero Franco Bollo camminava al suo fianco, tirandosi dietro un carretto con le provviste e gli abiti di ricambio. Attraversarono così borghi, contrade e villaggi, accolti ovunque con grandi feste ed enorme curiosità. – Ma dove siete diretto, prode cavaliere? – gli domandavano i mercanti sulle piazze e i viandanti ai crocicchi delle strade. – Sto raggiungendo il castello delle Marmotte Addormentate per rendere onore a Sua Altezza Imperiale Empedocle Quinto, padrone delle Terre di Montagna! – rispondeva il cavaliere, lasciandosi dietro mugolii di stupore e mormorii di invidia. Poi però, non appena il ronzino Bradamante mise gli zoccoli nella contea delle Marmotte Addormentate, la terra che ospitava il castello dell’imperatore, le cose cambiarono all’improvviso. In peggio! Gellindotto se ne accorse immediatamente, perché non incontrò più ridenti paesini puliti, ben tenuti e abitati da famigliole laboriose e allegre, ma si trovò a passare per borghi di catapecchie malandate e sporche, in cui vagavano come ombre uomini, donne e bambini con occhi tristi e rossi di pianto!
– Ma perché nella terra di Empedocle Quinto c’è tutta questa miseria? – domandò Franco Bollo. – L’ho notato anch’io – commentò sottovoce lo scoiattolo con la corazza: – qui ci sono solo miseria, fame, comignoli che non fumano e campi abbandonati a sé stessi! Anche il cielo era cambiato: non più ampie distese di sereno percorse da belle nuvole bianche di cotone, ma nuvolaglia grigia e scura che calava fin sulla terra coprendo i boschi e le colline con folate di nebbia densa che pareva il fumo di un incendio. Fu un povera donna che correva loro incontro urlando disperata a riscuotere i nostri due amici: – Signore... forte e coraggioso cavaliere... fermati, ti prego! Gellindotto tirò la cavezza e Bradamante si fermò in mezzo alla via. – Dimmi, buona donna, perché piangi? perché stai urlando come un’ossessa? – Piango perché non mi resta molto altro da fare! – Che paese è, quello? – chiese il cavaliere indicando un gruzzolo di case in fondo alla curva. – È un paesello senza nome, ormai – rispose la poveretta, – perché così ha deciso il capo degli sgherri dell’imperatore Empedocle! – E chi è costui? – s’intromise lo scudiero Franco. – Il capo degli sgherri ha un nome terribile, che è meglio nominare sottovoce: è il capitano Fon Raspe, la cattiveria fatta persona, la crudeltà che cammina con due gambe...
– E cosa ha mai combinato costui? – Combinato? Fon Raspe ci ha impoveriti con tasse sempre più alte, ci ha tolto gli animali da stalla e da cortile, ci ha rubato gli aratri e i buoi da tiro, ha depredato le nostre dispense e quando non abbiamo più avuto nulla se non due mani per coprirci gli occhi, ha tolto anche il nome al nostro paesino! Ci ha depredati di ogni cosa, ci ha gettati nella più nera miseria! – Ma scusa, donna: e l’imperatore cosa dice del suo capo delle guardie? – Cosa volete che dica, poverino? Empedocle è vecchio e debole, non ha eredi e vive solo con la sua bella nipote, che però è ancora troppo giovane per imporsi al capitano, che anzi, sta tramando nel buio per potersela sposare e diventare lui il prossimo imperatore! Gellindotto guardò Franco: – Ma che storia – esclamò con una smorfia di disgusto. – Be’, senti – continuò poi rivolto alla poverina, – noi stiamo andando proprio al castello di Empedocle Quinto. Terremo gli occhi ben aperti, puoi starne certa, e vedremo cosa si può fare con questo capitano Fon Raspe. Tu intanto sta’ tranquilla e abbi fede! Prendi questi cinque soldi d’argento e compra qualcosa da mangiare per la tua famiglia... ci rivedremo presto, me lo sento! Qualche tempo dopo, mentre la nostra coppia di amici stava transitando su un minuscolo ponte che attraversava un fiumiciattolo, le urla disperate di un bambino attirarono l’attenzione di Gellindotto, che... – Ooohh, fermati ancora
Bradamante! Buono... adesso andiamo a vedere chi sta urlando a quel modo Trovarono il bimbo in lacrime, seduto sulla riva del fiume. – Cosa ti è successo, piccolo? – domandò Franco inginocchiandosi. – Sta... stavo pes... pescando – singhiozzo quell’altro, – quando è arrivato... il cattivo, il tremendo, l’orribile Fon Raspe... – Fon Raspe? – strillò Gellindotto. – Ancora quel bruto? Il violento capo delle guardie dell’imperatore? – Sì, lo conosci anche tu, cavaliere? – No, ma ne ho sentito parlare. E che ha fatto questa volta, quel disgraziato? – Mi ha strappato di mano la lenza e l’ha spezzata, gettandola in acqua! – E perché, poi? – chiese lo scudiero. – Perché da ieri, su ordine di Fon Raspe, bisogna pagare una forte tassa, per poter pescare nel fiume! Chi non paga la tassa, niente lenza e niente pesci! Ma io non li ho trentacinque soldi d’oro, per pescare un pesce al giorno! Trentacinque soldi d’oro? Ma sono molti, sapete? Sono moltissimi soldi... – Tieni un soldo d’argento e va’ a comprare un pesce per pranzo: a quella bestia penseremo noi! Di lì’ a poco fu invece un vecchietto ad attraversare di corsa la strada, inciampando e rischiando di finire tra gli zoccoli del povero Bradamante, che pure avanzava con la massima calma. – Ehilà, nonnetto: stai attento a correre, che puoi farti male! – urlò Franco, precipitandosi ad aiutare l’anziano
caduto nel fango della pioggia recente. – Ehi – balbettò il poveretto, non appena fu in piedi e vide il cavaliere con la corazza e il vessillo celeste e rosso in mano, – non posso credere ai miei occhi: tu... tu sei un cavaliere di ventura? Sei un nobil’uomo in cerca di torti da riparare e di violenze da vendicare? Perché se le cose stanno così, allora la provvidenza ti ha portato nel posto giusto! Gellindo alzò la visiera e parlò: – Non dirmi, buon uomo, che anche tu stai fuggendo dalle angherie del capo degli sgherri dell’imperatore Empedocle Quinto! Rispondi: stai scappando dal perfido Fon Raspe? – Non pronunciare quel nome, ti prego, cavaliere della Ghianda d’oro – esclamò spaventato il vecchietto, dopo aver dato un’occhiata alla ghianda ricamata al centro del vessillo. Poi continuò a parlare a voce bassa: – Certo che sto scappando da quel ladro violento! Ha appena dato fuoco alla mia piccola casa, accusandomi di aver ospitato per la notte alcuni viandanti rimasti senza cibo e senz’acqua... ma che dovevo fare? Lasciarli fuori al freddo e sotto la pioggia, solo perché non avevano pagato la tassa d’ingresso alla contea? Cinquanta soldi d’oro a persona, bisogna pagare per metter piede nella contea delle Marmotte Addormentate, questa è la nuova legge di Fon Raspe... Gellindotto ebbe due sussulti: il primo perché cinquanta soldi d’oro gli parevano veramente troppi, come tassa d’ingresso nella contea. Il secondo perché lui cinquanta soldi d’oro
proprio non li possedeva: se avessero incontrato Fon Raspe, chissà come sarebbe andata a finire... – Senti pover’uomo – mormorò il prode scoiattolo, – posso darti solo quattro soldi d’argento, è tutto quel che m’è rimasto. Fanne buon uso e mettiti subito al lavoro per ricostruire la tua casa. Ora vado al castello delle Marmotte Addormentate: parlerò del tuo caso direttamente all’imperatore e staremo a vedere... Il castello delle Marmotte Addormentate si alza austero e imponente sulla vetta di una collina. Alcune decine di casupole gli fan corona ai piedi delle mura: per il resto è una fortezza isolata e solitaria, che domina dall’alto l’intera plaga della contea. Non appena Sir Gellindotto in groppa al suo Bradamante e con lo scudiero al fianco fece il suo ingresso attraverso la porta orientale, cinque sgherri vestiti di nero e di grigio circondarono i nuovi arrivati, minacciandoli con lance acuminate da cui pendevano bandierine grigie e nere. – Chi sei, straniero? Dicci il tuo nome, se non vuoi finire nella prigione fonda della torre grande! A strillare era stata la guardia più anziana del gruppetto, un tipo dalla barba riccia e rossa, che imbracciava la lancia con mani grosse e forti. – Il mio nome è Sir Gellindotto de’ Ghiandedoro – esclamò il nostro scoiattolino, per nulla intimorito dalla punta della lancia che gli sfiorava il collo, – e questo è il mio fido scudiero
Franco. Come osate, guardie, trattar da furfante uno dei cavalieri della Tavola Quadrata? Un fedele servitore dell’imperatore Empedocle quinto? Ecco qui: leggete! – urlò il cavaliere, mostrando la lettera di invito da cui era partita tutta questa avventura. Lo sgherro anziano afferrò la lettera, la aprì, le diede un’occhiata tenendola alla rovescia e la passò allo sgherro alla sua sinistra. – Prova a leggere tu! – Ma io non so... – balbettò l’altro, che consegnò la lettera al terzo sgherro, che la mise nelle mani del quarto, che la affidò infine al quinto... – Date qua, ignoranti! Fate leggere a me! Un’ombra scura accompagnò il latrato di quel vocione rauco. Gellindotto e Franco Bollo si girarono e quel che videro li lasciò senza fiato e a bocca aperta. Un omone grande e grosso, vestito con una rozza divisa nera a righette grigie, stringeva la lettera dorata con le dita sporche, sbuffando fumo da un sigaro stretto tra i denti rotti e marci. Era un autentico mostro, quel gigante: un mostro con la barba scura e i capelli lunghi che scappavano da sotto a un cappellaccio calato sulla testa, mentre due occhi rossi come il fuoco lanciavano saette a destra e a manca. – E così qui abbiamo un altro cavaliere... Eh! Eh! Eh! – brontolò lo sgherro leggendo l’intestazione della lettera... – Uuuuhhh, senti senti: Sir Gellindotto de’ Ghiandedoro, fedele cavaliere della Tavola Quadrata... Sare-
sti tu, questo Sir Gellindotto? – blaterò l’omone rivolto a Franco Bollo. – Ehm, ecco... no: io sono solo il suo scudiero... Sir Gellindotto è... lui! Il gigante squadrò lo scoiattolo abbarbicato in groppa al cavallino nero e scoppiò in una gran risata: – E tu... tu sei un cavaliere della Tavola Quadrata? Così piccolo? Così ridicolo? Ma fammi ridere! – Capitano Fon Raspe, vi chiedo di trattare meglio gli ospiti di mio nonno! Tutti gli occhi dabbasso si alzarono al cielo e andarono a cercare il luogo da dove veniva quella voce dolce e argentina. Gellindotto fu il primo a inquadrare la fanciulla affacciata alla finestra del terzo piano del palazzo imperiale. D’istinto si chinò in un saluto cavalleresco, accompagnato dallo sventolio dell’elmo col cimiero: – Sono Sir Gellindotto de’ Ghiandedoro, principessa – esclamò lo scoiattolo con la corazza, – ai vostri piedi per servirvi con fedeltà e devozione! – Mio nonno vi sta aspettando, Sir Gellindotto – disse la ragazza per tutta risposta, lanciando uno sguardo severo al capitano degli sgherri. – E voi, Fon Raspe, restituite la lettera al cavaliere e accompagnate il suo destriero alle scuderie imperiali! – E noi? Io e il mio scudiero che facciamo, lady... lady... – Io sono Lady Ondina, unica nipote dell’imperatore Empedocle Quinto! Salite pure al terzo piano: vi attendo per mostrarvi le vostre stanze! Il cavaliere seguì con sguardo un po’
preoccupato le guardie che conducevano Bradamante alle stalle e non poté far a meno di vedere lo sguardo pieno d’odio con cui il capitano Fon Raspe lo squadrò prima di andarsene imprecando sottovoce.
Era appena arrivato alla corte dell’imperatore, povero Gellindotto, e già s’era fatto un acerrimo nemico. Penso proprio che ne vedremo di tutti i colori, fin dalla prossima puntata! (3 - continua)