Le fiabe africane di Okombo Fiaba di MAURO NERI - Illustrazioni di F ULBER
Sono così simpatici, gli spaventapasseri del Villaggio di Risparmiolandia, che non fanno paura nemmeno a un cardellino! Tra di loro c’è lo spauracchio Okombo, uno spaventapasseri di paglia nera come la notte e dai capelli tutti ricci e scuri: sorride in continuazione, Okombo, mettendo in mostra due file di denti chiari e due occhi buoni e sinceri. Oggi è uno spaventapasseri felice, ma non è sempre stato così. Adesso ti spiego perché... Quando arrivò direttamente dall’Africa al Villaggio di Risparmiolandia e qualcuno lo piantò bello diritto al centro di un orto vicino alla Farmacia di Quantobasta, nessuno ebbe il coraggio di rivolgergli la parola: muto Okombo, muti tutti gli altri spaventapasseri, le cose andarono avanti così finché un cardellino andò a costruirsi il nido proprio sul cocuzzolo della testa di Okombo! Niente di male, in tutto questo, se non fosse che l’invidia cominciò a serpeggiare tra gli altri spaventapasseri! – Ecco, vedete? Adesso quel tipo strano vuol portarci via anche i nostri cardellini! – Ma non poteva restarsene a casa sua? Cosa ci fa, qui da noi? – Non avevamo bisogno di uno spaventapasseri di colore! – Dobbiamo stare uniti: se siamo in tanti, il nuovo spauracchio dovrà per forza andarsene! – Bastiamo noi, al Villaggio di Risparmiolandia! – Sapete cosa facciamo? Lo facciamo sprofondare nell’indifferenza: guai a chi gli parla, guai a chi gioca con lui... per noi sarà come se non esistesse! – E vedrete che prima o poi la capirà da solo e se ne andrà il più lontano possibile! Per fortuna ciò non accadde, perché una notte le urla terrorizzate di Okombo svegliarono all’improvviso tutto il Villaggio: le prime fiamme di un incendio furioso stavano per bruciare le case... Se Okombo non si fosse messo a urlare, tutti i nostri amici sarebbero finiti in cenere! – Grazie, Okombo – dissero gli spaventapasseri quando l’incendio fu domato. – E ti chiediamo scusa per come ti abbiamo trattato! Vuoi diventare lo stesso nostro amico? Certo che lo voleva: Okombo oggi è il beniamino del Villaggio di Risparmiolandia e tiene compagnia ai piccolo spaventapulcini raccontando tutte le sere le antiche fiabe della lontana terra africana. Vuoi ascoltarle anche tu? Chiudi gli occhi e incomincia a sognare...
1 - Africa: l ’aquila e la tartaruga
Un giorno l’aquila lasciò le nuvole del cielo, scese sulla terra e andò a far visita alla tartaruga, che viveva rintanata in fondo a un buco scavato nella sabbia. – Sapessi com’è brutto starsene sempre da soli su, in cielo, senza nessuno che ti faccia compagnia – piagnucolò l’aquila. – Succede la stessa cosa anche per me – rispose la tartaruga, offrendo da mangiare alla nuova venuta. – Non ne posso più di star qui, al buio di questa tana, senza scambiar parola con qualcuno… – Allora sai che facciamo? – disse l’aquila, che intanto si stava ingozzando di tutto quel che la tartaruga le aveva messo davanti. – Possiamo diventare amiche! Io, quando mi sentirò sola, verrò a trovarti e ce ne staremo qui, in tutta tranquillità, a chiacchierare e a spiluccare quel che c’è nella tua dispensa! Detto, fatto: da quel giorno ogni pomeriggio l’aquila scendeva dal cielo con ampi giri, atterrava nei pressi della tana e s’infilava nel buco in cui abitava la sua nuova amica tartaruga. Di lì a qualche ora usciva all’aria aperta, scuoteva le grandi ali e s’alzava in volo ridendo di gusto mentre passava sopra a uno stagno: – Ah ah ah, è proprio sciocca, questa tartaruga! Non s’è proprio accorta che io le svuoto le riserve di cibo senza preoccuparmi di ricambiare… S’è mai vista una tartaruga che vola fin quasi
in cima alla montagna su cui ho costruito il mio nido? Ah ah ah... è vero, nessuno l’ha mai vista… e intanto io mangio… mangio… mangio fin quasi a scoppiare! Il fatto è che nello stagno sopra al quale passava l’aquila viveva un rospo. Ora, tutti sanno che tra i rospi e le aquile non corre buon sangue: è una lotta impari, la loro, a favore naturalmente delle seconde che, non appena possono, s’avventano sulle pozze più vicine nella speranza di artigliare qualche grosso rospo. Il rospo del nostro stagno se ne stava ben ben nascosto, quindi non aveva nulla da temere. Tuttavia sentire l’aquila che a ogni tramonto volava via sghignazzando… “Ah ah ah, che sciocca quella tartaruga… Non s’è accorta che, mentre io dilapido tutte le sue sostanze, lei non potrà mai mangiare il cibo della mia dispensa... e io intanto mangio... mangio... mangio fin quasi a scoppiare!” gli mise addosso una tale rabbia che un giorno non si trattenne ed entrò nella tana della povera tartaruga. – Ma non l’hai ancora capito che quell’aquila si sta approfittando della tua amicizia? – strillò il rospo gonfiando le guance per la rabbia. – E perché mai, se si può sapere? – Perché tu non potrai ricambiare le sue visite! Non sei capace di volare fino in vetta alla montagna su cui vive e non riuscirai mai a becchettare nemmeno una briciola di quel che lei
conserva nel suo nido! E’ un’amicizia a senso unico, la vostra, e il peggio è che ogni giorno l’aquila se ne vola via dalla tua tana sghignazzando ai quattro venti e insultandoti con parole cattive! “Ho gustato il cibo della mia amica tartaruga” urla l’ingrata, “ma la tartaruga mai assaggerà e gusterà il mio cibo… Ah ah ah!” La tartaruga rimase senza fiato, senza parole e sbalordita dal comportamento di quella che credeva fosse sua amica. – Ma io che posso fare? –
balbettò la poverina. – Per fortuna hai anche amici disinteressati – disse allora il rospo, – amici come me che ti aiutano senza chiedere nulla in cambio. Allora ascoltami: quando domani pomeriggio arriverà come ogni giorno l’aquila, tu dille: “Va’ a prendere una zucca: la riempirò di cibo per i tuoi aquilotti!” Quando l’aquila sarà di ritorno con la zucca, tu mandala a fare un giro e quindi nasconditi in fretta sul fondo della zucca e copriti di cibo… L’aquila
tornerà, prenderà la zucca e se la porterà su al nido, in vetta alla montagna qui fuori. Giunta lassù, poi, saprai ben tu che cosa fare! Il giorno dopo accadde tutto come il rospo aveva previsto. Vi lascio immaginare la tristezza e la rabbia della tartaruga, che per tutto il viaggio udì l’aquila sghignazzare ai quattro venti “Ah ah ah!... Ho mangiato anche oggi il cibo della tartaruga, ma lei non verrà mai a mangiare il mio…” – E invece no, cara mia! – esclamò la tartaruga, saltando fuori dalla zucca non appena giunta nel nido dell’aquila appeso quasi in cima a una parete rocciosa. – Eccomi qua, pronta a svuotare la tua dispensa! D’altronde, dopo tutte le volte che tu hai fatto la stessa cosa a casa mia, adesso tocca a me, no? Forza, dai: fammi vedere che cosa puoi offrirmi da mangiare! L’aquila era stordita e ammutolita per la sorpresa: – Ma come hai fatto… – balbettò tutta tremante, – come ti sei permessa… e chi ti credi d’essere? Al colmo del furore, poi, il rapace si avventò sulla tartaruga cercando di colpirla col suo potente rostro, ma non aveva fatto i conti con la dura corazza dell’“amica”, che si ritirò in fretta sotto lo scudo e restò lì, tranquilla e beata, in attesa che quell’altra si calmasse un po’. – Ahiaaa! Mi son rotta il rostro, maledetta tartaruga… Adesso ti pren-
do e ti getto fuori dal nido: vedrai che bel volo farai ti farò fare… Ah ah ah! Ma la tartaruga fu più veloce: con un colpo solo estrasse il capo da sotto lo scudo e coi denti potenti che si ritrovava morse la zampa dell’aquila facendola strillare di dolore. Si alzò subito in volo, l’ingrata, con la tartaruga appesa alla zampa. – E stàccati una buona volta, sciocca di una tartaruga! – urlò sgambettando furiosa. È vero, la tartaruga lasciò la presa, ma con un balzo in aria s’aggrappò coi denti all’altra zampa e l’aquila fu costretta a scendere lentamente in grandi cerchi, finché atterrò proprio davanti alla tana della sua “amica”. – Vedi, aquila – disse infine la tartaruga, – essere amici significa ricevere ma anche dare, vuol dire accogliere ed essere accolti, prendere ma anche regalare. Tu hai voluto soltanto mangiare dalla mia dispensa, godendo però del fatto che io non potevo fare la stessa cosa con la tua: non è amicizia, questa, te l’assicuro. Perciò sai che ti dico? L’aquila tacque massaggiandosi le due zampe col becco rotto. – Ti annuncio che da questo preciso momento… non siamo più amiche! Addio! Finì così l’amicizia tra le tartarughe e le aquile africane e ve l’assicuro: ancora oggi, non appena una tartaruga vede un’aquila in cielo, corre a nascondersi nella parte più profonda della sua tana.
2 - Kenya: Wangui e suo fratello Wambua Fiaba di MAURO NERI - Illustrazioni di F ULBER
Chissà quante volte la bella Wangui l’aveva detto, a suo fratello Wambua. – Ti prego, non lasciarmi sola a casa la sera... non andartene a gozzovigliare coi tuoi amici fino a tardi! – Hai forse paura del buio? – le rispondeva sghignazzando il fratello, che di lavoro faceva il pastore. – Del buio no, ma dei malintenzionati che se ne vanno in giro a rapire le ragazze, di quelli ho il terrore! – Ma se te ne stai sempre chiusa in casa a lavorare e a far da mangiare... chi vuoi che pensi a te? – Già, sempre lì a lamentarti, tu, ma se dopo la morte dei nostri genitori non ci fosse tua sorella a badare a te, a prepararti il pranzo e la cena e a tenere in ordine la tua stanza, mi sai dire che fine faresti? Comunque, vattene pure, la sera, a divertirti coi tuoi amici, ma se dovesse succedermi qualcosa di brutto ricordatelo bene: io mi porterò dietro una zucca piena di grasso, che farò gocciolare lungo la strada che prenderanno i miei rapitori, così tu potrai seguire le mie tracce, liberarmi e riportarmi a casa! Wambua s’era quasi dimenticato delle avvertenze di Wangui quando, rientrando una sera a casa molto tardi, non trovò nessuno! La capanna era deserta, anche il ripostiglio sospeso delle vivande, il recinto delle loro dieci pecore e quello delle loro dieci mucche e il capanno degli attrezzi erano vuoti: Wangui era sparita nel nulla, rapita probabilmente
da qualche malfattore. Solo a quel punto il ragazzo si ricordò della zucca piena di grasso che Wangui di sicuro s’era portata appresso e si gettò sulle tracce di sua sorella. Inseguì per alcuni giorni e alcune notti le gocce di grasso che Wangui aveva fatto cadere sul sentiero e che ben presto avevano fatto germogliare delle tenere pianticine facili da vedere anche al chiarore della luna, guidato dall’eco lontana della voce squillante della sorella che urlava “Corri Wambua, corri: segui le piante e vieni a salvarmi!” Alla fine, però, il pastore si ritrovò sulle rive di un fiume difficile da attraversare e col pensiero fisso alle sue povere bestie lasciate sole a casa: abbandò allora a malincuore le ricerche e fece ritorno al suo villaggio. Il fatto è che, senza più una persona che pensasse a lui, Wambua non trovò più il pranzo pronto nel cestino e la cena apparecchiata in tavola, mentre la casa deperiva giorno dopo giorno soffocata da un disordine incredibile. Visto però che almeno un fuoco sapeva accenderlo, per non morire di fame il giovane cominciò ad abbattere una capra dopo l’altra e poi una mucca dopo l’altra. Quando però ebbe mangiate tutte le sue bestie, rimase con la pancia vuota come le stalle, tanto che dovette trasferirsi in un altro paese e farsi assumere come aiutante da un altro pastore.
Alcuni anni dopo Wambua, diventato nel frattempo un giovanotto grande e grosso, nel portare le capre al pascolo s’accorse che le piantine nate lungo il sentiero dal grasso lasciato cadere da sua sorella Wangui erano cresciute trasformandosi in una fila interminabile di alberi altissimi, sottili e frondosi. Riconsegnò allora le capre al loro legittimo proprietario, prese la misera paga che gli spettava e s’incamminò lungo il sentiero segnato da quella sfilata di alberi. Ben presto giunse sulle rive del grande fiume che già una volta l’aveva bloccato e costretto a tornarsene indietro: lì vide due bambini che stavano giocando sulla riva. – Sono un povero viandante che ha una gran sete, bambini – disse Wambua, – potreste darmi un goccio d’acqua pulita da bere? – La nostra mamma ci ha insegnato ad esser gentili coi poveri – disse il bimbo più grande, – perciò bevi l’acqua da questa zucca e poi vieni con noi: a casa nostra troverai da mangiare e anche un tetto sotto cui dormire. Era trascorso parecchio tempo, perciò se Wambua riconobbe subito sua sorella Wangui, la mamma dei due bambini vide in lui solo un povero viandante, affamato e debole per il lungo cammino. Wambua però s’accorse che il recipiente in cui la sorella aveva messo la minestra destinata a lui non era una delle belle ciotole dipinte in cui stavano mangiando gli
altri, bensì una zuppiera di terracotta con gli orli sporchi e rotti. E ci rimase male quando, per la notte, invece di ospitarlo una delle stanze da letto della grande capanna, lo invitò a dormire su una stuoia per terra, nel ripostiglio delle sementi. La mattina dopo, quando i due bimbi si svegliarono e andarono in cerca dello straniero,lo trovarono accovacciato lungo il muretto dell’orto. Non visti i due piccoli si avvicinarono e lo sentirono borbottare: – Ma guarda tu che triste storia, la mia: io ho riconosciuto mia sorella Wangui, mentre lei non s’è accorta che il suo caro fratello Wambua è finalmente venuto a cercarla e a liberarla dai suoi rapitori! Mi ha dato la minestra in una zuppiera di vecchia terracotta e questa notte mi ha fatto dormire per terra come un mendicante qualsiasi! Nessuno mi costringerà a rimanere un giorno in più in casa sua! I due bambini corsero in cucina e riferirono alla madre quel che avevano sentito: – Mamma Wangui, quel signore dice di essere tuo fratello Wambua, venuto per salvarti dai rapitori… E la donna finalmente capì. Corse in cortile ma non trovò nessuno. Disperata seguì le tracce del fratello e lo trovò seduto accanto al fuoco centrale del villaggio più vicino. – Devi perdonarmi, Wambua, se non ti ho riconosciuto, ma gli anni ti hanno cambiato: io ti ricordo poco
più che bambino e adesso sei un uomo fatto! Torna a casa mia, ti prego! Wambua scosse la testa: – Non è stato bello vedere mia sorella trattarmi come fossi un mendicante qualsiasi: a causa tua io ho perso tutte le nostre capre e tutte le nostre mucche, ma ho perso anche il lavoro e la dignità… E cosa mi ritrovo come ringraziamento? Una vecchia ciotola di terracotta con l’orlo slabbrato e il duro pavimento del ripostiglio come letto! Ecco che cosa mi rimane… – Ascolta Wambua – supplicò allora la sorella, – tu resta qui mentre io torno a casa mia… – E cosa ci vai a fare, dai tuoi figli? – Vado a chiedere a mio marito che ti regali cinque capre e cinque
mucche, così potrai riprendere il tuo vecchio lavoro… – Quando tu sei stata rapita, avevo dieci capre e dieci mucche: ne voglio altrettante, altrimenti me ne andrò lontano e di me non sentirai più parlare! Dieci capre e dieci mucche sono un tesoro, pensò Wangui, ma voglio mettere alla prova l’amore di mio marito. Se anni fa mi fece rapire per sposarmi, vuol dire che mi voleva bene. È giunto momento di vedere se me vuole ancora! Il marito di Wangui non ebbe esitazione alcuna: andò al recinto delle capre e ne liberò dieci; andò poi a quello delle mucche e ne fece uscire dieci. – Ecco, mia bella Wangui, queste sono le bestie che mi hai chiesto, e quello laggiù – proseguì indicando un grande prato all’ombra degli alberi della foresta, – è il luogo in cui tuo fratello potrà costruirsi una casa per sé e per la moglie che vorrà scegliere. Così voi due tornerete a vivere vicini e sarete entrambi felici! Avvenne proprio così: Wangui e Wambua tornarono a vivere assieme da buoni fratello e sorella, mentre i più felici furono i due figli di Wangui, che da un giorno all’altro si ritrovarono con uno zio così simpatico che gli si poteva anche perdonare quel pizzico di sfacciataggine che prima l’aveva messo nei pasticci, ma che poi dai pasticci l’aveva anche tirato fuori.
3 - Madagascar: il Sole e la Luna Fiaba di MAURO NERI - Illustrazioni di F ULBER
Il Sole, molto e molto tempo fa, abitava con sua moglie Luna in una piccola fattoria al limitare della foresta, nel cuore del Madagascar. Coltivavano un piccolo campo e un ancor più minuscolo orticello e si volevano un gran bene: Luna preparava manicaretti prelibati per il suo amato sposo, mentre Sole lavorava dall’alba al tramonto aiutando i contadini nei campi tutt’attorno. Un giorno Sole incontrò la sua cara amica Acqua. – Ciao Sole – disse Acqua girandosi lentamente nel letto di un ampio fiume. – Come sta la tua famiglia, amico? – Siamo felici, Luna ed io, e questo ci basta! – Oh come mi piacerebbe rivedere la piccola Luna… – buttò lì Acqua, aspettandosi un invito da parte di Sole, che infatti... – E perché non vieni a trovarci, un giorno? Magari domani… – Fai presto tu, a parlare – rispose Acqua, rallentando il corso del suo fiume con mille e mille gorghi grandi e piccoli, – ma devi capire che non posso venire a farvi visita da sola: devo portare con me tutti i miei figli e le mie figlie, assieme ai nipoti, che sono tantissimi E poi con me arriveranno di sicuro anche molti pesci e pure isole e isolotti, barche enormi e canoe a centinaia… Dove le metterai tutte queste cose? Sole ci pensò un attimo, grattando-
si perplesso il mento. – Se la metti così devo proprio darti ragione, ma a tutto c’è rimedio! – E cioè? Cosa avresti in mente di fare? – È semplice, mia cara amica Acqua: ingrandirò la mia casa e la mia fattoria, cosicché tu e tutta la tua famiglia potrete starci comodamente! Ciao, vado a mettermi subito al lavoro… Sole non aspettò risposta, salutò Acqua e si precipitò a casa. – Luna, Luna… – urlò entrando in casa di corsa. – Uh che fretta vedo! – rispose sua moglie con un bel sorriso. Sorrideva sempre, ogni volta che vedeva sul marito, al quale voleva un gran bene. – Perché strepiti e corri in questo modo? Stai scappando da qualcosa o da qualcuno? – No, non scappo da nessuno – disse Sole sedendosi sulla prima seggiola libera. – Solo che… E raccontò a Luna dell’incontro con la loro amica Acqua... – Quindi – concluse con due occhi spalancati e felici, – le ho promesso che avrei ingrandito la nostra casa e la nostra fattoria in modo da farci stare tutta la sua enorme famiglia! Ho fatto bene? Luna sorrise scuotendo il capo: – Ma certo che hai fatto bene, hai fatto benissimo… e poi sai cosa ti dico? Mi sentivo un po’ stretta anch’io, fra queste quattro mura: una casa un po’ più grande ci farà di sicuro vivere molto
meglio… Una casa un po’ più grande? Ma Sole aveva idee fantastiche per la testa! Luna non poteva immaginare quel che l’aspettava! Suo marito ancora quel giorno chiamò a raccolta gli amici del villaggio e i contadini per i quali lavorava nei campi dei dintorni e a tutti chiese aiuto: – Voglio invitare Acqua e la sua famiglia a casa mia, ma per farci stare tutti devo ingrandire la mia fattoria. Mi date una mano? Nessuno si tirò indietro: d’altronde Sole era un loro amico e un lavoratore fidato e generoso. Però… – Ma ci hai pensato bene? Ti rendi conto di quel che vuoi fare? – gli disse l’amico del cuore. – Sicuro – rispose Sole. – C’è Acqua che vuole venire a far visita a mia moglie Luna, ma quando si muove lei, deve tirarsi dietro l’intera famiglia, è fatta così e non so che dire. Per farci star tutti in casa mia, devo ingrandirla di un bel po’ e rinforzare anche il recinto della fattoria. Semplice, no? L’amico fece spallucce e… – D’accordo – disse, – se sei contento tu, lo siamo anche noi! Lavorarono tutti di buona lena per alcune settimane e al termine Sole e Luna entrarono soddisfatti in una bella casa enorme, con stanze larghe e alte molto, ma molto più di prima, con finestroni luminosi e porte immense e tutte aperte. Anche il recinto di legno della fattoria era stato abbattuto e ricostruito con sassi e
malta, dopo di che… – Vado a invitare ufficialmente la nostra amica Acqua – esclamò a quel punto Sole, che baciò sulla guancia la sua sposa e partì di corsa. – Ma sei proprio sicura che ora posso venire a casa tua? – s’informò Acqua. – No, perché non vorrei combinare un guaio… – Tranquilla, nessun guaio – rispose Sole con un sorriso accondiscendente. – Grazie all’aiuto dei miei amici e dei contadini per i quali lavoro, adesso Luna e io abbiamo la casa più grande dell’intera vallata! Vieni quando vuoi e portati anche il parentado! Ci sarà posto per tutti, vedrai… Il giorno Acqua arrivò alla fattoria di Luna e Sole accompagnata da cento fiumi, da cinquecento ruscelli e da mille cascatelle zampillanti… Dietro di lei, poi, saltellavano milioni e milioni di pesci d’ogni colore, d’ogni misura e d’ogni forma, inseguiti da barche, barconi e da grosse navi che solcavano le onde… Quando Acqua fu sulla porta d’ingresso… – Allora possiamo entrare? – chiese esitante. – Ma certo, vieni! Venite avanti tutti… – esclamò Sole, sicuro di sé stesso. Quando l’acqua fu alta più di un metro… – Forza su, cosa aspettate: entrate anche voi – urlò Sole rivoltò al popolo dei villaggi galleggianti, alle balene, ai delfini e ai giganteschi cala-
mari giganti… Quando l’acqua raggiunse il soffitto e Sole e Luna furono costretti a riparare in cima al tetto… – Venite, venite forza! – esortò Sole parlando agli atolli, alle isole e agli arcipelaghi, ma quando in casa entrò addirittura l’intero Madagascar… SPLASSSHHH! OOOOPLÀÀÀÀ!! …l’immensa, la gigantesca, la scon-
finata famiglia dell’Acqua spinse il povero Sole e l’altrettanta povera Luna su su su, verso il cielo: un’altissima colonna d’acqua s’alzò fin sopra le nuvole, portando in alto la Luna da un lato e il Sole dall’altro. E lassù l’astro color dell’oro e la sua sposa color dell’argento rimasero per sempre, dandosi il turno di giorno e di notte a illuminare il lavoro e il riposo di uomini e animali.
4 - Nigeria: il fratello ingrato Fiaba di MAURO NERI - Illustrazioni di F ULBER
Lo sapete perché talvolta vediamo per terra o in un prato una formica che procede a gran fatica, portandosi appresso o sulla testa un grosso seme, che per lei dev’essere uno sforzo tremendo? Questa fiaba che viene dalla Nigeria ci spiega il perché di questo strano comportamento… Il più vecchio si chiamava Anansi, il più giovane Tsin. Erano due fratelli contadini che avevano i propri campi uno a oriente e l’altro a occidente del loro villaggio. Un giorno, sul più brutto di una lunga siccità che aveva bruciato in poco tempo tutto il raccolto, Anansi decise di andar a far visita a suo fratello Tsin per vedere come se la stava cavando. Vi lascio immaginare la sua sorpresa quando, fatta l’ultima curva, si trovò di fronte a un campo lussureggiante di piante verdi e ricche di frutti gtrossi e succosi. Anansi si precipitò a casa del fratello e spalancò la porta urlando: – Ma com’è possibile, Tsin, che il tuo sia l’unico campo della valle ad aver dato frutti? Come hai fatto a non patire le disgrazie della siccità? Ti ha forse aiutato un diavolo? – Se quel diavolo ha le sembianze di un nano con la gobba, allora sì, sono stato aiutato da un demone! – Spiegati meglio, che non capisco… – Tempo fa, – cominciò a raccontare Tsin, – mentre passavo accanto alla
fontana del nostro villaggio ho visto il giullare del re seduto sul bordo che giocherellava con una fune. “Potresti aiutarmi, piccolo nano, a dar acqua al mio campo assetato?” gli ho chiesto. “È la cosa più facile che ci sia: basta chiedere con gentilezza e io rivelo a chicchessia il mio segreto. Procurati due bastoncini sottili e tamburella leggermente sulla mia gobba: l’acqua comincerà a cadere dalle nubi raccolte sopra il tuo campo e la siccità almeno per te sarà sconfitta!”. Effettivamente è bastato toccare la schiena curva del nano con due bastoncini e una pioggia torrenziale ha quasi allagato il mio podere… Anansi naturalmente decise di imitare il fratello ma, volendo ottenere un effetto ancor più portentoso, invece di due bastoncini sottili si procurò due bei bastoni nodosi che nascose dietro la schiena. Così conciato passò dalle parti della fontana del villaggio e vide il giullare del re seduto sull’orlo… – Mio fratello m’ha già detto tutto, nano, e so bene quel che devo fare per far piovere sul mio campo. Mi dai il permesso di tamburellare sulla tua schiena? – Accomodati pure, uomo, ma dove sono i tuoi bastoncini? – Eccoli qua! – esclamò Anansi, tirando fuori da dietro la schiena due randelli robusti, coi quali percosse così forte il poveretto da farlo morire di botte. “E adesso che faccio?” si disse
angosciato Anansi, sapendo quanto al re premesse il suo nano-giullare. Il fatto è che Anansi non era un malandrino qualsiasi, era un malandrino molto astuto: prese infatti il corpo esanime del nano e lo trascinò fin quasi in cima a un albero lì vicino. Poi corse a chiamare il fratello Tsin e con una scusa qualsiasi lo convinse a recarsi con lui alla fontana del villaggio. – Si può sapere dov’è andato il giullare del re? – chiese Tsin guardandosi in giro. – S’è arrampicato su quell’albero per vedere se trovava delle noci, ma non è più sceso! Tsin si coprì gli occhi con due mani e cercò di scrutare nel folto del fogliame. – Magari s’è bloccato a metà del tronco e non è più capace né di andar avanti né di scendere. Salgo a vedere… Accadde che, arrivato quasi in cima, Tsin trovò il corpo senza vita del nano ma, non appena fece per afferrarlo, il poveretto scivolò di lato e cadde dall’albero con un gran tonfo. E senza un grido di spavento. Tsin capì subito quel che era successo, perciò non appena ridiscese terra ascoltò tranquillo quel che aveva da dirgli il fratello. – Ma sei matto? – stava urlando Anansi con le mani nei capelli. – Hai ucciso il giullare del re e adesso l’ira del sovrano si abbatterà si di te! – L’ira? L’ira di chi?
– Ma del re, no? Gli hai ammazzato il suo buffone preferito… – Tranquillo, Anansi: in realtà devi sapere che il re era molto arrabbiato col suo giullare e ha messo addirittura una taglia di due sacchi d’oro da consegnarsi a chi che gli riporta, vivo o morto, il nano di corte! Anansi cambiò all’istante espressione: – Cosa? Dici sul serio? Due sacchi d’oro? Ma allora devo confessarti la verità: sono stato io a uccidere quel disgraziato e quindi tocca a me portarlo dal re… Tsin dopo un attimo di pausa sospirò e sorrise: – D’accordo, Anansi: pensaci tu! L’accoglienza del re non fu proprio quella che Anansi sperava. Non appena il sovrano si rese conto di quel che era successo al suo povero giullare, fece arrestare il reo confesso, che per colmo dell’ironia pretendeva il pagamento addirittura di due sacchi d’oro! La condanna fu senza appello: dopo aver fatto rinchiudere il corpo del povero nano in una cassetta, Anansi venne portato al cospetto del re. – Qua dentro è racchiuso il corpo del nano di corte, che tu hai ammesso d’aver ucciso a randellate. Bene: vivrai il resto dei tuoi giorni portando giorno e notte questa cassa incollata sulla testa, incatenata con quattro corde robuste! Avrai pace e potrai
liberarti da quel peso solo se riuscirai a trovare qualcuno che accetti di portare la cassa al posto tuo! Provò, Anansi, a rifilare la pena a qualcun altro, ma non trovò nessuno disposto a credere alle sue suppliche: – Solo per cinque minuti… cinque minuti soltanto, poi torno e mi riprendo la cassa! Il tempo di riposare un po’, di tirare il fiato, di bere una tazza di tè… Niente da fare: nessuno gli credeva! Nessuno, tranne una povera formica. Era una formica onesta e di buon cuore, talmente leale da pensare che anche tutti gli altri fossero perbene come lei. Perciò quando Anansi cercò di convincere anche lei… – Ti prego, formichina bella, ti lascio questa cassa per soli dieci minuti: entro in quel negozio, mi compro un paio di scarpe e poi torno. Te l’assicuro, te lo giuro sulla testa di mio fratello Tsin…
– Non giurare mai sulla testa degli altri – lo rimbrottò la formica, – e invece dammi quella cassa e tu va’ pure a comprarti le scarpe che ti servono… Io aspetto qui! Non occorre aggiungere che Anansi entrò nel negozio dalla porta principale, uscì subito da quella di dietro e non si fece più vedere né dalla formica né da suo fratello Tsin. La formica attese per un paio d’ore – “Mi spiacerebbe molto se quell’uomo, magari impedito da chissà quale accidente, tornasse in ritardo e non mi trovasse ad aspettarlo…” – ma alla fine la poveretta tirò un sospiro deluso, si mise la cassa sulla testa e se ne andò… Ecco perché da quel giorno incontriamo spesso delle formiche che trascinano o portano o spingono grossi fardelli verso chissà quale misteriosa meta.