Fra’ Vesuvio nel deserto Fiaba di MAURO NERI - Illustrazioni di F ULBER
1 - Giada, la regina della CittĂ di Pietra
Sul Bosco delle Venti Querce pioveva a dirotto ormai da quattro giorni e quattro notti: un concerto di milioni e milioni di gocciole che tic-tic-tictic-tic... percuotevano le grandi foglie degli alberi con un suono monotono e noioso che faceva appisolare spauracchi e animali. Tra questi ultimi, anche il nostro simpatico Gellindo Ghiandedoro! Ecco perché quella sera, quando... Tock! Tock! Tock!... qualcuno bussò forte alla porta della tana, lo scoiattolino balzò col cuore in gola giù dal divano sul quale s’era addormentato con un libro in mano e urlò con voce strozzata: – Chi è? Chi bussa come un matto alla mia porta? – Sono io! Ci vollero esattamente tre secondi perché Gellindo riconoscesse il nuovo venuto dal forte accento napoletano. – Sei Fra’ Vesuvio, vero? Forza, entra... la porta è aperta! La lettera che lo spaventapasseri Fra’ Vesuvio lesse al suo amico scoiattolo era allo stesso tempo chiara e misteriosa. Caro cugino Fra’... stanno per rapirmi! Mi restano solo due minuti prima di sparire chissà dove, e li utilizzo entrambi per scriverti questa lettera, che un mio amico poi imbucherà al villaggio più vicino. La terribile banda dei Tre Predoni Traditori – ma li chiamano anche i Cavalieri della Notte Nera – è convinta che io sappia dov’è nascosto un favolo-
so tesoro... Dicono che si tratti di casse e casse colme d’oro, d’argento e di gioielli preziosi... Io non so di che cosa parlino, ma tant’è: si sono messi in testa, quegli sciocchi, che io sappia ogni cosa e vogliono portarmi con loro nel deserto! Seguimi, cugino Fra’, ti supplico! Corri a liberarmi e te ne sarò grato per tutta la vita! Il tuo fidato cugino Abdu Al-Bar (oasi di Ghilane, Tunisia) – Tutto qui? – chiese Gellindo, rigirando tra le mani la lettera misteriosa. – Pareva anche a me che ci fosse solo questo foglio, ma poi dalla busta è caduto a terra anche quest’altro bigliettino. Ecco, leggi: «È di roccia il cuore duro del deserto: è l’incantesimo che trasforma tutto in sasso è la Città di Pietra... tutto comincerà da lì...» Gellindo si grattò i peli della zucca, arricciò nervoso quelli della lunga coda, si lisciò i baffetti e... – Mi stai dicendo che dovremmo lasciare tutto... i nostri amici e le nostre case... preparar fagotto e andarcene in... Tunisia? Così, sui due piedi? – Tu su due, io su un piede solo! – sorrise Fra’ Vesuvio saltellando sul bastone che lo teneva ritto. – Se sei mio amico, sei ami il mistero, se ti
piace viaggiare, se non hai paura degli imprevisti, se non tremi davanti ai pericoli... – D’accordo, va bene: mi hai convinto! Prepariamo gli zaini, salutiamo tutti e partiamo per il deserto! – Gellindo s’avvicinò alla finestra e guardò la pioggia che continuava a cadere imperterrita. L’idea del caldo secco del deserto quasi quasi lo solleticava e non gli dispiaceva. Sarebbe stata una bella esperienza! Ancora non sapeva, però, quel che l’attendeva! Il caldo del deserto toglieva il fiato, ma non era quello il problema. La sabbia del deserto ardeva come fuoco vivo, ma non era quello il problema. Il sole del deserto dardeggiava dall’alto del cielo come un incendio, ma non era quello il problema. L’immensità del deserto di sabbia toglieva il fiato, ma non era quello il problema. E allora: dove stava il problema? Il problema era il silenzio! A parte il vento caldo, basso e teso che soffiava da meridione, riempiendo i crinali e le gobbe delle dune con i disegni più strani, il silenzio era talmente profondo e intenso da far quasi paura. Era il silenzio del deserto sabbioso! Fra’ Vesuvio aveva avuto fortuna ed era riuscito a farsi dire da un vecchio berbero nomade, amico di suo
cugino Abdu Al-Bar, dove si trovasse la Città di Pietra... «Seguite il sole in tutta la sua corsa verso occidente e fermatevi dopo tre giorni di marcia – aveva detto il berbero seduto sull’ingresso della sua tenda di lana scura. – Arriverete a una minuscola oasi... una pozza d’acqua e ventidue palme tutt’attorno, contatele bene e non potrete sbagliarvi. Da lì camminate verso sud per mezza giornata... sei ore di marcia in tutto e sarete arrivati alla Città di Pietra!» Vesuvio e Gellindo avevano seguito le indicazioni del vecchio nomade: avevano camminato per tre giorni verso ovest e, giunti alla minuscola oasi che contava esattamente ventidue palme, avevano svoltato verso meridione. Stavano camminando ormai da cinque ore e mezzo sotto un sole infuocato e la meta non doveva essere distante. – E quando saremo alla Città di Pietra, cosa faremo? – chiese il povero spauracchio, che aveva finito da tempo l’acqua della borraccia. Gellindo gli allungò la sua e... – Non manca molto e, quando saremo lì, vedremo il da farsi. Avrà pure qualche abitante, questa misteriosa città! Chiamarla “città”, a dire il vero, era un po’ esagerato, ma che tutto fosse di pietra, su questo potete star certi! La misteriosa Città di Pietra era costituita da un quadrato di casette coi tetti tondi come tante polentine
rovesciate, al centro del quale un vecchio pozzo “non” dava più acqua da chissà quanto tempo. Sulla destra un boschetto di palme in pietra toglieva quasi il fiato per lo stupore: i tronchi delle palme erano di roccia scura, le foglie erano lastre di basalto color del piombo e dalla sabbia grigia affioravano ovunque gruppi di “rose del deserto” color nocciola che parevano fiori di aiuole strane. Quella era la Città di Pietra! Gellindo e Fra’ Vesuvio non ebbero nemmeno il tempo di riprendersi dallo stupore, che dalla casetta più vicina uscì una giovane ragazza dai lunghi capelli neri, che era accompagnata da due scudieri dalla pelle color dell’ambra. – Salve stranieri... era scritto nei libri dei maghi che un giorno sareste arrivati a portarci finalmente la pace! La fanciulla parlava sottovoce, quasi avesse paura che qualcuno la potesse spiare. Si fece dare da uno dei paggi due bicchieri d’acqua e... – Bevete in nostro onore, riposatevi e poi vi racconteremo la nostra storia! L’acqua era dolce e fresca quasi come quella che Gellindo era abituato a bere nella sua Valle di Risparmiolandia. Dissetati che furono, lo scoiattolo e lo spauracchio vennero invitati all’ombra della casa e lì la fanciulla cominciò a parlare. – Il mio nome è Giada e sono la regina della Città di Pietra. Regina solo di me stessa, a dir la verità, e di questi
due servitori, gli unici sudditi che mi sono rimasti. I loro nomi sono Kaled e Mohammed, per gli amici Momò. – E tutti gli altri sudditi che fine hanno fatto? – chiese Gellindo. – Sono stati rapiti dalla Notte Nera – bisbigliò Giada, guardandosi attorno spaventata. – La notte... nera? – balbettò Fra’ Vesuvio, che già s’immaginava il povero cugino Abdu prigioniero nelle spire di un buco scuro e senza fondo. – Fino a due settimane fa – spiegò allora Giada, – questa parte di deserto era la più bella dell’intera Tunisia. Qui la sabbia era fina e color dell’oro giallo e le sorgenti e le oasi pullulavano in ogni dove. Era un deserto nel quale non si poteva morir di sete e di fame: bastava camminare anche solo un paio d’ore e l’ombra fresca e riposante di un palmeto o di un bananeto ti accoglieva tra le sue braccia. Kaled la interruppe e continuò a raccontare: – Poi quindici giorni fa capitò da queste parti quel puzzone di Sim-bal, uno dei terribili Cavalieri della Notte Nera, uno dei tre Predoni Traditori! – E com’è questo Sim-bal? – gli chiese Fra’ Vesuvio, al quale la faccenda della Notte Nera continuava a ricordare qualcosa di già sentito.... – Sì dai: raccontaci com’è fatto! – esclamò Gellindo, che invece rammentava bene quel che c’era scritto nella lettera del cugino Abdu Al-Bar. – Avete presente uno stregone a corto di buon cuore? Bene, Sim-bal di
cuore non ne ha nemmeno l’odore! Avete presente un mostro cattivo? Lui la cattiveria se la mangia a pranzo e a cena! Avete presente uno che si diverte a prendersi gioco degli altri? Il beduino Sim-bal degli altri fa palline di cus-cus... e poi puzza, oh se puzza quel manigoldo! Mettete assieme tutti gli odori più nauseanti che conoscete e avrete solo una pallida idea di quanto puzza quel mascalzone! I nostri due amici ascoltavano a bocca aperta. – Sim-bal giunse nel mio regno portandosi al seguito i suoi cento asini assetati d’ogni goccia d’acqua – continuò a raccontare la povera Giada. – Lui e i suoi animali bevvero tutte le stille di liquido dalle mie palme, che si trasformarono in alberi di sasso. Prosciugarono il pozzo della mia oasi, e l’acqua sul fondo divenne sabbia sottile e arida. Aspirarono ogni goccia d’umidità dalle aiuole del mio giardino, e la sabbia divenne grigia e fredda, mentre le rose si tramutarono in fiori di pietra. Poi quel puzzone, non contento, fece prigionieri tutti i miei soldati e tutti gli uomini e le donne del mio regno: mi lasciò sola con due scudieri, caricò i miei tesori sulle some dei suoi cento asini e partì alla volta del Grande Sud per riunirsi ai suoi due fratelli altrettanto malvagi... – E avete per caso conosciuto un tipo di nome Abdu? – chiese speranzoso Fra’ Vesuvio. – Abdu Al-Bar è il suo nome completo...
– Oh sì, certo – esclamò Giada illuminandosi. – Sulla schiena del primo asino era legato prigioniero uno spauracchio berbero che si chiamava appunto Abdu. Piangeva e strillava come un disperato, il poveretto: era senz’acqua da una settimana intera e da due non toccava cibo. Diedi allora ordine al mio scudiero Mohammed di portare a quel disgraziato un po’ d’acqua e due tozzi di pane di nascosto dalle guardie... Riferisci ai nostri amici cosa ti ha detto quell’Abdu – concluse la regina rivolgendosi al suo fidato scudiero. Momò rispose con un sussurrò: – “Se un giorno passerà di qui un simpatico straniero che saltella su un bastone solo e che risponde al nome di Fra’ Vesuvio”, questo mi disse il povero prigioniero, “ditegli che è sulla strada giusta! Che non demorda e che continui a cercarmi... Ditegli che suo cugino sta camminando spedito verso Sud!” Il giorno dopo Gellindo Ghiandedoro e Fra’ Vesuvio salutarono la regina Giada, che si dimostrò generosa coprendoli di viveri attinti alla sua dispensa segreta: datteri e banane, biscotti al miele, pane secco e cus cus per almeno cinque pranzi a testa... – Stanotte ho parlato a lungo con i miei due sudditi – disse la regina al momento degli addii, – e di comune accordo abbiamo deciso che il buon Momò verrà con voi! Sarà la
vostra guida, vi indicherà la strada da seguire e difenderà le vostre vite come fossero la mia! Trovate il vostro amico Abdu, vi scongiuro: affrontate assieme e sconfiggete Sim-bal e i suoi malvagi fratelli e poi tornate da me assieme a tutto il mio popolo rapito. Sarà quello il momento delle grandi feste, perché solo allora il mio regno riprenderà a vivere bello e fortunato com’era prima! Fra’ Vesuvio e Gellindo salutarono la regina e Kaled, l’ultimo e unico scudiero rimastole. Si misero in spalla i robusti zaini colmi di viveri e... – E Momò dove s’è cacciato? –
chiesero in coro. – Non doveva venire con noi? Rispose il rombo potente di un motore: dal boschetto di palme pietrificate uscì rombando una stupenda jeep color dell’argento, con Momò al posto di guida. – Cosa aspettate? Buttate su i bagagli, che si parte! I nostri amici diedero un’ultima occhiata alla minuscola Città di Pietra dal lunotto posteriore e le ruote della jeep balzarono in avanti, mordendo la sabbia della duna più vicina. Il loro viaggio disperato in direzione Sud era appena cominciato!
2 - Il Caravanserraglio dei Datteri d ’Oro Fiaba di MAURO NERI - Illustrazioni di F ULBER
La corsa in jeep lungo la pista sabbiosa del deserto durò quasi una giornata intera e terminò poco prima del tramonto, quando i nostri amici giunsero in una grande oasi circondata da una muraglia di mattoni alta almeno dieci metri – Sai come si chiama, questo posto? – chiese Gellindo, mentre il gigantesco Momò parcheggiava la quattro-per-quattro all’ombra di una palma. – Siamo al Caravanserraglio dei Datteri d’Oro… – Che cos’è un caravanserraglio? – chiese Fra’ Vesuvio saltando giù dall’auto. – Be’, il caravanserraglio è una specie di albergo del deserto con tanto di mercato, è un luogo in cui risposare e far riposare i dromedari, in cui mangiare, bere e magari fare una doccia, dormire su un bel letto comodo e poi, il giorno dopo, ripartire ognuno per la propria destinazione. Gellindo Ghiandedoro si sporse dal finestrino e indicò il cielo azzurro: – E questo muro altissimo che corre tutt’attorno, a che cosa serve? – Serve per difenderci dai ladri, dai pirati del deserto e magari anche dai tre terribili Predoni Traditori… – Ssssshhhh!!! Fate silenzio, che nessuno vi senta mai pronunciare il nome di quei manigoldi! – esclamò sottovoce un mercante lì vicino, che aveva una decina di forbici per tosa-
re le pecore allineate ai suoi piedi. – Perché, – disse Gellindo avvicinandosi, – conosci anche tu Sim-bal e gli altri due Cavalieri della Notte Nera? – Vi avevo raccomandato di fare silenzio – rispose quell’altro balzando in piedi e raccogliendo in fretta e furia le forbici. – Forza, venite con me! Qui ci sono più orecchie che granelli di sabbia! Seguitemi… – Io mi chiamo Omar e sono conosciuto anche col soprannome di “Re delle forbici da pecora”! Lavoro in questo caravanserraglio praticamente da quando sono bambino, e quindi da molti, moltissimi anni, e conosco praticamente tutti i nomadi, i pastori, i beduini, i berberi, i mercanti ed anche gli stranieri che passano di qui… Al buio della cameretta in cui viveva Omar – una stanza due metri per due, con un pagliericcio addossato a una parete e un fornelletto di fronte – ci si sentiva al sicuro: bastava parlare a bassa voce, perché le orecchie degli spioni riuscivano ad entrare anche là dentro. – Allora conosci anche il terribile Sim-bal – sussurrò Momò addentando un pezzo di pane cotto sul carbone di legna. – Vi siete imbattuti in quella puzza ambulante, vero? Be’, lasciate che ve lo dica: Sim-bal è un signorino, in confronto ai suoi due fratelli!
– E come si chiamano, questi altri due terribili predoni? – chiese Fra’ Vesuvio, ritrovando la parola. Un mugolio dolce e sottile, quasi il verso di un bambino o il guaito di un cucciolo di cane fu la risposta. – Cos’è stato? – chiese Gellindo improvvisamente attento. – Avete sentito anche voi quel verso strano? – Certo che l’ho sentito – aggiunse Fra’ Vesuvio improvvisamente pallido per lo spavento. – Tranquilli – disse Omar alzandosi e infilando un braccio sotto al pagliericcio, – è solo il mio piccolo Alì che ha fame! Vi lascio immaginare la sorpresa di Gellindo e del suo amico spauracchio quando Omar tirò fuori da sotto al letto un esserino piccolo e strano. Pareva un cucciolo di cane, ma non era un cagnolino, assomigliava più a un volpacchiotto: musetto appuntito, due occhietti furbi, un manto color miele e soprattutto un paio di orecchie enormi, spropositate, lunghe come due antenne ben ritte ai lati della testolina… – Vi presento il mio Alì, un fennec che ho raccolto due mesi fa durante una passeggiata fra le dune del deserto – disse Omar, mettendo il cuccioletto in braccio a Vesuvio. – Non preoccuparti: è affamato ma non mordee soprattutto non mangia gli spaventapasseri! Alla vista di quell’esserino dolce e sorridente tutte le paure di prima
svanirono: nessuno pensò più al terribile Sim-bal e ai suoi due fratelli ancor più cattivi. L’attenzione si concentrò su Alì e per la prima volta Gellindo e Fra’ Vesuvio ebbero la percezione di essere nel deserto, nel cuore caldo e protettivo dell’Africa sabbiosa. – Che cos’è un fennec? – domandò lo scoiattolino accarezzando le lunghe orecchie del cucciolotto. – È la volpe del deserto – rispose Omar, preparando un po’ di cus cus in una ciotola, – un simpatico animaletto che si nutre di insetti, di lucertole, di piccoli mammiferi e di uova d’ogni specie, che gironzola nei pressi delle oasi e quindi spesso viene catturato dai beduini o dai pastori nomadi, che lo tengono come fosse un cagnetto… – E perché ha quelle orecchie così lunghe, così grandi? – volle sapere Vesuvio. – Perché con quelle orecchie enormi riesce a disperdere il calore del sole e quindi mantiene costante la temperatura del suo corpo anche se, per essere ancor più sicuro, di giorno se ne sta ben tappato nelle sue tane e solo verso sera esce per andare a caccia … Poi all’improvviso il volto del mercante si fece serio e gli occhi gli si riempirono di lacrime. – Be’, che ti succede, Omar? – esclamò Gellindo, che fu il primo ad accorgersi di quel repentino cambio
d’umore. – Perché hai le lacrime agli occhi? – aggiunse Vesuvio. – Prima stavamo parlando dei Tre Prddoni Traditori – sussurrò il “Re delle forbici da pecora” – e della malvagità di quel puzzone di Sim-bal e dei suoi ancor più terribili fratelli. Bene: uno dei due, quello che si chiama Scia-krun, è un grande cacciatore di… di fennec! – Di fennec? – urlò quasi Gellindo mentre accarezzava il minuscolo Alì che mangiava col musetto infilato nella ciotola della cena. – E perché va a caccia proprio di fennec? – chiese Vesuvio. – Scia-krun ama circondarsi delle cose più belle e preziose e vi assicuro che in tutto il deserto non esiste nulla di più morbido e caldo di un mantello o di una coperta fatti con pelli di… fennec! Gellindo stava per esplodere di rabbia e Vesuvio era sul punto di urlare tutta la sua collera, quando la porta della stanzetta si aprì con gran fracasso e due guardie del caravan serraglio entrarono urlando: – Si nascondono forse in questa stanza tre stranieri giunti da poco con una jeep grigio-argento e che non si sono presentati al Posto di Polizia? Gellindo si girò a guardare il mercante Omar; Fra’ Vesuvio cercò lo sguardo del suo amico scoiattolino ed Omar balbettò all’indirizzo dei suoi ospiti: – Per mille scorpioni in-
ferociti! Vi siete dimenticati di dare i vostri nomi alla Polizia… – Ma noi non lo sapevamo – cercò di giustificarsi Momò. – Non ce l’avevano detto! – aggiunse Vesuvio. – …e poi non c’era scritto da nessuna parte! – concluse Gellindo. – Venite con noi, voi tre! – urlò la guardia più vicina, incurante di tutte quelle giustificazioni. – Siete in arresto! – aggiunse la seconda guardia obbligando i tre ad alzarsi in piedi. – Quanto a te, mercante Omar, dovrai presentarti domattina a mezzogiorno al Posto di Polizia con cinquecento dinari per pagare la multa! Lo sai bene che è vietato ospitare clandestini nella propria casa! Quando la porta della stanzetta si rinchiuse con un sonoro Sbatabamm!... il buio piombò nella stanza, avvolgendo nei più tristi pensieri il povero mercante, che si strinse al petto il piccolo Alì. La finestrella della prigione dava sulla piazza del caravanserraglio, perciò i nostri tre amici al mattino dopo poterono controllare quel che avveniva all’esterno. Poco dopo l’alba arrivarono i mercanti: alcuni erano carichi di spezie d’ogni colore e d’ogni profumo, altri misero in mostra montagnole di datteri, caschi di banane, oppure cipolle, scarpe di seconda mano, biscotti al
miele e moltissime altre mercanzie le più diverse. Di tanto in tanto dall’alto del piccolo minareto del caravanserraglio il muezzin chiamava i fedeli alla preghiera, e allora tutti interrompevano le loro attività, srotolavano un minuscolo tappeto, vi si inginocchiavano sopra e si chinavano più e più volte pregando in direzione della lontana Mecca. Anche Momò pregò Allah in un angolo della cella: Gellindo e Vesuvio evitarono di disturbarlo con chiacchiere inutili. A metà mattina un improvviso trambusto ruppe la pace di quel mercato in piazza. Il portone del caravanserraglio si aprì scricchiolando sui cardini e un cavaliere vestito di nero in groppa a un cavallo arabo dal manto color del carbone entrò galoppando, urlando e rovesciando all’aria carretti e bancarelle. Ma nessuno dei mercanti si lamentò! Passò solo un istante e dal portone fecero il loro ingresso al galoppo cento cavalli carichi di gabbie coperte con tappeti di tutti i colori, che portarono a termine il lavoro di distruzione avviato dal primo cavaliere. Quando la piazza del mercato fu una landa desolata di mille merci distrutte e mescolate fra di loro, il cavaliere nero fermò il cavallo al centro di quel”cimitero” silenzioso e sbraitò con voce roca:
– Sono Scia-krun, signore del deserto, Predone Rinnegato e Cavaliere della Notte Nera. C’è tra di voi qualcuno che si chiama… Omar? Di Omar, nel caravanserraglio, ce n’erano almeno centocinquanta e in molti si fecero avanti a capo chino. – Scia-krun non ha bisogno di tutti gli Omar che vivono tra queste mura, ma solo di quell’Omar che tutti chiamano il “Re delle forbici da pecora”! Un balzo al cuore tolse il fiato a Gellindo e a Fra’ Vesuvio, che erano aggrappati alle sbarre della prigione. Dietro di loro Momò osservava la scena senza sapere che pesci pigliare per proteggere i suoi amici. Omar “Re delle forbici da pecora” uscì dalla stanzetta in cui viveva e si portò al centro del mercato distrutto. – Eccomi, Scia-krun! – disse con voce stentorea e senza un filo di paura. – Sono io l’Omar che cerchi. Cosa vuoi da me? Hai bisogno d’un buon paio di forbici per tosare? – Ah! Ah! Ah! E tu pensi che al terribile Scia-krun, quando ha bisogno d’un po’ di lana, la prima cosa che gli viene in mente siano le forbici per tosare qualche pecora? Per me, caro il mio mercante, è più semplice arrangiarmi in questo modo! – esclamò il perfido, chinandosi e afferrando un sacco di lana da un carretto sbriciolato sotto gli zoccoli dei suoi cavalli. Un brivido di terrore percorse
l’intero caravanserraglio. Se Sciakrun s’era messo in testa di depredare il loro mercato, non c’era via di scampo! Invece… – Li vedi, Omar, i miei cavalli? – proseguì Scia-krun, gettando il sacco di lana in un angolo. – Sai cosa ho rinchiuso nelle gabbie che vedi sulle loro some? Sai cosa cosa ci sono sotto quei tappeti? Più di cinquecento fennec pronti a trasformarsi in pelli e pellicce! Eh Eh! Eh! – Maledetto! – sussurrò Gellindo a pugni chiusi. – Ladro! – aggiunse Fra’ Vesuvio rosso in viso. – Aspetta che mi capiti a tiro e vedrai che fine ti faccio fare! – minacciò Momò, che però era chiuso in prigione e non poteva dar seguito alla sua minaccia. – In questa parte del deserto – continuò a blaterare il cattivo, – non esiste più un fennec libero… Eh! Eh Eh! Anzi: a dire il vero mi è stato detto che ce n’è ancora uno, un piccolo fennec che finora è sfuggito alla mia caccia… E quel fennec vive sotto il tuo tetto, dico bene Omar? – No, non dici affatto bene… io non ho alcun fennec! – provò a mentire il povero mercante. – Non difenderti con le bugie, sciocco! A Scia-krun non è possibile raccontar balle… Le mie spie mi hanno riferito per filo e per segno con quanta cura tu allevi quella bestiola e adesso le mie guardie andranno
a colpo sicuro e porteranno qui, in piazza, l’ultimo fennec che manca ancora alla mia collezione! Ah! Ah! Ah! Accadde tutto in meno di un minuto: due guardie sbucarono dal nulla, entrarono nella casetta di Omar e uscirono di lì a poco tenendo per le orecchie il povero Alì, che venne consegnato direttamente a Sciakrun. – È ancora giovane, la mia bella pelliccia – sputacchiò con voce roca il perfido, – ma ci penseranno i miei scudieri a nutrirla a dovere e a farla diventare bella grande, pronta a diventare la coperta più preziosa che mai sia stata realizzata! Eh! Eh! Eh! Addio, sciocchi mercanti: il deserto del Sud e infinite ricchezze mi attendono… Scia-krun vi ringrazia per l’attenzione, monta a cavallo e vi saluta! Momò, Gellindo e Fra’ Vesuvio impiegarono quasi l’intera la giornata per convincere i poliziotti del caravanserraglio che loro erano in buona fede e che il povero Omar non c’entrava nulla con i loro guai e quindi non doveva essere multato. Ad attenderli fuori dalla prigione trovarono proprio il buon “Re delle forbici da pecora” che li aspettava in lacrime. – Vi prego, amici! L’avete sentito anche voi: il mio povero Alì per un po’ di tempo rimarrà ancora vivo e io
voglio trovarlo! Devo liberarlo dalle grinfie di quel perfido mostro… Portatemi con voi, vi supplico! Gellindo diede un’occhiata a Vesuvio e a Momò e con un cenno del capo ebbe la loro approvazione: – Non devi affatto supplicarci, mio buon Omar, perché siamo noi a chiederti di unirti alla nostra combriccola per andare incontro al destino che si aspetta! Un abbraccio tra le lacrime fu la risposta del mercante, che corse a
prepararsi un fagotto con le sue poche cose e si fece trovare puntuale all’ora fissata per la partenza. Lasciarono il caravanserraglio al tramonto, i nostri amici. Certo, di lì a poco sarebbe calata la notte e non era consigliabile farsi sorprendere dall’oscurità in pieno deserto, ma la carovana dei cavalli di Scia-krun era partita da mezza giornata e bisognava ritrovarne le tracce quanto prima. L’avventura era solo all’inizio.
3 - La principessa Aida e il Castello di Sale Fiaba di MAURO NERI - Illustrazioni di F ULBER
Provate a pensare al mare immenso che avete visto la scorsa estate. L’avete pensato? Bene! Adesso fate un altro piccolo sforzo è immaginatelo pieno zeppo fino all’orlo di... sale! Ma sì, un’enorme distesa di sale bianchissimo che si perde all’orizzonte... L’avete immaginata? Bravi! Lo sterminato Lago Salato, che Gellindo e gli altri affrontarono a folle velocità a bordo della jeep color argento guidata dall’impavido Momò, assomigliava proprio al “vostro” mare pieno di sale: una pianura smisurata e candida, che all’orizzonte si confondeva con un cielo bianco anch’esso, al centro del quale il sole dardeggiava senza sosta e senza risparmio. – Ma tutto questo bianco è proprio sale? Sale... salato? – domandò incuriosito Fra’ Vesuvio. – Sicuro! Qui molti millenni fa si stendeva il mare, che poi s’è ritirato lasciando però parecchi metri sottoterra gigantesche riserve d’acqua salata – spiegò il mercante Omar. – D’inverno le falde fanno affiorare l’acqua salmastra, che in estate evapora coprendo il terreno con una crosta sale... La quattro-per-quattro sferragliava furente sulla distesa salata, incurante delle buche, delle crepe e dei sassi che qui e là costellavano la sconfinata distesa. I nostri eroi avevano lasciato da appena due ore il Caravanserraglio dei Datteri d’Oro e
stavano viaggiando veloci verso meridione, quando il sole calò all’improvviso e la penombra inghiottì l’immenso lago. – Dobbiamo fermarci – urlò Momò per sovrastare il rumore del motore spinto al massimo. – Ma Scia-krun ci scappa! – si lamentò il povero Omar, che non riusciva a distogliere il pensiero dal suo piccolo Alì, il fennec rapito da quel ladro di pellicce morbide e preziose. – Sarà costretto a fermarsi anche lui, se non vuole sfiancare tutti i suoi cavalli carichi di gabbie, perciò domattina saremo pari come oggi! Viaggiarono ancora per alcuni minuti, dopo di che a un comando silenzioso Momò frenò e spense il motore. – Ci fermiamo qui: ceniamo e poi dormiamo a bordo della jeep! Sarà stato per la posizione scomoda sul sedile posteriore, oppure per le fatiche e le tensioni di quelle prime giornate nel deserto, fatto sta che Gellindo Ghiandedoro dormì poco e male. S’appisolò solo poco prima dell’alba e fece un breve sogno. Nessuno se n’era accorto, ma Giada, la regina della Città di Pietra, viaggiava fin dall’inizio sulla loro jeep chiusa nel bagagliaio! Fu proprio lo scoiattolo ad accorgersene con un colpo al cuore: «Ma guarda un po’... come mai sei nascosta dietro la ruota di scorta?» «Ssshhh! E gli altri che fanno?»
Gellindo si girò a guardare i suoi compagni di viaggio: Momò guidava con gli occhi fissi sulla pista che tagliava con una linea retta l’immenso Lago Salato, mentre Fra’ Vesuvio e Omar s’erano appisolati sul sedile davanti. «Dormono, stai tranquilla! Ma si può sapere perché ci hai seguiti di nascosto?» «Perché mi sono dimenticata di dirvi che dovete fare attenzione agli altri due terribili Predoni Traditori! Uno si chiama Scia-krun, ed è un ladro di fennec...» «Lo so, l’abbiamo già conosciuto purtroppo!» «Il terzo Traditore, invece, ha il potere di leggervi nel cervello e quindi saprà benissimo quel che avete intenzione di fare, ancora prima di farlo! Ma se voi vi rivolgerete a lui parlando in rima, i suoi malefizi nulla potranno contro di voi!» «Vuoi dire che basta rispondergli usando le rime?» «Voi parlate in rima e quel manigoldo non riuscirà a capire quel che avete in testa! Ricordalo, Gellindo: rispondetegli sempre in rima e i vostri cervelli saranno al sicuro! Adesso ti saluto...» «E dove vai?» «Torno alla mia Città di Pietra: è scritto nei libri dei Maghi che io debba attendere il vostro ritorno per festeggiare la liberazione, oppure per piangere la prigionia di tutti noi... Chissà che cosa accadrà, nel nostro futuro... Ciao, Gellindooo!» «Nooo! Aspetta! Giada, aspettaaa...» – Sveglia! Gellindo, svegliati! Stai
tranquillo: Giada non c’è, non urlare... è solo un brutto sogno, adesso passa tutto in un istante! La voce dolce di Fra’ Vesuvio ebbe l’effetto di calmare il povero Gellindo, che aprì a fatica gli occhi e si guardò attorno. Momò si stava stiracchiando al posto di guida; Omar si stropicciava gli occhi e Vesuvio era girato ad accarezzare la coda vaporosa dello scoiattolo spaventato. Gellindo alzò lo sguardo e guardò fuori dal finestrino della jeep: quel che vide lo lasciò senza fiato. Wooommm... un respiro profondo e rumoroso d’un vento irruente scuoteva l’abitacolo del fuoristrada... Wooommm... mentre all’esterno una polvere biancastra... Wooommm... impediva di vedere a cinque centimetri al di là dei vetri dei finestrini. Sei rettangoli bianchi circondavano l’abitacolo, che oscillava... Wooommm... sotto la spinta di un vento feroce. – Ma che cos’è? – domandò Gellindo, dimenticandosi all’istante del sogno di poco prima. – È la famosa “tempesta di sale”! – rispose Momò. – S’è alzata prima dell’alba e ne avremo ancora per alcuni minuti. – E quella polvere bianca là fuori? – Non è polvere, quella: è sale finissimo che il vento alza verso il cielo – spiegò Omar. – Una volta i beduini che abitavano sulle rive del Lago Salato aspettavano impazienti che scoppiasse qualche tempesta di sale,
perché allora innalzavano teli bianchi grandi come vele e catturavano quintali e quintali di ottimo sale ripulito dalle scorie, che poi rivendevano ai nomadi delle montagne del Nord. Omar non riuscì a terminare la sua spiegazione, che... Wooommm... con un’ultima, lunga frustata di vento la tempesta si placò all’improvviso e l’aria polverosa e salata in breve si ripulì. Quel che apparve ai nostri eroi a qualche centinaio di metri dalla jeep ha veramente dell’incredibile. Quel complesso formato da quattro torri tozze e tonde poste sugli angoli di un quadrato, unite tra di loro da un muro alto almeno quindici metri al centro del quale spuntava un palazzo senza finestre e con il tetto merlato, aveva tutta l’aria di essere proprio un... castello! Ma non un castello di sassi squadrati e di tegole scure: quello che si alzava poco distante dal luogo dove la jeep s’era fermata la sera prima era un castello interamente costruito con mattoni fatti col... sale! – Qualcuno si ricorda d’aver visto quel castello, quando siamo ci siamo fermati ieri sera? – mormorò Momò con voce esitante. Omar aprì la portiera e scese dall’auto: – E come facciamo a saperlo? Era buio pesto e avevamo gli occhi pesanti di sonno. Il portone di quel castello di sale era fatto di legno scuro e scricchiolò mentre si apriva girando sui cardini
arrugginiti. Uscì un’ombra vestita di bianco, un fantasma sottile sottile che camminò svelto in direzione della jeep. Omar tornò di corsa nell’abitacolo e porte e finestrini vennero chiusi ermeticamente. Ma non ce n’era motivo, perché... – Non dovete aver paura di me, stranieri – disse quello spirito pallido e dagli occhi spenti, che si rivolse ai nuovi venuti con un sorriso malinconico. – Io sono Aida, la principessa del Lago Salato, e quello è il castello in cui vivo. I nostri amici scesero dalla jeep e circondarono Aida sorreggendola, quando si accorsero che le gambe della poverina stavano cedendo rischiando di farla cadere. Momò prese dal cruscotto una bottiglietta misteriosa e fece bere alla giovane principessa alcune gocce di un liquido trasparente... Aida tossì, ma un po’ di colore le tornò sulle guance e poté riprendere a parlare. – Siete arrivati giusto in tempo, amici miei! Il Lago Salato è in pericolo, il deserto è in pericolo... tutta l’Africa è in pericolo! – E per colpa di chi? – domandò Gellindo Ghiandedoro, che in fondo al cuore già sapeva quale sarebbe stata la risposta. – Voi conoscete i Tre Predoni Traditori? – chiese la ragazza. – Come no! – rispose Momò. – Io in persona ho fatto la conoscenza del
terribile Sim-bal, il ladro d’acqua! – E io ho avuto a che fare con Sciakrun, il malefico rapitore di fennec! – sibilò furioso il povero Omar, che non riusciva a dimenticare il suo piccolo e dolce Alì. Aida attese alcuni istanti prima di parlare. Poi chinò gli occhi, respirò a fondo e... – Io, invece, ho patito mille sofferenze a causa della perfidia di Uadi-karim, il terzo Predone Traditore che si diletta a rapire dromedari! – Hai detto dromedari? – chiese Fra’ Vesuvio. – Sono quegli strani animali con due gobbe, vero? – Con una gobba – lo corresse Momò. – I dromedari hanno una gobba soltanto, a differenza dei cammelli che ne hanno due, e in questa parte di deserto sono molti i nomadi che per lavoro allevano dromedari... – Anche il mio vecchio padre Ismail, il Re del Lago Salato, era proprietario di dromedari – intervenne Aida, – e si vantava di possedere gli esemplari più belli e robusti dell’intero deserto! Aveva cento dromedari dal manto bianco che teneva nelle stalle del nostro castello di sale. La settimana scorsa s’è presentato il malvagio Uadi-karim, che s’è portato via tutti i nostri preziosi dromedari ed ha rapito anche mio padre, che è stato degradato a scudiero. Ve l’immaginate un re condannato a lavorare agli ordini di un malfattore? Un lungo silenzio carico di dolore e di tristi presagi scese sul gruppetto
dei nostri amici. Il primo a rompere quell’atmosfera di malinconia fu Gellindo Ghiandedoro. – Allora fatemi capire. I Predoni Traditori, detti anche “Cavalieri della Notte Nera”, sarebbero tre. Uno si chiama Sim-bal, che dopo aver rapito Abdu Al-Bar, cugino di Fra’ Vesuvio, s’è specializzato nel rubare l’acqua trasformando ogni cosa umida in polvere e sassi. Ha rapito i soldati e il popolo della povera regina Giada e ha caricato sui suoi cento asini tutte le ricchezze della Città di Pietra. E fin qui ci siamo. Il secondo brigante porta il nome di Scia-krun, che viaggia con cento cavalli arabi e s’è specializzato nel rapire i poveri fennec per farne mantelli e coperte preziose. Infine c’è questo Uadi-karim, che ha appena rubato cento dromedari bianchi al povero re del Lago Salato che risponde al nome di Ismail ed è il padre della principessa Aida. – La cosa strana – disse a quel punto la povera ragazza, – è che Uadi-karim non sapeva dove fossero i cento dromedari bianchi, ma dopo aver guardato fisso negli occhi e per alcuni istanti mio padre, ha dato ordine alle sue guardie di entrare nel castello e di far uscire tutta la mandria... Gellindo con un colpo al cuore si ricordò del breve incubo fatto la notte appena trascorsa: «...il terzo Predone riesce a leggervi nel cervello – gli aveva detto Giada in sogno, – e quindi sa benissimo quel che avete intenzione
di fare, ancor prima di farlo...», ma per il momento non disse nulla e... – I Cavalieri della Notte Nera – esclamò lo scoiattolo aprendo lo sportello della jeep, – stanno viaggiando tutti e tre verso Sud, ognuno seguendo piste diverse. Temo, però, che quando si riuniranno chissà dove, in un punto imprecisato del deserto meridionale, il loro potere diventerà catastrofico e terribile, come tre uragani che s’incontrano per formarne uno solo, dieci volte più grande e cento volte più potente... – Purtroppo hai dimenticato una cosa, Gellindo – mormorò Fra’ Vesuvio, che cominciava a pentirsi d’aver risposto con entusiasmo alla richiesta di aiuto di Abdu. – Sim-bal ha rapito il mio povero cugino per un motivo ben preciso: i Predoni Traditori pensano che lui sappia dov’è nascosto un
favoloso tesoro, casse e casse piene d’oro, d’argento e di gemme preziose. Se i tre cattivi s’incontrano, saranno scintille vere: sarà la fine della pace, sarà la fine del deserto e dell’Africa intera, me lo sento! – Be’, allora non perdiamo tempo – sospirò Momò balzando alla guida della jeep. – Tutti a bordo, perché abbiamo già perso anche troppo tempo... – Posso venire anch’io? – sussurrò Aida con uno sguardo timido. – Ma certo, principessa! – esclamò Gellindo con un gran sorriso. – Sarà un vero piacere andare tutti assieme a liberare tuo padre e tutti i vostri dromedari bianchi! Lo scoiattolo non poteva immaginare quel che il destino aveva in mente per loro!
4 - Le navi del deserto e i miraggi burloni Fiaba di MAURO NERI - Illustrazioni di F ULBER
Era proprio senza fine, quel deserto di sale! La jeep color argento viaggiava ormai da alcune ore a massima velocità e il panorama al di là dei finestrini era sempre uguale: bianco candido sotto, celeste chiaro sopra, una distesa piatta e salata tutt’attorno da togliere il fiato. La principessa Aida, il cui padre era stato rapito da Uadi-karim, il terribile ladro di dromedari, aveva lo sguardo perso nel vuoto ed era immersa nei suoi tristissimi pensieri; il mercante Omar sospirava di tanto in tanto con un groppo in gola al pensiero del cucciolo Alì, caduto nelle mani di Scia-krun, il Predone Traditore ladro di fennec. E se Fra’ Vesuvio aveva la testa che rincorreva l’immagine del povero cugino Abdu Al-Bar rapito a sua volta dall’altro malvagio predone Sim-bal, Gellindo Ghiandedoro se ne stava con gli occhi chiusi pensando al suo Villaggio lontano e al Bosco delle Venti Querce lasciato nel cuore della primavera. Fu il buon Momò, col volante stretto tra le mani per tenere in strada la jeep che correva veloce come il vento, ad accorgersi per primo che qualcosa non andava per il verso giusto. E infatti di lì a un paio di chilometri un improvviso rumore di ferraglie gracchianti esplose sotto al cofano, una nuvola di fumo fece sbandare l’automobile e il motore si spense con gran fracasso! – Cos’è stato? – strillò Vesuvio risvegliandosi dai suoi sogni.
– S’è rotto qualcosa? – chiese Gellindo. – È saltato il motore? – buttò lì Omar. – È finita la benzina? – domandò la bella Aida... Momò fermò la macchina sul ciglio della strada, scese, aprì il cofano e... – Mi dispiace, ma qui è andato tutto in malora! – esclamò asciugandosi il sudore dalla fronte. – Non... non dirmi che è scoppiato il motore!! – balbettò Omar, scendendo anche lui dal fuoristrada. Ahi! Ahi! Ahi! Il motore fumava e le cinghie rotte penzolavano dondolando miseramente nel vuoto, i pistoni erano scoppiati, le molle s’erano attorcigliate alle sospensioni e una cascatella di olio nero cadeva sulla pista di sale sotto le ruote. Purtroppo la jeep era inservibile e nei cuori dei nostri amici si stava facendo strada la terribile certezza di dover proseguire a piedi in quella landa desolata! Fra’ Vesuvio era pallido come un lenzuolo: – E adesso che facciamo? I Predoni Traditori stanno tranquillamente viaggiando ognuno per la sua strada verso Sud e noi siamo bloccati qui, in mezzo a questo Lago Salato... Omar non si lasciò travolgere dalla paura: – Carichiamoci le taniche d’acqua sulla schiena e proseguiamo a piedi! Gellindo scosse la testa: – Ci vorranno almeno tre giornate di cammino
per esser fuori da questo deserto di sale... e abbiamo acqua a sufficienza fino a domani sera! La principessa Aida uscì dall’auto, si portò una mano sulla fronte a protezione degli occhi e guardò a lungo verso ovest. Dopo di che allungò un braccio e indicò un punto all’orizzonte: – Malgrado la disgrazia, amici, lasciatemi dire che siamo stati fortunati... Lo vedete quel puntino laggiù, a meno di un’ora di cammino da qui? Quella è la tenda del vecchio Munastir, nomade come mio padre e pure lui allevatore di dromedari. Prendete tutto quel che potete e seguitemi: non sarà difficile farci prestare cinque “navi del deserto”! A Gellindo Ghiandedoro il buon Munastir consegnò il vecchio dromedario Nelson, un saggio animale che sapeva annusare nell’aria il profumo dell’acqua di un’oasi fino a trenta chilometri di distanza! Fra’ Vesuvio montò su un dromedario che rispondeva al nome di Nadir, che aveva la gobba gonfia d’acqua ed era quindi pronto ad affrontare le durezze del deserto. Omar ebbe in sorte il simpatico Alfredo, un animale alto e grosso che pareva una montagna pelosa, ma che camminava con un passo leggero e felpato come se danzasse. Mustafà era il nome del dromedario che si fece dare il buon Momò, mentre Aida montò con agilità in groppa al gio-
vane Gilberto, un piccolo dromedario che scalpitava dalla voglia di mettersi in viaggio. – E questo è Salem – disse Munastir, tenendo alla cavezza un dromedario carico di otri d’acqua e di pacchi di viveri. – Se gli altri saranno le vostre “navi del deserto”, lui sarà la vostra “dispensa” – sorrise l’allevatore, che però tornò subito serio quando si rivolse alla principessa: – Mi raccomando, Aida, dì ai tuoi amici di fare attenzione a quei tre manigoldi, ma riportate a casa tuo padre, il mio buon amico Ismail! Sarà anche un vecchio birbante che vende dromedari più belli dei miei a un prezzo più basso, ma senza di lui il Lago Salato è come una notte senza luna, è come un giardino che ha perso i fiori, è come un’oasi con la sorgente senz’acqua! La carovana partì all’istante cominciando a dondolare sotto al sole al ritmo della cavalcata dei dromedari. Guidati dall’anziano Nelson, le sei “navi del deserto” affrontarono la distesa pianeggiante di sale bollente e un silenzio profondo calò su quella parte di Lago Salato. Sarà stato quel dondolio continuo e monotono, saranno state le emozioni di una giornata cominciata male oppure la stanchezza accumulata in quei primi giorni di deserto, fatto sta che Fra’ Vesuvio s’addormentò in groppa al suo Nadir. A essere sinceri gli parve di dormire per un paio di minuti appena, ma quando si svegliò con la gola secca
per la sete e sbirciò da sotto il fazzolettone che gli fasciava la testa, s’accorse che si era già nel pomeriggio inoltrato. Strizzò meglio gli occhi e guardò in lontananza: quello che vide gli fece fare un salto sul cocuzzolo della gobba di Nadir. Laggiù, sulla linea dell’orizzonte a oriente, c’era il... mare! E cosa ci faceva lì, il mare? – Mi sapete dire perché il mare è arrivato fin qui? – esclamò lo spauracchio alzandosi sulla sella per vedere meglio. – Quale mare? Io non lo vedo – ribatté Gellindo con uno sbadiglio. S’era appisolato pure lui! – Come sarebbe dire “quale mare”! Non la vedi l’acqua e pure la schiuma delle onde? C’è perfino un isolotto con una... due... tre palme da cocco al centro, e una nave che corre via laggiù, sulla sinistra... – Ma stai ancora sognando, vero Vesuvio? – chiese lo scoiattolino un po’ preoccupato. – Onde? Palme? Navi? Io vedo solo il bianco di questo Lago Salato senza fine! – Ecco! Adesso ci sono anche delle montagne, guarda! Là, a destra... E... e... incredibile! – Be’, cosa c’è di così incredibile?! – esclamò Omar avvicinando il suo dromedario a quello dello spauracchio. – Se non sbaglio laggiù davanti a noi c’è un frigorifero pieno di bibite gelate! Aranciate, limonate, orzate, tamarindi, cedrate con tanto buon ghiaccio fresco... Io corrooo! – Nooo! Aspettaaa! – urlò Aida cer-
cando di afferrare la cavezza di Nadir senza riuscirci. Si mise quasi a piangere il nostro Vesuvio quando, giunto esattamente nel luogo dove fino a pochi istanti prima c’era un enorme frigorifero gonfio di bottigliette dolci e gelate, non ci trovò nulla! – Ehi, ma dov’è andato a finire quel ben di dio?! – si lamentò il poveretto, che però venne subito attirato da un’altra novità: a un centinaio di metri in controsole vide una stupenda piscina azzurra che si stagliava sullo sfondo bianco candido del Lago Salato, con tanto di ombrelloni, palloni variopinti, sdraio e trampolino... – Vado a fare un tuffo! – schiamazzò lo spaventapasseri, che mise Nadir al galoppo e, nel frattempo, cominciò a spogliarsi per restare in costume da bagno... Quando prese lo slancio e si gettò dall’alto della gobba del dromedario, s’accorse a sue spese che la sabbia salata era molto, molto, molto più dura e dolorosa dell’acqua fresca di una piscina... – Vesuvio, resta dove sei! – ordinò allora Momò con voce stentorea e ferma. – Ma qui fino a un attimo fa c’era... – C’era un miraggio! – disse l’autista aiutando l’amico a tirarsi in piedi. – Un che cosa? Cos’è il miraggio? – Il miraggio è un frutto della nostra fantasia, caro il mio spauracchietto – rispose Momò. – È il risultato del sole
infuocato sopra questa distesa di sale e delle ombre di calore che vengono mosse dal vento della sera... È uno scherzo della nostra immaginazione, che ci fa vedere mari e montagne, bibite gelate e piscine azzurre là dove non c’è altro che sale e sabbia, sabbia e sale... Insomma: non sono i nostri occhi, a vedere, ma la nostra sete, la nostra fame, la nostra voglia di essere da qualche altra parte... Non sapremo mai se Fra’ Vesuvio aveva capito fino in fondo la spiegazione del paziente Momò. Sappiamo solo che due lacrimucce di delusione disegnarono una strisciolina più scura e umida sulle sue guance coperte di polvere salata. – Non piangere, amico mio – gli disse allora la principessa Aida con un dolce sorriso, – perché da oggi il deserto ha un simpatico beduino nomade in più! Oggi hai avuto il tuo “battesimo dei miraggi” e sei finalmente diventato un vero uomo del deserto! D’ora in poi nulla ti farà più paura e se vedrai in lontananza qualcosa di strano, saprai che non vale la pena correr dietro alle fantasie della sete, della fame e dei desideri. Quel che conta è la realtà dei nostri amici: quelli, non sono un miraggio! Finalmente di lì ad altre quattro ore di dondolio in groppa alle eleganti “navi del deserto” il Lago Salato finì. E lo fece all’improvviso: lì, a meno di un metro, c’era ancora la distesa candi-
da di sale sottile e, fatto un passo, ecco la prima di mille e mille e mille dune di sabbia dorata e finissima. Il fondo cedevole di quella sabbia vaporosa e leggera rallentò la marcia dei dromedari, ma ai nostri amici parve che, sparito il sale, anche la temperatura si fosse fatta meno ardente, un po’ più fresca... In realtà era solo il freddo della notte che avanzava e che si mescolava a un tramonto straordinario, quel che si dice uno spettacolo mozzafiato! Il cielo a occidente prima si fece azzurro cupo, con le nubi che striavano di grigio scuro quello spicchio di volta sempre più intenso e buio. Poi la palla del sole toccò l’orizzonte, s’ingigantì avvampando in un incendio color dell’oro e lo stesso cielo di prima si tinse di bronzo incandescente, che rapidamente si raffreddò e si oscurò fino a sprofondare nel buio della notte. – Ci fermiamo per dormire? – propose Gellindo Ghiandedoro. – No, andiamo ancora avanti! – rispose Aida, che in quella parte di deserto si ritrovava come fosse nel giardino del suo castello di sale. – Proseguiamo ancora per qualche minuto, finché non troveremo un fuoco beduino! Fu bravo il dromedario Nelson a intercettare e a seguire l’odore del legno bruciato: camminarono ancora per quasi un’ora, finché dietro al crinale di una duna apparvero tre tende con un grande fuoco acceso al centro.
– Fermi là... chi siete! – esclamò un’ombra scura che si materializzò dal nulla stringendo in mano una torcia. Era un giovane nomade dai capelli lunghi e neri. – Sei il beduino Feisal? – chiese Aida dall’alto del dromedario Gilberto. – E tu chi sei, che conosci il mio nome? – rispose quell’altro. – Se è per quello conosco anche i nomi dei tuoi fratelli, il forte Hassan e Saad il gentile... Io sono la principessa Aida, figlia di Ismail Re del Lago Salato. Nell’udire quelle parole il giovane misterioso lasciò cadere la torcia e s’inginocchiò piegando la testa fino a sfiorare la sabbia. – Alzati, mio buon Feisal – gli ordinò la principessa, – alzati e recupera il fuoco: io e i miei amici siamo stanchi, abbiamo fame e sete e soprattutto vorremmo risposare alcune ore al riparo delle vostre tende... – Tutto quel che possediamo io e i miei fratelli sono tuoi, mia adorata principessa – esclamò il ragazzo afferrando la cavezza di Gilberto. – E perdonami se non ti ho subito riconosciuta, ma sono giorni difficili, questi, per il nostro deserto... – Difficili perché? – chiese Gellindo Ghiandedoro. – Pare che le forze del Male abbiano deciso di uscire dalle loro tane e di ritrovarsi in un luogo misterioso a meridione per unire le loro forze e dare l’assalto a questo bellissimo deserto... – Sappiamo ogni cosa Feisal – disse
la principessa Aida. – Siamo qui per questo e gli amici che vedi con me ci aiuteranno a sconfiggere gli incantesimi dei Tre Cavalieri della Notte Nera... – Dopo un attimo di esitazione la ragazza proseguì parlando sottovoce: – Sai dirmi dov’è la maga Sabira? Abbiamo urgente bisogno dei suoi consigli... Feisal tacque finché non furono arrivati al fuoco e alle tre tende. Aiutò Aida a scendere dal dromedario e la condusse vicino al falò. Le fiamme dorate gli illuminavano gli occhi scuri e gonfi di lacrime: – Sabira, la sciamana del deserto, è dappertutto e in nessun luogo. Preghiamo assieme la Notte e forse lei verrà. Il ragazzo s’inginocchiò sulla sabbia, appoggiò le mani a terra, si chinò fino alla fronte e intonò una nenia dolce e struggente. Dalle tende uscirono altri due giovani nomadi... quello forte e robusto doveva essere Hassan, l’altro più magro e minuto era senz’altro Saad... che si avvicinarono, s’inchinarono deferenti alla principessa e cominciarono anche loro a cantare in coro quella preghiera strana... Se da un lato Fra’ Vesuvio, Momò ed Omar s’addormentarono di colpo sopraffatti dalla stanchezza, dall’altro Gellindo e Aida s’accovacciarono accanto ai dromedari e attesero che la melodia facesse arrivare Sabira, la misteriosa sciamana del deserto. Che raggiunse le tende e il fuoco due ore dopo, a mezzanotte in punto.
5 - La profezia di Sabira e la tempesta di sabbia Fiaba di MAURO NERI - Illustrazioni di F ULBER
Non si può dire che la maga Sabira giunse provenendo da qualche altro luogo: accadde che Aida e Gellindo si voltarono contemporaneamente sentendo un’improvvisa ventata leggera e tiepida e lì, accucciata accanto al fuoco, videro una donna vestita di bianco dalla testa ai piedi e con un velo altrettanto candido che le copriva il volto, lasciandole liberi solo gli occhi. Gellindo non aveva mai visto gli occhi di una maga: quelli della donna misteriosa erano neri, lucenti, profondi, seri ma anche molto, molto buoni. – Salve, straniero – mormorò la sciamana bianca con una voce tremante da anziana, chinando il capo verso lo scoiattolino. – Ciao, mia bella Aida – continuò voltandosi a guardare negli occhi la giovane principessa del Lago Salato. – Mia dolce Sabira, noi tutti ti salutiamo – disse Aida, che sapeva bene con quali parole ci si doveva rivolgere a una maga – e ti auguriamo di tutto cuore che il ghibli, lo scirocco del sudest, rimanga lontano dalla tua casa, e che lo shimun, il vento che soffia dalle dune, non faccia piangere i tuoi bellissimi occhi, mia adorata Sabira... La donna assentì, giunse le mani all’altezza della fronte e si chinò in segno di ringraziamento. Poi... – Io so il vero motivo della vostra venuta qui, nel cuore della mia casa – disse la sciamana parlando sottovoce e osservando incantata le fiamme del falò che danzavano nell’aria nera della
notte. – So che state inseguendo le forze del Male, i tre terribili Predoni Traditori che si son dati appuntamento nel cuore dell’Africa... Sono potenti, quel malvagi: hanno dalla loro la forza dell’inganno, la perfidia della violenza, la crudeltà della magia nera e tanta, tanta intelligenza usata per far del male agli altri... E voi siete venuti dalla maga Sabira, condotti fin qui dalla buona Aida, per sapere il nome del luogo nel quale Sim-bal il ladro d’acqua, Sciakrun il ladro di fennec e Uadi-karim il ladro di dromedari riuniranno le loro malvagità per andare alla conquista dell’intero deserto. – La donna si alzò con un’agilità inaspettata, prese per mano Gellindo e Aida e... – Scendete con me nella mia casa e avrete tutte le risposte... “Scendete”? Gellindo capì subito che effettivamente, per entrare nella casa della maga, bisognava “scendere” sotto la sabbia del deserto: Sabira infatti aprì una grande botola di legno e cominciò a scendere giù per una lunga scala scavata nel terreno che precipitava nel buio per una trentina di scalini, in fondo ai quali si arrivava un piccolo cortile a cielo aperto, cinque-sei metri sotto al livello della sabbia. Sul cortiletto illuminato da due torce appese alle pareti si aprivano tre, quattro... cinque porte, scavate anch’esse nella roccia friabile del deserto. – Le prime due porticine – spiegò l’anziana donna, – portano alle stanze delle mie ancelle, alla cucina, alla
dispensa e al deposito dell’acqua. La terza porta è quella della sala da pranzo in cui ricevo gli ospiti, mentre la quarta conduce nel mio appartamento... – E l’ultima? – si lasciò scappar detto Gellindo, accorgendosi troppo tardi che la sua curiosità poteva anche non essere gradita. Sabira sorrise, s’inginocchiò per essere ad altezza di scoiattolo e... – Hai ragione, mio piccolo Gellindo: dopo avervi detto dove conducono le prime quattro porte, devo parlarvi anche della quinta... Là dietro c’è una piccola stanza tonda in cui mi ritiro quando ho bisogno di pensare, quando devo cogliere il senso delle cose, quando qualcuno come voi mi chiede di violare i segreti del futuro... Venite con me e saprete ogni cosa! Sabira aprì la quinta porta e fece entrare Aida e Ghianded oro nella stanzetta circolare: là dentro c’erano solo alcuni tappeti stesi a terra e la fiammella di una minuscola lanterna ad olio al centro. La maga si sedette incrociando le gambe e invitò i due amici a fare altrettanto... Poi chiuse gli occhi e rimase in silenzio a lungo: dopo almeno mezz’ora di pace assoluta e totale, Sabira cominciò lentamente a dondolare il busto avanti e indietro, mentre le mani si muovevano nell’aria disegnando strane figure. E alla fine parlò... – A partire da domani all’alba dovrete viaggiare verso sud per dieci giri di sole, fermandovi a riposare solo sei ore
per notte. Saranno i vostri dromedari a seguire la bussola che hanno nella testa: fidatevi di loro e non vi perderete. Allo scoccare del decimo giorno giungerete in vista dell’Oasi dello Zafferano: cercate allora il mio vecchio amico Jamil, coltivatore di palme da dattero, e chiedetegli che vi conduca alla Città bianca persa nel cuore del deserto più profondo... È là, fra le candide mura di quella città, che i tre cattivi Predoni Traditori si daranno appuntamento ed è là che voi dovrete affrontarli... Ci volle tutta la mattina del giorno dopo per raccontare al mercante Omar, al buon Momò e a Fra’ Vesuvio quel che s’erano persi nella casa sottoterra della maga Sabira. – Ma perché non ci avete svegliati? – si lamentò Momò. – E tu pensi che non ci abbiamo provato? – esclamò ridendo Gellindo aggrappato alla sella di Nelson, il dromedario-guida che procedeva spedito fra le dune di sabbia. – Aida ed io abbiamo urlato, vi abbiamo scosso, tirato i capelli, soffiato nel naso, ma dormivate di sasso che nemmeno mille cannonate vi avrebbero svegliato! – D’accordo, eravamo stanchi morti – si giustificò il mercante Omar, – ma cos’è questa storia dei dieci giri di sole? Dobbiamo farci guidare dal tuo Nelson per dieci giorni, finché arriveremo nell’Oasi dello Zafferano? – Certo – rispose Aida; – laggiù cercheremo un coltivatore di palme da
dattero di nome Jamil e lui ci condurrà alla Città bianca, dove... ecco... – Lascia perdere – intervenne in suo soccorso Fra’ Vesuvio. – Sappiamo tutti quel che accadrà laggiù... Da un istante all’altro – il tempo per lo spauracchio di pronunciare la parola “laggiù” – e l’aria bollente del deserto si mosse all’improvviso, una folata ardente schiaffeggiò in viso i nostri amici, fece barcollare i dromedari e sollevò miliardi e miliardi di granelli di sabbia fine, che si trasformarono in tante punte di frecce appuntite e dolorose. Fu Omar il primo a reagire. – Attenzione, questa è una tempesta di sabbia! Fra’ Vesuvio aveva sentito parlare delle famose tempeste del deserto, ma mai avrebbe immaginato che scoppiavano così rapidissime, oscurando in un baleno l’orizzonte, coprendo il sole con una nube gigantesca di sabbia e gettandosi a capofitto su qualsiasi cosa in movimento., – Leghiamoci uno all’altro con le corde – strillò Aida per farsi sentire al di sopra del rombo del vento, e le cavezze vennero legate in una lunga catena: Nelson con Gellindo in testa, Nadir subito dietro con in groppa Fra’ Vesuvio e poi, via via, tutti gli altri: il dromedario Alfredo con il mercante Omar, Mustafà con Momò aggrappato alla sua gobba, il giovane Gilberto con Aida che chiudeva la fila tenendo ben stretta in mano la cavezza di Salem, il dromedario che portava i pacchi delle
riserve d’acqua e di viveri. – Ma non sarebbe il caso di fermarsi? – propose Gellindo, spaventato dalla sabbia che il vento lanciava con forza contro il povero Nelson. – Chi si ferma è perduto! – urlò di rimando Momò. – Saremmo sommersi dalla sabbia portata dal vento e verremmo inghiottiti dalle dune! No no, proseguiamo la marcia: copriamoci gli occhi e avanti! Non ci si ferma, quando c’è una tempesta di ghibli! Ghibli? Allora era quello, il feroce vento di sud-est? Lo scirocco che soffiava caldo e impetuoso? Il vento che in poche, pochissime ore riusciva a ridisegnare l’intero deserto, con nuove dune, nuove piste, nuovi trabocchetti? La tempesta di ghibli s’accanì con forza soffiando in faccia alla piccola carovana tutto il suo furore, ma purtroppo le cose peggiorarono quando alle spalle dei nostri amici si alzò lo shimun, il vento altrettanto caldo delle dune, che andò a cozzare contro il nemico ghibli. I due venti s’attorcigliarono nell’aria piena di sabbia, crearono un vortice terrificante che afferrò uno dopo l’altro i dromedari, li sollevò in alto verso il cielo e se li portò via con tutto il carico di paura, di pianti e di strilli che avevano sulle groppe! La carovana venne rapita da quella doppia tempesta, insomma, e trascinata a forza verso il cielo di sabbia dorata che vorticava impazzito in ogni direzione: ululava il ghibli, mugghiava
lo shimun ed entrambi facevano a gara a chi fosse il più forte, il più sfrontato, quello che volava più veloce e più in alto... Atterriti da tanta violenza, i nostri poveri amici si tenevano stretti alle selle dei rispettivi dromedari, in balìa di quella forza della natura e prigionieri di quell’uragano di vento e di polvere sabbiosa che li stava trasportando chissà dove... Ci vollero un paio d’ore prima che l’impeto del ghibli e la furia dello shimun calassero piano piano e i dromedari toccassero terra, riprendendo imperterriti a trotterellare dietro al forte Nelson con i loro carichi preziosi sulle gobbe, come se nulla di strano fosse successo. – Come facciamo adesso a sapere se per caso la tempesta di sabbia ci ha fatto deviare e ci ha portati nella direzione sbagliata? – chiese preoccupato Fra’ Vesuvio. Fu la principessa Aida a rispondere: – Sta’ tranquillo, ci penserà Nelson a ritrovare la strada giusta... Infatti il vecchio dromedario aspettò che tutta la sabbia ricadesse a terra, allungò poi il collo e annusò l’aria ai quattro punti cardinali. Tanto per essere sicuro riannusò una seconda volta alla sua destra agitando ben bene le froge, si girò in quella direzione e s’avviò al trotto riprendendo la sua danza buffa e leggera. E gli altri gli andarono dietro.
I nostri amici avanzarono nel deserto giorno dopo giorno, da prima dell’alba fino a dopo il tramonto, riposando esattamente sei ore per ogni notte, così come aveva loro indicato la maga Sabira. Mangiavano, bevevano e dormivano ognuno sempre in groppa al proprio dromedario, fidandosi dell’istinto del buon Nelson ma covando in fondo al cuore più di un dubbio. D’accordo, stavano andando proprio verso sud, ma erano esattamente nella direzione dell’Oasi dello Zafferano? E se il vecchio Nelson si sbagliava? Sarebbe stato sufficiente allontanarsi dall’itinerario anche di un solo metro per ritrovarsi di lì a cinque-sei giorni fuori rotta di trenta, quaranta chilometri! L’unica a rimanere tranquilla e serena era la bella Aida, che distribuiva a tutti un sorriso, un biscotto addolcito col miele e una buona parola: – Sta’ tranquillo, Vesuvio: se Sabira ci ha detto che dobbiamo fidarci dell’istinto dei nostri dromedari, vedrai che andrà tutto bene! – Ma ti rendi conto di che cosa succederà – le rispose affranto il povero spauracchio, – se arriveremo alla Città bianca troppo tardi? Io, laggiù, ho mio cugino Abdu Al-Bar... – Ed io ho mio padre Ismail, ed Omar ha il suo fennec Alì, e Momò ha tutto il suo popolo prigioniero di Sim-bal! – Come vedi, siamo tutti sulla stessa barca, Vesuvio! – esclamò Gellindo con un sorriso di incoraggiamento. –
Una barca che naviga sulla sabbia, ma che prima o poi attraccherà nel porto giusto, vedrai! All’improvviso il settimo giorno, verso metà pomeriggio, Nelson ebbe un sobbalzo, abbandonò il lento trotto e rispondendo a un misterioso e silenzioso comando cominciò a galoppare sulla sabbia di una pista che zigzagava fra dune altissime. – Piano, Nelson! Torna al passo! – urlò Gellindo afferrando le briglie per frenare l’animale, che invece accelerò e si mise a correre come un forsennato seguito dagli altri dromedari impazziti anch’essi. La carovana ebbe un’accelerazione folle e le urla dei passeggeri spaventati rimbalzarono su per i fianchi delle dune che salivano a coprire l’intero orizzonte. Nelson e gli altri corsero per almeno un paio d’ore, sbavando per la fatica e traballando pericolosamente ad ogni curva, finché si fermarono ansimanti in cima a una salita lunghissima, proprio sul crinale di una duna immensa. Laggiù davanti a loro, ai piedi della duna e a meno di cinque minuti di strada, si stagliava un grande palmeto illuminato dal sole quasi al tramonto. Al centro dell’oasi si distingueva un laghetto e una sorgente che gorgogliava allegra da alcune rocce: beduini, nomadi e mercanti erano raccolti in una
piccola piazza al centro d’un villaggio di mattoni chiari. – Riesci a leggere quel cartello laggiù? – disse Gellindo rivolto ad Aida. – È scritto in arabo, ma dovrebbe essere il nome dell’oasi... Aida strizzò gli occhi per vederci meglio e infatti lesse: – Zafferano! Siamo arrivati all’Oasi dello Zafferano, amici! Un attimo di stupore percorse l’intera carovana. Il primo a riprendersi fu Gellindo: – Ma come: oggi è solo il settimo giorno, ne abbiamo ancora tre di viaggio da fare, e siamo già alla meta? Ma com’è possibile? Non può essere la nostra oasi, quella! – E invece sì – gli rispose Omar saltando giù dal dromedario, afferrando la cavezza e avviandosi a piedi. – Siamo già arrivati all’Oasi dello Zafferano, perché evidentemente la tempesta di sabbia ci ha trasportati molti più verso meridione di quel che immaginavamo! Dobbiamo ringraziare quel vento, se abbiamo guadagnato tre giorni di viaggio! Era chiaro che Omar aveva ragione, era evidente che la tempesta li aveva spinti in avanti d’un bel po’, e quindi... «Grazie ghibli!» pensò Gellindo Ghiandedoro. «Grazie shimun!» aggiunse sottovoce Fra’ Vesuvio.
6 - Fra’ Vesuvio s’innamora nel Deserto di Roccia Fiaba di MAURO NERI - Illustrazioni di F ULBER
Il giovane Jamil, coltivatore di palme da dattero nell’Oasi dello Zafferano, era un “Tuareg” e, come tutti quelli del suo popolo, si difendeva dal sole e dalla sabbia sollevata dal vento coprendosi la testa e il volto con un turbante azzurro. Non ci volle molto per trovarlo. L’oasi era niente in tutto: una sorgente che dava vita a un laghetto d’acqua tiepida, una corona di casette in mattoni cotti al sole e tutt’attorno una piantagione di palme di proprietà, appunto, del nostro Jamil. – Se la mia amica Sabira vi ha mandati da me – disse il giovane alto e snello, vestito con una tunica bianca e che portava alle dita grossi anelli d’oro, – da questo momento siete miei amici anche voi. Venite nella mia casa, dove potrete lavarvi la sabbia di dosso, mangiar qualcosa di buono e riposarvi dalle fatiche del deserto... La casa che Jamil aveva costruito nel cuore del suo palmeto era servita da un seconda sorgente più piccola, la cui acqua però si versava in una grande fontana: quasi fosse una piscina, Momò, Gellindo, Omar e Fra’ Vesuvio vi si tuffarono allegri, ridendo e urlando, mentre la bella Aida sparì con le donne di casa nelle stanze interne. Tra un tuffo e l’altro, fra uno sghignazzo e uno scherzetto con l’acqua, Gellindo Ghiandedoro pensò bene di informarsi su quel che li aspettava e interrogò Jamil, che stava mettendo sulla tavola all’aperto del buon cus cus
alle verdure cotte: – La maga Sabira ci ha detto che tu potrai condurci alla Città bianca... Che cos’è questa città? Perché si chiama così? – Se non sbaglio – rispose il giovane proprietario di palme da dattero, – fino ad ora avete attraversato il “deserto di sale” e il “deserto di sabbia”. Vi manca allora il terzo deserto, forse quello più duro e faticoso, il “deserto di roccia”! Bene: la mia oasi è situata proprio sul limitare dell’immenso deserto roccioso che si stende verso occidente fino al di là di dove tramonta il sole. Noi domani andremo proprio in quella direzione, camminando tra picchi rocciosi alti come minareti di città, scalando montagne vertiginose e scendendo lungo immense frane di macigni d’ogni misura... Omar e gli altri avevano smesso di giocare e se ne stavano in silenzio ad ascoltare con occhi seri. – Cammineremo per sei giorni sotto il sole cocente e non troveremo alcuna oasi: sarà come se fossimo sulla Luna, abbandonati a noi stessi e potendo contare solo sulle nostre forze e sull’acqua che riusciremo a portare con noi. Ma non preoccupatevi: sei giorni fanno presto a passare e all’alba del settimo entreremo finalmente nella stretta “Valle degli Scorpioni Assetati”... Un brivido di terrore corse giù per le schiene dei nostri eroi. – Percorreremo quel canyon fino in fondo e sbucheremo in uno slargo dove si trova la Città bianca, un castello co-
struito con mattoni di sabbia candida cotti al sole: è un castello abbandonato da molti anni, però, e non riesco a capire perché dovete andare proprio fin lì... Fu Momò a rispondere e in poche parole gli fece un riassunto della loro storia. Parlò di Sim-bal, il Predone Traditore che aveva risucchiato tutta l’acqua della Città di Pietra, facendo prigionieri i sudditi del regno della regina Giada; gli raccontò del perfido Scia-krun, che aveva rubato al mercante Omar il suo piccolo fennec Alì; gli disse infine di Uadi-karim, il terzo Predone malvagio, che aveva rubato cento dromedari alla povera Aida, portandosi via anche suo padre Ismail... – Sabira ci ha detto che i Tre Predoni Traditori si ritroveranno proprio nella Città bianca e lì uniranno le loro forze per andare alla ricerca di un favoloso tesoro d’oro, d’argento e di pietre preziose grazie al quale potranno impadronirsi dell’intero deserto africano... – E sembra – aggiunse Fra’ Vesuvio trattenendo a stento le lacrime, – che mio cugino Abdu conosca il luogo in cui è nascosto il tesoro e proprio per questo è stato rapito da Sim-bal! Jamil rimase in silenzio per alcuni istanti. Poi si riscosse e... – Venite, amici! Sediamoci, ceniamo in pace e lasciamo al domani tutte le preoccupazioni! A quel punto accadde una cosa stra-ordi-na-ria! In-cre-di-bi-le!
Jamil si girò verso la porta della cucina di casa sua e... – Zaira, ci porti per favore un po’ di tè? – Arrivo subito! – rispose una voce femminile. Passarono solo cinque secondi e dalla casa uscì saltellando una spaventapasseri che portava un velo sul volto e indossava una tunica lunga e chiara che copriva un paio di pantaloni di stoffa leggera. Ai piedi indossava pantofoline rosso fuoco con la punta rivolta verso l’alto Una spauracchia nel cuore del deserto? E che ci faceva lì, una spaventapasseri? A Fra’ Vesuvio andò di traverso il primo boccone di ottimo cus cus e dovette bere subito un bicchiere colmo di tè per calmare la tosse. Fu Gellindo Ghiandedoro, allora, a farsi curioso e anche un po’ indiscreto... – Jamil – sussurrò lo scoiattolino, – ma Zaira è proprio una spaventapasseri? – Certo – esclamò ridendo il tuareg, – lavora per me in cucina, ma è una spaventapasseri in tutto e per tutto! – Non dirmi che ci sono dei passeri, nella tua oasi! – D’accordo, l’Oasi dello Zafferano è piccola, ma se vi guardate bene attorno ci sono fagiani, quaglie e potreste vedere anche passerotti e rondoni di passaggio. Insomma, di lavoro per gli spauracchi ce n’è, eccome! Zaira, però, abita a casa mia perché è una cuoca eccezionale... È la miglior cuoca di tutto
il deserto, ve l’assicuro! Zaira arrossì nel sentire tutti quei complimenti, ma nessuno se ne accorse, per via del velo che le copriva il volto. – Pia... piacere, io mi chiamo Fra’ Vesuvio! – balbettò il nostro amico, il cui rossore sulle guance, invece, lo si vedeva eccome! – Fra’ sta per Franco, che poi sarebbe il mio nome, mentre “Vesuvio” è solo un soprannome che mi hanno dato gli amici, visto che io sono nato a Napoli... – Ed io sono Zaira – rispose la bella spaventapasseri servendo il tè agli altri ospiti. – Lo sapete che vuol dire “Zaira”, in arabo? – chiese Jamil. Momò ed Omar, per cortesia nei confronti dei loro amici, non risposero. – Significa “raggio di sole”, oppure “splendida come la luce”... Vesuvio per quella sera smise di mangiare e se ne stette lì, col gomito sul tavolo e la guancia appoggiata al palmo della mano, ad ammirare quell’improvviso fascio di luce, quella bellezza misteriosa che saltellava di qua e di là per il cortile a portar altro cibo e a riempire i bicchieri di tè. Quando finalmente scese la notte e venne l’ora di andare a nanna, Jamil si congedò dai suoi amici raccomandando loro di addormentarsi subito, perché all’indomani bisognava prepararsi per la partenza. Zaira accompagnò gli ospiti nelle stanze loro assegnate e, pri-
ma di congedarsi, con gli occhi fece un sorriso e poi un piccolo inchino indirizzati al buon Vesuvio, che con un colpo al cuore di paglia smise di aver sonno e dovette appoggiarsi alla parete per un improvviso... capogiro d’amore! Quella notte l’Oasi dello Zafferano venne visitata da un’ombra misteriosa. Mentre tutti dormivano rannicchiati sotto le coperte – dovete sapere che il deserto di notte sembra scordarsi del solleone che di giorno fa ardere la sabbia e piomba invece in un gelo da far rabbrividire la pelle e battere i denti – ecco che dall’oscurità emerse un dromedario bianco come il sale che leggero leggero s’avvicinò alle palme. In groppa un misterioso beduino si teneva stretto alla cavezza e guidava l’animale con piccoli e sapienti colpi di ginocchio. Se n’intendeva, lui, di dromedari! All’altezza della grande fontana, l’ombra scivolò a terra e senza far rumore si diresse ai dromedari che avevano trasportato fin lì i nostri eroi... ve li ricordate i nomi, vero? Nelson era il più anziano, Gilberto il più giovane, Alfredo il più grosso, Nadir aveva sempre la gobba gonfia d’acqua e poi c’erano Mustafà e Salem, quest’ultimo addetto al trasporto dell’acqua e dei viveri... Il fantasma uscito dalla notte infilò una mano in tasca, tirò fuori un sacchetto di stoffa, lo aprì e prese una manciata di quel che pareva del sem-
plice sale, che divise equamente fra i sei dromedari. Bisogna dire che gli animali gradirono quel dono inaspettato, in segno di ringraziamento leccarono la mano dello sconosciuto e si rimisero a dormire. L’ombra tornò al suo dromedario bianco, montò in groppa con un salto, afferrò le redini e se ne andò da dov’era venuto, sparendo in pochi istanti nel buio della notte gelida. – Carichiamo gli otri e i pacchi e partiamo! – ordinò Jamil il mattino dopo dall’alto del suo dromedario. Aiutati dalla gente di casa, i nostri amici salirono in groppa ai rispettivi animali, diedero un’ultima occhiata alla bella Oasi dello Zafferano e il viaggio riprese. Ma gli addii non erano finiti. – Vesuvio! Ciaooo... Fra’ Vesuvio... Ciaooo! Era la voce di Zaira, quella: lo spauracchio si girò e vide la sua amica, in piedi sull’orlo della fontana, agitare un fazzoletto rosso in segno di saluto. Vesuvio balzò giù dal dromedario, tornò di corsa all’oasi, afferrò il fazzoletto, lo infilò in tasca e... – Torno presto, Zaira, te lo prometto... e quando ci rivedremo avrò qualcosa da chiederti! «Anch’io avrò delle cose da dirti» pensò tra sé la giovane spauracchia con un dolce sorriso che però nessuno vide, coperto com’era dal velo sul volto. La carovana dondolante delle “navi del deserto” si lasciò alle spalle le dune
sabbiose ed affrontò col cuore in gola quella terribile distesa di pietre. Per fortuna mille e mille carovane avevano disegnato un viottolo fra i picchi e lungo i valloni: seguendolo si era sicuri di evitare i passaggi più pericolosi, ma bisognava continuamente controllare di essere nella direzione giusta. – Per non perderci – disse Jamil alla sosta di metà mattina, – fate sempre attenzione di avere il sole alle spalle fino a mezzogiorno e di averlo davanti agli occhi nel pomeriggio fino a sera... Il paesaggio non era più quello monotono e glaciale del deserto salato e nemmeno quello morbido e dorato del deserto di sabbia: il deserto di roccia era il trionfo dell’imprevedibile, perché pareva che in quella parte di mondo la Natura avesse dato libero sfogo a tutta la sua fantasia. Le rocce, i picchi e i macigni scolpiti dal vento avevano le sembianze di volta in volta di dinosauri, di navi in balia delle onde, di mostri con artigli terribili, di diavoli con gobbe pazzesche, di creature deformi pronte ad assalire i poveri viaggiatori... A quel punto Gellindo inventò il “gioco del deserto di roccia”, e lo fece per alleggerire l’atmosfera di quel viaggio cupo e pieno di cattivi presagi. – Io adesso dico il nome di un animale – propose lo scoiattolo, – e vince un punto chi riesce a vedere per primo una roccia, un macigno, un picco che assomiglia a quell’animale. D’accordo? Bene... io dico... “pavone”! Aida, Momò, Vesuvio ed Omar si
guardarono attorno osservando con cura i profili delle rocce. Passarono solo tre-quattro minuti, dopo di che Momò urlò felice: – Laggiù, il secondo picco alla nostra destra... non sembra il collo di un pavone con la coroncina in testa? – Hai ragione! – sentenziò Gellindo – Un punto per Momò. Adesso dico... “cane”. – Io! Io! – urlò immediatamente Fra’ Vesuvio. – L’ho visto... cinque minuti fa, laggiù dietro di noi! È vero, Aida? L’avevi visto anche tu... – D’accordo, d’accordo – esclamò Gellindo con un sorriso. – Ti crediamo e diamo un punto anche a te! Adesso cercate un... “elefante”! Eh, quello era veramente difficile... Un elefante di sasso nel deserto roccioso? Impossibile... E invece... – Ehi, guardate su quella roccia! – urlò Omar indicando un’enorme lastra rocciosa sulla loro sinistra. – Non è un elefante, quello scolpito lassù? La carovana si fermò, Jamil e gli altri scesero a terra e s’avvicinarono al macigno sulla cui faccia qualcuno aveva scolpito i contorni di un vero e proprio elefante, con tanto di proboscide, di zanne lunghissime e di orecchie a sventola. – Ma com’è possibile? – mormorò incredulo Gellindo. – Io non pensavo che nel deserto ci fosse qualcuno che si diverte a fare lo scultore! – E guarda che bell’elefante – aggiunse Aida, estasiata di fronte a quelle
linee precise che riempivano la lastra di roccia. Fu Jamil a dare una spiegazione al mistero. – Molti millenni di anni fa – spiegò proprio come se fosse un maestro che parla ai suoi alunni, – questa parte di deserto era in realtà un’immensa foresta bagnata dal mare e attraversata da grandi fiumi. Qui vivevano molte tribù di uomini che, per celebrare le loro divinità o i loro eroi, oppure per ricordare gli animali uccisi durante le stagioni della caccia, scolpivano queste figure sulle rocce più lisce... Sono documenti preziosissimi, questi, che ci aiutano a capire come vivevano un tempo i nostri bis-bis-bisnonni... – Insomma – disse Fra’ Vesuvio, – è come se quegli uomini antichi avessero “fotografato” sulle rocce le cose più importanti della loro vita! – Bravo – esclamò Jamil, – hai proprio reso l’idea. Ma adesso rimontiamo in groppa ai dromedari, ché non possiamo perdere troppo tempo. I nostri amici si voltarono per tornare ognuno al proprio animale e videro una cosa pazzesca, che li lasciò senza fiato e a bocca aperta! Nelson, Nadir, Alfredo, Mustafà, Gilberto, il dromedario senza nome di Jalim e gli altri due che servivano per portare le vettovaglie assieme al buon Salem, erano accovacciati a terra... addormentati! – Ehi, sveglia, poltroni! – urlò Jalim strattonando gli animali.
– Su forza, che dobbiamo ripartire! – strillò Omar tirando le cavezze. – La volete piantare di dormire proprio adesso? – li rimproverò Momò... Ma non ci fu nulla da fare: sembrava che i dromedari si fossero trasformati in vere statue di sasso e dormivano russando senza udire i richiami dei loro padroni! Non rimase altro da fare
che piantare il campo lì, all’ombra di quell’antico elefante, per trascorrere la prima notte nel deserto di roccia... Nascosto dietro a un picco lì vicino un’ombra misteriosa che assomigliava a quella che abbiamo già conosciuto la notte prima all’Oasi dello Zafferano sorrideva soddisfatta, ghignando sottovoce.
7 - Olaf il Vichingo e la mongolfiera dai mille colori Fiaba di MAURO NERI - Illustrazioni di F ULBER
Rimasti appiedati a causa del misterioso sonno che aveva messo al tappeto i loro dromedari, Fra’ Vesuvio, Gellindo Ghiandedoro e gli altri dovettero rassegnarsi e proseguire a piedi, affrontando le insidie del terribile deserto di roccia. – Ma non è pericoloso lasciare questi poveri animali soli nel deserto? – chiese Gellindo. – Nient’affatto – rispose Jalim, il coltivatore di palme da dattero. – Se, quando si risvegliano, si ritroveranno la gobba ben gonfia d’acqua, potranno resistere anche alcune settimane e troveranno da soli la strada che li riporterà all’oasi! Era chiaro però che, dovendo procedere a piedi e solo nelle ore meno calde del giorno, i nostri eroi avanzavano molto lentamente, zigzagando a fatica fra le guglie rocciose ed evitando a costo di lunghi giri gli improvvisi burroni scavati da antichissimi fiumi. Ben presto lo scoraggiamento cominciò a serpeggiare nella piccola carovana di beduini appiedati. – Ma non era meglio aspettare che i dromedari si svegliassero? – si lamentò il mercante Omar scalando l’ennesima frana di massi bruciati dal sole. – Già – gli rispose Fra’ Vesuvio, – perché secondo te i Predoni Traditori sono così buoni e pazienti che aspettano i nostri comodi, vero? – Magari, però, quel sonno misterioso sarebbe sparito di lì a qualche ora e adesso saremmo tutti in groppa ai nostri dromedari diretti felici e con-
tenti alla Città bianca – esclamò Momò bevendo un piccolo sorso d’acqua dalla sua borraccia. – Il deserto non perdona le incertezze, amici miei – intervenne allora Jalim, cercando di tranquillizzare i suoi compagni d’avventura. – Restarsene fermi sotto al sole o al freddo della notte ad aspettare che i dromedari si sveglino, avrebbe significato perdere troppo tempo, a tutto vantaggio dei malvagi Predoni. No no: abbiamo fatto bene a partire a piedi, anche perché nel deserto non si sa mai quel che può accadere... Quasi fosse stata la mano di uno scrittore a scrivere quella storia, proprio nell’istante in cui Jalim terminò di parlare, una voce che proveniva da chissà dove urlò: – Ehi, voi: volete un passaggio? Vesuvio, Gellindo, Jalim, Momò, Omar e Aida si guardarono attorno, scrutando fino all’orizzonte della piana arida e sassosa che stavano percorrendo proprio in quel momento. E non videro nessuno. – Si può sapere perché non rispondete? Ma mi vedete o siete ciechi? Alzate gli occhi, no! Gellindo fu il primo a guardare in alto, seguito subito dopo da tutti gli altri. Quel che videro li lasciò letteralmente senza fiato. Un gigantesco pallone a strisce di mille colori gonfio d’aria leggera si librava a una ventina di metri dal suolo. Alla guida c’era omone grande e grosso, con i capelli e un paio di baffoni color rosso
acceso e due braccia che parevano tronchi di betulla, che si sporgeva sorridente da un enorme cestone di vimini appeso sotto alla fiamma che manteneva calda e leggera l’aria della mongolfiera. – Mi chiamo Olaf... Olaf il Vichingo – strillò l’omone in aria. – Sono un esploratore svedese e sto tentando di attraversare il deserto in pallone... Volete venire con me? Dopo due settimane di solitudine ho bisogno di compagnia più dell’acqua da bere! Detto, fatto! – D’accordo: se sei diretto verso occidente veniamo tutti con te! – urlò di rimando Jalim. – Sì, il vento va proprio da quella parte... Adesso scendo e voi preparatevi a salire a bordo... Quando la mongolfiera s’alzò da terra e prese con decisione la direzione verso occidente, quel che colpì Gellindo fu il silenzio. Il pallone fendeva l’aria bollente del deserto senza alcun rumore e quella calma era rotta di quando in quando solo dal fruscio del fuoco alimentato da un paio di grosse bombole a gas. – Quassù stiamo un po’ stretti – disse Olaf controllando la bussola, – ma è sempre meglio che camminare fra quelle pietre ardenti, vero? – Ma tu sei proprio svedese? – domandò Fra’ Vesuvio. – Sono un vichingo svedese dalla punta rossa dei capelli a quella un po’ sporca delle unghie dei piedi! Eh! Eh! Eh! – E come mai stai viaggiando su que-
sta mongolfiera? – insistette lo spauracchio curioso. – Semplice: è stato per una scommessa con i miei amici di trattoria... Dovete sapere che noi vichinghi, quando ci gira nel verso giusto, le spariamo così grosse che nemmeno noi ci crediamo! E fu così che un sabato sera scommisi con gli amici che sarei riuscito ad attraversare il deserto a bordo di una mongolfiera senza mai toccar terra una volta! – E finora ce l’hai fatta? – s’informò Momò. – Come no – rispose Olaf ridendo di gusto e guardando l’orologio. – Ecco, guardate: sono esattamente tredici giorni, nove ore e cinquantadue minuti che sto viaggiando sopra questo deserto... – E i viveri? – domandò Fra’ Vesuvio, il cui stomaco cominciava a brontolare per la fame. – Striscioline di carne secca, caramelle e tanta acqua! – rispose il vichingo mostrando in un angolo del cestone alcune taniche e due scatole di cartone. – Be’ – rispose lo spauracchio, – di acqua ne abbiamo anche noi, mentre come viveri abbiamo pane secco, formaggio e datteri... Viaggiarono allegramente fino a sera e per tutta la notte successiva, dandosi ogni due ore il turno alla bussola per controllare la rotta. All’alba del giorno dopo, quando i primi raggi del sole si levarono lontani, a oriente, la mongolfiera si trovò a dover oltrepassare una lunga cresta di montagne che s’avvicinavano
velocemente. – Attenti! Attenti!! – urlò spaventato Olaf il Vichingo indicando la parete montagnosa davanti a loro. – Stiamo per sfracellarci contro la montagna!!! Via via via... scaricate tutto quello che non serve... Alleggerite il pallone... Buttate tutto quel che potete! Dobbiamo alzarci... dobbiamo prender quota! A malincuore vennero gettate nel vuoto le taniche d’acqua, le scatole di carne secca e di caramelle, ma anche i fagotti con i datteri, il pane secco e il formaggio... La mongolfiera così alleggerita si alzò quel tanto che bastò per scavalcare la cresta senza toccare le rocce appuntite e un precipizio profondo un paio di chilometri si aprì sotto al cestone dondolante. Fu a quel punto che da dietro ad alcune rocce sbucarono uno... due... tre... quattro grossi archi muniti di lunghe frecce... – Ehi – urlò Gellindo, – le vedete quelle frecce? qualcuno vuol farci cadere nel vuoto! State pensando anche voi a quel che penso io? Vi è per caso venuta in mente l’ombra che nell’Oasi dello Zafferano fece mangiare di notte alcune manciate di sale ai dromedari? E poi quella che sghignazzò di nascosto quando, in pieno deserto, gli stessi dromedari s’addormentarono di colpo e non si svegliarono più? Le quattro ombre che stringevano gli archi con le frecce incoccate gli assomigliavano molto, sembravano tutti
fratelli! E pensate: le quattro... otto... dodici frecce che una dopo l’altra s’impennarono in aria e andarono a bucare il grosso pallone della mongolfiera, parevano tanti sberleffi urlati sopra quel burrone! – Aiutooo! – si spaventò Vesuvio. – Stiamo precipitando! – gli fece eco Gellindo e, una dopo l’altra, nuove grida si persero nel vuoto: – Buttate tutto fuori bordo! – Le corde, tenete le corde ben strette! – Attenzione... la mongolfiera comincia a girare su sé stessa... – Nooo! Il pallone cadde verso il fondo del burrone sbatacchiando e strisciando contro le pareti dei due versanti che si facevano sempre più vicini finché, a meno di cinque metri dal suolo, quando ormai tutti i nostri poveri amici s’aspettavano un Patascracckkk terribile... il cesto e il pallone semisgonfio s’incastrarono fra le rocce di destra e quelle di sinistra e si fermarono a mezz’aria, sospesi e dondolanti nel vuoto. Un silenzio di tomba scese sul fondo del baratro: si udivano solo i battiti di un cuore spaventato di spauracchio, di un cuoricino sobbalzante di scoiattolo, di un grosso cuore generoso di vichingo e di quattro coraggiosi cuori di abitanti del deserto. – Lasciate che trovi quei quattro disgraziati che si sono divertiti a sgonfiare la mia mongolfiera e gli faccio fare fine che
si meritano!... – minacciò Olaf togliendo terriccio e sassolini daI capelli e daI baffoni rossi come il corallo. – Lo sapete, amici? Sembrava che quegli arcieri fossero lì ad aspettarci! – commentò Jalim sistemandosi la tunica lacerata e sporca. – Ho avuto la stessa sensazione anch’io – disse Gellindo, lisciandosi la bella coda arruffata. – Era come se sapessero che saremmo passati proprio da lì... – E adesso che facciamo? – piagnucolò Fra’ Vesuvio, pensando ai viveri e all’acqua che avevano dovuto gettare nel vuoto. – Come facciamo a raggiungere la Città bianca in tempo per liberare mio cugino Abdu e tutti gli altri dalle grinfie dei tre Predoni Traditori? Non gli rispose Jamil. Non gli rispose il mercante Omar o l’autista Momò. Non gli rispose la bella Aida, nemmeno il vichingo Olaf e men che meno lo scoiattolo Gellindo. A rispondergli fu... Prrr... Prrr... Prrr... Prrr... Prrr... lo spernacchiamento di uno, due, tre, quattro... cinque motori in avvicinamento. – Ehi! – urlò Momò, che di motori pensava di capirci qualcosa, – stanno arrivando cinque jeep! Jamil, Gellindo e gli altri saltarono a terra dal cestone incastrato fra le rocce del canyon – Ahi Ahi! Olaf perse in quel preciso istante la scommessa con gli amici di trattoria! – e corsero felici incontro ai fuoristrada che si stavano
facendo sempre più vicini. Quando però i nostri eroi superarono una curva e videro finalmente i nuovi venuti, si bloccarono stupefatti. Prrr... Prrr... Prrr... Prrr... Prrr... I cinque motori spernacchianti non erano quelli di altrettante jeep, bensì di cinque moto a quattro ruote guidate ognuna da un pilota vestito di nero e con il volto nascosto dietro a un casco integrale con la visiera luccicante e scura come la notte. Fagotti, borracce, tende e sacchi a pelo erano legati ai portapacchi e cinque bandierine italiane verdi-bianche-rosse sventolavano sui parabrezza. – Ehilà, fermatevi amici! – urlò Fra’ Vesuvio agitando le braccia e correndo incontro alle moto, che si fermarono sputacchiando e borbottando a dieci centimetri dal gruppetto di vagabondi piovuti dall’alto. Uno dopo l’altro i piloti si tolsero il casco e... Ma quelli erano cinque ragazzi, cinque giovani turisti italiani, cinque angeli sorridenti dai capelli lunghi, che se ne andavano a zonzo per il deserto a bordo delle loro moto a quattro ruote... – Salve, amici! – disse quello che aveva la moto di color rosso fuoco e che pareva il capo della brigata motorizzata. – Bisogno di aiuto? – e alzò lo sguardo per dare un’occhiata alla povera mongolfiera schiacciata fra le rocce sopra di loro. Toccò a Gellindo questa volta raccontare la loro storia avventurosa e lo fece dopo essere saltato sul sedile della seconda moto di color grigio argento. – Quattro arcieri misteriosi hanno
bucato il vostro pallone? – chiese un dei motociclisti. – Ma voi dove siete diretti? Per quale motivo stavate viaggiando su un pallone in mezzo al deserto? Intervenne Fra’ Vesuvio, questa volta, a spiegare: – Dobbiamo raggiungere al più presto possibile la Valle degli Scorpioni Assetati e la Città bianca che è nascosta al centro di quel canyon. Là si daranno appuntamento i tre Predoni Traditori, Sim-bal il ladro d’acqua, Sciakrun il ladro di fennec e Uadi-karim il ladro di dromedari. E dobbiamo raggiungere la meta prima che i tre s’incontrino, altrimenti le loro perfidie si uniranno, le loro malvagità s’intrecceranno e allora sarà veramente la fine per i nostri amici prigionieri di quei mascalzoni, per il deserto e per l’Africa intera! I cinque ragazzi si guardarono l’un l’altro e con un sorriso si fecero un cenno d’intesa. – Non preoccupatevi – rispose il loro “capo”, – state tranquilli perché siete veramente fortunati. Se dovevate raggiungere la Valle degli Scorpioni Assetati, be’, ci siete arrivati! Voi siete esattamente all’ingresso del canyon al centro del quale si trova la Città bianca. Gellindo e gli altri guardarono stupefatti Olaf il Vichingo, che arrossì, abbassò gli occhi e... – Be’, insomma... le mie mongolfiere viaggiano veloci, sapete? – D’accordo essere veloci – gli rispose Momò con un sorriso e dandogli una gran pacca sulla schiena robusta, – ma
percorrere con un pallone in un giorno e in una notte un tragitto che con un dromedario ci vogliono sette giorni interi, significa viaggiare alla velocità del vento! E bravo, il nostro vichingo! Meriti un abbraccio da ognuno di noi! – E allora che aspettiamo? – disse un terzo motociclista. – Volete raggiungere la Città bianca oppure restate qui a chiacchierare? – Vuoi dire che ci potete portare a bordo delle vostre moto? – esclamò Gellindo senza poter trattenere la gioia. – Ma sicuro, se siete capaci di stringervi un po’! – risposero in coro i cinque giovanotti vestiti di pelle scura, che s’infilarono i caschi neri e luccicanti e avviarono i motori spernacchianti. – Noi odiamo tutti i prepotenti e i nemici dei cattivi sono nostri amici! A bordo, forza... Non perdiamo tempo! Nessuno dei nostri eroi s’accorse però che dall’alto del Canyon degli Scorpioni Assetati cinque ombre che stringevano ancora in mano i loro archi maledetti sbuffavano rabbiose e lanciavano imprecazioni agitando i pugni nel vuoto. «Ecco quel che succede quando si è sfortunati! Con le nostre frecce abbiamo fatto cadere la mongolfiera diritta diritta tra le braccia di quei motociclisti da strapazzo... E adesso chi lo va a dire, ai nostri capi? Chi riuscirà a placare la rabbia dei... tre Predoni Traditori?»
8 - I tre Predoni Traditori Fiaba di MAURO NERI - Illustrazioni di F ULBER
L’enorme sala sotterranea della Città bianca era illuminata da fasci di luce che entravano da due finestrelle in alto. File di colonne scavate direttamente nella sabbia dura del deserto correvano sui quattro lati e al centro tre seggiole di legno intagliato erano in attesa che qualcuno si decidesse a sedersi. Gellindo, Fra’ Vesuvio, Momò, Omar, Jalim, Olaf il Vichingo e la bella Aida erano nascosti dietro le colonne e aspettavano. Prima o poi sarebbero arrivati! Chi? Come, chi! Questa terribile e lunga avventura nel deserto ha avuto un unico obiettivo: raggiungere i terribili Predoni Traditori prima che i tre si accordassero fra di loro per impossessarsi del gigantesco tesoro fatto d’oro, d’argento e di pietre preziose col quale comprarsi l’Africa intera e sottometterla ai loro voleri! Ed eccoli finalmente lì, i nostri amici, nelle segrete sotterranee della Città bianca costruita dai beduini in uno slargo al centro del Canyon degli Scorpioni Assetati usando mattoni di argilla candida cotti al sole. – Sei sicuro Gellindo che quei malandrini arriveranno fin quaggiù? – mormorò Fra’ Vesuvio. – Penso di sì... così almeno ci ha detto la maga Sabira, ti ricordi?... – E ci sarà anche mio cugino Abdu? – chiese lo spaventapasseri. – Lo spero proprio – rispose lo sco-
iattolino, – così come spero che ci sia Alì, il fennec di Omar, ed anche Ismail, il padre di Aida, i dromedari che sono stati rubati e tutto il popolo della regina Giada che Sim-bal ha rapito... – Sim-bal... – sussurrò Fra’ Vesuvio, come se stesse incidendo nella memoria i nomi dei tre briganti, – Scia-krun... Uadi-karim... – E mi raccomando, amici – esclamò a quel punto Gellindo Ghiandedoro alzando un po’ la voce per farsi sentire da tutti: – quando arrivano i Predoni Traditori, fate parlare solo me, capito? La regina Giada mi è apparsa in sogno e mi ha detto in che modo rivolgermi a loro per evitare che Uadi-karim legga nel nostro pensiero e ci faccia tutti suoi prigionieri! – E tu come riuscirai a salvarci? – chiese Momò. – Non c’è tempo, lo scoprirete da soli... Ssshhh!... arriva qualcuno! – sibilò Gellindo correndo a nascondersi dietro la sua colonna. Si capì subito che stava per entrare nella sala il malvagio Sim-bal dalla puzza che lo precedeva: puzza nauseabonda di fiato fetido mescolata a quella di letame di dromedario e di angurie marcite al sole, che tolse il fiato e la voglia di respirare! Sim-bal era un predone alto e magro, così magro che camminava a scatti e rasente i muri, con la schiena piegata in avanti non perché avesse la gobba, bensì per controllare che cosa poteva
nascondersi in ogni angolo buio, dietro ogni colonna oppure sotto ai tappeti stesi a terra. Vestiva una tunica bianca e leggera che arrivava fin sotto ai piedi nudi e sporchi: s’inciampava in continuazione, il manigoldo, mentre da una grossa borraccia che portava a tracolla l’acqua usciva ad ogni passo. Per fortuna per i nostri eroi smise ben presto di controllare se ci fossero nemici nascosti, sbuffò nervoso, bevve un sorso d’acqua e andò a sedersi sulla seggiola più vicina. Il predone Scia-krun entrò subito dopo: piccolo e mingherlino, indossava una tunica nera come la notte, così come nera era la stoffa che gli copriva il capo, fermata sulla fronte da un cerchietto color dell’oro. Ma era la faccia, era quel volto diabolico e sinistro a incutere il vero terrore: due occhi rossi di sangue, un naso grosso e a becco d’aquila, denti gialli e storti, foruncoli dappertutto e una barba rada e mal rasata completavano il suo biglietto da visita. Scia-krun non si preoccupò di quel che poteva nascondersi dietro le colonne e andò subito a sedersi sulla seconda seggiola di legno intarsiato. E parlò. – Eccoci qui, finalmente, amico mio Sim-bal! – disse con voce acuta e gracchiante. – Che le notti più gelide e le porte degli inferni più profondi ti siano amiche, mio prode Scia-krun! – rispose il primo predone con una voe roca e
sferzante. – Vuoi vedere il mio ultimo fennec? – proseguì allegro il predone vestito di nero, sollevando il mantello e mostrando un tenero cucciolo di fennec che tremava di paura, di fame e di freddo. Per fortuna Momò se ne accorse e con un balzo bloccò il mercante Omar, il padrone di quel piccolo fennec, che furente di dolore e di rabbia stava per uscire dal nascondiglio... – Ma si può sapere che cosa te ne fai, di tutti i fennec del deserto? – chiese Sim-bal bevendo un’altra sorsata d’acqua dalla borraccia. – Tu non puoi immaginare quanto siano morbide, leggere e profumate le coperte di pelli di fennec! Eh! Eh! Eh! A quel punto un gran fracasso di vetri rotti obbligò i due predoni a girarsi verso la porta della sala... – Si può sapere di chi erano quei vassoi di vetro là fuori? – tuonò con voce profonda e cavernosa un uomo immenso, tondo come un mappamondo, con la pelle scura come il legno di mogano e col volto truce come quello di un toro inferocito ma senza corna. – Servono, anzi... servivano per dar da bere ai miei fennec, caro Uadi-karim – rispose Scia-krun nascondendo Alì sotto il mantello nero. – Ma come sei elegante – disse untuoso Sim-bal, rivolto al nuovo venuto vestito di rosso e d’argento. – Dove vai con quegli abiti così belli? – Quando si è certi che presto si sarà al cospetto della montagna d’oro
e d’argento più grande dell’Africa intera – gongolò Uadi-karim sedendosi sul terzo tronetto di legno, – non potendo scegliere amici migliori come compagnia bisogna accontentarsi degli abiti più belli... Scia-krun e Sim-bal erano certi che dietro a quelle parole si nascondesse un’offesa bruciante nei loro confronti, ma rinunciarono quasi subito a capire: il loro minuscolo cervello era abituato solo a pensare cattiverie... oh, in quello erano bravissimi! – Avete ognuno il vostro anello? – berciò il terzo Predone Traditore. – L’anello dei Cavalieri della Notte? – Io, il mio ce l’ho! – esclamò Sim-bal, lanciando un grosso anello di bronzo in un piatto di ceramica dipinta d’azzurro appoggiato per terra ai loro piedi. – E qui c’è il mio – aggiunse Sciakrun, levandosi da un dito un anello d’argento e mettendolo accanto al primo. – Fate dunque attenzione – concluse Uadi-karim improvvisamente serio: – nel preciso istante in cui deporrò il mio anello d’oro nel piatto accanto agli altri due, le nostre malvagità s’intrecceranno così forte che potremo finalmente torturare il tuo prigioniero Abdu Al-Bar – proseguì il malvagio fissando diritto negli occhi Sim-bal... – e sarà un giochino da ragazzi fargli sputare il nome del luogo in cui è nascosto il tesoro! – Tenete giù le mani da mio cugino Abdu, voi tre! – esclamò Fra’ Vesuvio
uscendo da dietro la sua colonna. – E tu chi saresti? – urlò Uadi-karim per primo, saltando giù dalla sua seggiola. – Uno spauracchio che ti farà gli occhi pesti! – esclamò Gellindo, balzando anche lui fuori dal nascondiglio. – Ah, ma allora siete in due! – strillò il Predone. – ...ed abbiamo con noi anche un bel... bue! – rispose lo scoiattolo parlando in rima come gli aveva raccomandato la regina Giada. – Ma si può sapere perché parli in modo così bislacco? – Parlo come mi pare e piace, perbacco! – Smettila, pulce d’uno scoiattolo! – urlò inferocito Uadi-karim, che malgrado gli sforzi non riusciva a penetrare nei pensieri di quell’altro e a farlo prigioniero. – Se ci riesci, prendimi e chiudimi in un barattolo! – Fratelli – ordinò allora il predone vestito di rosso rivolto ai suoi due pari, – saltate addosso a costoro e fatene polpette! A quel punto... – Provate a vedere se ce la fate – rispose tranquillo Gellindo, – visto che noi siamo in sette! Sette? Da dietro le colonne uscirono uno dopo l’altro il bravo autista Momò, Jalim il coltivatore di palme da dattero, il mercante Omar, la bella Aida e il simpatico vichingo pilota di mongolfiere... A loro si unirono Gellindo e Fra’ Vesuvio e tutti assieme circondarono
i tre predoni. Uadi-karim gettò il suo anello d’oro in direzione del piatto per terra, ma lo scoiattolo con un salto afferrò al volo il gioiello e lo lanciò ad Olaf. –... Ridatemi quell’anello! – strillò il predone. – Ma cosa credi? Che io me ne stia qui tranquillo come un agnello?! – urlò di rimando il vichingo, rilanciando il gioiello ad Aida... – Donna, voglio di ritorno quel che non è tuo! – E se fosse invece... suo? – sorrise Aida, che passò l’anello ad Omar. – Mostriciattolo di un mercante, – berciò a quel punto Scia-krun, che aveva riconosciuuto il padrone del piccolo fennec Alì, – se vuoi indietro vivo quell’impiastro di animaletto, restitui sci subito quell’anello al mio amico! Per tutta risposta Omar, muto come un pesce, consegnò l’anello d’oro a Jalim... – Brutto Tuareg dei miei stivali – berciò infuriato Sim-bal, caricando a testa bassa, – adesso sentirai quant’è dura la mia testa! Fu veramente un peccato per Simbal, ma Jalim da dietro la schiena tirò fuori quel che restava d’una vecchia porta di legno stagionato e la usò come scudo... Spatapack! La testa del predone, che sul serio era dura, nulla poté contro quell’asse di legno ancor più duro e... gli occhi del poveretto sfavillarono, il Predone Traditore svenne in piedi, poi cadde a terra e rimase fermo
immobile sul tappeto, trasformandosi come per magia in un mucchietto di polvere di sabbia bianca. Fu allora la volta di Scia-krun: il perfido sollevò il mantello scuro, cacciò lontano il povero fennec, estrasse una scimitarra d’argento lunga un metro e mezzo e cominciò a sventagliare l’arma davanti a sé per far arretrare i nemici. Omar non si scompose: staccò dalla parete una torcia di ferro, che brandì come fosse uno spadone... Quando la lama sottile della scimitarra si scontrò con il ferro del mercante, mille scintille illuminarono la penombra della stanza, dopo di che l’arma del predone s’incrinò e si ruppe in mille pezzetti, che caddero a terra come pioggerella sottile e leggera. Il colpo però era stato così forte, che anche il predone cominciò a vibrare, a tremare, a incrinarsi e a rompersi in diecimila pezzetti, che s’ammucchiarono sul tappeto formando una piccola duna di polvere di sabbia nera! Restava solo il terzo Predone Traditore, il più pericoloso, il più infido, il più malvagio. A quel punto però, nella stanza entrarono di corsa e armati di tutto punto i soldati e i sudditi della regina Giada che erano stati rapiti dal cattivo Sim-bal e che, lasciati finalmente soli, s’erano liberati dai ceppi della prigionia... Entrarono di corsa anche Abdu Al-Bar, cugino di Fra’ Vesuvio, e il vecchio Ismail, padre della giovane Aida e allevatore di dromedari, caduto
nelle grinfie del manigoldo Uadi-karim. Quella massa di uomini circondarono il predone superstite, lo costrinsero al centro della stanza con le punte delle loro lance e lo obbligarono a inginocchiarsi... – Cosa volete da me, figli di briganti? – sibilò il malvagio con le lacrime agli occhi. – Non rispondete! – urlò Gellindo, – ci parlo solo io a questo re di furfanti! – Taci, scoiattolo dei miei stivali! – Sta’ zitto invece tu, che meno di un granello di sabbia vali! – Non rispondermi in rima... – Lo farò adesso ancor più di prima! – Ma così mi confondi! – E tu nella sabbia del deserto fra un po’ sprofondi! – No, non voglio sentir minacce dalla tua bocca... – Adesso vedrai quel che ti tocca! Gellindo fischiò leggero leggero e dalla porta in fondo entrarono al trotto venti... quaranta... sessanta... cento asini, seguiti da venti... quaran-
ta... sessanta... cento dromedari e poi da venti... quaranta... sessanta... cento cavalli arabi. Con un secondo fischio al centro dello stanzone si materializzarono duecento...trecento... cinquecento piccoli fennec e tra di loro c’era anche il minuscolo Alì... Gli animali grandi e piccoli si gettarono addosso al mascalzone e in meno di due minuti lo ridussero a un inutile mucchietto di polvere di sabbia rossa! A quel punto Gellindo, Olaf e Jalim crollarono stanchi morti a terra, mentre Omar corse incontro al suo Alì, Aida strinse fra le braccia il padre Ismail, Fra’ Vesuvio scoppiò a piangere sulle spalle di Abdu Al-Bar e Momò si lasciò abbracciare da tutti i suoi amici soldati e dai suoi concittadini tornati finalmente liberi. La grande Festa per la Gioia Ritrovata durò tre giorni e tre notti, alla Città bianca, nello slargo al centro del Canyon degli Scorpioni Assetati. Dopo di che una grande pace calò sull’intero deserto di quella parte d’Africa.
Come andò a finire... Due mesi dopo Fra’ Vesuvio salì al Bosco delle Venti Querce sventolando una busta in una mano e tenendo un fagotto nell’altra e andò a bussare alla porta della tana di Gellindo Ghiandedoro. – Ci sono novità? – chiese lo scoiattolo che si stava impomatando la lunga coda davanti allo specchio. – Novità dall’Africa, certo! Vuoi che ti legga? – Non aspetto altro! Caro cugino Fra’, chissà se un giorno riuscirò a trovare le parole giuste per ringraziare te e quel simpatico scoiattolino che risponde al nome di Gellindo Ghiandedoro! E non parlo solo per me! Io sono tornato alla mia oasi di Ghilane a preparar pane beduino che poi vendo ai turisti di passaggio, e sono l’uomo più felice del deserto. Parlo anche per la bella Giada, la regina della Città di Pietra che ha nominato Momò ministro dei trasporti e Kaled ministro della difesa e che continua a raccontare le vostre imprese alle sue amiche. Pensate un po’: ha intitolato la strada principale del suo regno “Via Gellindo Ghiandedoro” e lo slargo antistante la sua reggia “Piazzale Fra’ Vesuvio”! Parlo per il buon mercante Omar: tornato al suo Caravanserraglio dei Datteri
d’Oro a vendere forbici da pecora, ha trovato una bella fennec femmina per il suo Alì e adesso vive beato in mezzo a un’allegra cucciolata di volpacchiotti del deserto dalle orecchie ritte come antenne! Parlo a nome della bella principessa Aida, che grazie a voi ha ritrovato suo padre Ismail e s’è fidanzata con il vichingo Olaf: adesso i cento dromedari bianchi sono controllati a vista dall’alto di una bellissima mongolfiera che ha i colori dell’arcobaleno! Parlo a nome anche di Jalim: a dire il vero lui è l’unico un po’ triste di tutta la combriccola perché, tornato nell’Oasi dello Zafferano, ha dovuto rinunciare alla sua cuoca preferita... e tu, Vesuvio, sai benissimo perché! Ma sta già cercando una nuova spauracchia che gli sappia preparare i manicaretti più sopraffini e vedrai che alla fine la troverà, ne sono certo! Qui abbiamo tutti nostalgia di voi e speriamo che prima o poi torniate a trovarci. Avete salvato l’Africa intera dalle grinfie di quei tre malvagi predoni, che adesso riposano chissà dove mescolati alla sabbia del deserto: quando vorrete, potrete tornare senza alcun problema e allora ci saranno solo feste, canti e balli per tutti! Un abbraccio, mio caro cugino, e ancora grazie di tutto! Abdu Al-Bar (oasi di Ghilane, Tunisia)
P. S. Dimenticavo: Jalim chiede se Zaira può scrivergli il segreto della ricetta di quell’ottimo cus cus alle verdure che solo lei sapeva cucinare. Potete accontentare il nostro amico? Grazie. – E cos’è quel fagotto profumato che hai nell’altra mano? – chiese lo scoiat-
tolo, che sentiva un odorino delizioso. – Ah sì – rispose lo spauracchio mostrando una stupenda torta ai datteri e alle noci, – questo dolce beduino te lo manda la mia adorata Zaira... Sai cosa ti dico, Gellindo? Non sarei più capace di vivere senza la mia bella e buona Zaira!... Posso avere anch’io una fetta della tua torta?