Rivista Maria Ausiliatrice 6/14

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DONO DEL NATALE

4 GENITORI. A QUALE PREZZO? NE PARLA IL GENETISTA DOTT. DOMENICO COVIELLO

21 UNA SOFFERENZA PER TUTTI. RIFLETTERE CON I SEPAR ATI E I DIVORZIATI

46 MUSICISTI SALESIANI

DON VINCENZO CIMATTI. UNA MELODIA ITALO-GIAPPONESE

ISSN 2283-320X

NOVEMBRE-DICEMBRE 2014

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A me importa

foto: Mario Notario

Cari amici, siamo agli ultimi mesi del 2014, un anno che non ha mancato di offrirci sorprese, preoccupazioni, domande, che non possono e non devono lasciarci indifferenti. L’indifferenza, lo scivolare sulle cose, il non farsi problema finché non è toccata la propria persona, è uno dei pericoli più insidiosi per chi vuole essere fedele al Vangelo.   Papa Francesco a Redipuglia, riferendosi alla prima guerra mondiale, ha affermato: «La guerra non guarda in faccia a nessuno: vecchi, bambini, mamme, papà... Tutte queste persone, che riposano qui, avevano i loro progetti, avevano i loro sogni, ma le loro vite sono state spezzate. Perché? Perché l’umanità ha detto: “A me che importa?”... Questo atteggiamento è esattamente l’opposto di quello che ci chiede Gesù nel Vangelo... Chi si prende cura del fratello, entra nella gioia del Signore; chi invece non lo fa, chi con le sue omissioni dice: “A me che importa?”, rimane fuori».   Non dobbiamo aspettare che siano gli altri a parlare, a compromettersi. Lo stare alla finestra non è secondo il Vangelo. Il Vangelo chiede porte aperte per andare incontro, non finestre per osservare a distanza.   Questo è l’insegnamento e il modo di vivere di Gesù. Tutta la sua vita è stata un compromettersi con l’umanità. Maria, con Elisabetta e a Cana, non è stata a guardare, ma si è data da fare in prima persona. Don Bosco non ha aspettato che altri si muovessero, ma si è gettato nella mischia per la salvezza dei giovani. Tutto perché a loro “importava”. La festa dei Santi ci ricorda che tutti questi fratelli e sorelle non hanno detto «A me che importa?» e si sono donati generosamente. Per noi non si tratta di fare cose straordinarie: ci è chiesto di non tacere, di prenderci cura dell’altro, di testimoniare nella nostra vita che «A me importa», perché «tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).   Vi ricordiamo in Basilica, presso l’Ausiliatrice. DON FRANCO LOTTO RETTORE lotto.rivista@ausiliatrice.net

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SABINO FRIGATO

1 A ME IMPORTA

FRANCO LOTTO

A TUTTO CAMPO 4 GENITORI AD OGNI COSTO, MA A QUALE PREZZO? DOMENICO COVIELLO

GIULIANO PALIZZI

16 IL PRESEPE LORENZO BORTOLIN 18 ESSERE SCOPERTI, GUARDATI, CHIAMATI ALLA LUCE

TRADUZIONE DI DEBORAH CONTRATTO

20 IL BIG BANG E IL FRUTTO PROIBITO ANNA MARIA MUSSO FRENI

CHIESA E DINTORNI 7 OSTENSIONE: GRAZIE AI VOLONTARI! MATTEO PICCIRIELLO

8 PAPA FRANCESCO DALLA SACRESTIA ALLA PERIFERIA

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LUCIANO MOIA

ENZO BIANCO

10 RALLEGRATEVI SABINO FRIGATO 12 ELISABETTA NON È COME LE ALTRE MARIO SCUDU 14 L A MORTE È SOLO UN BRIVIDO DI PAURA EZIO RISATTI

FAMIGLIA 21 L A GRANDE SOFFERENZA

DELLA SEPARAZIONE LUCIANO MOIA 24 DANZA, LINGUAGGIO DELL’ANIMA GIOVANNA FISSORE

LA PAROLA 26 STATE ATTENTI, VEGLIATE! MARCO BONATTI 28 SGUARDI CHE SAPPIANO DI CIELO MARCO

ROSSETTI

MARIA 30 L A STRAGE DEGLI INNOCENTI E LA FUGA IN EGITTO

BERNARDINA DO NASCIMENTO

32 IL SUSSURRO DI SILENZIO SOTTILE

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FRANCESCA ZANETTI

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Direzione: Livio Demarie (Coordinamento) Mario Scudu (Archivio e Sito internet) Luca Desserafino (Diffusione e Amministrazione) Direttore responsabile: Sergio Giordani Registrazione: Tribunale di Torino n. 2954 del 21-4-80

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ERMETE TESSORE

ANDREA CAGLIERIS

GIOVANI 34 SOLO L’ATTESA DESTA L’ATTENZIONE

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GIOVANNI COSTANTINO

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54 IN CAMMINO VERSO IL VII CONGRESSO

INTERNAZIONALE DI MARIA AUSILIATRICE 2015 PIERLUIGI CAMERONI

GIULIANO PALIZZI

56 DA DUECENTO ANNI UN AMORE

36 UNA “CHIAMATA AL SERVIZIO” DEI GIOVANI

PIÙ GRANDE CHE TI GUIDA

UNIVERSITARI CARLO TAGLIANI 38 ADOLESCENTI-ADULTI, ADULTI-ADOLESCENTI: QUALE EVANGELIZZAZIONE? ERMETE TESSORE

59 TORTA ‘D NISSÒLE

FIUMI E MARI 60 IL LAGO DI TIBERIADE

DON BOSCO OGGI 40 SEMPRE GIOVANE IL GIOVANNI DEI RAGAZZI

GIOVANNI COSTANTINO

ANNA MARIA MUSSO FRENI

LORENZO BORTOLIN

ANDREA CAGLIERIS

42 MISSIONARI: SEGNI E PORTATORI DELL’AMORE DI DIO

MARINA LOMUNNO

44 L A PANETTERIA ALL’OMBRA DELLA BASILICA

POSTER DIO, IL GRANDE

ROMANO BORRELLI

46 DALLA MUSICA LI RICONOSCERETE: DON CIMATTI

COMUNICATORE

MARIO SCUDU

CLAUDIO GHIONE

48 SUOR MARIAROSA MARINA LOMUNNO 50 ERO LA RECLUTA IMI 151233 ROMANO 52 “METTERSI IN CAMMINO... CON LA GIOIA DEL VANGELO”

BORRELLI

FAMIGLIE ADMA

21 novembre 2013 Foto: FOTOLIA: .Ivan Grlic (31); Vladimir Melnik (32); Uschi Hering (33); DEPOSIPHOTOS: C. orbis (4); TatyanaGl (5); Giulio Fornasar (11); Maury75 (14); Udra (15); Fotostudio (18-19); Littleny (20); Dmytro Konstantynov (21); O. lga Reutska (22); Yanlev (23); Mandygodbehear (24); Iryna Rasko (26); SerrNovik (27); Nejron (28-29); Zhudifeng (BC); Melpomene (34); .Gemena Communication (35); Matfron (36); Mr Elwell (37); Andresr (38); Monkey Business Images (39); Gualtiero Boffi (40); Intiso (59); SYNC-STUDIO: Tommaso Buzzi (7); Paolo Siccardi (8); .ALTRI: Antonio Lacerda (8); LaPresse (8); www.CreativeNature. nl (40); ANSA (41); Romano Borrelli (44-45;50-51); FMA-IPI (48-49); ADMA (52-55); Archivio RMA (16;56-58);

Foto Poster : Zhudifeng, deposithotos

Giornata mondiale per le claustrali RivMaAus

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A TUTTO CAMPO

Genitori ad ogni costo, ma a quale prezzo? DOMENICO COVIELLO redazione.rivista@ausiliatrice.net

A dieci anni dal varo della Legge 40, attorno alla procreazione assistita si sta creando un far west in cui i più svantaggiati sono proprio quei figli che si vorrebbero tanto avere. Le riflessioni sono del dottor Domenico Coviello, genetista e copresidente di Scienza e Vita.  Assolvere una vocazione di paternità e maternità come atto di amore e di dono di sé o intraprendere un cammino in cui al centro non è più il bene comune, ma il bene del singolo?   La risposta a questa domanda è la chiave di lettura del tortuoso percorso che da dieci anni in qua ha fatto carta straccia della Legge 40, approvata dal Parlamento nel 2004 per regolare la procreazione medicalmente assistita.   Nonostante il referendum del 2005, che ha voluto mantenere la Legge 40, oggi siamo ritornati nel far west in cui tutti possono fare tutto. UNA LEGGE FATTA A PEZZETTI   Com’è potuto succedere? I punti principali della Legge 40 stabilivano: a) il divieto di creare in vitro più di tre embrioni, b) il loro totale utilizzo, per non avere freezer pieni di embrioni umani abbandonati (o peggio usati per ricerca) e, c) il divieto di usare gameti (spermatozoi e ovociti) diversi da quelli della coppia che chiedeva l’aiuto di tale procedura per diventare genitore (la fecondazione omologa).   Gli interventi della magistratura ordinaria e della Consulta hanno cancellato pezzo per pezzo il contenuto della legge, fino a superarla e a permettere oggi non solo la produzione di embrioni in numero non controllato con gameti della coppia, ma anche le miscele biologiche più svariate pur di dare “un prodotto” rispondente ai desideri 4

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A TUTTO CAMPO

della coppia, autorizzando la fecondazione eterologa.   Partendo dal voler garantire un bambino non affetto da malattie genetiche, ad esempio, alcuni giudici hanno ammesso la diagnosi preimpianto, pensando che dal punto di vista etico non cambiasse nulla. Nella pratica, quel genere di esame richiede un numero di embrioni ben superiore a tre e quindi il primo paletto è stato abbattuto.   Inoltre, l’intervento medico diventa la selezione di un embrione in base alle sue caratteristiche fisiche, con lo scarto degli altri che avanzano. Proprio quello che si definisce eugenetica. E anche il secondo paletto è stato cancellato. DAVANTI A UN BIVIO   Si è passati così dal considerare le conoscenze scientifiche a servizio della coppia in una vocazione naturale di genitorialità all’idea che il desiderio del singolo è il diritto da soddisfare a tutti i costi.   Nel primo caso si riconosce che la nostra felicità è strettamente legata all’amore verso l’altro cui si dona gratuitamente, anche con sacrificio; ricevendo però in cambio un amore che riempie di gioia il nostro cuore e la nostra vita.   Nel secondo caso si intraprende un cammino in cui si punta al bene del singolo realizzandone i desideri con gli strumenti del progresso; se poi il risultato delude le attese, può essere sempre rifiutato come un qualsiasi oggetto.   Siamo a un bivio. La scelta sul-

la via da seguire è fondamentale. È in gioco il concetto antropologico di uomo, un cambiamento radicale e pericoloso per l’esistenza dell’umanità stessa. IL TERZO PALETTO   In quest’ultimo anno si è abbattuto il terzo paletto, permettendo l’uso di gameti (spermatozoi e ovociti) da persone diverse dalla coppia che chiede assistenza e ottenendo in provetta embrioni da trasferire nella donna ricevente. Quello che si dice “fecondazione eterologa”. Quindi colei che porterà avanti la gravidanza può non essere la madre naturale, se viene utilizzato un ovocita donato; oppure il padre potrebbe non essere il padre naturale se si usano spermatozoi donati.   A questo si aggiunge la possibilità della fecondazione in provetta chiamata “doppia eterologa”, dove l’ovocita è donato da una donna, il seme maschile da un uomo donatore e l’embrione viene impiantato nell’utero della donna della coppia richiedente, così che nessuno dei due futuri genitori sarà quello naturale. Considerare lecito applicare all’uomo tutto ciò che la tecnologia può

«LE TECNICHE CHE PROVOCANO UNA DISSOCIAZIONE DEI GENITORI, PER L’INTERVENTO DI UNA PERSONA ESTRANEA ALLA COPPIA (DONO DI SPERMA O DI OVOCITA, PRESTITO DELL’UTERO) SONO GRAVEMENTE DISONESTE. TALI TECNICHE (INSEMINAZIONE E FECONDAZIONE ARTIFICIALI ETEROLOGHE) LEDONO IL DIRITTO DEL FIGLIO A NASCERE DA UN PADRE E DA UNA MADRE CONOSCIUTI DA LUI E TRA LORO LEGATI DAL MATRIMONIO. TRADISCONO “IL DIRITTO ESCLUSIVO [DEGLI SPOSI] A DIVENTARE PADRE E MADRE SOLTANTO L’UNO ATTRAVERSO L’ALTRO”» (CCC N. 2376).

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A TUTTO CAMPO DOMENICO COVIELLO DIRETTORE DEL LABORATORIO DI GENETICA UMANA OSPEDALI GALLIERA DI GENOVA E COPRESIDENTE NAZIONALE DI SCIENZA E VITA

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fare non è accettabile. La fecondazione in vitro e la diagnosi preimpianto sono spesso fatte passare per cure dell’infertilità o delle malattie genetiche, mentre servono a bypassare il problema nel primo caso e a fare una selezione eugenetica nel secondo caso. L’infertilità non viene affrontata in modo adeguato. È più semplice (e conveniente commercialmente) spingere le donne verso la fecondazione in vitro anziché fare verifiche più approfondite.   Senza contare che, come tutte le procedure invasive, anche questa comporta rischi medici per la donna e rischi genetici per il concepito. Non è possibile per ragioni di spazio approfondire il tema, ma in proposito l’associazione nazionale Scienza e Vita ha fatto incontri e raccolto materiale, reperibile sul sito: www. scienzaevita.org o alla sede di Roma (06.68192554). L’ACCORDO DELLE REGIONI   Quanto alla recente decisione delle Regioni di procedere così rapidamente nell’attuazione della fecondazione eterologa, il documento condiviso è solo un elenco di problematiche che devono essere normate: aspetti fondamentali e ineludibili quali la presenza di un registro centralizzato dei donatori, il consenso informato, l’individuazione di un

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organo di controllo e autorizzazione. Purtroppo si continuano a dare annunci che alimentano la corsa alle cliniche ma la realtà è ben diversa.   Sono molte le testimonianze di chi ha già tentato questa strada all’estero e racconta un percorso di sofferenza e di disillusioni. Ora, con la prospettiva di poter contare sul nostro Sistema Sanitario Nazionale che vorrebbe offrire gratuitamente questo percorso, gli si forniscono false speranze con la promessa di un risultato certo perché fatto in Italia. Si darebbe atto, inoltre, a una grande discriminazione tra le coppie che scelgono l’adozione, per cui non sono previsti aiuti economici, rispetto a chi sceglie la fecondazione artificiale.   Ha ragione il ministro della Salute Beatrice Lorenzin a preoccuparsi di questa fecondazione eterologa fai-da-te. Il testo presentato dalle Regioni non vincola nessuno all’applicazione dei consigli condivisi e i centri privati già ora si muovono in maniera autonoma verso un’offerta riproduttiva senza regole. Si risponde al desiderio della coppia, travisando il vero significato di genitorialità: atto di amore verso un dono che si accetta e non oggetto desiderato che si prenota.


Torino vivrà ancora momenti spirituali intensi.  Tra poco, dal 19 aprile al 24 giugno 2015 si svolgerà un’Ostensione straordinaria della Sindone. L’avvenimento sarà in concomitanza con i duecento anni dalla nascita di don Bosco.   Non è solo per i torinesi: la sinergia dei due avvenimenti religiosi con l’Expo 2015 di Milano porterà certamente numerosi pellegrini e visitatori.   Ma c’è bisogno di forze! Il Comitato Organizzatore chiede aiuto ai volontari e in particolare alle “Giacchette viola”. Si sono già offerti in 1500.   Il compito è accogliere pellegrini e visitatori lungo il percorso di avvicinamento al Duomo, luogo della Ostensione, assicurando una presenza continua dalle 7 alle 24, con turni di 3 ore e mezza.   Seguiranno il fluire dei pellegrini senza mandato di pubblica sicurezza, ma saranno pronti a segnalare ai numerosi tutori dell’ordine o personale infermieristico presenti, qualsiasi problema.   Le “Giacchette viola” accompagnano le folle dando ad ogni singolo visitatore un’accoglienza personale e servizievole.   I “Volontari della Sindone”, che come rondini si radunano al primo annuncio di una nuova Ostensione e che alla fine si disperdono come lievito nella massa dei fratelli, sono donne e uomini provenienti da ogni ceto sociale: studenti, casalinghe, pensionati, professionisti, operai,

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Ostensione: grazie ai volontari! MATTEO PICCIRIELLO redazione.rivista@ausiliatrice.net

impiegati, lavoratori autonomi... Credenti e non credenti, uniti dinanzi all’immagine sul telo sindonico. Lì dinanzi si interrogano sui veri temi della vita e della morte.   Ci sono i semplici, che alla fine del turno quando vanno a salutare la Sindone si commuovono profondamente e i duri, gli imperturbabili, che riservano sorprese: se un bambino in coda piangesse sarebbero capaci di trasformarsi in clown, pur di farlo sorridere.   Tutte persone di cuore, capaci di donare ai pellegrini che vengono a visitare la Sindone, una tra le cose personali più preziose: il loro tempo.

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Papa Francesco dalla sacrestia alla periferia Periferia: in una parola uno dei segreti di Papa Francesco ENZO BIANCO bianco.rivista@ausiliatrice.net

Periferia è ormai termine di moda: discuterne tra cristiani, oggi, fa trend. E tutta colpa, o merito, di Papa Francesco. Il Papa affronta sovente l’argomento: aveva frequentato le periferie in lungo e in largo a Buenos Aires da giovane prete, poi da provinciale dei gesuiti, e non meno da vescovo e cardinale. Ora che è Papa visita quelle d’Italia e del mondo, le commenta in discorsi e omelie, e indica l’uscire dalle sacrestie come impegno apostolico imprescindibile. Di più, dilata il concetto – di per sé legato all’urbanistica – dandogli una sfumatura teologica: parla di periferie esistenziali. Quelle della fede. A BUENOS AIRES, “GESUITA SALESIANO”   Anche Buenos Aires, fin dalle sue origini, ha le baraccopoli, chiamate Villas 8

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Miseria. La pubblica amministrazione le indica non con un nome ma con un numero. Padre Bergoglio giovane prete visita la più vicina, la Villa Miseria numero 21. Arriva con l’autobus 70. Trova analfabetismo, droga, tratta delle bambine, prostituzione, smercio delle armi. Diventato provinciale, porta a lavorare nelle baracche i giovani gesuiti studenti di teologia, impegnandoli in avventurosi week-end apostolici. Non tutti i suoi confratelli vedono bene l’iniziativa, alcuni – lui stesso l’ha raccontato – per questo apostolato spicciolo lo accusano di essere gesuita salesiano. Ma lui persevera.   All’inizio del nuovo millennio, in un momento di forte crisi (e nelle crisi a pagare sono soprattutto i poveri), il card. Bergoglio dà vita in Buenos Aires a un “Vicariato per la Pastorale nelle Bidovil-


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le”, e lo affida a un manipolo di giovani preti disposti a osare. QUALI PERIFERIE   Bergoglio usa il termine periferie anzitutto nel suo significato originario, dell’urbanistica. E periferia, nelle metropoli, sovente coincide con bidonville. Sulla pastorale nelle baraccopoli ha idee forti, e da vescovo le espone ai sacerdoti. Li sollecita a uscire. Dice: «Si deve uscire da se stessi, andare verso la periferia. Si deve evitare la malattia spirituale della Chiesa autoreferenziale». Con questo aggettivo erudito disapprova un tipo di clero che fa riferimento solo a se stesso e ai propri rituali, non va oltre il proprio orto.   Ha scoperto: «La realtà la si capisce meglio non dal centro, ma dalle periferie». Conosce i rischi: «È vero che uscendo per strada, come capita a ogni uomo o donna, possono succedere degli incidenti. Però se la Chiesa rimane chiusa in se stessa, invecchia. E tra una Chiesa accidentata che però esce per le strade, e una Chiesa ammalata di autoreferenzialità, non ho dubbi nel preferire la prima».   Bergoglio legge il termine periferia anche in rapporto con le parrocchie: ogni parrocchia ha la sua periferia. Riferendo i dati di una ricerca sociologica, spiega che i fedeli se abitano nel raggio di seicento metri dalla chiesa si trovano al centro; se più lontani e a piedi, faticano a frequentare le funzioni. E il parroco deve uscire a incontrarli. Deve scendere dal campanile, attraversare il sagrato, stare con la gente. Consiglia: «Affittate un garage e lo affidate a un catechista ministro dell’eucaristia, che accolga le nonne e i bambini...».   Infine per Bergoglio ci sono soprattutto le periferie esistenziali, le più estese. «La Chiesa è chiamata a recarvisi: sono le pe-

riferie del mistero del peccato, del dolore, dell’ingiustizia, quelle dell’ignoranza, dell’assenza di fede, quelle del pensiero.» Nelle statistiche solo due uomini su sette vengono catalogati come cristiani, e tra loro tanti sono lontani, agnostici, se non atei e ostili. Si dà il caso di ex che vanno dal parroco e chiedono di essere sbattezzati, cancellati dal registro. Dovrebbero diventare l’assillo di ogni cristiano impegnato in missione. NELLE PERIFERIE DEL MONDO   Diventato Papa, Bergoglio non ha diminuito ma se mai accresciuto la sua frequentazione delle periferie, soprattutto quelle esistenziali. Le cerca, in Italia e all’estero. Per esempio? Ma gli esempi non finirebbero più...   In sostanza periferia per Papa Francesco è parola-chiave dell’agire cristiano nel nostro tempo. Occorre scendere dal campanile, uscire dalla sacrestia, attraversare il sagrato, andare oltre i seicento metri, affittare un garage. Fondersi con la gente, come il pastore che prende l’odore delle pecore. In senso fisico, e figurato.

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Rallegratevi È il titolo e il tema della Lettera circolare ai consacrati e alle consacrate. Dal Magistero di Papa Francesco, in occasione del 2015: Anno della vita consacrata.  L’annuncio che il 2015 sarà l’Anno della vita consacrata è stato accompagnato dalla pubblicazione di una Lettera da parte della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica dal significativo titolo Rallegratevi. Non è un testo dottrinale come tanti altri precedenti, bensì un’appassionata esortazione di Papa Francesco a tutti i consacrati/e a testimoniare profeticamente sempre e ovunque la gioia della loro vocazione.   La Lettera vuol essere un aiuto per vivere consapevolmente l’anno della vita consacrata i cui obiettivi sono stati delineati dal card. João Braz de Aviz, Prefetto della Congregazione per la vita consacrata. Primo obiettivo dell’anno della vita consacrata «è fare memoria grata del nostro recente passato» a partire dal Concilio

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Vaticano II. Il secondo è «abbracciare il futuro con speranza» nella convinzione che nella Chiesa la vita consacrata è sempre opera dello Spirito Santo. Terzo: «vivere il presente con rinnovata passione carismatica». Tre percorsi – come dice Papa Francesco – per “svegliare il mondo”. UNA CHIAMATA ALLA GIOIA   Cosa potrà svegliare una generazione dallo spirito intorpidito? La gioia che i consacrati dovrebbero “far vedere” nella loro quotidianità. Solo la bellezza del con-vivere in serena fraternità può scuotere questa generazione dal suo torpore. I consacrati non sono chiamati a gesti eroici, bensì a testimoniare la gioia di vivere perché si sentono amati. Ecco il segreto della


LA MISSIONE PROFETICA DELLA FRATERNITÀ CONSACRATA   In un tempo in cui la frammentarietà e la disgregazione delle relazioni umane a tutti i livelli rivelano e allo stesso tempo alimentano un esasperato quanto sterile individualismo, i religiosi sono chiamati a riumanizzare le relazioni con la testimonianza delle proprie relazioni comunitarie al modo del Vangelo. Mostrare nella concretezza della quoti-

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gioia: «sentirsi amati da Dio, sentire che per Lui noi non siamo numeri, ma persone».   La relazione con il Signore Gesù chiede di essere sempre alimentata dall’inquietudine. Solo così, in certi momenti di stanchezza interiore, si può ritrovare lo slancio iniziale della chiamata e il desiderio di vivere Cristo assumendone stile e atteggiamenti esistenziali. Si tratta di assimilare la sua sorprendente logica di vita, la sua scala di valori e anche condividere i suoi rischi e le sue speranze. Riaprire il cuore a Cristo equivale a rimettersi in movimento e, conseguentemente, decentrarsi per ri-centrarsi in Lui. È la logica di ogni vocazione cristiana.   Chi ha incontrato il Signore e lo segue con fedeltà diviene un messaggero di gioia perché l’incontro con l’amore di Dio riscatta la sua esistenza dall’autoreferenzialità. Chi si lascia prendere il cuore da Cristo viene liberato dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. La sua vita diviene testimonianza di una fraternità gioiosa che provoca salutari interrogativi sul mistero della sequela di Cristo.

dianità la possibilità e insieme anche la gioia della fraternità significa spargere semi di vangelo e di umanità nella vita delle nostre società.   I religiosi con la loro esperienza di vita fraterna possono, anzi devono diventare contagiosi, cioè forza attrattiva verso il Signore Gesù, il suo vangelo e la Chiesa. A tal fine le comunità devono diventare sempre più luoghi visibili e verificabili di un modo diverso di fare, di agire, di vivere. Per il Papa questo è ciò che «sveglia il mondo».   Il Signore chiama ogni giorno i consacrati a seguirlo e a sperimentare il suo amore. Non devono però mai dimenticare che sono dei chiamati a “camminare dietro” a un Gesù con la croce sulle spalle. Papa Francesco ammonisce tutti che «quando camminiamo senza la Croce, quando edifichiamo senza la Croce e quando confessiamo un Cristo senza la Croce, non siamo discepoli del Signore: siamo mondani».

Rallegratevi. Ai consacrati e alle consacrate del magistero di Papa Francesco Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica Libreria Editrice Vaticana, 2014 pagine 72, euro 6,00

SABINO FRIGATO VICARIO EPISCOPALE PER LA VITA CONSACRATA DIOCESI DI TORINO redazione.rivista@ausiliatrice.net

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Elisabetta non è come le altre MARIO SCUDU archivio.rivista@ausiliatrice.net

B. Elisabetta della Trinità (1880-1906), monaca carmelitana

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Il 9 novembre 1906 a Digione moriva una giovane suora di 26 anni, consumata dalla tubercolosi. Delusione, rimpianti o ribellione a Dio perché moriva così giovane? No. Una morte quasi desiderata serena, piena di fede perché pensava a Quelli che l’attendevano lassù. Le ultime parole: “Vado alla Luce, all’Amore, alla Vita”. In una lettera aveva scritto: “«Mamma, quando la suora verrà ad avvertirti che ho cessato di soffrire, tu devi cadere in ginocchio e dire: Mio Dio, tu me l’hai data, e io te la rendo. Sia benedetto il tuo Santo Nome!»”. Solo 26 anni di vita, di cui 5 passati in convento, ma sufficienti per fare di lei una mistica, che ha illuminato il secolo XX. È Beata dal 1984. UNA BAMBINA QUALCHE VOLTA “TRÈS DIABLE”   Elisabetta nacque a Digione nel 1880 da Maria e Joseph Catez: una famiglia unita e benestante, molto aperta. Era considerata una bambina poco malleabile, irascibile e, come dirà la sorella Margherita, talvolta “très diable”. Chi la preparò alla Prima Comunione affermò che aveva “un temperamento tale che sarebbe diventata o un angelo o un demonio”. Ma la grande svolta si ebbe con la Prima Comunione. Scrisse: “In quel grande giorno noi ci siamo dati totalmente l’uno all’altro”. Un promessa di amore totale e reciproco con il Cristo Eucaristico, a cui rimase fedele fino alla fine.   Fu sua madre a prepararla dicendole: “Se vuoi fare la Prima Comunione devi assolutamente cambiare”. E lei cambiò, profondamente, visibilmente. Tutti se ne accorsero, con ammirazione. La Prima Comunione la fece 19 aprile 1990: un giorno decisivo. Il Cristo Eucaristico sarà tutto per lei anche in seguito. Quando dopo la cerimonia incominciò la festa fatta di regali e di dolci, lei bisbigliò all’amica: “Io non ho fame, Gesù mi ha nutrita...”. Elisabetta o “Casa abitata da Dio”   Un altro incontro provvidenziale fu nello stesso giorno. Durante la visita al convento carmelitano vicino a casa sua, la priora le disse che Elisabetta significava «Casa di Dio» e le regalò un’immaginetta con le parole: “Il tuo nome benedetto nasconde un mistero, che si è compiuto in questo gran giorno. Bambina mia, il tuo nome è sulla terra, «Casa di


ELISABETTA NON È COME LE ALTRE Quando la madre, per distoglierla da simili propositi, la portava a serate danzanti o a concerti chi la guardava in profondità si accorgeva che lei era “altrove”, oltre quelle feste. Dicevano: “Elisabetta non è qui. Lei vede Dio”. Ci fu anche un ragazzo seriamente interessato a lei, ma poi, intimorito, desistette confessando agli amici: “Lei non è come le altre”. E arrivò il diciottesimo anno: maggiorenne, poteva coronare il sogno: carmelitana. Nell’agosto 1901 en-

trando nel monastero mormorò: “Dio è qui! Come è presente! Come mi avvolge!”. E quando entrò nella sua piccola cella disse: “La Trinità è qui”. Ed è proprio in suo onore volle chiamarsi Elisabetta della Trinità. Fu un padre domenicano a introdurla nella prospettiva trinitaria insegnandole a pregarLi e adorarLi come i Tre Insieme, come Trinità appunto. E nella contemplazione e adorazione di questo mistero di Amore Trinità, Elisabetta seppe trovare la forza di sopportare quella terribile malattia, che, come confidò una volta alla superiora, l’aveva addirittura fatta pensare al suicidio. Ma tutto superò con il pensiero che Dio era presente in lei, che la guardava con infinito amore e che la teneva sempre per mano. Scrisse solo un centinaio di poesie, meditazioni per ritiri spirituali, un testo sulla Trinità e circa trecento lettere. Non molta cosa ma sufficiente a farne una maestra di vita spirituale. Il 9 novembre 1906 andò a contemplare in cielo quel mistero della Trinità, di quell’Amore Infinito che lei aveva amato in terra.

SONO SCESA IN LAVANDERIA, DOVE SI STROPICCIAVA A PIÙ NON POSSO, E HO CERCATO DI FARE COME LE ALTRE. SGUAZZAVO NELL’ACQUA E MI SPRUZZAVO NON POCO..., ERO AL COLMO DELLA GIOIA. VEDI, TUTTO È DELIZIOSO AL CARMELO: SI TROVA IL BUON DIO AL BUCATO COME ALL’ORAZIONE. NON C’È CHE LUI DAPPERTUTTO! LO SI VIVE, LO SI RESPIRA! SE SAPESTE COME SONO FELICE! IL MIO ORIZZONTE SI ALLARGA SEMPRE DI PIÙ (LETTERA 83).

Tratto in forma ridotta da: Mario Scudu Anche Dio ha i suoi campioni Elledici, 2011 pagine 936, euro 29,00

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Dio» (= Elisabetta), di un Dio che è Amore”. Parole di circostanza? Forse. La bambina capì e fu come folgorata: sapere di essere ‘abitata’ da Dio Trinità, o da Quei Tre, come lei li chiamerà. Il seme era caduto su un terreno pronto a dare frutto. A suo tempo.   Elisabetta fu un’adolescente precoce non solo spiritualmente ma anche musicalmente. Ebbe una grande passione per il pianoforte e per la danza. La madre, che ne scoprì il talento, l’aiutò a coltivarlo. Ammirata a otto anni, diplomata a undici, ebbe il primo premio di pianoforte al Conservatorio appena tredicenne.   La ragazza sembrava avere davanti a sé una vita artistica ad alto livello. La madre sognava per lei una vera carriera da pianista famosa. Dio ed Elisabetta invece avevano un progetto diverso e più alto. All’età di quattordici anni fece il voto di verginità, decisione solo sua e dello Spirito Santo presente ed operante in lei. Tuttavia davanti al progetto di farsi monaca, arrivò deciso il no della madre. Lei tra quattro mura e non su palcoscenici europei? Proprio no.


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E se i timori legati alla fine della vita fossero in gran parte il frutto di un’astuta menzogna?

pri cari defunti e a ricordare che l’uomo è nato dalla terra ed è destinato a tornare alla terra...

La morte è solo un brivido di paura EZIO RISATTI PRESIDE SSF REBAUDENGO redazione.rivista@ausiliatrice.net

Novembre, di tutti i mesi, è per molti il più grigio e malinconico dell’anno. Sarà per il ritorno all’ora solare, che fa sembrare le giornate più brevi; o per la nebbia e il freddo che si fanno più insistenti; o – ancora – per il fatto che, in occasione del 2 novembre, i cimiteri si riempiono di persone che vanno a far visita ai pro14

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UNA REALTÀ CHE RIGUARDA OGNI UOMO   Solo la morte, tra i miliardi di argomenti a proposito dei quali è possibile riflettere e conversare, ha una caratteristica peculiare, che la rende unica: riguarda e coinvolge tutti, dal momento che la sola cosa certa, per chiunque sia nato, è la certezza di dover morire.   Pur non essendo mai stata classificata tra gli argomenti più allegri, mano a mano che l’uomo si è allontanato dalla natura e dalla civiltà contadina per avvicinarsi all’organizzazione più fredda e asettica della città, la morte ha assunto le sembianze di un mostro che incute paura. Non la paura “sana” di chi – per esempio – non guida in modo spericolato e non infrange il codice della strada per non rischiare di procurare danni a se stesso e agli altri o chi si dice no al fumo e all’eccesso di alcolici per preservare la salute del proprio corpo, ma la paura “malata” che paralizza l’esistenza e impedisce alla vita di svilupparsi e di fiorire.   Una paura che stride non poco con quanto Paolo di Tarso scrive nella lettera indirizzata alla comunità cristiana di Filippi: «Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno... Sono stretto infatti tra queste due cose: ho desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe aasai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo» (Fil 1,21.23-25).


Di fronte alla limpidezza delle parole di san Paolo non può non farsi largo, almeno per un attimo, il sospetto che la paura della morte possa essere il frutto di una grande menzogna e che, se osservata attraverso la luce della fede, la morte possa rivelarsi addirittura una realtà desiderabile e desiderata. Naturalmente ci riferiamo alla morte in sé, non alle sofferenze fisiche che talora l’accompagnano e che non sono né belle né piacevoli. SMASCHERARE LA MENZOGNA PIÙ GRANDE   Dietro ogni menzogna – si sa – si nasconde sempre almeno un mentitore. E non è necessario possedere l’acume del tenente Colombo o aver seguito tutte le puntate del La signora in giallo per sospettare chi si celi dietro la sempre più diffusa paura della morte: il “principe” dell’inganno. Colui che, all’inizio dei tempi, illuse Adamo ed Eva di poter decidere che cosa fosse il bene e che cosa fosse il male e catapultò l’umanità nel regno della sofferenza e della morte.   Il movente è chiaro: poiché la morte rappresenta il momento del ritorno dell’uomo alla Casa del Padre, la nascita alla vita vera e l’inizio del bello e del buono per l’eternità, far credere che significhi la fine di tutto, l’inizio della catastrofe e l’origine di ogni male è, per lui, la cosa più ovvia. Illudere l’uomo che con la morte tutto vada perduto è la sua ultima beffa all’intera umanità.   Il rimedio per dare scacco a questa squallida macchinazione è uno solo: affidarsi senza riserve al Padre e confidare in quanto Gesù ci ha rivelato di Lui e del destino che ci attende. Un destino che san Paolo, nella prima lettera indirizzata ai cristiani della comunità di Corinto, rias-

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Suor Eusebia e il pane dei poveri

Patria e della Chiesa.

durante la guerra civile spagnola. cate da Giovanni Paolo II. zione dei Fioretti

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sume così: «Così anche la risurrezione dei morti: è seminato nella corruzione, risorge nell’incorruttibilità; è seminato nella miseria, risorge nella gloria; è seminato nella debolezza, risorge nella potenza; è seminato corpo animale, risorge corpo spirituale» (1Cor 15,42-44). NOVEMBRE-DICEMBRE 2014

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Il presepe Si è diffuso ovunque. Accanto ai personaggi citati nei Vangeli, tanti altri ripresi dalla vita quotidiana. LORENZO BORTOLIN redazione.rivista@ausiliatrice.net

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Lo sappiamo tutti. Il presepe è stato inventato da san Francesco d’Assisi, nella notte di Natale del 1223, in una grotta di Greccio, in provincia di Rieti. Prepara una mangiatoia, dove pone un neonato e, accanto, fa condurre un bue e un asinello. E vicino a loro, pastori e contadini, nobili e frati rievocano il fatto che ha cambiato la storia: è il primo presepe vivente. Questa rievocazione piace subito a tutti, tanto che alla morte del Santo, Giotto ricorda l’evento con lo splen-

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dido dipinto nella Basilica Superiore di Assisi. Ma forse il primo presepe come lo intendiamo noi oggi, con le statuine che raffigurano scene e personaggi della Natività, si deve ad Arnolfo di Cambio, nel 1283. RIVIVERE LA NATIVITÀ   Da allora e sino alla metà del Quattrocento, artigiani e artisti realizzano statue di legno o terracotta, che nel periodo natalizio sono esposte davanti a un fondale o su una fantasiosa ricostruzione di paesaggio palestinese. Le prime “scuole” sono toscane. Nel Cinque-Seicento, nell’Italia settentrionale sono attivi i cosiddetti “plasticatori” che realizzano gruppi scultorei in legno o terracotta per i “Sacri monti”, come quelli di Varallo e di Varese. Poi, questi artisti sono superati dall’estro e dalla fantasia di quelli napoletani e leccesi: ecco così fondali con casali, palazzi e taverne con tanto di pescivendoli, macellai, salumieri, contadini e altri personaggi ancora. Nell’Ottocento, il presepe “esce” dalle chiese e dei palazzi della nobiltà per diffondersi a livello popolare. All’inizio il numero delle statuine è comprensibilmente ridotto all’essenziale e si usano materiali poco costosi: gesso, argilla, sughero, cartapesta. A conferma che è determinante l’abilità dell’artista o dell’artigiano, basta ricordare il livello raggiunto nella lavorazione della cartapesta a Lecce. Nel Novecento, si diffondono impianti meccanici che consentono movimenti alle fi-


TRE STATUINE   Per realizzare un presepe in casa, si sa, bastano tre statuine: il Bambino, Maria e Giuseppe. Poi, in base allo spazio e ai gusti, si affiancano gli altri personaggi: come il pescatore, il mugnaio, il taglialegna, la vecchierella che fila, il fabbroferraio, il macellaio. O come avviene in Provenza, con i “santons” in terracotta, la fioraia, il medico, l’avvocato, il sindaco con la fascia tricolore. Tutte “figure” che ambientate secondo i tempi e le “scuole” (famose sono quelle altoatesina, ligure, pugliese e napoletana), aiutano a rivivere la Natività e a ricuperarne l’autentico significato.   Insomma, anche per chi non ha mai fatto un presepe, quest’anno potrebbe essere l’occasione per realizzarne uno tutto suo. Magari ripescando in qualche scatola le statuine di coccio della nonna, forse con i colori sbiaditi, ma che conservano i ricordi dell’infanzia. Dopo, un po’ di muschio, qualche sasso per ricordare le montagne, la carta stagnola per il ruscello, qualche fiocco di cotone per la neve, il consiglio di un nipotino... E poi, ecco tutti – Maria e Giuseppe, i pastori e pure noi – a guardare la mangiatoia vuota, nell’attesa che la notte del 25 dicembre arrivi lui, Gesù Bambino. E chissà che anche per questo, il Natale 2014 sia più bello per noi e per i nostri cari. Auguri.

16a MOSTRA di PRESEPI e della Devozione Popolare a Don Bosco

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gure. Poi, quando al boom economico segue la contestazione sociale, la tradizione del presepe si affievolisce, a vantaggio dell’albero di Natale. Oggi, il presepe sembra tornare in auge. Merito sicuramente di associazioni e di mostre, come quella che il Centro Salesiano di Documentazione storica e popolare Mariana allestisce ogni anno, nel periodo natalizio, nella cripta della nostra Basilica.

Dal 13 Dicembre 2014 al 6 Gennaio 2015 Nella Cripta della Basilica di Maria Ausiliatrice (a sinistra guardando la facciata) Feriali: ore 15-18 Domenica e Festivi: ore 10-12 ; 15-18 Ingresso libero facilitato ai disabili

rugiada

MOSTRA del BICENTENARIO della NASCITA di SAN GIOVANNI BOSCO dal 24 Gennaio 2015

casa e narra il fatto alla mamma, che però non lo prende in considerazione. Il giorno dopo alle tre del pomeriggio la bambina ritorna per pregare e nota che l’immagine sacra è coperta di sudore. Meravigliata, fa notare la cosa a due uomini di passaggio i quali, constatato il fatto, esclamano: “ragazza, è brutto segno”. le pareti dell’edicola per trovare se vi La fanciulla dopo molto tempo vesia qualche spiegazione della presende passare una donna, Maria Bertorelliza di quel sudore “lucente come la ruCentro Salesiano di Documentazione Cattaneo, e la chiama perché constati giada”. I documenti parlano di guariil prodigio; convince poi la mamma a Storica e Popolare Marianaregolarmente regigioni prodigiose venire essa pure alla Cappella per vestrate e- conservate negli archivi. Via Maria Ausiliatrice, 32 10152 Torino dere la Madonna, il Crocifisso e i SanIl 19 febbraio si celebra la festa per ti che sudano. Tel. 011 52 24ricordare 254 -il822 fatto miracoloso che diede Il fatto si ripete nei giorni successiorigine al Santuario.1 e-mail: csdm.valdocco@gmail.com vi sempre dalle ore 15 e alle 17 e si diMario Morra vulga in modo inspiegabile. Il Parroco morra.rivista@ausiliatrice.net del paese Piero Conti, il sindaco è possibile prenotare visite: PerDon Comitive-scolaresche Luigi Marchesi e l’ingegnere Enea Ru1 GIAMBATTISTA BUSETTI, Santuari mariani delwww.accoglienza.valdocco.it/museo-mariano bini procedono ad esaminare il tetto e la Bergamasca (Bergamo, Velar 1984).

Per informazioni

U La na le del Sa ta Vergin ta di Cam

MUSEO MARIANO Orario di visita:

Domenica e festivi ore 10,00 -12,00 / 15,00 -18,00 Per visite guidate: tel. e fax 011.52.24.254 E-mail: csdm.valdocco@gmail.com Internet: www.donbosco-torino.it

CSD Consulta on-line d documen verete an ticoli, inf approfon www.donb

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Essere scoperti, guardati, chiamati alla luce DOV’È SOFIA?  Si copre gli occhi con le sue mani e chiede: «Dov’è Sofia?».   Sa che la vediamo, sa che in questo momento tutti la vedono. Tutto il suo corpo è visibile ma lei, la piccola, è convinta che coprendosi gli occhi, basti quello perché diventi invisibile alla nostra vista.   Gli occhi chiusi e coperti dalle sue manine la fanno sentire sufficientemente nascosta.   Così ripete di nuovo la sua frase: «Dov’è Sofia?». Non le basta sapere di essere guardata, in lei è grande anche il desiderio di sentirsi cercata.   Allora, ormai a pochi centimetri da lei mi metto a dire ad alta voce: «Sofiaaaa... dove sei?»; la piccola cerca di non muoversi e non posso fare a meno di notare un sorriso, un poco nervoso, nascosto sotto le sue manine.   Mi avvicino ancora un poco, le sfioro appena la frangetta... «Ma dove sarà Sofia?», dico affinchè mi possa sentire, ed insisto ripetendo «ma dove si sarà mai cacciata Sofia?».   Ogni volta che dico il suo nome, le manine stanno quasi per cadere e farla tornare alla luce del sole.   Fino a quando... toglie le mani dal volto, apre gli occhi e dice, con una vocina forte e piena di allegria: «Sofia è qui».

Applausi, gioia, un forte abbraccio e una bella foto. FINE DEL GIOCO...   Grazie mille piccola Sofia! Nel mio gioco personale molte volte ci sono state persone che mi hanno chiamato per nome, che mi hanno cercato, e che si sono assicurati che mi sentissi “cercata-trovata”. Che sono stati miei “complici” nel gioco, che mi hanno aspettato con pazienza quasi infinita, che non si sono mossi dall’essermi al mio fianco fino a quando, alla fine di tutto, non mi sono tolta le bende / le mani (avvenimenti passati, paure, complessi, vane illusioni...) dagli occhi. Lo hanno ripetuto in modi diversi, sicuramente anche con parole differenti, ma sempre con la medesima insistenza, hanno ripetuto il mio nome e in questi loro gesti non ho

Dal blog di Analia Damboriana, direttrice di una scuola materna per bambini con situazioni famigliari “a rischio” a Mar del Plata dell’ispettoria salesiana di Buenos Aires. 18

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potuto che riscontrare il desiderio di essere trovata. Sono passata dall’immobilità delle mie paure e dei miei dolori alla tranquillità che mi regalavano quelle voci amiche che mi chiamavano affinché uscissi dalla mia tana.   Il tuo gioco innocente, spontaneo, semplice, mi rivela qualcosa di bello e profondo; che è facile lasciarsi trovare, uscire alla luce, quando sappiamo che c’è qualcuno vicino a noi che ti sta guardando-cercando, che spera per noi, con noi, e che è al nostro fianco per fare festa. Essere trovati per poter poi tornare a vedere. traduzione di DEBORAH CONTRATTO redazione.rivista@ausiliatrice.net

Henri J. M. Nouwen, a proposito di cercare ed essere cercati, aveva scritto: «Tu cerchi il modo di incontrare Gesù. Cerchi di incontralo non solo con la mente, ma anche nel tuo cuore. Ricerchi il suo affetto, e sai che questo affetto implica tanto il suo cuore quanto il tuo. Ma rimane in te qualcosa che impedisce questo incontro. Vi sono ancora tanta vergogna e tanta colpa incrostate nel tuo cuore, che bloccano la presenza di Gesù.   Non ti senti pienamente a tuo agio nel tuo cuore; lo guardi come se non fosse un luogo abbastanza buono, abbastanza bello o abbastanza puro per incontrare Gesù.   Quando guardi con attenzione alla tua vita, vedi quanto sia stata afflitta dalla paura. Non riuscirai ad incontrare Gesù finché il tuo cuore rimane pieno di dubbi e di paure.   Gesù viene a liberarti da questi legami e a creare in te uno spazio nel quale puoi stare con lui. Egli vuole che vivi la libertà dei figli di Dio. Non disperarti, pensando di non poter cambiare te stesso dopo tanti anni.   Entra semplicemente come sei alla presenza di Gesù. Tu non puoi renderti diverso. Gesù viene a darti un cuore nuovo, uno spirito nuovo, una nuova mente e un nuovo corpo.   Lasciati trasformare dal suo Amore solo così sarai capace di ricevere il suo affetto nell’interezza del tuo essere».

SENTIRSI CERCATI FA SENTIRE IMPORTANTI, DESIDERATI, VALORIZZATO, AMATI. MA NON BASTA: BISOGNA ANCHE LASCIARSI AMARE.

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Il big bang e il frutto proibito È meglio affrontare lunghe disquisizioni sulla natura e la trasmissione del peccato originale o riflettere sulla misericordia di Dio che promette la salvezza all’umanità peccatrice?  Troppo arduo, per i bambini ipertecnologici del Terzo Millennio, penetrare l’arcaica poesia di alcune pagine della Bibbia.   Lo scarno racconto della Creazione non convince il polemico Matteo che sbotta: «Lo sanno tutti che Il principio si chiama Big Bang: lo ha spiegato ieri la maestra di scienze, e ha detto anche che i primi umani sono derivati per evoluzione da animali superiori come le scimmie!». Ci lanciamo in cavillose discussioni sull’evoluzionismo e sul fissismo, per concludere con il concetto che tra scienza e fede non c’è contrasto perché una non esclude l’altra e Dio, come sosteneva il buon Galilei, ha dato all’uomo la capacità di scoprire, attraverso lo studio di secoli, le leggi che regolano l’Universo. Il discorso si complica quando arriviamo al racconto del peccato originale e della sua trasmissione a tutta l’umanità. Secondo i ragazzi questo non è giusto. Il ricorso alle immagini create dai teologi per spiegare l’origine del male non li convince, e nemmeno l’affermazione di sant’Agostino, secondo la quale la trasmissione del peccato originale è un mistero. Questo argomento tormenta spesso anche le catechiste, alle quali non bastano mai le risposte del parroco. Mi domando se sia poi così educativo insistere tanto sul contenuto e sul fascino del Male. La riflessione di Martina mi toglie dai guai: «Per me 20

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è importante sapere che, mentre puniva i primi uomini, Dio prometteva un Salvatore. Ha fatto come i nostri genitori quando ci mettono in punizione per qualche disubbidienza e intanto ci dicono: “Se però domani prendi un bel voto nella verifica, domenica ti porterò lo stesso alle giostre!”. Giusto?». - «Giusto!». ANNA MARIA MUSSO FRENI redazione.rivista@ausiliatrice.net


FAMIGLIA

La grande sofferenza della separazione LUCIANO MOIA CAPOREDDATTORE NOI GENITORI E FIGLI - AVVENIRE redazione.rivista@ausiliatrice.net

Rifiuto, rivolta, patteggiamento, depressione, accettazione, perdono. Sono le sei fasi dell’elaborazione della sofferenza da separazione.  Lo spezzarsi di un rapporto di coppia porta con sé un carico di dolore che psicologi e psichiatri paragonano a un vero e proprio lutto. Si vive cioè la perdita della persona come uno strappo che incide sul proprio equilibrio, si perde la speranza di poter ricominciare a vivere, si considera impossibile impostare nuovamente la propria esistenza senza quel compagno o quella compagna che erano entrati a fare parte della nostra vita e, in molti casi, erano diventati parte della nostra stessa identità. SEPARARSI? NO, NON È NORMALE   Troppo spesso, soprattutto in questi ultimi anni, separazioni e divorzi sono stati considerati come eventi “normali”, quasi ineluttabili, conseguenza diretta di un certo clima culturale che parla – spesso soltanto con la forza imperiosa delle suggestioNOVEMBRE-DICEMBRE 2014

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FAMIGLIA

SONO NUMEROSE LE RIFLESSIONI SOCIOLOGICHE E PSICOLOGICHE SULLA REALTÀ “TEORICA” DI SEPARATI E DIVORZIATI. QUASI INESISTENTI INVECE LE ANALISI CHENASCONO “CON” I SEPARATI, ASCOLTANDO DIRETTAMENTE I LORO RACCONTI, LE LORO ESIGENZE, LE LORO DELUSIONI.

ni e dei simboli – di relativismo, di provvisorietà, di banalizzazione delle relazioni affettive. Quasi che anche nell’ambito meraviglioso ma fragilissimo dei sentimenti, si potesse e si dovesse adottare la stessa logica del consumismo: cioè sostituibilità e intercambiabilità. Quando un rapporto appare logoro, si può avvicendarlo, scegliendo sullo scaffale delle offerte, quella che sembra in quel momento più allettante o più gradevole. Così si è andata pian piano affermando una sorta di giustificazione sociale. Divorziare? Normale, anzi in certi ambienti quasi scontato. Ma tentare di uniformare la propria esistenza a quella dei cosiddetti vip da copertina, e alla loro vorticosa giostra di affetti, di soldi e di lustrini, si rivela per la maggior parte delle persone normali una prospettiva deleteria che lascia soltanto ferite insanabili nel cuore e pesanti ammanchi nel portafogli. RIFLETTERE CON I SEPARATI E I DIVORZIATI   Oggi in Italia i separati sono esercito che ogni anno cresce di 250mila unità. Due milioni e mezzo ogni dieci anni. Eppure, nonostante la crescente frequenza di separazione e divorzi, sono ancora relativamente pochi, almeno nel nostro Paese, gli studi che prendono in esame il problema su base statistica, dando voce ai bisogni, alle richieste, ai desideri, alle aspettative di queste persone. Certo, sono numerose le riflessioni sociologiche e psicologiche sulla realtà “teorica” di separati e divorziati. Quasi inesistenti invece le analisi che nascono “con” i separati, ascoltando direttamente i loro racconti, le

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loro esigenze, le loro delusioni. Questo l’obiettivo della ricerca presentata le scorse settimane dall’Istituto di antropologia per la cultura della persona e della famiglia in collaborazione con il Centro di ateneo sulla famiglia dell’Università Cattolica di Milano e con l’Associazione famiglie separate cristiane. Da un campione di circa mille interviste a persone separate e divorziate – la prima mai realizzata in Italia con questi numeri – si cercherà di tratteggiare un quadro esauriente finalizzato a comprendere le radici di un fenomeno, la sua ripercussione sulla vita delle persone direttamente coinvolte e sui familiari più prossimi, il suo effetto sulle dinamiche sociali ed ecclesiali. Una situazione, come emerso anche dal recente Sinodo straordinario, sta minando alle radici le fondamenta della stessa convivenza sociale. È NECESSARIO UN SOSTEGNO FUORI DALLA FAMIGLIA   La ricerca – i cui risultati definitivi, corredati di ampio quadro statistico saranno resti noti nei primi mesi del 2015 – si propone anche di indicare proposte di aiuto, servizi e risorse a cui le persone che vivono questo dramma potranno rivolgersi per trovare l’appoggio necessario. Un dato è ormai chiaro. Per attraversare questo tunnel il sostegno va cercato al di fuori della propria famiglia. Serve cioè un supporto di tipo specialistico in grado di accompagnare la persona lungo un tragitto interiore che non è mai senza conseguenze. Per i credenti questo percorso può essere affiancato dall’accompagnamento spirituale, dalla partecipazione alla


LibreriaTorino Elledici – Valdocco

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vita sacramentale ed ecclesiale, dalla preghiera personale. I due generi di aiuto non sono alternativi, ma complementari. Più consapevolmente e più in profondità si riusciranno a vivere le sei fasi dell’elaborazione della sofferenza – che abbiamo elencato all’inizio – tanto più saldamente ci si rimetterà in piedi, riprovando il gusto di vivere, aprendosi a nuove possibilità di realizzazioni, prima interiori, poi relazionali e lavorative. TANTE PERSONE, TANTE SENSIBILITÀ DIVERSE   Occorre dire che non tutto avviene in modo così automatico, secondo un percorso coerente e schematico. Ogni persona separata vive infatti questo dramma in modo diverso, con tempi e modi del tutto personali. L’attraversamento doloroso e difficile di tappe ineliminabili, deriva in ogni caso dalla possibilità di avviare ri-orientamento e ri-posizionamento della propria esistenza lacerata dalla separazione. Dopo una crisi così profonda – al di là di tutti i soliti luoghi comuni sulla separazione facile – occorre quindi ritrovare la capacità di discernere, di ridisegnare la propria vita, di trovare nuove coordinate. Per chi crede questo processo è frutto di una sinergia tra la persona umana e lo Spirito di Dio, rigeneratore e ricreatore. Ecco perche, nell’ambito del processo di elaborazione del lutto-separazione, occorre aprirsi a vivere il cambiamento come sfida, considerare ciò che è avvenuto con un atteggiamento di realismo e di verità.

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FAMIGLIA

Danza, linguaggio dell’anima GIOVANNA FISSORE redazione.rivista@ausiliatrice.net

«Certe cose si possono dire con le parole, altre con i movimenti. Ci sono anche dei momenti in cui si rimane senza parole, completamente perduti e disorientati, non si sa più che cosa fare. A questo punto comincia la danza». (Pina Bausch) LO SPIRITO SI RENDE VISIBILE NEL CORPO  La danza è una forma di espressione che appartiene all’uomo fin dall’antichità. Un tempo i popoli danzavano per propiziarsi i raccolti, per scacciare il maligno, per festeggiare una caccia abbondante o un matrimonio, per prepararsi alla guerra. Da sempre essa è un’esperienza di movimento nata da emozioni e idee che ne produce altrettante; un linguaggio che permette un dialogo tra il sentire interno, intimo ed il mondo esterno. È un’attività che coinvolge il corpo, il cuore, lo spirito. Ancora oggi i popoli più vicini alla natura danzano in maniera spontanea o rituale, conservando, anche da adulti la capacità di abbandonarsi al ritmo, perché la danza è parte della loro vita di ogni giorno.   Al contrario i popoli così detti “civilizzati” perdono questa spontaneità, il loro corpo è irrigidito dalle convenzioni della compostezza e diventa spesso oggetto di frustrazioni e di disagio.   Allora è importante che i bambini e i ragazzi non perdano la spontaneità del movimento che hanno fin dall’infanzia, ma imparino a vivere ed apprezzare il proprio corpo e quello dell’altro nella ricerca di equilibrio e di armonia tra il “dentro” e il “fuori”. I PASSI SANNO RACCONTARE EMOZIONI   La danza creativa, la danza educativa, il giocodanza sono strumenti utili a un ap24

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prendimento non finalizzato al raggiungimento di particolari capacità tecniche ma atti a fornire stimoli e approntare situazioni nelle quali i bambini possano conoscere e affrontare il mondo che li circonda attraverso le emozioni. La danza creativa stimola la conoscenza di sé attraverso l’acquisizione della consapevolezza del gesto corporeo. Prendiamo ad esempio l’atto del camminare. La semplice funzione motoria serve a spostare il corpo da un punto all’altro dello spazio. Ma se noi trasformiamo questa quotidiana attività in esperienza motoria, ad esempio alterandone il ritmo (passi veloci o molto lenti), oppure la qualità (passi pesanti, leggeri, trascinati, scattanti), il camminare sarà sempre un’azione di trasferimento del peso da un piede all’altro, ma la qualità del nostro sentire soggettivo ne farà uno strumento di conoscenza.   Mats Ek, grande coreografo svedese, dice che la danza è «pensare con il corpo. È necessario pensare con il tuo corpo. Non per la sopravvivenza (cui basta l’atto semplice del camminare), ma per vivere (dove l’atto del camminare diventa un modo di conoscere)». Ecco perché, attraverso la danza spontanea e creativa, i bambini e i ragazzi diventano consapevoli di un diverso modo di sentire e di conoscere se stessi e lo spazio che li circonda.   Allora la danza, in ogni forma e da chiunque venga danzata, ha il potere di trasformare il movimento in un linguaggio capace di creare relazioni, di raccontare emozioni, di condividere esperienze senza usare le parole, al di là di strutture codificate, di differenze sociali, culturali o religiose. La danza è il linguaggio nascosto dell’anima, espressione effimera di un sentire profondo. Dunque non importa come lo fai, ma alzati... e danza!

Natale di pace di Dina Scognamiglio Paoline, 2014 pagine 16, euro 1,50

Grazie Permesso Scusa di Rossella Semplici Paoline, 2014 pagine 32, euro 3,50

Ma mi stai ascoltando di Anna Bertoni e Barbara Bevilacqua Paoline, 2014 pagine 136, euro 13,00

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LA PAROLA

State attenti, vegliate! È questa la “scommessa”: vivere da “svegli”, aspettando il Signore. Una sfida per il nostro mondo che si compiace della velocità, e aumenta l’efficienza senza interrogarsi sulla qualità. «FATE ATTENZIONE, VEGLIATE, PERCHÉ NON SAPETE QUANDO È IL MOMENTO. È COME UN UOMO, CHE È PARTITO DOPO AVER LASCIATO LA PROPRIA CASA E DATO IL POTERE AI SUOI SERVI, A CIASCUNO IL SUO COMPITO, E HA ORDINATO AL PORTIERE DI VEGLIARE. VEGLIATE DUNQUE: VOI NON SAPETE QUANDO IL PADRONE DI CASA RITORNERÀ, SE ALLA SERA O A MEZZANOTTE O AL CANTO DEL GALLO O AL MATTINO; FATE IN MODO CHE, GIUNGENDO ALL’IMPROVVISO, NON VI TROVI ADDORMENTATI. QUELLO CHE DICO A VOI, LO DICO A TUTTI: VEGLIATE!» (MC 13,33-37).

«Vegliate!» è l’ultima istruzione che il Signore dà ai suoi. Subito dopo comincia, con il cap. 14 del Vangelo di Marco, il racconto della passione e risurrezione. La liturgia impone questo imperativo all’inizio dell’Avvento romano: cioè a “Capodanno”, quan26

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do la Chiesa ricomincia (senza averla mai interrotta) la sua testimonianza di lode al Signore.   Gesù introduce una similitudine: uno è partito per un viaggio, ha dato il potere ai servi – si direbbe: l’“ordinaria amministrazione”, la gestione quotidiana della proprietà – ma tornerà certamente e si riprenderà il suo.   Allora, il padrone non siamo noi. Non è “nostra” la vita, né la storia, non sono nostri i beni della terra, nel senso che non ne possediamo le ragioni profonde, ultime. Però nella vita e nella storia stiamo dentro: non abbiamo altro, non siamo altro. E di noi stessi, dei nostri atti saremo chiamati a rispondere, quando il padrone tornerà. Il senso della vita e della storia è caso mai qualcosa da scoprire, da capire se si vuole essere pronti “al momento giusto”.


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NESSUN SEGRETO   Nel Vangelo non c’è niente di segreto, non ci sono istruzioni speciali per gente speciale. E quest’ultimo avvertimento di Gesù (diversamente, ad esempio, dalle “istruzioni per la missione” del capitolo 10 di Matteo) non è soltanto per i suoi discepoli, anzi: «Quel che dico a voi lo dico a tutti».   Vigilare significa stare attenti; e significa saper aspettare. Noi siamo come le sentinelle che attendono con ansia l’aurora (Salmo 130,6): la notte ci affatica e ci spaventa; più ancora ci spaventa il sapere della fine, e il non conoscerne il come, il dove, il quando, il perché... Eppure è proprio questo che ci viene chiesto, è questa la “scommessa” da accettare o respingere: vivere da “svegli”, imparando ad aspettare: una bella sfida, per il nostro mondo che si compiace della velocità, e aumenta l’efficienza senza mai interrogarsi sulla qualità.

INIZIA L’ATTESA   Non siamo capaci di aspettare; non solo: crediamo di non avere più niente e nessuno da attendere. Si prevede e si programma tutto, ci si assicura, contro l’imprevisto, in modo che l’”ordine” dei piaceri materiali e del benessere non venga mai sconvolto...   Ci si chiede, invece, di attendere: così come duemila anni fa, quando era fortissima la tensione per l’attesa del Messia, colui che doveva venire a riparare tutti i torti, portare la salvezza (cioè restituire alla nostra vita la memoria, e la dignità di essere vissuta). Da allora, in realtà, il tempo dell’attesa non fa che cominciare.

LA NOTTE CI AFFATICA E CI SPAVENTA; PIÙ ANCORA CI SPAVENTA IL SAPERE DELLA FINE, E IL NON CONOSCERNE IL COME, IL DOVE, IL QUANDO, IL PERCHÉ.

MARCO BONATTI RESPONSABILE DELLA COMUNICAZIONE COMMISSIONE DIOCESANA OSTENSIONE SINDONE press@sindone.org

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LA PAROLA

Sguardi che sappiano di Cielo Il Signore innalzato al Cielo assicura la sua presenza costante fra noi, suoi discepoli, affinché possiamo camminare in questo mondo con l’attenzione costantemente rivolta al Cielo, la meta verso cui il Risorto ci attrae e dove ci attende. IL MONTE ED IL CIELO  Tutto avviene sul monte degli Ulivi (At 1,12 cfr. Lc 24,51), luogo altamente significativo nella vita di Gesù: là egli si ritira per parlare agli apostoli e per pregare nel silenzio; in quel luogo pronuncia le più straordinarie parole di obbedienza che mai siano state dette: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà» (Lc 22,42). Sul monte dove ha inizio la Passione del Signore, si compie anche la Pasqua: proprio là il Risorto incontra per l’ultima volta gli apostoli prima di essere innalzato al Cielo. C’è ancora qualcosa a cui essi devono essere esortati e di cui devono essere resi consapevoli. La descrizione è brevissima: il Narratore preferisce comporre un testo sobrio per porre in evidenza in modo immediato il significato per la fede di quello che accade: Cristo torna col corpo di un uomo nella gloria di Dio, in Cielo, da cui però ritornerà. L’unica evidente ripetizione riguarda l’uso frequente di verbi o frasi che descrivono il vedere degli apostoli: ciò è però chiaramente voluto per mettere

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principalmente in luce il loro ruolo di testimoni. IL CIELO È APERTO   Degli apostoli Luca evita persino di scrivere qualsiasi emozione: nessuno stupore, nessuna meraviglia, solo il fissare insistentemente il Cielo mentre


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il Signore se ne va. Niente di più, perché null’altro serve. Su quanto essi stanno vedendo si fonda infatti quello che anche noi, con loro, dobbiamo contemplare. A partire dalla loro testimonianza dobbiamo essere infatti dei testimoni del Signore Gesù fino alla fine dei tempi! Repentino è a questo punto del racconto il sopraggiungere di «due uomini in bianche vesti»: essi ci ricordano due simili persone che avevano dato alle donne l’annuncio della Risurrezione (Lc 24,4-7). Si tratta di due angeli che innanzitutto esortano a non perdere tempo, poi annunciano e spiegano che il Risorto è stato innalzato al Cielo da cui farà ritorno. Il Signore Asceso non ci lascia soli nel cammino! L’Ascensione non lo allontana infatti da noi: proprio perché egli siede alla destra del Padre, la sua diviene una presenza continua, libera dai limiti dello spazio e del tempo: tutti, ovunque, sempre, hanno e continueranno ad avere la possibilità di incontrarlo e di accoglierlo. Il Risorto e Asceso continua ad essere presente nel vivo della Chiesa e di ogni cristiano. Infine, il fatto che su questo ritorno non venga data nessuna indicazione, sta a significare che la nostra attesa non dovrà essere inoperosa, ma piena di frutti. Per questo ci è dato lo Spirito Santo.

IL CIELO È LA META   È dunque così, con lo sguardo proteso al ritorno di Cristo, che ciascuno di noi è chiamato ad essere discepolo e testimone del Risorto. A ben pensare, quanto ci viene detto è corroborante perché spinge in là il nostro vivere quotidiano, gli imprime un senso, una meta. Il Signore asceso ci apre la strada verso il Cielo, la percorre per primo e ci assicura che anche noi, se ci poniamo alla sua sequela e lo ascoltiamo, la potremo ugualmente compiere con successo. La nostra meta è il Cielo, il Paradiso: là il Risorto ci attende e là ci attira. Questo ci deve far completamente cambiare il nostro modo di vedere gli avvenimenti: dobbiamo una volta di più imparare a considerare quanto ci accade con uno sguardo che sappia di Cielo! Non dobbiamo sopportare gli eventi, non dobbiamo neppure fuggire da essi, ma chiedere al Signore di darci il suo sguardo, perché nella fede possiamo capire quanto accade e dargli così la nostra testimonianza. Ogni sguardo che contempli solo il Cielo, ma non ci restituisca alla vita pieni di speranza, sarebbe infatti ingannevole.

LA NOSTRA META È IL CIELO, IL PARADISO: LÀ IL RISORTO CI ATTENDE E LÀ CI ATTIRA.

MARCO ROSSETTI rossetti.rivista@ausiliatrice.net

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La strage degli innocenti e la fuga in Egitto BERNARDINA DO NASCIMENTO redazione.rivista@ausiliatrice.net

Dopo la presentazione di Gesù al Tempio, abbiamo una netta divaricazione nei racconti evangelici attribuiti a Matteo e a Luca. Luca è estremamente sintetico: «Quando ebbero tutto compiuto secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nazaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la Grazia di Dio era sopra di Lui» (Lc 2,39-40). Lo stile è notarile: burocratico, essenziale senza possibilità di fantasie inutili. Matteo, invece, prima del ritorno a Nazaret, inserisce gli accenni alla fuga in Egitto ed alla strage dei fanciulli innocenti di Betlemme. LA FUGA IN EGITTO E LA STRAGE DEGLI INNOCENTI   Innanzitutto bisogna dire che non sono racconti storici,

© Schnoor - Conti

ma narrazioni che richiamano da vicino l’uso dei midrash tipici dei rabbini di quel tempo. Non può essere diversamente, dato che Matteo scrive per cristiani di origine ebraica. Nella mentalità ebraica la figura dominante, nel contesto familiare, è quella del padre. È per questo motivo che Giuseppe torna ad essere il perno degli avvenimenti. Proprio lui che, dopo essere stato poco cortesemente snobbato dai magi: «entrati nella casa, videro il Bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono» (Mt 2,11), attraverso il solito sogno, viene posto di nuovo al centro della vita familiare «alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto» (Mt 2,13). Nella sua narrazione l’evangelista è soprattutto preoccupato di innestare la storia di Gesù nel solco della Sacra Scrittura. Aggancia i fatti relativi alla famiglia di Betlemme ai racconti biblici. Perché la fuga in Egitto? Perché nel libro del profeta Osea c’è scritto: «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio» (Os 11,1). La vita di Gesù Messia ricalca quella dei grandi personaggi che lo hanno preceduto. In Egitto sono andati e ritornati Abramo, i figli di Giacobbe, Giuseppe, Mosè, Geroboamo, il profeta Uriya... In quella nazione tutti hanno trovato rifugio, protezione, persecuzioni prima del loro ritorno in patria per portare a termine il compito assegnato loro da Jahweh. Anche il racconto della strage degli innocenti è supportato da una citazione di Geremia: «Un grido è stato udito in Rama, un CONTINUA A PAGINA 31

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Dio, il grande Comunicatore

MARIO SCUDU archivio.rivista@ausiliatrice.net

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I cristiani che vanno a messa sentono dopo le letture della Bibbia un sigillo preciso su ciò che è stato letto: «Parola di Dio» o «Parola del Signore». E la risposta è: «Rendiamo grazie a Dio». Come dire: ti ringraziamo o Dio perché ci parli anche oggi, perché comunichi con noi e ti comunichi a noi. Noi crediamo quindi che il nostro Dio è sì un Dio invisibile, intoccabile, puro spirito ma è anche vicinissimo a noi, è con noi sempre, parla all’uomo, comunica con lui, cerca la sua amicizia. Per chi vive in città è specialmente durante le vacanze che ci si accorge dei tanti messaggi che ci arrivano ogni giorno attraverso il creato, il cielo stellato, il sole, il mare, i monti. Tutto è comunicazione sua per noi. Un dono di amore di Padre ai suoi figli. Possiamo quindi definire il nostro Dio come il grande Comunicatore. E questo oggi si può capire con maggiore facilità, perché viviamo in un’epoca di comunicazione sociale a tutti i livelli, in una società completamente cablata, dove tutto viaggia in tempo reale, un mondo fatto di strade e superstrade digitali perennemente congestionate. Diciamo anche che molte di queste comunicazioni sono semplici informazioni che arricchiscono la mente ma non ci toccano o ci cambiano il cuore. Dio fa infinitamente di più. Comunica con noi perché vuole trasformarci con il suo amore. Ricordiamo l’incipit della Lettera agli Ebrei: «Nei tempi passati Dio parlò molte volte e in molti modi ai nostri padri per mezzo dei profeti. Ora invece in questi tempi che sono gli ultimi ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,1-2). Il Natale lo possiamo definire la festa della comunicazione definitiva di Dio all’uomo. Non un libro anche costoso, ma una vita umana vissuta da Dio (incarnazione), non un SMS indirizzato a ciascuno su questo mondo con la semplice comunicazione: «Ciao. Ti voglio bene» e poi via, nell’alto dei cieli distinto e distante dalla nostra terra. No, Dio ha voluto comunicare con noi in persona, attraverso il Figlio suo unigenito, donato a noi come un Bambino, come un Figlio (Isaia 9,6). Il Natale è Cristo, la comunicazione ultima e definitiva di Dio all’uomo: esso ci ricorda il suo amore ed il suo interesse per noi, povere creature, bisognose di tutto, ma specialmente della sua tenerezza, della sua pazienza, della sua misericordia, del suo amore. NOVEMBRE-DICEMBRE 2014

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Nei tempi passati Dio parlò molte volte e in molti modi ai nostri padri per mezzo dei profeti. Ora invece in questi tempi che sono gli ultimi ha parlato a noi per mezzo del Figlio. Eb 1,1-2

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Signore, se tu mi abbandoni A te levo i miei occhi, santa Madre di Dio. Vorrei fare della mia casa una casa in cui Gesù sia presente come ha promesso a quelli che si riuniscono nel suo nome. Tu hai accolto il messaggio dell’angelo come un messaggero che viene da Dio, e hai ricevuto, per la tua fede, la grazia incomparabile di accogliere in te Dio stesso. Tu hai aperto ai pastori e ai Magi la porta della tua casa in modo che nessuno si stupisse della sua povertà o della sua ricchezza. Sii tu, nella mia casa, colei che accoglie. Perché quanti hanno bisogno di conforto siano confortati. Quanti desiderano rendere grazie, possano farlo. Quanti cercano la pace possano trovarla. E possa ognuno ritornare nella sua casa con la gioia di aver trovato Gesù, Via, Verità, Vita. Luigi Ederle IV

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MARIA

pianto ed un lamento grande; Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più» (Mt 2,18). Siccome, ancora oggi, gli ebrei si recano in pellegrinaggio a Betlemme per venerare la tomba di Rachele, è evidente l’intenzione di Matteo di avvalorare il suo racconto legandolo alla tradizione ebraica. Il sanguinario Erode si comporta esattamente come il Faraone di Egitto nei riguardi dei fanciulli ebrei al tempo dell’Esodo. IL RUOLO DI MARIA   Nella narrazione di questi due episodi evangelici Maria non è mai menzionata. La sua persona si inabissa nel silenzio. Non può essere diversamente. Nella famiglia ebraica, la madre agisce dietro le quinte. È lei che fatica, educa, lavora, soffre. Tutto questo in silenzio, senza lamentarsi. L’unico ad apparire è il padre. È lui che prende le decisioni. La madre e i figli devono solo obbedire. Giuseppe decide di partire per l’esilio che non deve essere durato più di due o tre anni, in quanto Erode muore nel 4 a.C.. Per la famiglia di Gesù sono stati anni duri, caratterizzati da solitudine, problemi di inculturazione, di adattamenti difficili e dolorosi, di lavoro precario, di difficile sopravvivenza. Maria conosce sulla sua pelle le stesse emozioni che molte madri sperimentano anche oggi tutte le volte che devono quotidiana-

mente confrontarsi con le guerre, le ingiustizie, le violenze, i pregiudizi, la mancanza di lavoro e le precarietà del vivere. È una madre moderna in tutti i sensi. Tutto questo possiamo solo intuirlo, perché il racconto evangelico tace. Solo gli apocrifi, come al solito, si sbizzarriscono. Il Vangelo dello Pseudo Matteo imperversa. Secondo la sua narrazione la famiglia di Gesù parte per l’Egitto accompagnata da asini e buoi che trasportano le masserizie; incontrano draghi, leoni e leopardi con la testa china che adorano compunti; anche le statue delle divinità egiziane vanno in frantumi al passaggio; le palme si piegano fino a terra per permettere a Maria di raccogliere i datteri senza fatica. Si tratta di un genere letterario.   Il vero messaggio che il Vangelo vuole trasmetterci è invece molto serio e impegnativo. La nostra devozione mariana non può essere solo ingolfata di tenere emozioni e di prediche. La vera immagine della madre di Gesù, «modello dell’atteggiamento spirituale con cui la Chiesa celebra e vive i divini misteri» (Paolo VI, Marialis Cultus 16), dobbiamo essere in grado di scoprirla in ogni donna che, a qualunque costo e sacrificio, vive la sua vocazione di madre sempre ed in ogni circostanza, comunque la vita si presenti.

MARIA, MADRE ATTENTA E PREMUROSA, IL TUO SGUARDO MATERNO PENETRA IN PROFONDITÀ LE NOSTRE FERITE E LE NOSTRE DIFFICOLTÀ. TU CONOSCI BENE IL NOSTRO CUORE E SAI CIÒ DI CUI ABBIAMO BISOGNO. AUMENTA LA NOSTRA FEDE NELLE SITUAZIONI UMANAMENTE INTOLLERABILI E SENZA VIA D’USCITA.

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Il sussurro di silenzio sottile FRANCESCA ZANETTI redazione.rivista@ausiliatrice.net

Il Salvador anticamente è stato abitato dai Maya e dai Pipil, dominato dagli Spagnoli, schiacciato da dittature, dilaniato da una guerra civile e da terremoti; è il più piccolo paese dell’America Centrale ma ha il più alto tasso di criminalità.   Connie è nata trentadue anni fa in questa terra tribolata e difficile come la sua giovane vita e l’ha lasciata da dieci, per venire a lavorare in Italia, a Pavia come badante presso un’anziana signora che aveva l’abitudine di trascorrere il periodo estivo in una località della riviera ligure di levante.   Lì ha conosciuto il suo grande Amore, davvero con la lettera maiuscola, Alessandro e la loro è stata una storia ricca, piena, fatta di tanto dialogo, di progetti e spe-

Connie, emigrata bambina dal Salvador dilaniato dalla guerra civile, in Italia trova lavoro e mette su famiglia. Ma la vita le riserva il dolore più grande, la morte del marito. Rimasta sola con un figlio da crescere, come Maria affronta la prova più grande affidandosi a Dio.

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ranze concretizzatasi col matrimonio e la nascita di Gabriele, un bimbo dolcissimo, che somiglia molto al padre ma con la pelle ambrata e gli occhi scuri della madre. IL DOLORE PIÙ GRANDE   Connie aveva creduto di essere finalmente approdata in un porto sicuro, di avere di nuovo una famiglia, dopo aver lasciato con sofferenza quella di origine , ma non fu così... per lei il tempo del dolore non era finito. Poco dopo la nascita del loro bambino, Alessandro si ammalò gravemente e prima del compimento del secondo anno di vita di Gabriele morì. Connie fece porre sulla tomba del marito una croce colorata in stile sudamericano; quella più pesante però se la portava nel


MARIA

cuore: erano rimasti lei ed il bambino ed un grande vuoto, un peso immenso sotto il quale le pareva di soccombere. Ogni giorno però i grandi occhi scuri di suo figlio l’osservavano, le chiedevano aiuto e gliene offrivano, erano un invito ad andare avanti insieme, un’ancora di salvezza, lo specchio del grande amore per Alessandro e lei capì che in nome di quel bambino avrebbe dovuto farcela. COME MARIA   Connie pregava tanto e prese a modello la Vergine Maria, la donna in carne ed ossa che aveva attraversato le polverose strade di Israele, una creatura che come lei non aveva avuto una vita facile, perché anche la via della santità è lastricata di contraddizioni, di incertezze e non è un’impresa di successo, una donna vera che spesso invece noi corriamo il rischio di pensare solo come una statua circondata da ceri e fiori.   Come Maria, avrebbe cercato di cogliere la presenza del Signore nel “sussurro del silenzio sottile” di cui parla il profeta Elia, quella brezza leggera sinonimo della voce interiore di chi ha fatto in silenzio in sé ed è andato incontro al trascendente.   Come Maria, avrebbe intrecciato il braccio di Dio: infatti è proprio nell’ossimoro del “sussurro del silenzio” che si trova tutto ciò che non vorremmo accettare, che tendiamo a respingere e ci sembra che Dio offra risposte che noi non riusciamo a sentire.   La portata del lavoro che Connie ha saputo fare dentro di sé, per se stessa e specialmente nei confronti di Gabriele, lo si è potuto vedere giorno dopo giorno attraverso una graduale ripresa di fiducia nella vita, testimoniata dalla volontà di entrare

in relazione con gli altri, di aprirsi ai loro bisogni, di condividere con il suo bambino l’esperienza del dare e ricevere. COLORARE LA SPERANZA   Connie è una donna molto creativa, dotata di una fervida fantasia, con un forte senso cromatico che le deriva dalla sua terra natia e queste sue qualità l’hanno portata a scegliere un lavoro presso la scuola del paese di mare in cui vive, a collaborare per allestire preparativi per festività collettive, a disegnare e creare vestiti ed oggetti coinvolgendo sempre anche il suo bambino che quest’anno ha iniziato a frequentare la scuola primaria.   Sono entrambi molto amati dalla gente del paese ed hanno saputo creare una bellissima rete di relazioni che alimentano con il loro impegno e da cui sono molto gratificati. Connie è riuscita a rielaborare il suo lutto in modo positivo e trasformare un’esperienza di dolore in un percorso di vita, ha cioè davvero saputo cogliere “il sussurro di Dio”.

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Solo l’attesa desta l’attenzione GIULIANO PALIZZI palizzi.rivista@ausiliatrice.net

«Chi non conosce l’aspra beatitudine dell’attesa», non è vivo, non è attento, perché solo l’attesa desta l’attenzione, l’interesse, lo stupore e solo l’attenzione interessata e stupita è capace di amare. Ti aspettiamo, Signore Gesù! Vieni, non tardare!

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«Celebrare l’Avvento, significa saper attendere, e l’attendere è un’arte che il nostro tempo impaziente ha dimenticato. Il nostro tempo vorrebbe cogliere il frutto appena il germoglio è piantato; così, gli occhi avidi, sono ingannati in continuazione, perché il frutto, all’apparenza così bello, al suo interno è ancora aspro, e, mani impietose, gettano via, ciò che le ha deluse. Chi non conosce l’aspra beatitudine dell’attesa, che è mancanza di ciò che si spera, non sperimenterà mai, nella sua interezza, la benedizione dell’adempimento» (Dietrich Bonhoeffer). NON AMO ATTENDERE   Dice il profeta Osea (11, 1-4. 8-9): «Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio. Ma più li chiamavo, più si allontanavano da me; immolavano vittime ai Baal, agli idoli bruciavano incensi». L’incapacità di attendere, vivere nel presentismo consumistico ci porta a buttarci negli idoli di facile guadagno e ci


IL MIO CUORE SI COMMUOVE DENTRO DI ME   Ancora Osea: «A Èfraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare. Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Un ragazzo scrive in una lettera indirizzata a don Bosco: «Tu che sei il santo dei sogni, dammi un sogno perché io non ne ho ancora nessuno». È bella questa richiesta, ma è anche triste perché rivela che il ragazzo

ha tutto, non gli manca niente e quindi non ha sogni, non ha attese. La nostra cultura è la cultura che ha ucciso l’attesa, il desiderio, il sogno. Tutto è dovuto per «vincere facile». E i nostri ragazzi hanno imparato dagli adulti il nervosismo di fronte all’attesa. Mentre Dio si commuove per me! ATTENDERE “UN DIO DI CARNE”   È incredibile come Dio abbia scelto di farsi attendere il tempo di tutto un Avvento. Perché lui ha fatto dell’attesa lo spazio della conversione, il faccia a faccia con ciò che è nascosto, l’usura che non si usura. Certo, vuole che attendiamo perchè l’attesa, l’attesa dell’attesa, l’intimità con l’attesa che è in noi, soltanto l’attesa desta l’attenzione e solo l’attenzione è capace di amare. «Toglierò da voi il cuore di pietra, e vi darò un cuore di carne», aveva detto Ezechiele (36,26), perché il nostro Dio è stufo di starsene nei cieli dove noi l’abbiamo relegato e vuole vivere con noi, essere un bambino per farsi coccolare da una madre, da tutte le madri, essere un pescatore per trasformarci in pescatori di uomini. Ma ci invita ad attenderlo, perché tutto ciò che non è atteso non ci tocca il cuore, appaga solo la curiosità, non ci converte al bello, al buono, non ci spinge ad amare. E Natale è la festa dell’Amore. Attendiamolo in questo Avvento senza perderci nella caccia ai regali o nella distrazione con le statuine del presepio. Vieni, Signore Gesù! Buon Natale, amici!

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perdiamo il gusto di attendere “quel Dio” che non si è proprio risparmiato per incontrarci e scambiarci tenerezze indicibili! Ma noi no. Noi non amiamo attendere. Leggo una preghiera trovata su un foglietto: «Non amo attendere nelle file. Non amo attendere il mio turno. Non amo attendere il treno. Non amo attendere prima di giudicare. Non amo attendere il momento opportuno. Non amo attendere un giorno ancora. Non amo attendere perché non ho tempo e non vivo che nell’istante. D’altronde tu lo sai bene, tutto è fatto per evitarmi l’attesa: gli abbonamenti ai mezzi di trasporto e i selfservice, le vendite a credito e i distributori automatici, le foto a sviluppo istantaneo, i telex e i terminali dei computer, la televisione e i radiogiornali. Non ho bisogno di attendere le notizie: sono loro a precedermi».

L’INCAPACITÀ DI ATTENDERE, VIVERE NEL PRESENTISMO CONSUMISTICO CI PORTA A BUTTARCI NEGLI IDOLI DI FACILE GUADAGNO E CI PERDIAMO IL GUSTO DI ATTENDERE “QUEL DIO” CHE NON SI È PROPRIO RISPARMIATO PER INCONTRARCI E SCAMBIARCI TENEREZZE INDICIBILI!

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Una “chiamata al servizio” dei giovani universitari

A tu per tu con don Gianni Ghiglione, da anni impegnato a incontrare gli studenti universitari con cuore «salesiano».

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Si definisce “manovale della Pastorale universitaria” mentre ricorda, con un pizzico di nostalgia, quando venticinquenne percorreva in bicicletta le vie di Torino per leggere e commentare il Vangelo con gli studenti universitari. Erano gli anni della contestazione studentesca.   Oggi don Gianni Ghiglione di anni ne ha sessantotto, da quaranta è sacerdote Salesiano e, dopo essersi occupato di Pastorale giovanile, Salesiani cooperatori ed essersi specializzato nello studio della vita e delle opere di san Francesco di Sales, è cappellano degli studenti dell’Istituto universitario Salesiano (IUSTO) e responsabile del Collegio universitario di Torino - Rebaudengo.

UNA GENERAZIONE “INCREDULA” Come è nato l’interesse per la Pastorale universitaria? «Da sempre porto nel cuore questo mondo, cui tento di donare accoglienza, amicizia, amore allo studio e orientamento al bello e al bene. Nei quarant’anni di sacerdozio ho sempre coltivato questa passione, domandandomi cosa farebbe oggi don Bosco per loro. E la risposta è sempre la stessa: offrirebbe loro ricchezza di umanità e d’interessi unita alla capacità di fare proposte (la ragione), una relazione affettiva calda e coinvolgente, amichevole ed esigente (l’amorevolezza), una chiara proposta di cammino di formazione cristiana (la religione)».


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Come sono cambiate le giovani generazioni nell’ultimo mezzo secolo? «A differenza di quella che l’ha preceduta, la nuova generazione è stata definita “la prima generazione incredula”, perché la famiglia, in molti casi, ha rinunciato a svolgere il ruolo di “cinghia di trasmissione” della dimensione spirituale e religiosa. La nostra presenza accanto ai giovani, in tale contesto, è forse più attuale oggi che ai tempi di don Bosco: allora c’era fame di pane, oggi i soldi per acquistare il necessario (e a volte anche il superfluo) in genere non mancano, ma è palpabile un bisogno di senso e di orientamento di vita». Che cosa proponete loro? «Nelle intenzioni, quello che proporrebbe loro don Bosco: interesse alle loro vite, soprattutto a quelle dei tanti universitari che vivono lontano da casa e restano lunghi mesi a Torino. La vicinanza è il primo passo, cui segue l’offerta di proposte culturali, ricreative e spirituali. Per don Bosco la gioia più grande era portare Gesù ai giovani: evangelizzare era il fine ultimo di ogni sua attività. Una cosa che non va dimenticata, pena la perdita della nostra identità salesiana». “NUTRIRE” IL CERVELLO E, SOPRATTUTTO, LA VITA

dove alloggiare durante l’anno accademico, gli spedisco via mail il nostro Progetto educativo con relativo Regolamento, e gli chiedo di leggerlo con calma e attenzione. Occorre stipulare un sereno e sincero “patto educativo”, giocando a carte scoperte. Io presento quello che siamo noi Salesiani e cosa chiediamo: impegno nello studio, rispetto sempre e con tutti, buona volontà nel costruire belle relazioni con i compagni, accoglienza e impegno nel campo della fede... Faccio capire che non siamo affittacamere, ma educatori. Ai trentaquattro studenti del Collegio di cui sono responsabile propongo, tra l’altro, incontri formativi su diversi temi e la possibilità di condividere la gioia e la fatica di crescere insieme giorno dopo giorno, di confrontarsi e di essere famiglia».

CHI DESIDERA AVERE INFORMAZIONI SUL COLLEGIO DI REBAUDENGO O SUI CORSI DI FORMAZIONE CRISTIANA PUÒ CONTATTARE DON GIANNI GHIGLIONE ALL’INDIRIZZO MAIL UNI.GIANNI@GMAIL.COM O AL NUMERO 3385899300.

Quali altre attività vengono promosse? «Come Salesiani si collabora alle molteplici iniziative messe in atto dall’Archidiocesi di Torino. Nel mio piccolo, da diciotto anni propongo un cammino di formazione cristiana per giovani dai 19 anni in su: un biennio per approfondire l’abc della fede e della proposta cristiana per “nutrire” non solo il cervello, ma soprattutto la vita». CARLO TAGLIANI redazione.rivista@ausiliatrice.net

Come accogliete gli studenti? «Quanto ricevo da qualche giovane la richiesta di una camera NOVEMBRE-DICEMBRE 2014

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Adolescenti-adulti, adulti-adolescenti: quale evangelizzazione?

ERMETE TESSORE redazione.rivista@ausiliatrice.net

Leggendo l’Instrumentum Laboris del Sinodo dei Vescovi, indetto da papa Francesco e focalizzato sul tema Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione, chi opera nel mondo giovanile rimane leggermente deluso. Eppure i giovani sono il grande problema attuale delle famiglie. Nello scorrere gli elenchi delle persone chiamate a partecipare al Sinodo, essi sono scarsamente rappresentati tra gli uditori ammessi. Penso che tutti i membri del Sinodo dovrebbero dare una risposta alla domanda: «La famiglia di Nazaret quale messaggio educativo valido può trasmettere alle famiglie moderne, tempio di vita e di evangelizzazione?». Sono usciti recentemente due libri che potrebbero essere d’aiuto a rispondere al precedente interrogativo. Il primo è: Aime M. – Pietropolli Charmet G., La fatica di 38

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diventare grandi, Einaudi Torino 2014; il secondo è di Mc Cullough D., Ragazzi non siete speciali, Garzanti Milano 2014. Gli autori richiamano la nostra attenzione su alcune realtà che dobbiamo conoscere prima di attivare qualsiasi attività di evangelizzazione. Infatti, anche in un recente passato, la religione era caratterizzata da vari riti di passaggio che accompagnavano le varie fasi dell’esistenza di un individuo: battesimo, prima confessione, prima comunione, cresima, matrimonio. Si trattava di momenti in cui la persona veniva legata al sacro che veicolava valori forti condivisi da tutti ed attivava un ben preciso modo comportamentale. I riti si affiancavano alle diverse fasi della vita: infanzia, adolescenza, maturità e vecchiaia, erano riti di passaggio che definivano gli stadi di crescita e di maturazione. A


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partire dalla fine degli anni ’70 il terreno relazionale in cui la ritualità affondava le proprie radici è stato rivoluzionato e messo a soqquadro dalla così detta deregulation libertaria del presidente americano Ronald Reagan supportato dal primo ministro inglese Margaret Thatcher. Lo slogan thatcheriano che ben sintetizzava la nuova mentalità era: «La società non esiste, esiste solo l’individuo». L’impegno sociale è stato devitalizzato dalla nuova ideologia impregnata di individualismo e di autoreferenzialità: riti tradizionali di appartenenza, lentamente, si sono svuotati di significato. LA CRISI DEI RITI DI APPARTENENZA   Il nuovo modo di vivere non è stato in grado di creare dei nuovi valori che soppiantassero i precedenti. Nell’ambito della evangelizzazione le ricadute sono state devastanti. Il battesimo, la prima comunione, la cresima, il matrimonio, in troppi casi, hanno perso ogni significato di spiritualità scivolando in un “magismo” che si limita ad attivare momenti di aggregazione parentali in cui le famiglie possono esibire a tutti le loro possibilità economiche. I sacramenti diventano una semplice attesa di feste e regali, spegnendo qualsiasi interesse di crescita spirituale, come testimoniano le nostre chiese desolatamente orfane di ragazzi e giovani. Questo fatto non può non essere argomento di dibattito sinodale. L’antropologo Marco Aime parla di un inesorabile passaggio dalla dimensione verticale a quella orizzontale. Le figure paterna e materna non hanno più un ruolo gerarchico nell’ambito familiare. Papà e mamma da educatori sono diventati amici dei figli ed, in molti casi addirittura dei “complici”. Anche nella scuola l’insegnante ha perso il suo ruolo di educatore che richiede ascolto, ri-

spetto e partecipazione. I ragazzi, figli del web 2.0, si sono affrancati da ogni tipo di dipendenza attingendo sapere, valori e modi comportamentali direttamente dalla rete. I sociologi americani parlano di Homo Zappiens che appartiene a una generazione che ha nel mouse e nello schermo del computer le due chiavi indispensabili di accesso al mondo. Lo strapotere mediatico sta facendo perdere ai giovani la percezione del passato e del futuro, schiacciandoli sulla dimensione del presente dove tutto viene consumato in modo istantaneo, dove le emozioni si bruciano in un attimo e le esperienze non trovano spazio di decantazione. Francesco Cataluccio nel suo libro Immaturità. La malattia del nostro tempo, Einaudi, Torino 2004 a pagina 5 scrive: «Oggi la gioventù non è più una condizione biologica, ma una “definizione culturale”. Si è giovani non in quanto si ha una certa età, ma perché si partecipa di certi stili di consumo e si assumono determinati codici di comportamento, di abbigliamento e di linguaggio. Ciò sfuma o cancella il confine biologico e crea figure ibride di adolescenti invecchiati, di adulti adolescenti, di giovani permanenti». Il Sinodo troverà il modo di riagganciare, attraverso una nuova evangelizzazione alla fede, questi “nuovi” giovani ed adolescenti?

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Sempre giovane il Giovanni dei ragazzi Per gli italiani la scienza ha il volto di un signore elegante e compassato che da oltre cinquant’anni racconta loro l’avventura dell’ingegno umano alle prese con un mondo naturale che va dall’atomo ai corpi celesti, ancora denso di segreti da scoprire. Serio, pacato, inossidabile: Piero Angela ha scoperto don Bosco quando, giovanissimo, fu tra i pionieri della redazione radiofonica della Rai di Torino. «Nel 1954 feci insieme al collega Mario Pogliotti una trasmissione di mezz’ora su di lui dal titolo Sempre giovane il Giovanni dei ragazzi. Quasi settant’anni dopo la sua morte, decidemmo di andare a raccogliere le ultime testimonianze di

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chi lo aveva conosciuto in vita. Venne fuori un documento credo di poter dire unico». IL METODO DI DON BOSCO   Dopo la radio, ecco l’approdo in tv come divulgatore scientifico. La sfida era impegnativa, per alcuni addirittura rischiosa. Come fare a parlare di temi difficili al grande pubblico? «Bisogna suscitare emozioni – spiega Angela –. A più di un convegno ho lasciato tutti di stucco dicendo che noi divulgatori dovremmo imitare proprio don Bosco quando, per parlare di fede ai ragazzi, partiva dai giochi di prestigio. Per educare bisogna entusiasmare, incuriosire. Il


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messaggio passa se chi lo deve ricevere “sente” che la persona che glielo sta trasmettendo non sale in cattedra ma si pone sul suo stesso piano». La grande abilità comunicativa di Angela nell’esporre anche argomenti complessi deriva proprio dal suo essere non un uomo di scienza, ma in primo luogo un giornalista che avvicina il problema scientifico gradualmente, con la curiosità e i dubbi dell’uomo comune. SCIENZA E FEDE, LA PAZIENZA DEL DIALOGO   Uno dei confronti più aspri che la storia delle società occidentali ha conosciuto è sicuramente quella tra scienza e fede: nel passato ha sovente assunto gli aspetti di un autentico conflitto, ma ancora oggi si ripresenta tra corpi sociali in competizione. Piero Angela crede in Dio? «Me lo domando sempre, ma non rispondo mai. Sono campi diversi: nessuno chiede la sperimentazione alla religione, né la scienza d’aver fede. La fede è un atto personale». Certo è che Angela, anche attraverso il suo riconosciuto impegno contro maghi, guaritori, indovini e astrologhi condotto attraverso il CICAP (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale), ha dimostrato che un dialogo sereno e costruttivo tra scienziati, filosofi e teologi è possibile. Se si parte dalla consapevolezza che la scienza fa parte della vocazione e della missione dell’uomo e per questo deve sempre restare al servizio dell’umanizzazione, della qualità della convivenza sociale, della grandezza e della digni-

tà insita in ogni persona, si può costruire una via di dialogo costruttivo. «Bisogna abbandonare atteggiamenti di riserva mentale» conclude Angela. In sintesi: autonomia, distinzione (non separazione) e complementarietà (non invasioni di campo) sono i connotati di un rapporto corretto fra i saperi. ANDREA CAGLIERIS redazione.rivista@ausiliatrice.net

IL CICAP È UN’ORGANIZZAZIONE EDUCATIVA E SENZA FINALITÀ DI LUCRO, FONDATA NEL 1989 PER PROMUOVERE UN’INDAGINE SCIENTIFICA E CRITICA SUL PARANORMALE E LE PSEUDOSCIENZE. FA PARTE DELL’EUROPEAN COUNCIL OF SKEPTICAL ORGANIZATIONS.

Il noto giornalista Piero Angela.

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Missionari: segni e portatori dell’amore di Dio

MARINA LOMUNNO redazione.rivista@ausiliatrice.net

«L’Europa non è più l’unico continente che invia salesiani, com’era fino ad un recente passato: i missionari salesiani provengono da tutti i continenti e sono inviati a tutti i continenti. Ciò esige da tutti un cambiamento di mentalità, una conversione pastorale, come richiesto dal Capitolo generale 27: ogni Ispettoria della Congregazione ha una responsabilità missionaria verso tutta la Società Salesiana!» Così don Alfred Maravilla, salesiano filippino, responsabile del Corso di orientamento per i missionari salesiani, spiega lo spirito con cui a 145 anni dalla prima spedizione missionaria dei figli di don Bosco si parte da Valdocco “ad gentes”. NEL 1875 ITALIANI, OGGI DA TUTTE LE NAZIONALITÀ   Era l’11 novembre 1875 quando da Torino don Bosco inviò i primi salesiani missionari in Patagonia. E così è stato ogni anno fino ad oggi: domenica 28 settembre, ancora una volta da Valdocco il decimo successore di don Bosco, don Ángel Fernández Artime ha consegnato il mandato a 12 salesiani, 15 Figlie di Maria Ausiliatrice (FMA) e 6 volontari laici. Si tratta, dicevamo, della 145ª spedizione missionaria della famiglia salesiana: i primi sacerdoti “spediti” da don Bosco erano tutti italiani; oggi cambiano le destinazioni e le nazionalità dei missionari ma lo spirito con cui partono è lo stesso, come hanno sottolineato il Rettor Maggiore e la madre generale delle Fma, suor Yvonne Reungoat, al teatro Valdocco. La consegna del crocifisso ai missionari da parte di don 42

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Artime è avvenuta durante la concelebrazione eucaristica nell’ambito dell'Harambée (in swahili “raduno festoso”), la due giorni che ha radunato tra il Colle Don Bosco e Valdocco oltre 400 giovani. Alcuni di loro hanno trascorso qualche settimana estiva nelle missioni salesiane.   Tra i partenti, solo tra i sei volontari laici ci sono giovani italiani, mentre i salesiani e le FMA provengono tutti da ispettorie straniere, un tempo terre di missione, che oggi restituiscono il dono ricevuto: ci sono salesiani vietnamiti che andranno in Africa, un indiano che parte per l’Ungheria o un congolese che si prepara a partire per la Francia.


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L’EUROPA NON È PIÙ L’UNICO CONTINENTE CHE INVIA SALESIANI, COM’ERA FINO AD UN RECENTE PASSATO.

L’EUROPA HA PARTICOLARMENTE BISOGNO   «Rispetto alla prima spedizione, le destinazioni di oggi sono cambiate: anche l’Europa – che un tempo inviava i missionari – oggi è divenuta terra di missione in uno scambio di ricchezze continuo come in una grande famiglia» – ha detto don Guido Errico, coordinatore nazionale dell’animazione missionaria in Italia e delegato nazionale per il Vis (Volontariato internazionale per lo sviluppo) presentando i missionari partenti davanti ad un grande mappamondo.   «Oggi come ai tempi di don Bosco – ha sottolineato il Rettor Maggiore – il papa ci spinge ad andare nelle

Periferie del mondo. Valdocco, Mornese, dove sono nate le FMA erano luoghi periferici e da lì sono partiti i nostri santi. Questo è lo spirito con cui andiamo nel mondo a portare la gioia di Cristo e con cui apprestiamo a celebrare il bicentenario: non possiamo stare tranquilli se non ci chiediamo continuamente cosa stiamo facendo per andare incontro agli ultimi, coloro che non hanno il pane ma anche chi ha perso il senso della vita».

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La panetteria all’ombra della Basilica

Quasi cinquant’anni di lavoro e di famiglia in borgo Valdocco. E quando qualcuno era in difficoltà, «come negar loro il pane quotidiano?». I Corgiat a tu per tu con il blogger Romano Borrelli.  «Siamo venuti a Torino nel luglio del 1965. Mio marito era di Caselle e io di San Maurizio Canavese». Comincia così la storia di quasi cinquant’anni di lavoro (e di famiglia) con l’approdo a Torino, nel borgo Valdocco, di Cristina Corgiat e della sua famiglia. Una storia all’ombra della Basilica di Maria Ausiliatrice. Incontro Cristina verso metà maggio, in corso Principe Oddone. Una panetteria, la sua. Profumo di pane su molte tavole torinesi. E 50 anni nella stessa panetteria sono davvero “d’oro”. Cristina, occhi azzurri, modi garbati, mani delicate, grembiulino bianco, candido, sempre addosso, nata nel 1929. A 21 anni convola a nozze con Silvio.«Un gran lavoratore, sempre a contatto con farina, acqua, e lievito. Figlio di una famiglia di panettieri, grandissimi lavoratori e con ridottissimi tempi di libertà». Lei ne parla come lo avesse incontrato

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ieri, con una delicatezza e un amore ineguagliabili. La vita, si sa, spesso dà, spesso toglie. E così,Cristina, ben presto in seguito alla morte della mamma si è trovata a fare, lei, da mamma ai suoi fratelli per tre anni circa. Almeno fino a quando anche lei è diventata mamma: Ezio, nato nel 1953 a Nole, Francesco, nel 1956 a Villanova Canavese, paese «dove abbiamo lavorato», e Fiore, nel 1958, a Ciriè. STORIE QUOTIDIANE DI DEBITI E DI BONTÀ   Nel 1965, arrivano a Torino. Tutto era diverso e bello rispetto alla realtà di paese. C’era tantissimo lavoro. «Si faceva il pane per noi, per il negozio e per i ristoranti, e le trattorie qui intorno». Era un grande borgo. Con tante attività. Dodici ore di lavoro, nel retro, dove era posizionato il forno, e dove lo è ancora, e altre nel ne-


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PANETTERIA

gozio, come commessa. Nel borgo, l’insediamento dei Salesiani, con la Basilica di Maria Ausiliatrice e il primo oratorio di don Bosco, sono stati determinanti per la scelta del quartiere e l’economia stessa. Fedeli e studenti, passavano in continuazione da qui, chi per il pane, chi per la pizza. I Corgiat lavoravano anche per i ristoranti, per le suore, per i ragazzi delle scuole vicine. E talvolta anticipavano le difficoltà altrui: a quelli che manifestavano difficoltà economiche «come facevo io a negare loro il pane quotidiano? A molti concedevo di fare la spesa, senza pagare subito, e quando percepivano lo stipendio avrebbero avuto modo di onorare il dovuto. Pagavano due volte al mese perché all’epoca le buste paga erano due. L’acconto e il saldo. Erano diversi clienti che avevano un conto aperto, da noi». Alza gli occhi al cielo, direzione Basilica. La bontà che emana dalle sue parole, scalda il cuore. E lascia speranza, per i gesti che hanno edificato molto, in molti. Penso a storie di debiti, crediti, storie di infinita bontà. Una storia di «pane quotidiano». UNA STORIA D’AMORE PER IL LAVORO E IL BORGO   Racconta e si racconta ancora. «La malattia di Silvio ha richiesto un dispendio ulteriore di forze. Negli anni ’70 ha cominciato a non stare bene, però si stringeva i denti e si andava avanti, anche nella malattia. E io ho imparato a fare il lavoro quasi come lui. Io mi occupavo della famiglia, ma, al mattino ho sempre aiutato mio marito». Lavoro, lavoro, lavoro. La crisi degli anni Ottanta in panetteria, si è fatta sentire poco, fortunatamente. Il marito Silvio è mancato nel 1978. Una vita di lavoro e sacrifici, ma ci sono migliaia e migliaia di ragioni per vivere questa vita, e sono tutte sufficienti, dalla prima

BASILICA

RITAGLIA questo talloncino. Presentalo alla panetteria “Corgiat” di corso Principe Oddone 38 (cfr cartina). Riceverai in omaggio* un prodotto tipico. * promozione valida fino al 31/08/2015

all’ultima. Il Borgo è cambiato, molto. I negozi che c’erano un tempo, dall’elettrauto alla polleria, dalla latteria, alla lavanderia-tintoria, il barbiere, piccoli esercizi che non ci sono più da tempo, ormai. Resiste, Teresa, la pettinatrice. Cristina è lì, come sempre. Una lunga storia d’amore, tra Cristina e il borgo, tra la panetteria e il borgo. L’amore è davvero sacro, come la Grazia: il valore del suo oggetto non ha mai una grande importanza. Una storia d’amore per il lavoro e per le persone che dura da 50 anni. ROMANO BORRELLI redazione.rivista@ausiliatrice.net

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Dalla Musica li riconoscerete: don Cimatti

CLAUDIO GHIONE redazione.rivista@ausiliatrice.net

La melodia don Cimatti sposa due mondi, Italia e Giappone, al servizio del messaggio del Vangelo nello stile di don Bosco. Religioso, sacerdote, musicista, e per questo primo di una serie di personaggi che accosteremo non dal punto di vista biografico, per il quale rimandiamo a opere autorevoli (vedi Crevacore A., Un uomo dalle molte vite, LDC, Leumann 1979) ma dal punto di vista compositivo ed espressivo: uomini che hanno fatto della musica, la loro musica, il linguaggio privilegiato per dire di sé, di Dio, e della musica silenziosa che con Dio stesso si può cantare per tutta una vita (questa espressione è tipica di san Giovanni della Croce). Artista riconosciuto, don Cimatti è anche pedagogista, esperto in agraria e scienze naturali.   Oggi le sue opere sono raccolte presso l’Archivio Salesiano Centrale di Roma e presso la Biblioteca Manfrediana di Faenza, conservate nel fondo intitolato a lui stesso.

Possono chiamarlo l’uomo dalle molte vite o il don Bosco del Giappone, ma nessuno di questi appellativi affascinanti può presentare tanto vividamente il Ven. Vincenzo Cimatti, salesiano missionario, quanto lo può fare l’arte che è stata sua fin da bambino: la musica. 46

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COMPOSIZIONI PENSATE PER CORI DI RAGAZZI   La musica di don Cimatti non si ferma in Italia, anche se dal canto melodioso dei nostri grandi operisti trae sapore inconfondibile. È in Giappone che ha voluto esprimere il meglio della sua arte semplice e ricchissima, dedicando le sue forze al messaggio del Vangelo in un paese molto estraneo al sentire cristiano, nel periodo degli anni ’20-’40 del secolo XX. Sono gli anni del Giappone dalla politica conquistatrice, della seconda guerra mondiale,


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dell’atomica e della resa all’America, e poi della ripresa miracolosa che lo condurrà ad essere una delle potenze economiche più importanti del mondo.   In Giappone i salesiani hanno raccolto la musica di don Cimatti, attraverso un paziente lavoro non ancora terminato. Presso il Cimatti Museum di Chofu (Tokyo) oggi potremmo sfogliare una delle sue partiture: l’Operetta Missionaria Piccolo Gregge, per il vero composta durante un rientro in Italia per il Capitolo Generale del 1938. Non ci stupisce trovare, tra le richieste per l’esecuzione lirica, un coro di ragazzi, perché per loro il sacerdote musicista pensava le composizioni più espressive. LA SCALA PENTATONICA A SERVIZIO DI DON CIMATTI   Ci incuriosisce l’a-solo per Tshoi-Kin o bonzo prescritto più avanti: vorremmo riconoscere nella melodia qualcosa di esotico ed orientale! Don Cimatti non delude le nostre aspettative: nell’Aria Al Sole!, già nell’Atto I°, ci imbattiamo in movenze che subito ricordano La foresta dei pugnali volanti (ambientato in Cina, musiche di Shigeru Umebayashi, 2004), o L’ultimo Samurai (con Tom Cruise e la delicata Kato Koyuki, nel 2003, già film d’autore del 1967 con musiche di Toru Takemitsu). Per chi ha competenze più... classiche, il ricordo va certo a Madama Butterfly di Giacomo Puccini (1904), ma in ogni caso ciò che richiama l’atmosfera

orientale resta l’uso di una serie di intervalli melodici (ovvero di distanza di altezza tra suoni) denominata scala pentatonica, e caratterizzata dal fatto che i suoni si trovano sempre alla distanza di un tono l’uno dall’altro, e non di mezzo tono, come è tipico, per alcuni suoni, della scala melodica a cui siamo più abituati in Europa. Don Cimatti, però, sa dosare questo espediente con buon gusto, alternandolo a tipici procedimenti armonici occidentali, come quello della modulazione da tonalità minore (coloritura malinconica e meditativa) a tonalità maggiore (coloritura gioviale e movimentata), concetti in sé non riconducibili alla musica orientale. Piacevolmente italiano è anche il ricorso a procedimenti detti onomatopeici, che riproducono musicalmente il concetto descritto dal testo (ad es. «saettando nel vol reso» con una serie di rapide note che salgono di grado), una pratica compositiva risalente al nostro madrigale italiano del 1500, per di più con gruppetti di abbellimento dall’inconfondibile sapore partenopeo.

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Suor Mariarosa

«Va’ da coloro a cui ti manderò, Io sono con te». Uno slogan che ben sintetizza lo spirito della solenne concelebrazione eucaristica che lunedì 4 agosto scorso, nella Basilica di Maria Ausiliatrice, ha radunato la Famiglia Salesiana per la professione temporanea di suor Anna Bailo e suor Silvia Rubatto e per i giubilei di 83 religiose che ricordavano 75, 70, 60, 50 e 25 anni di professione. Una festa grande per tutto l’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice e in particolare per le due giovani che pronunciavano i voti temporanei sostenute dalle consorelle più anziane che, dopo tanti anni di consacrazione a Dio, rinnovavano le loro promesse nelle mani della superiora generale. Non a caso è stata scelta la data della celebrazione, nella vigilia del 142° anniversario della fondazione dell’ Istituto con la professione religiosa delle prime Figlie di Maria Ausilia48

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MARINA LOMUNNO redazione.rivista@ausiliatrice.net

trice, tra cui Maria Mazzarello, avvenuta a Mornese (Alessandria), il 5 agosto 1872. STORIE DI SUORE SPECIALI   Le FMA sono tutte speciali: sono il monumento vivente a Maria Ausiliatrice. Tra coloro che hanno festeggiato mezzo secolo di professione, suor Mariarosa Rossi, novarese, da due anni “maestra in pensione” dopo 40 di insegnamento, molti nella scuola Primaria Maria Ausiliatrice di Torino. Chi ha avuto suor Mariarosa come maestra non può dimenticare le scuole elementari: con lei, maestra vecchio stampo severa quanto basta, ma comprensiva quando era ora, si è imparato a leggere e a scrivere ma anche e soprattutto si sono imparati i fondamentali per la vita, altro che Invalsi o lavagne elettroniche.   Chi scrive ha insistito non poco perché suor Mariarosa ci raccontasse la sua


VELO E CATTEDRA   «A casa non erano d’accordo. Papà era fermamente convinto che non avrei resistito ad una vita di obbedienza neppure per un mese – prosegue suor Mariarosa –. Ripensandoci credo davvero che “Qualcuno” dall’alto mi ha chiamata perché se no non avrei trovato la forza di lasciare la mia famiglia. Prima di allora non avevo dormito lontano da casa neppure una notte e così ho sofferto molto la lontananza – confessa – ma sentivo che dovevo farmi suora. Il tempo e gli avvenimenti che chiamo “Provvidenza” sono stati grandi educatori, così sono arrivata alla meta: la professione!».   Gli studi per il diploma magistrale hanno poi realizzato il sogno che Mariarosa accarezzava fin da bambina. «Da piccola giocavo a fare la maestra mettendomi un asciugamano in testa come se fosse un velo: suora e maestra, era il mio desiderio! La scuola è stata la palestra nella quale ho cercato di incarnare la promessa fatta al Signore di voler vivere, come si legge nelle Costituzioni del nostro Istituto “per la gloria di Dio in un servizio di evangelizzazione camminando insieme nella via della santità”». E così la giovane suor Mariarosa lascia la sua

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storia. Una parola, abituata com’è a non voler comparire e convinta che la sua sia una vita come quella di tante altre consorelle “più meritevoli”, anche se certamente a servizio dei giovani. «La mia chiamata è maturata nell’ambiente oratoriano. Ero una ragazzina piuttosto vivace, andavo all’oratorio perché mi divertivo a giocare, fare teatro ma soprattutto perché mi attirava quello spirito di famiglia che mi faceva “sentire bene”. La domenica rimanevo in oratorio fino all’ultimo momento e cioè quando le suore ci costringevano ad andarcene. All’età della scuola media ho vissuto un periodo in cui avvertivo il bisogno di pregare, frequentare i sacramenti. La direttrice se n’è accorta e mi fece la proposta di provare a intraprendere la via della vita religiosa». Ma in famiglia non accolsero con favore la scelta di Mariarosa.

casa, la sorella, il fratello, il papà e la mamma tanto amata e la sua famiglia diventa la scuola e le comunità delle sue consorelle dove è stata chiamata a vivere, i suoi figli e figlie le centinaia di allievi a cui in 40 anni ha insegnato a leggere e a scrivere, a pregare, ad apprezzare ciò che ogni giorno ci viene donato perché la scuola, secondo suor Mariarosa può e deve anche essere scuola di vita. «Ho lavorato tutti questi anni – conclude suor Mariarosa – con tanto entusiasmo perché gli incontri con agli allievi, le loro famiglie, i colleghi insegnanti, le consorelle sono sempre stati le esperienze più preziose che mi hanno regalato speranze, energia e fiducia. Tanti volti oggi a 40 anni di scuola e a 50 anni di vita religiosa passano davanti ai miei occhi come una pellicola di un film, volti cari e tanto amati che porterò sempre nel cuore e nella preghiera. Per tutto, oggi ripeto il mio grazie a Dio e a ciascuno di loro».

Madre Ivonne Reoungat, superiora generale FMA, tra suor Anna e suor Silvia.

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Ero la recluta IMI 151233

Il nostro blogger, in occasione dei 90 anni del sig. Acutis, ha creato una splendida occasione per farsi regalare i ricordi salienti della sua dura e maturante esperienza: un’intervista.   Pensiero Acutis, affezionato da sempre a Maria Ausiliatrice è un torinese del ’24 nato da genitori anarchici.   Gentilmente mi ha raccontato la sua gioventù inserendola nell’evoluzione della nostra città e nel quartiere di Valdocco. Cammino con lui per le vie dei “santi sociali”. Indicandomi la zona dei Salesiani snocciola date e ricordi con lucidità. «Sono un ex-allievo dei Salesiani. Mia sorella frequentava le scuole da loro, e così, fu concessa anche a me l’iscrizione nei corsi professionali come rilegatore. Dopo la guerra nel febbraio del ‘46, grazie ai Salesiani cominciai a lavorare in rilegatura alla SEI».   I suoi occhi si illuminano. «Il Direttore Tecnico era il Commendatore Michelotti. Si respirava un clima di intensa amicizia, immersi tra Bollettini Salesiani, diziona50

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ri, grammatiche, libri». Pensiero entra in pensione nel 1984, e coltiva i suoi amori: montagna, letture e scrittura. LE SUE CONFIDENZE: TUTTO DA SCOPRIRE!   Pensiero è un ex-internato militare. La sua è la storia di una recluta.   «Il 10 settembre 1943 mi trovavo in Liguria, al centro reclute di Diano Marina. Non ho fatto la “naja” e neanche il giuramento. Rientrai a Torino il 20 agosto del ‘45. Eravamo venuti a conoscenza dell’armistizio ma restammo all’oscuro di ulteriori notizie da parte dei comandanti. Il soggiorno al CAR di Diano Marina venne interrotto per una affrettata partenza notturna terminata a Verona. Ci dissero che quel campo per noi militari era molto capiente. Ma chiusi ermeticamente in un vagone ben presto capimmo il nostro destino. Quando il portellone del vagone si riaprì eravamo in Austria. Una decina di giorni, in queste condizioni bestiali. Riservo la descrizione della condizione umana,


COMINCIA LA STORIA DI UNA RECLUTA   «A Sanbostel abbiamo appreso gli avvenimenti accaduti dopo l’8 settembre, dal console di Amburgo. Su di un palco, approntato nel campo, un gerarca fascista ci disse: “Soldati! Il Duce è stato liberato ed è stata costituita la Repubblica Sociale Italiana. Il Re e il Maresciallo Badoglio sono vigliaccamente fuggiti lasciando l’Esercito italiano allo sbando. Voi, per riscattare l’onore militare oltraggiato, avete il dovere di aderire a questa Repubblica per ritornare a combattere al fianco dell’amica e alleata nazione tedesca. In caso contrario sarete considerati soldati traditori e trattati di conseguenza”. Pochi, molto pochi si fecero avanti. Solo alcuni altoatesini dissero si. 600 mila furono i no convinti». UN NUMERO AL COLLO E LA SCRITTA “IMI” SULLA SCHIENA   «A Sandbostel divenni un numero. Una piastrina metallica diventa la mia nuova carta di identità: 151233. Ognuno di noi ricevette un incarico, un lavoro. Dopo esser stati sottoposti ad una disinfestazione, ci venne stampata sul retro delle casacche a caratteri cubitali la scritta: IMI, Internato Militare Italiano, non più prigioniero di guerra. Conseguenze: esclusione totale dai benefici della Croce Rossa Internazionale e dalle convenzioni.   Dopo Sandbostel, Amburgo. Qui, in un clima autunnale avevo pantaloni di tela che non opponeva nessuna barriera al freddo. Scarpe logore – i miei scarponi me li portarono via mentre dormivo – e lunghi digiuni forzati. Attese di 24 ore per un pezzo di pane da affettare e condividere. Unica consolazione: la lettura del Van-

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rimandando alla lettura del libro, Stalag XA. Storia di una recluta. Arrivammo a Sanbostel, cittadina vicino Brema. Li spirava il vento del Nord».

gelo lasciatomi da mia sorella Vera. A causa di un infortunio al polso fui dichiarato inabile al lavoro. Così ebbi la possibilità di andare in città. Scambiavo quel poco che si aveva con i cittadini e rientrato al campo, si divideva il tutto». GLI INTERNATI MILITARI   «Pochi lo sanno.Tanto che al mio ritorno a Torino ho trovato ignoranza e sospetto nei miei confronti. Avessimo aderito alla Repubblica Sociale, l’esito della guerra avrebbe avuto tempi più lunghi. Allora, con i dirigenti di quella associazione che tiene l’archivio cinematografico della Resistenza, decidemmo di pubblicare un libro da distribuire nelle scuole. Nacque così Seicentomila no. La Resistenza degli internati militari italiani. La volontà è distribuirlo in tutte le biblioteche delle istituzioni scolastiche di Torino e provincia. Almeno, prima che si chiudano i battenti. I sopravvissuti non sono molti. È una iniziativa che serve per “tamponare” un vuoto che è andato avanti per troppi anni. Eppure a partire dalla seconda metà degli anni 80, si sono organizzati convegni. Quasi tutti con un “buco”. La storia degli internati militari non è stata spiegata a sufficienza e pure sottaciuta».   Credo che la storia di Pensiero e degli internati militari non debba finire qui. Pensiero ha ancora tante cose da raccontarci, a noi sconosciute. ROMANO BORRELLI redazione.rivista@ausiliatrice.net

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“Mettersi in cammino... con la gioia del vangelo”  Gli Esercizi spirituali delle coppie e famiglie dell’ADMA, si sono svolti nel suggestivo ambiente alpino di Pracharbon (Valle d’Aosta) per oltre 60 famiglie e presso il centro “Da mihi animas cetera tolle” di Albarè (Verona), animato dalla comunità Shalom per altre 15. L’itinerario degli esercizi ha sviluppato alcuni contenuti dell’esortazione di papa Francesco Evangelii gaudium: La gioia del Vangelo; il discernimento evangelico; Maria, Madre dell’evangelizzazione; la conversione comunitaria; una Chiesa in uscita. (cfr audio sul sito). In uno spirito di grande fraternità e di intensa preghiera si è accolto e interiorizzato il tema formativo attraverso i tempi dell’ascolto, della preghiera, dell’adorazione eucaristica, della condivisione di gruppo e di coppia. Vi rendiamo partecipi di alcune testimonianze che sotto forma di preghiera, di proposito, hanno segnato la vita di alcune delle coppie partecipanti.   «Signore dopo questi giorni insieme torniamo a casa con il desiderio di vivere la gioia cristiana e l’apertura evangelica nella nostra famiglia. Preghiamo perchè il nostro cuore cresca e si apra a te, alla vita, agli altri e nel servizio, per essere seme che cade nella Terra» (Daniela e Andrea).   «Signore aiutaci a fuggire dalla prigione delle

nostre sicurezze materiali e a farci capire qual è la nostra missione in Cristo. Aiutaci a rendere la nostra famiglia missionaria, aperta, accogliente e compassionevole, attenta allo scarto e alla povertà, soprattutto spirituali» (Luca e Cristina).   «Dio ama ciascuno di noi, per ognuno di noi c’è una chiamata, una Promessa. Con la preghiera autentica raggiungiamo quel sodalizio con Lui che ci rende figli dell’evangelizzazione» (Daniela e Giuseppe).   «Signore insegnaci a portare con gioia lo scarto tra la grandezza delle Tue promesse e la nostra piccolezza. Lo Spirito Santo ci determini nella fede e rafforzi la nostra speranza affinchè sappiamo stare, accettare, sopportare, perdonare e farci continuamente rilanciare da Te» (Renato e Barbara).   «Cinque pani e due pesci: non aver paura del poco che siamo e abbiamo, perchè messi nelle mani di Gesù ci rendono parte della sua compassione e questo è il valore aggiunto. Noi siamo debitori di Maria del suo esempio, insegnamento e della sua protezione» (Carlo e Elisabetta).   «Grazie Gesù per questo deserto: vogliamo lasciarci ferire dalla Tua Parola per crescere


come discepoli-missionari e, come sposi, dare testimonianza del Tuo Amore» (Luca e Renata).   «Ringraziamo il Signore per tutti i doni che tutti gli anni ci dà in questi campi e gli chiediamo la grazia di fare nostro il motto “Tu sai e io mi fido”» (Aldo e Tiziana).   «Maria abbiamo scelto di essere tutti tuoi, a te affidiamo la nostra famiglia. Donaci la tua tenerezza: tenerezza dell’abbandono al Padre, tenerezza dell’ascolto, tenerezza della verità, tenerezza della gioia, tenerezza dell’annuncio. Vogliamo fare nostri i verbi della tua vita: fiat, stabat, magnificat. Vieni ad abitare nella nostra casa, portaci il Tuo Gesù. Dimorate con noi ogni giorno perchè la nostra casa diventi il luogo in cui ci sentiamo chiamati a “riposare un poco” per poi uscire ad amare i fratelli che ci farete incontrare prendendo il loro “odore”, le loro fatiche e portando loro il profumo del Vangelo» (Mariangela e Gianluca).   E per finire: Davide un ragazzino di 8 anni, una sera entra in camera con un entusiasmo che non è da lui e dice: «Mamma, ho deciso che da grande faccio il santo, tanto non è difficile. Gli animatori ci hanno detto che basta pregare ed essere sempre felici». A CURA DELLE FAMIGLIE ADMA redazione.rivista@ausiliatrice.net

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In cammino verso il VII Congresso Internazionale di Maria Ausiliatrice 2015  Tra le iniziative caratterizzanti il Bicentenario della nascita di don Bosco ci sarà il VII Congresso Internazionale di Maria Ausiliatrice, promosso dall’Associazione di Maria Ausiliatrice (ADMA) e rivolto a tutta la Famiglia Salesiana. Si terrà a Torino – Valdocco/Colle Don Bosco dal 6 al 9 Agosto 2015. Motto del Congresso è: Hic domus mea, inde gloria mea. Dalla casa di Maria alle nostre case: La sua misericordia di generazione in generazione. Portare il profumo di una nuova umanità, il soffio dello Spirito che fa nuove tutte le cose, attualizzando nei gruppi della Famiglia Salesiana e nelle famiglie una rete di rela-

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PIERLUIGI CAMERONI pcameroni@sdb.org

zioni autentiche, di corresponsabilità e di comunione ispirata allo spirito di famiglia di don Bosco. COSA CI SI PROPONE   Tre sono gli obiettivi del Congresso che riprendono il trinomio del Sistema Preventivo di don Bosco: dialogo (ragione), presenza di Dio (religione), volersi bene (amorevolezza).   Dialogo: il vento dello Spirito di Dio che soffia dalla casa di Maria contiene la forza necessaria per spingere l’uno verso l’altro, in modo da spazzare via quella chiusura, quei pregiudizi e quelle ambi-


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zioni che sono le più acerrime nemiche dell’unità familiare. Quante famiglie sono diventate prigioniere dello spirito muto, quello spirito che fa tacere la verità del proprio io, invece di comunicarlo al noi della famiglia. Le relazioni familiari ardono di amore quando ognuno comunica se stesso nella verità, manifestando i propri pregi senza nascondere i propri difetti. I perfezionisti, i moralisti e i rigoristi sono coloro che ingabbiano il fuoco dello spirito rendendo freddi, distaccati e apatici i rapporti familiari.   Presenza di Dio: il vento dello Spirito che soffia dalla casa di Maria, fa delle case e della comunità un cenacolo, dove la pratica della preghiera è il vero collante che solidifica e risana le relazioni familiari. La preghiera richiede due elementi essenziali: l’assiduità e la concordia. L’assiduità significa non perdere mai l’occasione di rivolgersi a Dio per chiedere ispirazione al proprio agire, per riconoscere le proprie colpe e per avere la giusta contrizione e coraggio per chiedere scusa. La concordia significa avere il proprio cuore aperto alla volontà di Dio, per vivere quell’unità familiare anche nella diversità delle intenzioni, e lasciar decidere a Dio quale via seguire tra le possibili che si presentano.

Volersi bene: il vento dello Spirito che soffia dalla casa di Maria spazza la polvere che si deposita nel corso del tempo. Questa è un’immagine tipica delle relazioni che rimangono inalterate nel corso degli anni, relazioni che non hanno mai trovato la forza di rinnovarsi e maturare per portare i frutti tipici della vocazione adulta. Fidanzamenti che durano tantissimi anni senza progetti di matrimonio; attendere tanto tempo prima di aprirsi ad accogliere dei figli; vivere con la nuova famiglia rimanendo condizionati dalla famiglia d’origine, sono quella polvere che si accumula rischiando di precludere la possibilità di evolversi verso la missione affidata da Dio. In positivo vivere la quotidianità delle relazioni con i tre atteggiamenti dell’accoglienza fatta di comunione e condivisione, della riconciliazione e del perdono, del riconoscimento e del ringraziamento per il bene che c’è: permesso, scusa, grazie ci ricorda papa Francesco.

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Da duecento anni un amore più grande che ti guida Tornare ai Becchi significa andare alla sorgente del carisma di don Bosco.

Tutta la Famiglia Salesiana si è ritrovata nella spianata del Colle a Castelnuovo (AT) il 16 agosto scorso per festeggiare insieme il 199° compleanno di don Bosco. Davanti a numerosi giovani provenienti dalle case salesiane del Piemonte ed anche della Polonia il Rettor Maggiore don Ángel Fernández Artime ha aperto le celebrazioni per il Bicentenario della nascita di san Giovanni Bosco. «Tornare qui alla frazione dei Becchi, – ha esordito – dove don Bosco nacque e, fanciullo, lavorò nei campi crescendo nella fede e nel suo progetto di apostolato significa andare alla 56

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sorgente del suo carisma per scoprire questo grande dono di Dio a tutti i giovani del mondo. Il Bicentenario è una sfida per vivere con passione educativa ed apostolica la nostra presenza tra i ragazzi e le ragazze del mondo. Vogliamo riconoscere nelle loro vite il dono di Dio per noi e l’azione dello Spirito in ognuno di loro, condividendone i sogni, le aspettative, i desideri e i problemi. Oggi i nostri confratelli in Sierra Leone trascorrono la giornata di apertura del Bicentenario con i ragazzi figli delle vittime dell’epidemia di ebola. Mentra l’Ispettoria Salesiana del Medio


IL SALUTO DELLA DIOCESI DI TORINO E L’INTERVENTO DELL’ISPETTORE   Intervenendo a nome dell’arcivescovo di Torino monsignor Cesare Nosiglia il vescovo ausiliare monsignor Guido Fiandino ha ricordato come «la nascita di don Bosco è un evento che ha segnato la storia della Chiesa di Torino e via via del mondo intero dove questo santo è stato conosciuto, amato e venerato. Il recente passaggio della sua reliquia ha testimoniato il sentito ricordo e la presenza forte e feconda di bene di don Bosco tra migliaia di persone». Citando l’imminente ostensione della Sindone nel suo messaggio l’arcivescovo ha sottolineato come questa sia stata organizzata in amore di don Bosco. «La Sindone è il segno dell’amore più grande che questo santo ha vissuto nella concretezza del suo servizio e nella devozione per la Sua missione. Chiediamo quindi a Dio di donare alla Chiesa ed alla famiglia salesiana lo stesso amore di don Bosco per i giovani, per saperli accompagnare all’amore di Cristo con la tenerezza di una madre, la forza di un padre, l’autorevolezza di un maestro e la gioia di un amico». Introducendo la celebrazione eucaristica nel tempio del Colle don Bosco l’ispettore piemontese don Enrico Stasi ha ricordato «il dono educativo e spirituale sprigionato dalla vita e dall’amore di un ragazzo che aveva un grande sogno e un grande progetto».

regalo a tutta la Chiesa in favore dei giovani «formatosi nel tempo, dalle ginocchia di sua mamma Margherita fino all’amicizia con buoni maestri di vita e soprattutto nella vita di tutti i giorni con i giovani. Don Bosco, padre e maestro della gioventù è un segno della Provvidenza di Dio che non permette mai che nella sua Chiesa vengano a mancare uomini e donne che attualizzano il Vangelo». Docile a quest’azione dello Spirito, don Bosco cercò e accolse ogni ragazzo che non aveva un focolare, una casa, un padre o una madre. Tra quei suoi stessi giovani invitò i più generosi a diventare collaboratori della sua opera, dando così origine alla

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Oriente garantisce la sua presenza in Siria attraverso l’Opera di Aleppo. Dobbiamo aiutare i giovani a sperimentare che come educatori, fratelli, sorelle, siamo disponibili a stare sempre al loro fianco nel cammino della vita perché, proprio come don Bosco, anche noi vogliamo che siano felici ora e per l’eternità».

DON BOSCO: UN DONO PER TUTTA LA CHIESA   Nella sua omelia don Artime ha ricordato come il carisma di don Bosco sia un NOVEMBRE-DICEMBRE 2014

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Società di san Francesco di Sales. Una realtà, la Famiglia Salesiana, oggi presente in 132 nazioni, chiamata a stare con i giovani specialmente tra i più poveri. Dall’iniziativa di don Bosco nacquero la società di san Francesco di Sales, l’istituto delle figlie di Maria Ausiliatrice, fondata con Maria Domenica Mazzarello, l’associazione dei salesiani cooperatori. «La famiglia salesiana nel mondo – ha detto don Ángel – oggi è un grande albero le cui radici si estendono in tutta la Terra, motivo di speranza, di profonda umanità e di salvezza per molti ragazzi, ragazze, giovani e gente del popolo di Dio. Uno stile educativo e una prassi pastorale basata sulla ragione, la religione e l’amorevolezza: questo è il sistema preventivo di don Bosco. Portava i giovani a una maturazione umana, all’incontro con Cristo, al vivere la propria condizione di giovani capaci di impiegare le proprie energie in campo professionale e nella società civile, così come nel servizio al prossimo». IL BICENTENARIO È IMPEGNO DI VITA   «La celebrazione di questo bicentenario – ha concluso il Rettor Maggiore – non è solo contemplazione e ammirazione della figura di don Bosco. Rappresenta un impegno di vita per tutti noi qui presenti ora. Ci impegniamo oggi ad assumerci l’eredità che don Bosco stesso ci ha lasciato». Al termine della celebrazione il sindaco di Castelnuovo don Bosco, Giorgio Musso, ha conferito a don Ángel la cittadinanza onoraria del Comune astigiano. «Con questo riconoscimento – ha spiegato – vogliamo esprimere la nostra gratitudine a tutti i salesiani ed al loro impegno nel formare i giovani ad essere membri attivi della comunità civile. Don Bosco è un figlio del Monferrato, il figlio di un contadino povero della nostra terra. È stato una persona speciale donata dalla Provvidenza alla Chiesa ed al mondo civile per sollecitare e guidare gli animi dei nostri giovani». GIOVANNI COSTANTINO redazione.rivista@ausiliatrice.net

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Torta ‘d nissòle ANNA MARIA MUSSO FRENI redazione.rivista@ausiliatrice.net

Guardie e ladri nella casetta dei Becchi.

2h g di nocciole tostate e tritate finemente

2 2 2 2

h g di zucchero hg di burro h g di farina u ova

Don Bosco aveva sicuramente appreso da mamma Margherita la politica del “Padre Nostro”, cioè il signorile distacco dalle correnti ideologiche del momento e dai giochi di potere che assicuravano successo e benessere con facilità. Dal rapido susseguirsi di movimenti rivoluzionari di diverso colore politico aveva imparato a pesare con buon senso la fragilità del potere umano e a confidare esclusivamente nella Provvidenza. La casetta dei Becchi, sperduta nel verde della collina, era comodo rifugio per i fuggiaschi che cercavano scampo dalla polizia sabauda. Quelli che oggi consideriamo eroi del Risorgimento, all’epoca erano braccati come pericolosi terroristi. Margherita Occhiena non rifiutava a nessuno un piatto di minestra e un nascondiglio nel fienile, invitando inaspettati ospiti al pentimento e alla preghiera. Così aveva fatto anche in una gelida sera di pioggia, offrendo cibo e ospitalità accanto al camino ad un poveraccio in fuga.   Subito dopo, a cavallo, erano arrivati i gendarmi regi, ai quali la generosa contadina si era affrettata ad offrire una bottiglia di buon vino, trattenendoli in amabile conversazione. Così il malcapitato aveva potuto finire frettolosamente il suo pasto e scappare nel fienile. Malcapitato

che i gendarmi non avevano visto nel buio della cucina, o avevano finto di non vedere, cullati dalla calda ospitalità, da spumeggianti bicchieri di vino e... perché no? magari anche da una buona fetta di torta casalinga, come quella tipicamente langarola presentata in seguito.   Torta di nocciole (ricetta di nonna Piera, ex oratoriana di Cavagnolo, prov. di Torino) Mescolare il burro ammorbidito con lo zucchero, le uova e la farina. Aggiungere, mescolando, le nocciole tritate. Versare il composto in una tortiera imburrata e cuocere in forno a 180 gradi per 30 minuti.   Particolare importante: la torta non si taglia con il coltello ma si frantuma... con un pugno, ben assestato nel centro del dolce!!! (Beati gli operatori di pace.)

Il Rettor Maggiore taglia “con forza” la torta di nocciole con la scritta W Don Bosco preparata da nonna Piera. Nella foto, da sinistra: Anna Maria, Laura ed il decimo successore di don Bosco il Rettor Maggiore don Ángel Fernández Artime.

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FIUMI E MARI

Il lago di Tiberiade

Sarotherodon galilaeus galilaeus, più noto come “pesce di San Pietro”. Ha molte spine, ma è ottimo alla griglia.

Nel Vangelo che è proclamato nella 12ª domenica del Tempo Ordinario degli anni “B”, si legge che «verso sera, disse Gesù ai suoi discepoli: “Passiamo all’altra riva”» e subito dopo è ricordato l’episodio della tempesta sedata (Mc 4,35-41). Il “mare” sul quale avviene il miracolo è quello di Tiberiade, noto anche come mare di Galilea o lago di Genésaret o di Kinneret. In particolare, il nome Tiberiade fa riferimento alla principale città sul lago, fondata dal tetrarca Erode Antipa attorno al 20 d.C. e così chiamata in onore dell’imperatore Tiberio (questo nome è citato tre volte nella Bibbia: Gv 6,1; 6,23 e 21,1); Galilea fa riferimento al nome della regione in cui il lago si trova; Genésaret o Gennesaret dal nome della piccola pianura sulla costa occidentale (nove citazioni); Kinneret o Kinarot, infine, richiama

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LORENZO BORTOLIN bortolin.rivista@ausiliatrice.net

la forma di arpa del lago stesso, detta in ebraico Kinnor e a sua volta menzionata una sessantina di volte nella Bibbia. Il lago, alimentato dal fiume Giordano, è situato tra le colline di Galilea e le alture del Golan (occupate da Israele nel 1967, e tuttora rivendicate dalla Siria), a 212 metri sotto il livello del Mediterraneo (il mar Morto, invece, è a meno 408 m). È lungo 21 km e largo circa 12; ha profondità massima attorno ai 50 m ed occupa una superficie di oltre 165 kmq. È la più grande riserva d’acqua dolce di Israele e quindi, ha importanza strategica per il Paese e favorisce vari insediamenti, anche turistici.   Un tempo il lago era molto pescoso, e quattro apostoli - Andrea, Giovanni, Giacomo e Pietro - erano pescatori. Nel 2010, però, a seguito dell’impoverimento ittico, il Governo israeliano ha sospeso la pesca per due anni. Tra le specie ittiche del lago, la più conosciuta è il Sarotherodon galilaeus galilaeus, più noto come “pesce di San Pietro”. Ha molte spine, ma è ottimo alla griglia e deve il nome a un fatto narrato nel Vangelo di Matteo (17, 27), quando Gesù disse all’apostolo: «Và al mare, getta l’amo e il primo pesce che viene prendilo, aprigli la bocca e vi troverai una moneta d’argento. Prendila e consegnala a loro (al Tempio) per me e per te». Il Sarotherodon, infatti, inghiotte sassolini per rafforzare i muscoli della bocca, dove tiene i piccoli.   Tutt’intorno alle sponde del lago è un susseguirsi di richiami evangelici. Basta ricordare la chiamata dei primi apostoli (Mt 4,18), la pesca miracolosa (Lc 5,1), Gesù che cammina sulle acque (Mt 14,25 o Gv 6, 16-21) e che affida a Pietro la Chiesa nascente (Gv 21,1).


Don Bosco risponde Diego Goso Effatà Editrice, 2014 pagine 80, euro 8,00

L’agire della Chiesa. Indicazioni di teologia pastorale. Giovanni Villata Nuova Edizione, 2014 pagine 464, euro 40,00

Natale è... Usi Tradizioni storia leggende Lorenzo Bortolin Effatà Editrice, 2014 pagine XX, euro X,00

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OCCASIONE DA NON PERDERE Agenda giornaliera 2015 a strappo 2015

ogni giorno un pensiero di don Bosco

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agosto 2015 Figlio, hai un’anima sola; pensa a salvarla. MB III,608

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Si faccia economia in tutto, ma si faccia in modo che con gli ammalati nulla manchi. MB X,1046

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29 7 b. Paolo VI, papa b. Kowalsky don Giuseppe, martire

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