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Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv. in Legge 27–02–2004 n. 46) art. 1, comma 1 NO/TO
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si fa Tenerezza, si fa Bambino
1 Gesù è la Luce che dà vita, “La Notte” Santa di Correggio, r accontata da Stefano Ugolini
36 Migr anti: ogni giorno 11 vittime
Missioni Don Bosco e Vis contro la Tr atta
38 Consacr ata, medico e missionaria. La storia di Pier a Volontaria di Don Bosco
ISSN 2283–320x
novembre-dicembre 2016
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La Notte, uno dei dipinti più belli del Correggio
Correggio, L’Adorazione dei pastori, 1520--‘30, Gemäldegallerie, Dresda.
Stefano Ugolini dottore magistrale in Storia dell’Arte dell’Università di Perugia redazione.rivista@ausiliatrice.net
Dal corpo innocente di Gesù Bambino abbracciato dalla Mamma si irradia la Luce divina. novembre-dicembre 2016
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a tutto campo MARIA
Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse (Isaia 9,1).
entusiasti. Nel 1640 venne acquistata da Francesco I d’Este per essere collocata nelle raccolte ducali di Modena ove rimase sino al 1745, quando il duca Francesco III, per ripianare la disastrosa situazione finanziaria del Ducato, vendette le opere più importanti della sua raccolta all’elettore di Sassonia Federico Augusto II. Da allora La Notte incanta i visitatori della Gemäldegalerie di Dresda in Germania. Gesù è la Luce che dà vita, energia
Nelle cupe notti di dicembre, quando il buio, il freddo e la morte sembrano avere definitivamente vinto sulla vita, dal Cielo come una lacrima d’oro, un raggio di luce comincia a tornare a scaldare la Terra. In questi tempi in cui gli antichi Romani celebravano la rinascita del Sole Invitto, la Chiesa sin dalle origini colloca la venuta della Luce divina nel mondo con la celebrazione della Santa Natività di Cristo, da sempre poi uno dei soggetti più amati e rappresentati nel corso di secoli di storia dell’arte. Il silenzio, l’attesa, la meraviglia per l’infinita semplicità della notte di Natale è restituita ai nostri occhi mirabilmente in un capolavoro nato nel cuore della bassa emiliana, a Reggio, ad opera di Antonio Allegri detto il Correggio. L’Adorazione dei pastori dipinta da Correggio tra il 1525 e il 1530 per la Cappella Pratonieri della chiesa di San Prospero a Reggio Emilia universalmente conosciuta come La Notte. Dipinto tra i più celebri e imitati del Correggio, l’opera rimase nella sua sede originale per oltre un secolo ed ebbe modo di essere vista ed ammirata tra gli altri dal Vasari che ne parlò in toni 2
Maria Ausiliatrice n. 6
Il Correggio, fondendo nel dipinto tutta la lezione di Raffaello e dei grandi Veneti, viene ispirato dal racconto dell’Evangelista Luca e coglie subito l’atmosfera di stupore, meraviglia e timore che animò la notte dei pastori di Betlemme. L’ambientazione notturna è infatti resa estremamente suggestiva dagli effetti della luce, che si irradia dal Divin Bambino, centro della composizione, e si riverbera sugli altri protagonisti e sul coro degli angeli, i quali adagiati su morbidissime nuvole ricordano gli affreschi realizzati dall’Allegri in San Giovanni Evangelista e nella cupola della Cattedrale di Parma. Correggio sembra nel suo spettacolare notturno recuperare tutta la filosofia neoplatonica medievale sulla luce attribuendo ad essa un valore assoluto di bellezza in quanto Spirito di Dio. Platone infatti aveva instaurato una relazione diretta tra Bene e luce del Sole, principio stesso della conoscenza. La luce divina del piccolo Gesù, di cui si può quasi percepire il tepore, diviene nell’opera pretesto per descrivere le reazioni nelle figure degli astanti e per sottolineare che solo alla Vergine Maria era dato non soffrire quella luce così intensa. Il soggetto della Natività, un soggetto di per sé statico che non prevedeva nessun particolare movimento delle figure, viene così ad animarsi: intorno al lume miracoloso si crea una storia, un racconto. La luce dunque è ciò che da vita, energia, è
La Bellezza parla delLa Bellezza
Il disegno, il chiaroscuro, la coloritura del grande Antonio qui toccano apici senza paragoni. In questo dipinto - il più “anticlassico” dell’artista emiliano si raccolgono tutte le caratteristiche della “naturalità” e tenerezza inconfondibile del Correggio, la quale è senza tempo, e infatti darà linfa alla pittura sacra per secoli. Molti particolari dell’opera come tante sue creazioni ardite sembrano anticipare ancora una volta la “meraviglia” barocca del secolo successivo: la scaturigine della luce, che da Gesù si diffonde sul lungo cuscino di spighe di grano, quale fiammeggiante richiamo eucaristico; i capel-
a tutto campo MARIA
lo Spirito che scuote tutti i personaggi del dipinto e che in Maria si riflette come in uno specchio di acqua pura. Il volto di Maria infatti è trattato come se tutta la luce, la divinità del Figlio si fondono in essa grazie a quella comunione unica che c’è tra Lei e il Cristo. La luce dunque non è solo un effetto speciale per Correggio, ma è Luce, è lo Spirito, il Dio principio della creazione che rifulge nelle tenebre del mondo ed annuncia l’alba di una nuova era per l’umanità.
li di Maria, così intrisi dal lumeggiare; il movimento complessivo del pastore anziano in primo piano, il ritrarsi timoroso e della fanciulla con lo stupendo gioco complessivo di mani e infine quella sorta di attualizzazione del giorno nuovo che arriva, accennata sul profilo delle ben note colline di Val d’Enza dall’aurora che preannuncia il suo schiudersi. La quiete rurale della campagna, il muto e dolce rapporto tra Madre e Figlio, la reazione stupita e timorosa degli spettatori abbagliati dalla Luce divina rende questa Notte chiara come il Giorno, una Notte in cui il Cielo e la Terra sono uniti e il Sole splende in una mangiatoia. La bellezza nata dalle mani dell’uomo ci parla ancora della Bellezza senza tempo e fine.
La cultura peruginesca attorno alla Madonna del Feltro, di Stefano Ugolini Fondazione Cassa di Risparmio Perugia, 2016.
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Cristian besso
francesca zanetti
A TUTTO CAMPO 1 La notte, uno dei dipinti più belli del correggio
carlo miglietta
chiesa e dintorni 14 m a che cos’è la felicità? mario scudu
stefano ugolini
16 l a vita: un quadro esposto per l’eternità
rettore 6 LA basilica e i cortili di Valdocco
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don CRISTIAN BESSO
ezio risatti
18 l a terra trema in Ecuador marco leone e i ragazzi di missione ecuador
la parola 8 l a parola dell’incontro marco rossetti
20 il gioco dell’amore robert cheaib
23 “misericordiosi come il padre” carlo miglietta
maria 10 l a difficile arte del distacco francesca zanetti
12 devozione mariana giovanile
dalla parte del bambino 26 gesù ama teneramente i bambini... ma loro lo sanno? Carla manfreda intra sidola
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bernardina do nascimento
domus mea ic
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Maria Ausiliatrice n. 6
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giuliano palizzi
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Ermete tessore
giovani 28 Spianare le montagne,
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poster
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38 piera, medico specialista e consacrata una vdb
colmare le valli
40 «gesù confido in te»
giuliano palizzi
elena scavino
30 generazioni dallo
sguardo abbassato
42 la gioia dell’amore
ermete tessore
adma famiglie
don bosco oggi 32 l a compagnia dell’Immacolata
44 cheesecake (difficile, neh?) ai mirtilli
ANNA MARIA MUSSO FRENI
gianni ghiglione
34 orientamento e servizi al lavoro cnos-fap... ritorno al futuro
poster
come l’asino e il bue
daniela zoccali
36 migranti: ogni giorno 11 vittime
Dopo 75 anni di liete armonie
federica bello
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È uno stupendo organo con più di 5000 canne che ha accompagnato con la sua voce potente e calda i più grandi avvenimenti della Congregazione Salesiana. Posto sulla cantoria accanto all’altar maggiore, fu costruito da Giovanni Tamburini nel 1941 su progetto di Ulisse Matthey ed è uno dei più grandi e preziosi d’Italia.
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RETTORE
Custodi di memoria e spazio di nuova evangelizzazione.
La Basilica e i cortili di Valdocco
don cristian besso RETTORE rettore@ausiliatrice.net
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Maria Ausiliatrice n. 6
Carissime sorelle e fratelli, in questi primi due mesi dell’anno pastorale, la Basilica ha vissuto con molta intensità la sua vocazione di essere casa che accoglie tutti coloro che sentono il desiderio di incontrare il Signore Gesù, e di continuare a confrontarsi con quella straordinaria esperienza di carità, che è stata di san Giovanni Bosco e dei nostri santi “fondatori”. Rimane certamente nella nostra memoria la “settimana missionaria”: una manciata di giorni nei quali i cortili di Valdocco erano colorati dalle lingue e dalle culture del mondo. I missionari della 147a spedizione missionaria si sono, infatti, preparati a ricevere il crocifisso ed il mandato per l’annuncio del Vangelo nelle terre di
missione, con alcuni giorni di raccoglimento e confronto. Nei giorni 24 e 25 settembre poi la preparazione ha avuto il suo culmine celebrativo nell’Harambee: sia la veglia serale del sabato sera, con una buona presenza di giovani dell’Italia salesiana, sia la celebrazione domenicale delle ore 12.00, con la presenza del Rettor Maggiore, sono stati momenti intensi di preghiera e di partecipazione fraterna. Abbiamo poi iniziato, ogni giovedì, una iniziativa di preghiera e di confronto spirituale, animata dai giovani, che abbiamo chiamato Dai tempo al Tempo. Per tutti coloro che sentono il richiamo alla vita nello Spirito, ogni giovedì è possibile vivere nella Basilica un tempo prolungato di adorazione, preghie-
RETTORE
ra del Rosario e colloquio spirituale o di riconciliazione con un sacerdote, il tutto si conclude con la celebrazione eucaristica delle 18.30. Siamo convinti che ogni slancio apostolico, ed ogni sincera iniziativa di carità, partano dalla preghiera e dall’incontro col Signore Gesù; vogliamo così curare particolarmente questo spazio di interiorità e raccoglimento. Invitiamo tutti coloro che possono a vivere e a dare tempo a Colui che è Signore del tempo e senso dei nostri giorni. Infine stiamo preparando il Progetto pastorale Accoglienza - Basilica. Si tratta di raccogliere esperienze, sentire la tradizione ed il futuro per scegliere insieme le linee di cammino del domani, cosicché la Basilica e i cortili di Valdocco continuino a sentire la vocazione particolare e vera di essere santuario: custodi di memoria preziosa e spazio di nuova evangelizzazione, particolarmente per le generazioni del domani! È mia intenzione, nei prossimi numeri della Rivista, scrivere su questo tema e fornire particolari in merito, perché davvero il progetto sia spazio condiviso. Concludo augurando a ciascuno un sereno tempo natalizio, nella sua preparazione di Avvento e nella sua celebrazione nei giorni del Santo Natale. In Avvento auguro di avere davvero un cuore alla ricerca di Dio. Si tratta di crescere nella semplicità e nella piccolezza come Maria per attendere, cercare, scrutare con disponibilità e gioia le occasioni di incontro
col mistero della Gloria di Dio, che cerca accoglienza nella nostra terra. Si tratta, però, anche di vivere con autenticità il senso del dono: donare è aprirsi, dare fiducia, costruire legami, ascoltare e incontrare l’altro sino a pensare con attenzione a ciò che gli fa piacere e lo fa sentire davvero voluto bene. Siamo chiamati non a regalare con preziosità o ricercatezza, ma con cura ed attenzione, a volte basta donare molto poco, ma essere attentissimi perché la povertà donata sia davvero segno di benevolenza e di attenzione. Dio ci benedica nel nostro impegno e ci conceda di essere terra illuminata dal suo farsi uomo per noi!
Il Rettor Maggiore don Ángel e Madre Yvonne, insieme ai nuovi missionari, festeggiano l’Harambée. Nei cortili di Valdocco i colori di tutti i continenti
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LA PAROLA
La Parola dell’incontro Ci sono pagine straordinarie e difficili nei Vangeli: quella in cui si racconta il battesimo di Gesù è una di esse. Le azioni si incrociano con le parole e le parole con la Parola: è la testimonianza del Padre che rivela in Gesù il proprio Figlio (Mc 1,9-11). Il racconto è appena iniziato, o forse sta soltanto iniziando. La scena è dominata da Giovanni, colui che precede Gesù e ne prepara la via. È il battezzatore nel deserto a levare per primo la voce: coloro che lo ascoltano sono risvegliati al senso di Dio e alla necessità di cambiare qualcosa nella propria vita. Che gli animi siano preparati ad accogliere la radicale esortazione alla conversione che di lì a poco Gesù avrebbe rivolto a molti (Mc 1,15). Un gran numero di persone dalla Giudea e da Gerusalemme accorrono presso la valle intorno al Giordano per vedere il Battista, ascoltarlo e farsi battezzare. Egli è retto, onesto: ha coscienza di non essere il «più forte», il più importante; non osa neppure paragonarsi ad uno schiavo, tra i cui compiti c’è quello di sciogliere i lacci ai sandali del suo padrone. Egli sa altrettanto bene che cosa sta facendo: il battesimo, quello vero, in Spirito Santo, non lo può dare lui, ma il Messia che sta per arrivare. Gesù, il «più forte» che si fa debole
Viene da Nazaret di Galilea: là era cresciuto e per molti anni aveva vissuto. La sua famiglia è conosciuta: è il figlio di Maria e del falegname. Viene da là, ma il tempo di essere rivelato al mondo si sta compiendo. Il suo è un arrivo improvviso, non annunciato. Nessuno lo accompagna, nessuno lo introduce; non parla, non fa discorsi. Come gli altri viene «battezzato nel Giordano da Giovanni». Uno dei tanti, uno tra i tanti, eppure è «il più forte», colui che avrebbe battezzato nello Spirito. 8
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La scena è talmente scarna da non lasciar immaginare nulla. Ed è giusto che sia così: Gesù è Dio ed è uomo tra gli uomini, povero tra i poveri, totalmente solidale con l’umanità. Egli non ha bisogno né di per© - Schnoor-Conti
la parola
dono, né di conversione, ma è nella debolezza che vuole mostrarsi. Ci colpisce che il momento stesso in cui Gesù entra nel racconto, vi prenda parte da umile, si confonda coi peccatori e lo faccia veramente, intendo dire con la volontà di assumere il nostro cuore per cambiarlo dal di dentro e salvarci. È la scelta costante di Gesù che lo porterà a privilegiare tutto ciò che è ultimo e tutti coloro che sono ultimi ed
Nella persona di Cristo, nella sua scelta per la debolezza, Dio ci incontra e ci riapre la strada verso il Cielo.
umili per farne luogo della manifestazione dell’amore potente di Dio. La Croce ne sarà la prova più esaustiva. In fondo la storia del battesimo di Gesù parla la stessa lingua della passione e della morte di Gesù che fa propria la nostra povertà ed il nostro peccato per redimerci con la debolezza più radicale del sacrificio della vita. La scelta del Figlio di Dio
La scelta di Gesù di Nazaret potrà sembrare strana quanto basta, eppure è vincente! Nel momento stesso in cui egli esce dall’acqua dopo essere stato battezzato, è Dio stesso che si rende infatti presente per attestarne il valore: lo squarcio nei cieli è nel linguaggio biblico chiara indicazione simbolica della rottura di ogni forma di separazione tra noi ed il Signore dell’universo. Nella persona di Cristo, nella sua scelta per la debolezza, Dio ci incontra e ci riapre la strada verso il Cielo. Lo Spirito scende su Gesù, rimane con lui ed attesta chi egli è. Infine una voce dal cielo: azioni e parole ora tacciono perché si ascolti la Parola in cui il Padre rivela che Gesù è suo Figlio, l’amato di cui egli suffraga il cammino e di cui si compiace. Stupisce, ma proprio nella debolezza il Padre sceglie di incontrare il Figlio e di manifestarlo. Non è una casualità che a metà del Vangelo di Marco, dopo che Gesù ha annunciato la sua passione, si faccia presente per la seconda volta il Padre per riconfermare che Gesù è suo Figlio e che le sue parole sulla debolezza sono da ascoltare e da imitare perché sono via di salvezza. Marco Rossetti rossetti.rivista@ausiliatrice.net
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maria
La difficile arte del distacco Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie; e i due diverranno una stessa carne (Mc 10,7 che riprende Gen 2,24).
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Quante volte Wilma aveva sentito questo passo del Vangelo di Marco durante la Messa e le era sembrato ovvio e naturale. Anche lei quando si era sposata aveva lasciato i suo genitori al paese ed era andata a vivere in città con suo marito per formare una nuova famiglia. Difficile però e complicata è l’arte del distacco e quando a sua volta, anni dopo, si era trovata nella situazione di lasciar scegliere la propria strada affettiva a sua figlia Irene, non le era parso né ovvio e né facile, anzi aveva messo i bastoni fra le ruote fin dall’inizio, senza prevedere le conseguenze. Irene si era innamorata di un coetaneo che viveva nel paese dei suoi nonni ma per Wilma era un “ragazzo qualunque”, troppo “qualunque” per sua figlia, con un lavoro per niente prestigioso e con “poco” da offrirle.
La presunzione di conoscere il bene per la figlia
Un lento e costante lavoro di logoramento con critiche velate ma precise verso il ragazzo iniziò ad avere i loro effetti su Irene. La ragazza era cresciuta all’ombra della madre, desiderosa di compiacerla ed essere all’altezza delle sue aspettative anche se ciò contrastava con l’immagine che gli altri avevano di lei, cioè di una persona intelligente, brillante e sicura. Che grande responsabilità ha un genitore nei confronti di un figlio, com’è facile pianificargli la vita credendo presuntuosamente di fare il “suo bene”! La strategia materna funzionò, Irene lasciò il ragazzo: la madre aveva vinto la sua battaglia ma aveva aperto una guerra, quella di Irene contro se stessa. Nel rapporto col cibo si manifestano molti aspetti del nostro rapporto col mondo esterno: “mangiare o non mangiare” sono scelte fatte per gratificarci o punirci e rivelano il nostro equilibrio interiore. Irene scelse di “non mangiare”, trovò nel rifiuto del cibo il modo inconsapevole di sottrarsi ad una realtà che lei viveva come ostile, si ammalò di anoressia, scese terribilmente di peso e divenne davvero l’ombra di se stessa trascinando nella disperazione sua madre che, troppo tardi, si era resa conto di quanto fossero state determinanti le sue pressioni, di come avesse intriso il suo amore materno con egoismi e pregiudizi, di come l’avesse “nutrita male” sino a portarla al rifiuto del mondo intero. La perdita dell’equilibrio emotivo di sua figlia si accentuò sempre più sino a sfociare in un tentativo di suicidio: Irene si era giocata la sua stessa vita. Su consiglio di uno psicologo la ragazza fu
maria
Il “poco” ovviamente riguardava i beni materiali che lei aveva imparato ad apprezzare ed a porre al primo posto da quando suo marito aveva raggiunto un ottimo livello sulla scala professionale. Sua figlia meritava di più, molto di più e lei si era sentita in dovere di intervenire senza esitazione: era la madre.
allontanata dalla madre con la quale non voleva più comunicare e affidata ai nonni. Wilma è sola con le sue responsabilità
Wilma si trovò sola difronte alle sue responsabilità ed iniziò a farsi uno spietato esame di coscienza, a cercare delle àncore di salvezza per costruire una figura di madre positiva. Nelle pagine del Vangelo trovò un modello da seguire: la Vergine Maria che oltre gli onori degli altari, oltre le corone, le rose era stata una donna vera, una madre giusta, un personaggio storico che aveva sperato, amato, sofferto. Nell’attualità della Madonna sono rappresentate tutte le donne del mondo ed anche Wilma avrebbe guardato a lei. La giovane madre di Nazareth non aveva avuto la pretesa di pianificare la vita di suo figlio, un figlio che, cresciuto, non era rimasto con lei, aveva scelto una strada difficile. Maria lo ha semplicemente seguito, accompagnato con intelligenza, con fiducia e coraggio anche senza capire. Così avrebbe cercato di fare Wilma, avrebbe atteso la guarigione di sua figlia a dolorosa distanza e poi tentato un riavvicinamento graduale, discreto e rispettoso. Francesca Zanetti redazione.rivista@ausiliatrice.net
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Devozione Mariana Giovanile Piccoli atei crescono Il sociologo Franco Garelli ha recentemente pubblicato un volume dedicato al mondo della fede giovanile e l’ha intitolato: Piccoli atei crescono. In esso riporta i dati di ricerche aggiornate a riguardo della fede dei giovani europei. Risulta che in Francia, Germania, Svezia, Olanda e Belgio il 65 per cento dei giovani di età compresa fra i 18 ed i 29 anni si dichiara ateo od agnostico. I giovani spagnoli si professano atei per il 37 per cento, seguiti dagli italiani per il 28 per cento e dai portoghesi per il 20 per cento. Se varchiamo l’oceano Atlantico il 18 per cento dei giovani statunitensi sostiene di essere ateo-agnostico. Nonostante queste percentuali molti, anche oggi, ritengono plausibile il fatto di avere una fede religiosa
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in quanto anche nella società attuale permangono le domande fondamentali che da sempre accompagnano l’esistenza umana. Gli interrogativi legati al senso del vivere e del morire, alla realtà del male e della sofferenza non trovano soluzione nelle società più progredite. Non tutto trova soluzione nella ragione. Anche oggi la fede rende l’uomo più libero di accettare la vita e la morte e dà senso al dolore ed al soffrire. Il ruolo di Maria
In tutte le religioni il ruolo della figura materna è fondamentale. Anche tra la moderna gioventù la “madre” continua ad essere il fulcro dell’esistenza. Dove si respira l’amore materno i problemi non sono eliminati ma trovano un punto di
soluzione. Dove manca, il vuoto si rivela una sorgente di infiniti problemi di ogni tipo. Nella fede cristiana il desiderio di conoscere la Madre aumenta solo se si entra in amicizia con il Figlio. Non è possibile essere devoti di Maria senza essere innamorati di Gesù. In questa prospettiva la vita di Maria diventa il paradigma del credere nel Cristo. Non si crede nella Madonna, ma come la Madonna. La fede di Maria
La testimonianza di fede che la giovane donna di Nazaret ci offre è quanto mai attuale e moderna. Il credere di Maria
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è scevro da ogni forma di misticismo. Il suo essere madre del Figlio di Dio non l’ha blindata nella contemplazione estatica “del frutto del suo grembo”. Il suo rapporto con Gesù è come quello di ogni madre. Non sa di estasi ma di sorpresa, di paura, di fatica, di disagio, di incomprensioni, di dolore, di disperazione e di morte. La sua esistenza non è costellata di miracoli se non quelli frutto dell’amore e dell’assoluta dedizione fidandosi solo del suo rimboccarsi le mani illuminato dalla certezza di essere sempre sotto il manto della Provvidenza. Nel contesto della famiglia di Nazaret la Vergine non assume atteggiamenti passivi, quietistici, rassegnati, contemplativi. Non abdica, non tira i remi in barca rifugiandosi in uno sterile piagnisteo, piuttosto è attiva, esigente, reattiva, non rassegnata, avida di certezze. La sua figura storica non è mistica, ma profetica. E tale deve rimanere anche nella nostra devozione di oggi. Che dire delle apparizioni?
Le apparizioni non possono falsare la pietà profetica della Madonna. L’esperienza fondamentale della profezia è caratterizzata da una volontà enorme di vivere, da un continuo desiderio di affermazione, dal potenziamento ed esaltazione del
sentimento vitale, dal sentirsi preso e dominato da valori e compiti, dall’appassionata aspirazione alla realizzazione della propria vocazione. Non si può ridurre i messaggi e gli appelli mariani ad una sterile denuncia del male e del peccato o a vaghi ed eterei inviti alla conversione. Piuttosto le apparizioni mariane devono essere invito a vivere la fede nel suo Figlio con la certezza che dall’indigenza, dal peccato e dalla disperazione più profonda scaturisce sempre alla fine, generata dalla ferma volontà di convertirsi, la fede vera, il bene, la sicurezza incrollabile, la costruzione e la fiducia salda come una roccia. Lourdes è grande non per l’acqua “miracolosa” ma per la speranza che illumina le tenebre dell’universo della malattia e della sofferenza. Medjugorje è importante non per le danze solari ma perché molti ritrovano il desiderio di mettere ordine nella propria esistenza. Per don Bosco la Madonna diventa
Nel contesto della famiglia di Nazaret la Vergine non assume atteggiamenti passivi, quietistici. Piuttosto è attiva, esigente, reattiva, non rassegnata.
sua “socia” non a motivo di miracolismi ma con una presenza continua punteggiata di sogni, di protezione, di assistenza e di illuminazione nella ricerca dei benefattori, di sostegno nella realizzazione di progetti arditi. Una presenza non da fatina di Pinocchio ma da Madre. Proprio quel tipo di madre che i giovani si aspettano di avere accanto a sé per non perdersi nella “liquidità” esistenziale della società di oggi. BERNARDINA DO NASCIMENTO redazione.rivista@ausiliatrice.net
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chiesa e dintorni
Ma che cos’è la felicità? no Boezio. Dante lo chiamava «anima santa» e lo considerava la cerniera tra la cultura romana e la nascente Scolastica. Fu un filosofo dallo straordinario influsso per molti secoli. La persona è…
Boezio, “romano di Roma”, di famiglia aristocratica, filosofo, traduttore dei classici, accusato ingiustamente e condannato anche per la sua fede cattolica. «Non guardate la vita dal balcone, per favore: non mettetevi nella coda della storia. Siate protagonisti. Giocate in attacco! Calciate avanti, costruite un mondo migliore, un mondo di fratellanza, di giustizia, di amore, di pace, di fraternità, di solidarietà». È l’appello a vivere la vita, pronunciato da Papa Francesco a tre milioni di giovani presenti a Rio de Janeiro per le Giornate Mondiali della Gioventù. Era l’estate del 2013. Da pochi mesi Jorge Mario Bergoglio era salito al soglio pontificio, dopo le dimissioni di papa Benedetto XVI. Sulla spiaggia di Copacabana, invasa da giovani provenienti da ogni 14
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parte del mondo, papa Francesco ha voluto rivolgere un invito forte e chiaro a prendere in mano la propria vita, a contribuire attivamente alla storia e non rimanere ai margini. Non restare al balcone
È cosa ovvia affermare che «tutti gli uomini desiderano sapere» (Aristotele) e che l’oggetto di questa incessante ricerca è la verità: sul mondo (Cosmologia), su Dio (Teologia) su se stessi (Antropologia). Se ogni uomo può essere considerato cercatore della verità, alcuni personaggi della storia assurgono anche a martiri per la verità. Tra questi ricordiamo Severi-
Severino Boezio è nato a Roma nel 480 in una famiglia aristocratica. A trent’anni era già un uomo famoso. Si sposò ed ebbe due figli. Nel 497 l’Italia veniva invasa dagli Ostrogoti di Teodorico. Questi riusciva in un primo tempo a creare un certo equilibrio tra il suo popolo e i Romani. Boezio era tra i Romani colti del tempo che speravano in una progressiva romanizzazione dei “barbari” Goti. Con questa motivazione culturale e civile, cominciò a tradurre i classici (Aristotele, Platone, Porfirio, ecc.), traduzioni che gli diedero una grande notorietà nel Medio Evo. Scrisse inoltre trattati di logica, matematica, musica e teologia. Lo scritto però più rilevante che lo farà famoso sarà il De Consolatione Philosophiae, scritto da condannato a morte. Ma cos’era capitato? Nel 522 due figli di Boezio erano stati nominati consoli. Qualche tempo dopo però, dovette scontrarsi con alcuni funzionari corrotti: questi per vendetta lo accusarono, ingiustamente, di tradimento. L’imperatore Teodorico (ariano e anticattolico), senza neppure ascoltarlo, lo condannò. Morirà in esilio a Pavia nel 526. Se-
Consolato da Signora Filosofia
L’occasione per scrivere La Consolazione della Filosofia fu la sua condanna a morte. Boezio riprende un genere letterario diffuso nell’antichità e cioè ricorrere a un po’ di “consolazione filosofica” per affrontare le difficoltà esistenziali. Due “Signore” lo consolano: Filosofia e Fortuna. Sarà specialmente la prima, nelle sembianze di una maestosa dama, a interrogare, a far ragionare, a consolare il prigioniero. A Boezio che si lamenta per l’esilio ingiusto che subisce Signora Filosofia risponde: «Condannato all’esilio? Nessuno può dirsi in esilio quando è con se stesso. Non mi impressiona l’aspetto del luogo in cui ti trovo, ma lo stato del tuo spirito». Ed un rimprovero: «Invece di misurare quello che hai perduto, perché non consideri quello che ti è rimasto? Perché non confronti la tua
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verino moriva ma la sua opera rimase nei secoli. Per esempio: la sua famosa definizione di persona. Eccola: la persona è «una sostanza individuale di natura razionale». In essa si mette in rilievo sia la sostanzialità e l’individualità della persona e quindi il suo essere-in-sé, sia la sua autonomia e razionalità. «La “persona” vi appare come l’essere di frontiera, che tiene insieme i due mondi, e perciò come la categoria che può essere applicata agli uomini, agli angeli e a Dio, senza escludere una solidarietà col piano degli esseri di altra natura, pur mantenendo la sua irriducibile singolarità» (B. Forte).
vita con quella degli altri? La ricchezza, le cariche, la fama... sono poi i veri beni?». Ma che cos’è la felicità?
Ancora Filosofia: «Ma che cos’è la felicità?». Boezio: «Io direi che la felicità consiste in un bene, posseduto il quale, non se ne desiderano altri». Ma lei gli rinfaccia che non è una definizione completa: mancano certezza e durata. Poi Filosofia dà la definizione: «La Felicità consiste nell’avere tutte queste cose e altre insieme a queste, senza la possibilità di perderle con la certezza di poterle sempre aumentare, se lo si desidera. Ma se questo è vero, la felicità non si può trovare che nell’Infinito, cioè nel Bene sommo, cioè in Dio, per usare un termine d’uso abituale tra noi». E i cattivi? Ecco la risposta originale: «I cattivi dovrebbero essere portati in tribunale non da accusatori sdegnati ma da amici carissimi, proprio come si fa per il malato con il medico». Ultima domanda. Che cos’è la vita dell’uomo? È Filosofia (meglio è Boezio stesso!) che risponde: «La vita è un combattimento e non un gioire tra le delizie o un marcire tra i piaceri. Bisogna dunque che ogni uomo si faccia la propria fortuna» cioè costruisca se stesso nell’impegno quotidiano. Un ultimo consiglio sulla libertà: «L’uomo è libero quanto più si mantiene legato al piano provvidenziale di Dio ed è tanto meno libero quanto più si lega al corpo e alle sue passioni». Che sia valido ancora oggi?
La felicità è una merce meravigliosa: più se ne distribuisce, più se ne ha. (B. Pascal)
La felicità non è di questo mondo. Le ricchezze possono rendere l’uno più fortunato dell’altro, ma non può farlo più felice. (Euripide)
Tratto in forma ridotta da: Anche Dio ha i suoi campioni di Mario Scudu Elledici, 2011 pagine 936
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La vita: un quadro esposto per l’eternità (continua dai numeri scorsi… una signora semplice e un uomo elegante stanno discutendo mentre sono sull’autobus).
È difficile immaginare il destino dell’uomo dopo la morte. Non è però impossibile farsene un’idea…
Di tutti i mesi dell’anno, novembre è quello in cui si è più portati a riflettere sul senso della vita, a pensare alle persone care che non ci sono più e a immaginare che cosa ci attenda al termine dell’esperienza terrena. Fare della vita un capolavoro
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Tra le infinite analogie che si sono fatte strada, nel corso dei secoli, per illustrare che cosa sia la vita e quale sia il suo rapporto con “quello che verrà”, una delle più suggestive è quella che paragona l’esistenza terrena a un quadro dipinto dall’uomo e destinato a rimanere esposto per l’eternità. Un’immagine a effetto per far comprendere che la vita terrena in cui ciascuno ha la possibilità d’illustrare e di colorare la propria tela - avrà rilevanza anche nell’Aldilà. Ciascuno è responsabile del qua-
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dro che realizza e il fatto che sia più simile a una tela di Raffaello o a uno sgorbio tracciato da mani inesperte e distratte dipende essenzialmente da chi dipinge: quanto più saprà “sfumare” i propri giorni di opere belle, buone e sante, tanto più l’opera risulterà nitida, armonica e ben definita. Il “manuale” che contiene tutte le istruzioni necessarie per realizzare un quadro perfetto è senza dubbio il Vangelo, perché è lì che s’impara che invidia, gelosia, violenza e pigrizia partoriscono sgorbi e che da amore, amicizia, dialogo e apertura verso il prossimo non possono non nascere capolavori. Anche se non tutti ne sono ancora convinti - infatti - la legge di Dio non è un macigno che viene imposto all’uomo come una prova di forza da superare ma un aiuto per vivere in modo autentico ed essenziale senza farsi intrappolare
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da miti e situazioni che inaridiscono il cuore. Rinascere a una nuova vita
Un’altra analogia che tenta di spiegare il passaggio dalla vita terrena a “quello che verrà” è legata al tema della nascita e considera il momento della morte una sorta di spartiacque tra l’esistenza umana e una vita nuova. Si potrebbe affermare, in tale prospettiva, che il feto sta all’uomo adulto come l’uomo adulto sta a quello che sarà nell’Aldilà. Gli psicologi sono concordi nel ritenere che il feto - di norma - si trovi bene nel grembo materno: è protetto dal caldo e dal freddo e può nutrirsi e riposare ogni qual volta ne senta la necessità. A un certo punto, però, non si sente più a proprio agio, desidera oltrepassare la realtà che sta vivendo e comincia a lanciare una serie di messaggi biochimici per annunciare di essere pronto per il parto. E il parto - come la morte - rappresenta senza dubbio, per il bambino, un momento di crisi, uno spartiacque, il passaggio da una situazione comoda a una in cui tutto diventa più faticoso e… più avvincente! Sono relativamente pochi coloro che riescono a considerare la morte come un semplice momento di crisi, uno spartiacque tra due differenti esperienze di vita. Perché l’idea di morire spaventa e viene vissuta come sciagura terribile e irrimediabile. La testimonianza più autorevole del fatto che la morte sia un passaggio necessario si trova, anch’essa, nel Vangelo, nei primi versetti del terzo capitolo di quello di Giovanni, quan-
do Gesù dice all’anziano Nicodemo: «In verità, in verità ti dico, se uno non rinasce dall’alto non può vedere il regno di Dio». E all’obiezione di Nicodemo: «Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?» Gesù risponde: «In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito». Ed è per questo che, forte delle parole di Gesù, non di rado la Chiesa cattolica stabilisce la festa dei santi nel giorno della loro morte, ovvero della loro nascita al Cielo. Come è accaduto a don Bosco, nato al regno di Dio il 31 gennaio 1888 e festeggiato in quel giorno. EZIO RISATTI PRESIDE iusto REBAUDENGO redazione.rivista@ausiliatrice.net
A un certo punto iL feto non si sente più a proprio agio nel grembo materno, desidera oltrepassare la realtà che sta vivendo e comincia a lanciare una serie di messaggi biochimici per annunciare di essere pronto per il parto.
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La terra trema in Ecuador Nonostante il terremoto, nei barrios di Manta, sulla costa nord occidentale del Paese, le suore del “Cottolengo” continuano il sostegno materiale e spirituale alla popolazione. «Tutto è cambiato il giorno 16 aprile di quest’anno, alle ore 18:58, dopo la scossa di terremoto di magnitudo 7,8 che ha colpito la mia nazione, ho vissuto situazioni che fino ad allora avevo visto soltanto al cinema o in tv” . Questa è la testimonianza di Miguel Moreira, uno dei volontari locali aggregato del “Cottolengo” nella missione di Manta (sulla costa nord occidentale dell’Ecuador, Paese che si affaccia sull’oceano Pacifico), dove dal 2002 prestano servizio le suore della Congregazione di San Giuseppe Benedetto Cottolengo. Il sisma è stato violentissimo e le scosse sono continuate anche nelle settimane successive con intensità elevata. L’ultimo bollettino parla, purtroppo, di 682 morti e circa 17 mila feriti, in una terra già martoriata. In Ecuador quasi la metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà e tutti gli altri sono poveri. Sono otto milioni i po18
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veri. I problemi, quindi, sono quelli tipici delle società dove la divisione della ricchezza è assolutamente sproporzionata, e i ricchi sono anche coloro che detengono il potere politico e che fanno sì che le risorse del Paese vengano svendute.
Sostenere
Le suore del Cottolengo prestano il loro servizio nei barrios Ab don Calderon, Santa Martha, Los Geranios alle periferie di Manta. Le attività nei barrios riguardano in particolare la catechesi dei giovani, che
sono “educati alla vita” e sottratti, si spera, al triste destino della strada. Poi, si sensibilizza la popolazione a tematiche come istruzione, valori famigliari, importanza dell’igiene, della cura personale, del lavoro. Ultimo, ma non meno importante, il costante aiuto caritativo alle famiglie, in termini di beni materiali e di opere, sempre attraverso l’autofinanziamento che spesso coinvolge la popolazione con lotterie, aste, bingo, ecc. Quindi, è dato spazio sia alle attività di crescita e sviluppo sociale, sia a quelle di crescita spirituale, con l’obiettivo di creare e rendere viva una “chiesa giovane”, che parte dalla realtà e dalla cultura locale per diffondere in modo rinnovato il messaggio di Cristo. In particolare nel barrios Los Geranios le suore gestiscono una piccola struttura sanitaria denominata Fundacion Cottolengo, che ospita malati in fase terminale, recupero postoperatorio e asilo per anziani poveri e riabilitazione. Dopo il sisma, le suore sono state le prime ad aprire la loro casa: senza aspettare gli aiuti, hanno condiviso gli spazi abitativi per coloro che avevano perso tutto, oltre che portare un conforto fraterno e la Provvidenza concreta.
nità e di condivisione; condividere quello che Dio ci ha dato con i più bisognosi, come dice San Paolo “C’è più gioia nel dare che nel ricevere“, ci ha liberati un po’ dal nostro egoismo e ci ha fatto conoscere la precarietà delle cose che in pochi secondi sono andati in frantumi, ci ha aperto l’orizzonte e inoltrare lo sguardo verso l’altro, ci ha fatto maggiormente capire che le difficoltà nostre sono niente in comparazione con la grande tragedia che si sta vivendo qui in Manta». È stata subito allestita una tendopoli all’aperto, nell’ospedale, per accogliere tutti. E tutto ci rimanda alla condivisione fraterna che le suore del
“Cottolengo” mettono in pratica sempre nella gestione della Provvidenza divina, che anche in questo caso deve essere sostenuta da volontari e dal sostegno economico. Noi del Gruppo giovani per l’Ecuador abbiamo organizzato varie attività per stimolare la solidarietà generale e soprattutto per non dimenticare una ricostruzione, che durerà anni. Chi volesse contribuire o ricevere maggiori informazioni, può scrivere all’e-mail missioneecuador@libero.it o visitare il sito https://sites.google.com/ site/missioneecuador. Marco Leone e i ragazzi di Missione Ecuador redazione.rivista@ausiliatrice.net
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Suor Mary Soshiyath, responsabile della struttura sanitaria, scrive: «Nel dramma del terremoto abbiamo vissuto una bellissima esperienza di fraternovembre-dicembre 2016
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Il gioco dell’amore La bellezza del diverso.
 Gli opposti si attraggono? O chi si somiglia si piglia? Credo entrambe le cose. Ci sono elementi di differenza ed elementi di somiglianza che permettono a due persone di trovarsi. Non tutte le somiglianze si incontrano, a volte si appiattiscono e si esasperano a vicenda. CosĂŹ come non tutte le differenze si scontrano, a volte creiamo un campo magnetico e creativo irripetibile. Ci sono somiglianze e differenze complementari, come ci sono anche somiglianze e differenze che si escludono a vicenda. Somigliare nei difetti, nelle fragilitĂ , nelle fissazioni 20
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Robert Cheaib redazione.rivista@ausiliatrice.net
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è terribile. Divergere sull’essenziale non permette di gettare le basi di una casa e di una causa comuni. Le differenze vanno addomesticate, ovvero, vanno letteralmente portate a casa. Non devono creare divergenza, ma convergere per fondare il “noi”. Le fondamenta di una casa sono utili se sono poste nella giusta distanza per permettere lo spazio costruttivo e per sorreggerlo. Perdonando l’alterità, la accogliamo come dono e ne scopriamo i tratti di bellezza e di complementarietà nella diversità. Bisogna superare la presunzione di somiglianza e maturare verso l’assunzione della differenza. Anche in ciò che ci accomuna, l’altro, a rigor di termini, è diverso. La bellezza nella coppia non nasce dall’essere una copia conforme l’una dell’altro o viceversa. La bellezza è la concordia, non la conformità. È la sintonia, non la monotonia. È il coraggio della comunione nella diversità e del «vedere nella prossimità dell’inafferrabile il modo stesso
di essere della bellezza» (Chrétien). Nell’alterità non c’è solo diversità, c’è eccedenza. È bello così com’è
Se l’amore è «la capacità di avvertire il simile nel dissimile» (Theodor Adorno), esso è anche la capacità di assumere il dissimile senza assimilarlo, disassemblarlo od omologarlo. Annullare la differenza e la polarità è annullare la relazione, annullare la coppia. Dire «siamo proprio uguali», «è quello che ho sempre sognato», «è la mia donna ideale. L’ho pensata proprio così», ecc., è cedere al rischio della fusione e della confusione. Quando conosco l’altro per quello che è, scopro che è imperfetto o, meglio, che è perfettamente diverso da come lo avevo immaginato a primo acchito. Scopro che è altro nel vero senso della parola. Non è perfetto per me, è unico in sé. Amarlo è riconoscere che è bello così.
La bellezza nella coppia non nasce dall’essere una copia conforme l’una dell’altro o viceversa. La bellezza è la concordia, non la conformità. È la sintonia, non la monotonia.
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perature diverse creano movimenti atmosferici e contribuiscono al fiorire della vita, così anche nella coppia, la diversità sarà spazio di scambio, di condivisione e di fecondazione reciproca. Pochi testi hanno la forza evocativa di questo poema del poeta libanese Khalil Gibran per parlare di quanto sia importante non solo tollerare, ma custodire l’alterità e far spazio all’altro e alla sua diversità:
Su un altro versante, tante persone si innamorano dell’altro perché è quello che è per poi passare il resto della vita a cercare di farlo diventare quello che sono loro. Dobbiamo riconoscere lo spazio che ci separa dall’altro. È lo spazio che può diventare il giardino e il respiro del nostro amore. «L’incontro con l’altro è la nostra migliore occasione per accedere alla vera vita che è superamento, oblìo di sé, liberazione dai pesi e dagli intralci del nostro ego» (Xavier Lacroix). Alla sicurezza fusionale, l’altro mi propone il rischio della comunione nella diversità. Questa è la bellezza dell’amore. Diversi per condividere
Abbracciare la diversità, invece di circuirla, è l’occasione per essere coppie ricche, creative e complementari. In queste coppie dove ci si ama nella libertà, ognuno comunica con l’altro dal centro della sua unicità e diversità. Ognuno apporta al noi il suo stile, la sua grazia, la sua bellezza. E come le correnti con tem-
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Vi sia spazio nella vostra unione, e tra voi danzino i venti dei cieli. Amatevi l’un l’altro, ma non fatene una prigione d’amore: piuttosto vi sia un moto di mare tra le sponde delle vostre anime. Riempitevi l’un l’altro le coppe, ma non bevete da un’unica coppa. Datevi sostentamento reciproco, ma non mangiate dello stesso pane. Cantate e danzate insieme e state allegri, ma ognuno di voi sia solo, come sole sono le corde del liuto, benché vibrino di musica uguale. Donatevi il cuore, ma l’uno non sia di rifugio all’altro, poiché solo la mano della vita può contenere i vostri cuori. E siate uniti, ma non troppo vicini; le colonne del tempio si ergono distanti, e la quercia e il cipresso non crescono l’una all’ombra dell’altro.
Come l’asino e il bue MARIO SCUDU archivio.rivista@ausiliatrice.net
chiesa e dintorni POSTER
Non rifletteremo mai abbastanza sul Natale, sulla profondità del mistero di un Dio che si fa uomo in mezzo a noi, che nasce come un figlio d’uomo qualsiasi, pur essendo pienamente il Figlio di Dio. Colpisce, soprattutto, come si realizza questa venuta di Dio nella storia: «nato da donna» come scrive san Paolo in Gal 4,4. Nessun ingresso trionfale, magari in uno dei sontuosi palazzi della Roma imperiale, nessuna manifestazione degna dell’Onnipotente, non un uragano travolgente o un sole abbagliante. Niente, entra nel mondo nel modo più semplice, come un bimbo dalla mamma, sottoponendosi anche lui alla legge del divenire umano, della gradualità dell’imparare, come il più piccolo dei semi che germoglia e cresce (Mc 4,31-32). Tuttavia, la storia ci dice che quando giunse questa «pienezza del tempo», quando cioè Dio si fece uomo in Gesù, l’umanità non era particolarmente ben disposta a riconoscerlo e ad accoglierlo, nemmeno vi era nel mondo stabilità e pace. Non c’era né una “età dell’oro” e nemmeno la “pax romana”. L’evangelista Giovanni nel suo famoso prologo ci dice che «i suoi non lo hanno accolto» (Gv 1,11). Chi doveva riconoscerlo e accoglierlo non lo fece, rimase prigioniero del proprio egoismo e di schemi mentali non sufficientemente illuminati. Questo vale per la società di allora ma anche per noi cristiani moderni del XXI secolo. Semplicemente non si aspettavano un Dio così. E non lo riconobbero. C’è un curioso versetto del profeta Isaia (Is 1,3) che suona: «Il bue conosce il suo proprietario, e l’asino la greppia del suo padrone. Israele invece non comprende, il mio popolo non ha senno». Già l’asino e il bue: due “personaggi” presenti in ogni presepe “cristiano” che si ispira alla tradizione. Sembra infatti che fu Francesco d’Assisi, ispiratore del presepe, a volerli nella grotta di Greggio: disse che voleva vedere il Bambino con i propri occhi, adagiato in una mangiatoia, dormire sulla paglia “tra un bue e un asino”, come troviamo in tanti raffigurazioni “classiche” del Natale, come quella di Sandro Botticelli, che vi proponiamo nel poster. I due preziosi “attori” del presepe hanno “personalità” e modalità differenti di “esserci”: l’asino sembra più “interessato”, più concentrato sul Bambino, insomma più “contemplativo”. Mentre il bue, apparentemente distratto, sembra scrutare e controllare l’ambiente circostante, come una guardia del corpo che vuole proteggere Lui. Nel Medio Evo «tutti e due gli animali presi insieme valevano come simbolo profetico, dietro il quale si celava il mistero della Chiesa, il nostro mistero, di noi che di fronte all’eterno siamo asini e buoi, ai quali nella notte santa si aprono gli occhi così da riconoscere nella greppia il loro Signore» (J. Ratzinger). E noi? Lo conosciamo il Bambino per quello che veramente è? Sostiamo in silenzio e contemplazione davanti al presepe? Lo ringraziamo? novembre-dicembre 2016
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Sarà chiamato Emmanuele, che significa ‘Dio-con-noi’(Mt 1,23)
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Ti rendo grazie, o Gesù
Ti lodo, amatissimo Gesù, per il tuo avvento ammantato di luce per la tua gloriosa nascita dalla Vergine Maria, per la tua povertà e per il tuo umile dimorare in una greppia tanto umile e insignificante. Chi mai avrebbe potuto immaginare che l’Altissimo si sarebbe fatto piccolo per gli uomini? Quanti dovrebbero essere i nostri inni di grazie per te, che hai scelto le ristrettezze di una mangiatoia per redimerci? Che amorevole tenerezza, quale nobile dolcezza, quanto dolcissimo amore nel vedere Dio che si fa bambino avvolto in poveri panni, in una misera mangiatoia, accanto ad animali! Davvero ineffabile è questa umiltà: il Signore dei signori si fa servo dei suoi servi… E ti sei persino degnato di essermi fratello, carne della mia carne, nella comune natura umana pur senza esserti macchiato della colpa antica… Rendo grazie alla tua prodigiosa e gloriosa nascita, o Gesù, Figlio unigenito di Dio… Da: Tommaso da Kempis, “L’imitazione di Maria”
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Maria Ausiliatrice n. 6
“Misericordiosi come è misericordioso il padre”
(Lc 6,36)
Chiamati a farci prossimo.
Ricolmi della Misericordia di Dio, che sempre ci precede, siamo da Gesù invitati, nella stupenda parabola “del buon Samaritano” (Lc 10,25-37), a traboccarne verso tutti gli uomini. «All’epoca di Gesù si dibatteva su chi fosse il prossimo e si andava da: a) un’interpretazione più ristretta quale: “il prossimo è colui che appartiene alla mia famiglia, alla mia tribù”; b) a quella più larga che sosteneva: “il prossimo è chiunque abita dentro Israele”; c) per finire, con quella larghissima che affermava: “il prossimo è anche lo straniero che vive dentro i confini di Israele”» (A. Maggi). Ma Gesù sposta il quesito: per lui il tema non è più: «Chi merita di esse-
re amato da me? Chi è mio amico?», ma: «Di chi io sono prossimo? A chi mi faccio vicino?». Il problema per lui non è di chiederci chi sia il nostro prossimo, ma di farci prossimi a tutti quelli che incontriamo. Ciò che conta è l’amore
Nella parabola nulla è detto del ferito: è «un uomo», anthropòs tis (Lc 10,30). Il “prossimo” è chiunque sia nella necessità, anche se sconosciuto. Così Dio ama tutti gli uomini, di tutte le nazioni della terra: il suo amore è universale. Un sacerdote e un levita evitano di soccorrere il ferito, non tanto forse per durezza di cuore, quanto per il desiderio di mantenere la novembre-dicembre 2016
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propria purezza cultuale. Era infatti prescritto a chi prestava servizio al tempio di mantenersi puro, e il sangue contaminava. Sia del sacerdote che del levita si dice che «passano oltre» (Lc 10,31-32): antipar-èrchomai significa un movimento “a fianco”, parà, ma “dall’altra parte”, antì. Gesù introduce a questo punto un Samaritano. I Samaritani erano, per gli ebrei, degli eretici, degli scomunicati, per motivi razziali e di fede (2 Re 17,24-41). Come modello Gesù non prende un fariseo osservante ma un Samaritano disprezzato: ciò che conta non è l’etichetta, ma il cuore, che stabilisce la comunione con Dio. Il “Decalogo della prossimità”
La parabola del “buon Samaritano” ci presenta quindi un preciso percorso per “farci prossimo” ai fratelli, usando una terminologia avvincente e singolarissima, che costituisce un vero “Decalogo della prossimità”. Luca, in uno stupendo crescendo di vocaboli, ci racconta, in dieci
movimenti, l’azione del Samaritano verso il ferito. 1. «Un Samaritano, che era in viaggio (hodèuon)» (Lc 10,33): potremmo vedere qui il vocabolo della missione, dell’andare agli altri. La “Gerusalemme - Gerico” è la strada che unisce la Fede alla vita, il Vangelo alla storia, la rivelazione di Dio alle sofferenze e ai peccati degli uomini. 2. «Lo vide» (Lc 10,33): «La prima cosa da fare, nei confronti dei poveri, è rompere i doppi vetri, superare l’indifferenza, l’insensibilità» (R. Cantalamessa). 3. «Ne ebbe compassione» (Lc 10,33): Gesù scandalizza gli uditori perché applica all’eretico Samaritano il verbo splanchìzomai (che richiama l’ebraico rèchem, “l’utero materno”), verbo che nella Bibbia indica solo la misericordia di Dio. 4. «Gli passò accanto… Gli si fece vicino… Al mio ritorno ti rimborserò» (Lc 10,33-35): Il verbo érchomai, andare, viene specificato prima da katà, accanto, e poi da pros, vicino, prossimo, quindi da ep-an, di nuovo, ancora: è un vera progressione sulla via della compassione e della solidarietà. Occorre non solo che andiamo alla ricerca dei poveri, ma che stiamo con loro, che perseveriamo al loro fianco. 5. « Gli fasciò le ferite» (Lc 10,34): bisogna curare subito le ferite che sanguinano, senza tralasciare l’opera di smascheramento e di distruzione di quelle che Giovanni Paolo II definiva le «strutture di peccato». 6. «Versandovi olio e vino» (Lc 10,34): il Samaritano usa quanto di meglio pro-
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7. «Lo caricò sulla propria cavalcatura» (Lc 10,34): non basta avvicinarsi ai fratelli, ma occorre farci carico di loro, prenderli sulle nostre spalle, anche se questo è un peso, una grande fatica. 8. «Lo portò a una locanda (eìs pandokeìon)» (Lc 10,34): ogni discepolo deve essere un pandochèus, un “onni-accogliente”: e la Chiesa è chiamata ad essere il pan-dochèion, “il luogo che accoglie tutti”. 9. « Si prese cura di lui… “Abbi cura di lui!”» (Lc 10,34-35): prendersi cura è la tenerezza dell’amore, è la dolcezza della simpatia (da syn pathos: patire insieme). Don Milani aveva posto all’ingresso della sua scuola di Barbiana la scritta: «I care»: «Io mi prendo cura», in chiara contrapposizione al motto fascista: «Me ne frego!». 10. «Diede due denari all’albergatore» (Lc 10,35): il Samaritano paga di tasca propria per uno sconosciuto, ci rimette economicamente. La sua carità gli tocca il portafoglio, e senza limiti di investimento: «ciò che spenderai in più, te lo rifonderò» (Lc 10,35). L’amore deve coinvolgere il nostro stile di vita, il nostro livello economico, portarci alla condivisione dei beni. Nel Samaritano, scomunicato, è rappresentato Gesù stesso: è innanzitutto Gesù colui che a noi “si fa prossimo”, che “versa olio e vino” (forse allusione al battesimo, in cui si è unti con l’olio, e
CHIESA E DINTORNI Vincent van Gogh, Il buon Samaritano (1890), olio su tela, Krˆller M¸ller Museum di Otterlo (Olanda)
poneva la medicina di allora. Non c’è nessuna contrapposizione tra Fede e scienza: anzi il credente gode di ogni vero progresso scientifico ed è in prima fila nel promuoverlo (Sir 38,4-8.12).
Nel Samaritano è rappresentato Gesù stesso: è innanzitutto Gesù colui che a noi “versa olio e vino”, che ci “carica su” di sé, prendendo su di sé le nostre sofferenze, le nostre malattie, i nostri peccati.
all’eucarestia, sacramento del pane e del vino), che ci “carica su” di sé, prendendo su di sé le nostre sofferenze, le nostre malattie, i nostri peccati. È Gesù che “paga” per tutti noi, che ci affida alla locanda della Chiesa, “ospedale da campo”, nell’attesa della salvezza – guarigione completa al momento della sua seconda venuta, del suo “ritorno”. E il cristiano è chiamato a sua volta a “essere Gesù” per tutti quelli che incontra! Carlo Miglietta redazione.rivista@ausiliatrice.net
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dalla parte del bambino
Gesù ama teneramente i bambini… ma loro lo sanno? «Lasciate che i pargoli vengano a me, perché di essi è il regno dei Cieli” (Matteo 19,13-15). “Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite perché a chi è come loro appartiene il Regno di Dio” (Luca 18,15-17). Nel Vangelo di San Matteo e di San Luca sono chiare le parole di Gesù che predilige i piccoli in un epoca e in un luogo in cui nella società essi non godevano di grande considerazione, attenzione e privilegi. Per noi adulti è di grande responsabilità raccogliere questo insegnamento di Gesù, ma è anche motivo di grande incoraggiamento e di stimolo a riflettere. Oggi si parla tanto di bambini: i genitori disorientati e insicuri, gli educatori professionali con gli input e le teorie più contradittorie e pericolose, il mondo degli affari, della produzione, del commercio perchè con i bambini, per i quali tutti sono disposti a spendere, il business è assicurato. 26
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Per loro il mondo non è facile: fortunatamente, nel tempo è rimasto luminoso il faro dell’Amore di Gesù ed è indispensabile farglielo sapere, renderli partecipi di questa realtà. I BAMBINI, UN DONO DA ACCOGLIERE, CUSTODIRE E FAR CRESCERE
Intanto occorre essere ben convinti che i bambini sono creature, dono di Dio all’uomo e alla donna che si amano, creature che crescendo garantiranno la continuità della vita sulla terra e che avranno la concreta possibilità di testimoniare l’amore di Dio in tutto il mondo. Il “dono” dal momento della nascita dovrà essere preso in consegna per aiutarlo a crescere, amandolo ed educandolo. Amandolo nel suo significato più vero che vuol dire promuovendo il suo Bene ed educandolo cioè coltivando i suoi talenti e affrontando le sue debolezze. Ci si potrebbe chiedere quale sia il momento migliore per iniziare a parlare di Gesù ai bambini. Non è mai troppo presto, così come non è mai troppo presto iniziare il lavoro educativo nei confronti del neonato, così come non è mai troppo presto per papà e mamma dichiarargli
L’ESPERIENZA DI UN GESÙ AMICO
Non è vero che i bambini non ascoltano. Di fronte allo stupore degli adulti per il mistero di Gesù nel tabernacolo, che ci vede, che ci sorride, che è felice della nostra presenza, che sa il nostro nome, i bambini restano affascinati e ripetono le stesse domande e attendono le stesse risposte che danno la certezza che Gesù è Dio e contemporaneamente è Persona come noi ed è un Amico. Per i bambini la prima testimonianza di vita cristiana in famiglia resta una conoscenza, una esperienza che nel corso della vita, anche in situazioni difficili, aiuterà a riscoprire la fede e l’amore di Dio per ciascuno di loro. Gesù arriva ai bambini attraverso le persone, i fatti, le cose, anche le più semplici come l’abitudine a mandare un bacio di saluto ad un’immagine sacra in casa ogni volta che si esce o si rientra: un gesto consueto che i bambini impareranno con l’esempio, a ripetere con gioia.
sibilità di pregare anche per chi è lontano, per chi non si conosce o non è più su questa terra. Sotto lo sguardo amorevole di Gesù, gli adulti devono dare testimonianza di quello che vorrebbero vedere nei bambini. Si sta avvicinando il Santo Natale, la festa che anche in questa società così materialista e dimentica di Dio, affascina tanto i bambini. È compito dei genitori, degli educatori, dei catechisti aiutarli a vivere il Mistero della nascita di Gesù, e farli sentire protagonisti nel Presepe con gli Angeli che cantano e i Pastori che vanno a trovare Gesù con le pecorelle. I bambini hanno grande sensibilità verso il trascendente: sono molto fortunati quelli che sono aiutati a sperimentare sin da piccoli l’Amore reale di Gesù per loro. Questo è l’augurio che con grande entusiasmo e fiducia dobbiamo fare ad ogni bambino!
dalla parte del bambino
il loro bene, anche se non sembra ancora capire e non è in grado di rispondere con le parole. Sono i gesti della vita cristiana, nella quotidianità che possono rendere Gesù partecipe della vita di famiglia: i genitori che pregano il mattino e la sera e ringraziano il Signore a tavola, i genitori che portano i bambini in Chiesa spiegando successivamente in modo sempre più chiaro e specifico dove si trovano e perché.
Carla Manfreda Intra Sidola pedagogista redazione.rivista@ausiliatrice.net
I BAMBINI CAPISCONO LE “COSE GRANDI” PERCHÉ HANNO IL CUORE SEMPLICE
Di Gesù e del Suo Amore bisogna parlare soprattutto quando sono piccoli perché i bambini hanno il cuore semplice e sensibile per capire le “cose grandi”. L’amore umano degli adulti, che sono loro vicini, li rassicura e li predispone all’Amore Divino. Dopo la famiglia, anche altre realtà come il corso di catechismo frequentato in Parrocchia, la conoscenza e l’esperienza della metodologia NET che aiuta, anche attraverso il catechismo, a conoscere e ad amare Gesù. Il suo Amore si esprime con il dono della vita di ogni giorno, con la bellezza del creato, con l’affetto di chi sta loro vicino, con la posnovembre-dicembre 2016
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GIOVANI
Spianare le montagne, colmare le valli Chiamati a farci prossimo. Il profeta (Baruc 5,7) dice: «Dio ha deciso di spianare ogni alta montagna e le rupi perenni, di colmare le valli livellando il terreno, perché Israele proceda sicuro sotto la gloria di Dio». Poi l’evangelista Luca (3,4-6), citando Isaia, continua: «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! Ogni burrone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato; le vie tortuose diverranno diritte e quelle impervie, spianate. Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!». E così entra in scena Giovanni il battezzatore. Chi deve fare cosa?
Si nota una contraddizione. Baruc dice che il Signore farà.
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Maria Ausiliatrice n. 6
Isaia invece chiede al popolo di preparare lui stesso la via del Signore. In verità non si contraddicono ma si completano. Il primo sottolinea l’opera irresistibile dell’amore di Dio che, come un innamorato perso, riuscirà a riportare il suo popolo dalla schiavitù alla libertà, perché non c’è ostacolo insormontabile per raggiungere la persona amata. Isaia invece sottolinea la parte della persona amata perché, pur essendo assicurato il successo dell’innamorato, la persona amata può correre il rischio di perdere tanto tempo di felicità stando lontano dall’innamorato, ostacolando o non facendo niente per facilitarne l’incontro. È urgente quindi togliere tutti gli ostacoli
che non permettono al cuore di aprirsi all’incontro con lui. Riempire i burroni e abbassare i colli
Luca sottolinea: «Ogni burrone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato. Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!». I burroni, i monti, i colli, i passi tortuosi da raddrizzare o da spianare ovviamente vanno intesi non materialmente ma come simboli di una realtà oltre. I monti e i colli rappresentano la superbia, l’arroganza di chi si sente migliore del Dio che dice di adorare, di chi, facendosi suo portavoce, si impegna a dominare sugli altri. L’arroganza di chi spesso si chiede:
giovani
«Perché Dio permette questo? È ingiusto!». È una montagna enorme che non ci permette di avvicinarci al Dio che vogliamo amare. L’umile si chiede invece: «Che cosa mi sta dicendo Dio con questi avvenimenti? Come posso andargli incontro togliendo tutto ciò che permette la violenza, la morte, la sopraffazione e lo sfruttamento?». Penso alla presunzione del fariseo che si vanta e giudica il pubblicano che si batte il petto! «Chi è più grande deve diventare come il più piccolo e chi governa come colui che serve» (Lc 22,16).
con le donne, con i bambini, con i peccatori e così ci invita a riempire gli abissi. Che dire quindi di tutte le astuzie che ci inventiamo per fare scelte insensate nascondendoci dietro la scusa del «che male c’è?» o del «lo fanno tutti!» o per giustificare situazioni ingiuste scaricando su Dio la colpa dicendo che lui ci manda le malattie (meglio agli altri!) per mettere alla prova la fede o come espiazione dei peccati. Che razza di Dio è questo? E com’è possibile inventare tanti passi tortuosi per tenere Dio lontano da noi e crearci un Dio a nostra misura?
Riempire gli abissi e i passi tortuosi
Convèrtiti e credi al Vangelo
Le disuguaglianze economiche che i profeti denunciano continuamente richiamano l’accusa che Gesù fa ai ricchi (con la storia del cammello che passa per la cruna di un ago)! Gesù è sempre con i poveri,
Occorre che la conversione sia radicale. I verbi usati dal battezzatore sembrano un’ingiunzione, un imperativo categorico. Ma Dio è più grande dei nostri verbi e pur di salvarci è disposto a tutto. «Ogni bur-
rone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato; le vie tortuose diverranno diritte» vuol dire, prendiamone atto con gioia!, che più che di ordini si tratta di una promessa che diventa una sfida per Dio che la compirà, anche se agli uomini può sembrare un miraggio (“non cambia niente, andiamo sempre peggio”…). Il Messia che arriva è l’avveramento della promessa e l’inizio del Regno di Dio. Buon Natale! Giuliano Palizzi palizzi.rivista@ausiliatrice.net
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Generazioni dallo sguardo abbassato
Ermete Tessore redazione.rivista@ausiliatrice.net
Il mondo digitale moderno. Nicholas Carr è un famoso giornalista americano che già nel 2008, in un suo celebre articolo oggetto di serrati dibattiti dell’intellighentia internazionale, si poneva l’interrogativo: «Is Google Making Us Stupid?». L’anno seguente Carr rimodulava il problema chiedendosi: «Is Internet Making Us Stupid?». Qualche tempo dopo Umberto Eco dava una risposta secca a questa domanda constatando amaramente che la rete ha finito per dare spazio e libertà d’azione a qualsiasi tipo di imbecille. Due recenti fatti di cronaca sembrano convalidare questa affermazione dando stura ad inutili falsi moralismi. Nelle vicinanze di Napoli una donna di 31 anni si è suicidata perché un suo video hard, stupidamente riversato sul web, le aveva reso la vita impossibile. A Rimini nello scorso mese di marzo, ma il fatto si è risaputo solo di recente, l’allegra ed irresponsabile scorribanda in discoteca di tre allegre ragazze di 17 anni si è conclusa con lo stupro di una in presenza delle altre due che si sono limitate, impassibili, a riprendere la scena con i loro cellulari e a metterla in rete. Tra i 13 ed i 17 anni corre lo spazio di alcune generazioni, visto il frenetico cambiamento e l’assurda accelerazione esistenziale dettata dalle frenesia dei tempi moderni. 30
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Le nuove generazioni digitali
Giorno dopo giorno, sotto i nostri sguardi distratti e disattenti, si sta modellando una nuova antropologia dai contorni sbiaditi, ma inquietanti. Una profezia di Albert Einstein si sta avverando. Il padre della relatività, infatti, in un suo appunto nota: «Temo il giorno in cui la tecnologia andrà oltre la nostra umanità: il mondo sarà popolato da una generazione di idioti». Oggi questa paura riceve piena conferma. Gli idioti sono presenti massicciamente in tutte le fasce d’età, nelle più svariate professioni e sotto ogni latitudine. Chi bazzica tra i giovani tocca con mano dell’esisten-
za di quella che certi sociologi americani definiscono la «generazione dagli occhi bassi». Sempre più sovente si incontrano gruppi di ragazzi, modello monade leibniziana, in cui la vicinanza e la relazione vengono annullate dal solipsismo digitale. Sono in gruppo ma ognuno si relaziona soprattutto con il proprio smartphone. Chi assiste all’uscita dei ragazzi da scuola, viene colpito dai troppi che avanzano con gli occhi bassi incollati al video dei loro cellulari incuranti della realtà che li circonda o sprofondati nell’ascolto della musica che le cuffiette degli smartphones riversano, a volume esagerato, nel loro cervello. Alcune sere fa, in un ristorante al centro di Tori-
no, al tavolo vicino si è seduta una famiglia composta da nonni, genitori e due ragazzini. Il più piccolo comincia a frignare in modo rumoroso tanto da disturbare in sala. Tutto si acquieta quando la madre tira fuori dalla borsa un Ipad. Il pupo si inabissa nella tecnologia tra i commenti compiaciuti dei parenti e si blinda nel suo mondo tecnologico senza più profferire verbo seguendo tutta la ritualità che la tecnocrazia digitale, vera ed unica religione moderna, comporta. La tecnocrazia digitale nuova religione d’oggi
Essa contagia tutti: dai bambini immersi nei giochi elettronici, agli adulti devoti ed assidui frequentatori dei siti più strani, con preferenza di quelli a sfondo pornografico. La libera comunicazione che sta alla base della democrazia lenta-
mente si sta trasformando in fredda lettura di uno schermo animato dal semplice scorrere di parole scarne o di immagini dai contorni impensabili. Lentamente l’individuo si trasforma da attore a semplice spettatore. Paolo Crepet ha scritto uno splendido libro che porta il titolo di: Baciami senza rete. L’autore afferma di essere stato spinto a scrivere dopo la lettura di un graffito su un muro di una periferia romana: «Spegnete Facebook e baciatevi». Più o meno lo stesso invito di un intelligente barista che sul bancone espose un cartello con scritto a caratteri cubitali: «Free wifi, ma se ve parlate è mejo». È triste incontrare adulti, adolescenti e bambini incapaci di staccarsi dal loro device. Vivono sedati da una impersonale e fredda tecnologia. La vita è ciò che stringono in mano, il loro esistere è concentrato in pochi pollici quadrati. Uno strumento elettronico surgela pensieri, emozioni, relazioni, sogni e speranze. Lo scrittore russo Gogol aveva a che fare con “anime morte”, noi incrociamo le nostre strade con rabdomanti virtuali. L’homo technologicus vede baciare, ma non bacia; contempla in trance scene di sesso, ma non fa sesso; parla di amicizia, ma non ha amici; chatta con il mondo, ma vive blindato nella sua solitudine. Le vere relazioni umane vengono fatte a brandelli. Due giovani ricercatori americani, Joe Heller e Kaiwei Tang, hanno inventato il Light Phone. Di
che cosa si tratta? È un telefono sottile e delle dimensioni di una carta di credito da cui si può solo ricevere o fare telefonate. Con esso si cerca di riproporre ai giovani una comunicazione emotiva da persona a persona, prima che essa venga del tutto scalzata dalla facilità, dalla convenienza, dall’efficienza, dalla rapidità e dalla tecnologia di un social network. Manfred Spitzer nel libro Solitudine digitale sottolinea che negli ultimi 5 anni la diffusione capillare dello smartphone ha cambiato le nostre abitudini più di tutte le invenzioni dell’ultimo secolo. Poniamo una domanda allo smartphone ed in pochissimo tempo riceviamo una risposta pescata dal cloud. Questo è un termine moderno che indica le gigantesche banche dati collocate da qualche parte nei deserti del mondo. Peccato che Edward Snowden, collaboratore della sicurezza nazionale USA, già nel 2013 ci abbia informato che le tracce che lasciamo nello spazio cibernetico vengono registrate, filtrate, interpretate, vendute ed usate indebitamente alla faccia della privacy. Non si tratta, per questo, di bandire crociate anti internet. Tuttavia il compito di rendere tutti un po’ più critici nell’uso della tecnologia nella quotidianità è un dovere ineludibile. Solo così l’educazione può aiutare tutti a rivolgere di nuovo lo sguardo verso l’alto dove i cuori si incontrano più facilmente che nel web.
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La Compagnia dell’Immacolata
Gianni Ghiglione uni.gianni@gmail.com
Una proposta per una maturazione umana e spirituale. Nel 1847, a Valdocco era sorta la Compagnia di S. Luigi e dopo circa dieci anni nell’Oratorio e nell’Ospizio si costituivano nuove associazioni di carattere religioso e caritativo. Inoltre, si andavano formando gruppi impegnati in attività collettive, quali la schola cantorum, il complesso bandistico e la filodrammatica. Questo irrompere di forme associative preveniva il pericolo della massificazione (i giovani erano alcune centinaia) e rendevano i giovani attivi collaboratori nella propria maturazione alla libertà adulta. Per fare bene il proprio dovere
Tra quelle “società” spiccavano le Compagnie, intuizione pedagogica di don Bosco, finalizzate ad una più viva animazione dei giovani 32
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di Valdocco. Aiutati dal Santo, molti giovani si aggregavano per impegnarsi maggiormente nei loro doveri di studio e di vita cristiana, collaborare di più con i Superiori per il buon andamento della casa, far del bene ai loro compagni. Nacquero così le Compagnie di S. Luigi, dell’Immacolata, del SS. Sacramento, di S. Giuseppe: ciascuna aveva un piccolo regolamento (approvato da don Bosco) ed era gestita dai ragazzi iscritti, non dai Salesiani. Oltre a quelle finalità, ne perseguivano altre specifiche, come la devozione a Maria con la recita del Rosario, il decoro delle celebrazioni liturgiche con il gruppo del “piccolo clero”, l’impegno di fedeltà al lavoro e allo stile di vita della Comunità. Era quello che oggi chiamiamo “protagonismo giovanile”, una sorta di MGS (Movimento Giovanile Salesiano) dei primi tempi.
Da ragazzo, anch’io ho vissuto questa bella esperienza nella Compagnia del SS. Sacramento. Per me e per i miei compagni è stata una potente molla nella crescita del senso di responsabilità e di collaborazione. La Compagnia era nostra! Sono passati alcuni decenni e le Compagnie sono sparite da tempo. Tuttavia mi è sempre frullata per la mente una domanda: «Non sarebbe possibile farle rivivere oggi in qualche modo?» Ci ho provato. Sfruttando la mia mailing list, ho lanciato la Compagnia dell’Immacolata. È una cosa molto semplice: le persone che si iscrivono, si impegnano a recitare ogni giorno dieci Ave Maria. Ognuno è libero di mettere le intenzioni che vuole. La risposta è andata al di là di ogni più rosea attesa: oltre 200 persone hanno aderito con gioia, coinvolgendo anche la famiglia, soprattutto là dove ci sono bambini o ragazzi. Si tratta di un gruppo “virtuale”, con adesioni da tutta Europa! Gli iscritti non si conoscono tra di loro, ed anche questo è un limite; ma essi sanno che si trovano uniti nella preghiera quotidiana e sono invitati a pregare gli uni per gli altri.
Quante volte ci capita di presentare al Signore intenzioni, difficoltà, problemi di gente che soffre e fatica, i cui volti ci sono sconosciuti. Il Signore sa come far arrivare le nostre invocazioni di aiuto per loro! Piccoli impegni ma con costanza e amore
«Poca cosa dieci Ave Maria al giorno!» dirà qualcuno. È vero. La recita di una decina del Rosario richiede pochi minuti. Però don Bosco educava i suoi ragazzi non a compiere azioni straordinarie, ma a portare avanti con fedeltà piccoli impegni. A questi nuovi amici della Compagnia dell’Immacolata di tanto in tanto invio una riflessione che aiuti a conoscere ed amare di più Maria, spiego come si può pregare meglio la decina del Rosario, li invito a cercare nuovi iscritti (e non è cosa da poco avere il coraggio di diffondere il bene). La fedeltà all’appuntamento quotidiano con Maria, sta già portando frutti di bontà e di carità. Chi avesse suggerimenti o volesse iscriversi, mi fa un grande regalo: mi sdebiterò con la preghiera.
è la nostra foresteria per ospitare: singoli, famiglie, piccoli gruppi; pellegrini
Ufficio Accoglienza
tel. 011.5224201 – fax: 0115224680 accoglienza@valdocco.it www.accoglienza.valdocco.it
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Una decina di “Ave Maria”
don bosco oggi
Orientamento e Servizi al Lavoro CNOS-FAP… Ritorno al futuro
Un racconto letto recentemente narra di un papà che, stanco delle domande insistenti del suo figlio più piccolo, decide di dargli da risolvere un difficile rompicapo consistente nell’unire tutti i pezzi di un mappamon34
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do, mettendoli al loro giusto posto. Dopo poco tempo il bambino ritorna con il lavoro terminato. Il papà se ne meraviglia, e lui: «Papà, è stato semplice. Dietro ai pezzi del mappamondo ho scoperto che si andava forman-
do la figura di un uomo. Così, costruendo l’uomo, ho messo a posto il mondo». L’orientamento Professionale
Sono Daniela ed ho l’opportunità di presentarvi le attività di orientamento e i servizi al lavoro del CNOS-FAP in Piemonte. Lo farò raccontando dell’orientamento professionale nella tradizione e nelle opere di don Bosco: le radici del nostro “fare orientamento”. Già negli scritti del salesiano Alberto Caviglia, del 1947, si sottolinea come sia necessario affrontare il problema urgente e delicato, la questione sociale, di avviare ogni giovane al proprio posto nella vita «quello che gli conviene per dare il giusto rendimento a lui consentito o indicato dalla sua stessa natura e dalle condizioni familiari e ambientali». E ancora: «Non appare esagerato il dire che don Bosco ha preveduto e prevenuto il problema dell’orientamento pensandolo in ogni suo aspetto. Raccogliendo ora per sommi capi i singoli elementi del sistema di don Bosco, possiamo vedere, nella loro unitaria concorrenza, il coordinarsi di fattori educativi per il conseguimento del fine, ch’è l’orientamento del giovane. Tale orientamento si fonda sulla “vocazione naturale” e sulle “possibilità pratiche” dell’individuo (fisiche, intellettuali, morali) e delle circostanze esteriori», (da L’orienta-
mento professionale nella tradizione e nell’opera di don Bosco, 1947). Il CNOS-FAP, a partire dal 2003, ha accreditato presso la Regione Piemonte i servizi di orientamento e dal 2012 è iscritto nell’elenco degli operatori pubblici e privati idonei ad erogare i servizi per il lavoro. I residenti del nostro territorio possono trovare una risposta ai loro bisogni recandosi in una delle sedi più vicine per fruire dei servizi specialistici finalizzati all’inserimento o al reinserimento nel mercato del lavoro, o all’orientamento sia dopo “la scuola media” che dopo il conseguimento del diploma o della qualifica professionale. La scommessa
Il CNOS-FAP continua a scommettere sulla specializzazione dei propri servizi e sulle professionalità dei propri operatori, anche in virtù del JobAct che contiene indicazioni precise sulle politiche attive del lavoro. Entrando in un centro di formazione CNOS-FAP, i servizi di orientamento e al lavoro sono, come da indicazione stessa del nostro fondatore, ciò da cui ha origine e da cui si sviluppa la nostra azione formativa perché «se ne avrebbe un innegabile beneficio per il miglioramento delle professioni: si avrebbero cioè in ciascuna posizione uomini sempre meglio attrezzati per il lavoro che esse richiedono, con evidente vantaggio e progresso di ogni ramo dell’attività sociale», (Op. cit.). Al centro delle nostre azioni di accompagnamento c’è innan-
zitutto l’attenzione al vissuto e all’esperienza della persona. Ho in mente i tanti giovani e adulti incontrati negli ultimi anni partecipando ai progetti di politica attiva del lavoro, che sono stati accolti, ascoltati, accompagnati anche a prendere un caffè per prendere fiato, magari perché arrivati con affanno all’appuntamento, e reindirizzati ai servizi territoriali più specifici per le loro esigenze. Il settore Servizi al Lavoro è in espansione e costantemente alla ricerca di collaborazioni con aziende, associazioni, scuole del territorio. E nuove sfide si preparano all’orizzonte come quella dell’alternanza scuola-lavoro, introdotto col sistema duale, nel quale l’apprendistato gioca un ruolo principale ed in cui l’a-
zienda è di fatto soggetto formativo sin dal primo momento e non solo durante lo stage. Ed allora collegatevi al nostro sito per conoscere date e luoghi delle prossime attività. Vi aspettiamo! Daniela Zoccali RESPONSABILE orientamento e servizi al lavoro CNOS-FAP Piemonte servizilavoro.piemonte@cnosfap.net
l’arte di animare animare l’arte
ANIMA MGS
L’Arte di Animare / Anima l’Arte http://artedianimare.it info@artedianimare.it
pastorale giovanile
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don bosco oggi
Migranti: ogni giorno vittime Partire deve11 essere una scelta. non l’unica strada
Prosegue la campagna di Missioni Don Bosco e VIS contro la Tratta. colo e per le donne. In Costa d’Avorio, si prevede il rafforzamento del centro socio-educativo Villaggio Don Bosco a Koumassi, nella periferia popolare di Abidjan ed in Etiopia i primi interventi si concentreranno su borse di studio e programmi di supporto scolastico e nutrizionale per giovani a rischio. Un nuovo documentario e la mostra fotografica Come ribadito più volte da Papa Francesco, la Chiesa deve di Riccardo Lorenzi L’impegno dei Salesiani informare chi fugge dalla povertà dei sentirsi per interpellata dall’emergenza migranti. Riteniamo I progetti sono fondamenrischi del viaggio e per valorizzando le ri- fonche contrastare l’accoglienzal’emigrazione sia fondamentale, ma altrettanto tali, ma anche l’impatto visivo, sorse locali con progetti e interventi educativi. damentale è favorire una scelta consapevole da parte dei potenziali migranti attraverso campagne di informazione l’impatto emotivo che chiarisce e progetti di sviluppo nei Paesi mira di origine. il significato della parola Tratta Poco più di un anno fa MisCampagna a informare chi di Missioni Dondecide Bosco ediVIS – Volontariato e per questo Missioni Don Bosco sioni Don Bosco eVIS Noi -Volontariapartire sui graviInternaziorischi nale per lo Sviluppo abbiamo a cuore il futuro dei giovani ha investito su un documentato Internazionale per lo Sviluppo che affronterà durante il viaggio africani e, a partire da alcuni paesi dell’Africa Subsahariario: La tratta dei Migranti che raccoglievano l’appello di Papa e ad offrire opportunità affinché na come Ghana, Senegal, Etiopia, Nigeria e Costa d’Avorio Francesco perché laabbiamo comunità chi vuole restare abbia opportudato vita a una campagna di sensibilizzazione viene utilizzato come strumeninternazionale superasse l’innitàper concrete, attraverso aprogetti sui rischi del viaggio chi è intenzionato migrare dal to didattico nei laboratori con le a progettiper concreti di svi- scuole. Uno strumento che ad differenza globale diproprio frontepaese alle verso di l’Europa sviluppoespecifici, miglioluppo orientati a gruppi a rischio di traffico o migrazione ottobre a Valdocco è stato abbistragi di cui sono vittime i mirare le condizioni di vita proprie e concepiti sulla propria base delle esigenze emerse nei nato alla mostra fotografica di granti e lanciavano lairregolare campagna e della famiglia. singoli Paesi. Riccardo Lorenzi Il mare negli
Stop Tratta. Campagna di sensiSono stati così avviati progetbilizzazione, ma – nello ti DI di PERSONE sviluppo orientati a OGNI gruppi QUASIspirito UN MILIONE E’ VITTIMA ANNO salesiano anche di educazione – a rischio di traffico o migrazione DEL TRAFFICO DI ESSERI UMANI affinché da un lato si irregolareMIGRANTI e concepiti sulla base LAannullino META’ DEI POTENZIALI NON CONSIDERA LA MORTE DEL VIAGGIO VERSO il più possibile i pregiudizi versoUN RISCHIO delle esigenze emerse nei L’EUROPA singoi migranti e dall’altro si possali Paesi. In Senegal ad esempio Aiutacileamidire STOP tratta migranti: no aiutare concretamente si alla punta al dei rafforzamento delvai su www.stoptratta.org gliaia di persone che rischiano la Formazione Professionale e la vita per scappare da poverdell’inserimento occupazionatà, guerre, fame. Ecco dunque le a Dakar e Tambacounda; in che se l’obiettivo è arginare l’abGhana vengono sviluppate le atbandono delle proprie terre la tività formative in campo agri36
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occhi in cui nuovamente l’impatto visivo è forte. Il fotografo nel 2014, accompagnato dalle mamme di Lampedusa, ha ritratto gli isolani nei suoi scatti. Fotografie che raccontano di un’altra isola rispetto alle cronache, dove nonostante le difficoltà di vivere a più di 200 chilometri dalla terraferma gli abitanti hanno voluto applicare la
Sogno un’Europa in cui EssErE migrante non sia dElitto PaPa Francesco Sono oltre 130.000 i migranti arrivati via mare in Italia nel 2016 a bordo di imbarcazioni insicure in un disperato tentativo di raggiungere l’Europa. Uomini, donne e bambini in fuga da guerre, violenze, persecuzioni nei paesi d’origine. Il 15% sono minori non accompagnati. Nell’ultimo anno, però, altri 4.176 non ce l’hanno fatta: è questo il numero dei morti e dei dispersi nel Mediterraneo, secondo le stime dell’UNHCR. In media, 11 vittime tra uomini, donne e bambini ogni giorno negli ultimi 12 mesi. Il 2016 è ad oggi l’anno col tasso di mortalità più alto mai registrato nel Mediterraneo centrale. Saskia Sassen, sociologa della Columbia University, ha così commentato: “Quando il proprio territorio è devastato dalla guerra, ma anche da desertificazioni, inondazioni, espropriazioni terriere, non si aspira ad altro che alla mera sopravvivenza. Non si fugge in cerca di una vita migliore, ma soltanto POLONIA per conservare la propria vita”. SLOVENIA
L’unica speranza è sopravvivere
Messaggi forti non per urtare la sensibilità, ma per veicolare più efficacemente possibile il messaggio, il dolore, che tanti salesiani entrati in relazione con persone che sono fuggite dal loro paese, o con i loro parenti, hanno recepito. «Un viaggio di giorni – scrivono dall’Etiopia – trattati come animali, con poca acqua e poco cibo, dove l’unica speranza è sopravvivere. Poche sono le donne che partono dall’Etiopia, ma molte dall’Eritrea, vista la situazione interna, e vengono abusate dall’inizio alla fine del viaggio. Ecco perché arrivano sui barconi con bambini e senza un padre, oppure sono incinte o partoriscono in viaggio. Il viaggio per loro è davvero terrificante. In Libia c’è una specie di prigione ad attendere le persone che vogliono attraversare il Mediterraneo, da cui o si esce prendendo un barcone o si viene uccisi». Una lotta per la sopravvivenza che nel 2016 ha coinvolto oltre 130 mila migranti arrivati via mare in Italia, di cui il 15% minori non accompagnati. Nell’ultimo anno 4176 – secondo le stime dell’Unhcr, coloro che non ce l’hanno fatta: in media 11 vittime tra uomini, donne e bambini ogni giorno negli ultimi due mesi.
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«legge del mare», che impone di non abbandonare chi ha bisogno d’aiuto, dando accoglienza ai migranti.
FRANCIA
ITALIA
ROMANIA SPAGNA
GREECE TURCHIA SIRIA AFGHANISTAN
TUNISIA
IRAQ
MOROCCO ISRAELE ALGERIA
LIBIA
EGITTO ARABIA SAUDITA
MAURITANIA
MALI NIGERIA SUDAN
CIAD
YEMEN
BURKINA FASO
GUINEA
DJIBOUTI
BENIN COSTA D’AVORIO
NIGERIA
GHANA
ETIOPIA
CENTAFRICA CAMERUN
SOMALIA UGANDA
PAESI IN GUERRA O CON SCONTRI VIOLENTI
CONGO
GABON
PAESI COINVOLTI NEL TRAFFICO DI ESSERI UMANI
KENYA
REP. DEM. DEL CONGO
PRICIPALI AREE DI PARTENZA
TANZANIA
AREA SOGGETTA A RAPIMENTI
ANGOLA
LE ROTTE DEI MIGRANTI Spain
Tripoli
Tunisia
NAMIBIA
Morroco
MALAWI
Italy
Lampedusa
Rotte occidentali Rotte orientali
ZAMBIA Sicily
Tunis
MOZAMBIQUE ZIMBABWE Mediterranean Sea Benghazi
Deb-Deb
Rotte marittime
Algeria
Western Sahara
Alexandria Ajdabiya
BOTSWANA Libya
SWAZILAND
Sebha Tamanrasset
Mauritania
Cairo
Egypt
Persian Gulf
Kufra
Arlit
Mali
LESOTHO
AFRICA
Zuar
Red Sea
Niger Gao
Bamako
Gambia Guinea-Bissau
Guinea
Cote d’Ivoire Liberia
Sudan
Niamey
Ndjamena
Benin Addis Ababa Togo
Nigeria
Gulf of Aden Berbera Hargeysa Somalia
Ethiopia
South Sudan
Lagos
Gulf of Guinea
Republic
Eq. Guinea
Sao Tome and Principe
South Atlantic Ocean
Djibouti
Kano
Burkina Faso Ghana
Sierra Leone
Eritrea
Khartoum
Chad
Agadez
Senegal
Congo Gabon
Uganda
Democratic Republic of the Congo
Mogadishu Kenya
Rwanda Burundi
Tanzania
Federica Bello redazione.rivista@ausiliatrice.net
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Piera, medico specialista e consacrata Essere Volontaria di don Bosco in una missione congolese. Piera è una Volontaria di don Bosco (VDB). Nel 1971 si laurea a Torino in Medicina e Chirurgia, poi si specializza in Medicina Nucleare a Pisa presso il CNR, in Ecografia interna presso l’Università di Genova e in Medicina tropicale a Brescia. Prende servizio in Medicina Nucleare presso un ospedale pubblico del Piemonte, dove lavora per vent’anni. Nel 1977, fa una breve esperienza da medico in una missione del Messico, nella foresta dei Mixes. Mentre si prepara al concorso da primario, il Consigliere delle Missioni salesiane di Roma le propone di andare a Lubumbashi, terza città dello Zaire (odierna Repubblica Democratica del Congo), dove manca un ecografista per il nuovo ospedale salesiano, il Polyclinique Don Bosco. E lei parte per quel Paese. In quegli anni, lo Zaire versa in una situazione drammatica a
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causa delle guerre civili che, dal 1960 al 1997, devastano il Paese. Una delle conseguenze più tragiche è che i bambini non sono risparmiati dalla guerra, anzi spesso sono arruolati come soldati. Fare da mamma
Come medico missionario, Piera viene a contatto con storie familiari tragiche, che portano anche all’abbandono dei neonati. Trova piccoli abbandonati nei luoghi e nei momenti più impensati, li cura e li fa crescere, arrivando a raccogliere attorno a sé venti bambini. Utilizzando le proprie risorse e quelle che le giungono da amici e conoscenti, realizza il Centro di Sanità e lo amplia inserendo un reparto per malati terminali (30 posti letto). Poi, ristruttura il dispensario esistente. Nel 1998, su
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richiesta dei colleghi del Policlinico, è iscritta all’Ordine nazionale dei medici del Congo, con numero d’ordine definitivo, evento eccezionale per una persona straniera. Nel 2006 a Lubumbashi crea una casa di accoglienza per bambini abbandonati e disabili, denominata Foyer Cancan (focolare), piccola comunità dove ha in affidamento bimbi che sono curati e istruiti. Nel 2012, in Congo le è consegnato un riconoscimento per l’attività svolta. Ecco le sue parole. Ho vissuto due volte
«Ho scoperto i Salesiani grazie alla malattia del Maestro Sola, un salesiano mitico, anima della banda musicale dell’oratorio che è vicino all’ospedale dove lavoravo come medico. Cominciai così a curare alcuni salesiani. Un giorno mi parlarono di questa forma di consacrazione laica, le Volontarie di don Bosco. Andai ad un ritiro vocazionale e giurai a me stessa che mai sarei diventata VDB; invece vedete com’è andata a finire. Avevo un sogno nel cassetto: andare a lavorare in un Paese in via di sviluppo. Ho fatto il medico per questo. Nel 1988, don Bosco è venuto a prendere la mia mamma. In quel periodo, è arrivata una telefonata di don Van Looy: «A Lubumbashi cercano un ecografista». Neanche sapevo dov’era questa città. Pregai tanto, poi chiesi di andare in pensione perché volevo mantenermi da sola. È importante per noi VDB: siamo laiche secolari e viviamo con le nostre forze. Sono passati vent’anni da allora. Avevo fatto il mio lavoro con molto amore per vent’anni di ospedale e adesso più di vent’anni d’Africa. Ho vissuto due volte! Mi chiamano Dada
L’ospedale è stato costruito dai salesiani. Vent’anni fa era solo un grande dispensario, poi sono stati costruiti due padiglioni e una clinica, la più stimata del Paese. Ha 200 posti letto, 150 dipendenti. Quando arrivai era solo all’inizio. Non sapevo una parola di francese. I primi momenti sono stati difficili, ma con
i colleghi è sbocciato un rapporto bellissimo. Quello che non avevo preventivato erano le tre guerre congolesi, per cui mi sono dovuta improvvisare medico di guerra. Sono stati momenti allucinanti, pericolosi. Le donne partorivano sui marciapiedi, portavano uomini con ferite orribili e crudeli. Ho fatto altre due esperienze magnifiche: un reparto maternità e una casa per malati terminali. Ed ho sempre potuto lavorare grazie ai miei amici piemontesi che mi appoggiano con aiuti concreti. La prima bambina? La mamma era morta di fame perché non mangiava da tre giorni. Il papà mi aveva dato la bambina dicendo: è sua! Marina, la mia prima bambina. Il secondo è Gio-gio (il vero nome è Giovannino, perché me l’hanno portato verso la festa di don Bosco), orfano, malato. Mi hanno detto solo: se lo tenga. Così sono arrivata a venti. Sempre con i soldi degli amici e un intervento della Provvidenza, sono nati i Foyer Cancan per bambini abbandonati e handicappati. Sai com’è: un bambino tira l’altro… Loro mi chiamano Dada». una vdb redazione.rivista@ausiliatrice.net
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«Gesù confido in te» ADMA Giovani alla GMG di Cracovia.
Un sussurro. Un silenzioso grido rivolto verso l’alto, che si intreccia, indissolubile, con le Ave Maria di un rosario afferrato e sfiorato durante la giornata. Un sottofondo impercettibile per un viaggio ed un’esperienza dal respiro mondiale. «Se ci fidiamo del Signore, Lui ci restituisce molto di più», ci ha detto Monsignor Santoro in una delle catechesi mattutine. E affidando, confidando e sorridendo ci siamo messi in viaggio verso Cracovia come Gruppo dell’ADMA Giovani insieme ad altri quattrocento ragazzi del Movimento Giovanile Salesiano di Piemonte e Valle d’Aosta e una ventina di nostri coetanei del Medio Oriente. Undici giorni di pellegrinaggio. Con tutto ciò che un pellegrinaggio comporta: sveglie assassine, cibo molto particolare, condivisione, preghiera, amicizia e gioia. Tanta Gioia.
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Aria di casa nostra
Quel sentimento riflesso nei nostri occhi che brillavano e scoperto nei milioni di persone che hanno invaso la città di santa Faustina Kowalska e san Giovanni Paolo II. Infatti si respirava un’aria diversa a Cracovia e tutti potrebbero testimoniarlo. C’era una brezza di comunione. Un sospiro di speranza ed un vento di Misericordia. Soffiava tra le persone, infiammando i cuori, innalzando verso l’alto le bandiere di ogni parte del mondo e trasportando le grida di giubilo di una babele di lingue. E giorno dopo giorno, nell’esperienza delle piccole cose, si è creato un clima di famiglia, nella quale ognuno vede e vuole il bene dell’altro e, nonostante le normali controversie, sa mettersi al servizio e avere uno sguardo di misericordia. E ci siamo sentiti sotto il manto di Maria. Tra
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le mani di quella tenerezza materna che abbiamo imparato a riconoscere e ad implorare, tenendo stretto tra le mani un rosario. «La risposta a questo mondo di guerra si chiama famiglia», ha detto il Papa durante la veglia. Questo è stato per noi un riconoscere il grande dono della esperienza che viviamo durante l’anno come gruppo dell’Adma. Un immenso grazie per quella compenetrazione di pastorale giovanile e familiare che esiste nella nostra realtà in cui le coppie in formazione si rendono disponibili a seguirci nella formazione, affiancati da sacerdoti e suore, per un’esperienza vocazionale che si svela nelle sue molteplici sfaccettature. Il Papa ci ha poi invitati più volte a non avere paura dei nostri sogni, a costruire ponti e distruggere i muri. E nell’abbraccio di mani creato nel Campus Misericordiae, c’è stata proprio una chiamata alle armi. Un desiderio, da parte di chi crede in noi giovani, di riscoprire la nostra identità imbracciando le armi dell’amore. Ad indossare gli scarponcini e ad abbandonare la comodità del divano. Sapendoci affidare nelle mani di Dio, che è davvero il Signore del rischio e del sempre oltre. Per essere seminatori di speranza.
ateismo occidentale dilagante. Costruendo in questo modo un’amicizia e un legame che ha segnato ulteriormente la nostra vita. Sfidando le convinzioni sociali e le paure che affliggono il nostro mondo. Testimoniando che nella condivisione, nel dialogo e nella fiducia germoglia il seme della pace. Ci diranno che siamo pazzi. Ci diremo che non siamo in grado, ma Papa Francesco è stato categorico: «se la nostra vita non è fatta per servire, non serve a niente». E se ci poniamo sotto lo sguardo d’amore di Dio, facendo esperienza della sua misericordia, acquisiremo quel cuore misericordioso che ha il coraggio di lasciare le comodità e che sa andare incontro all’altro. Perché come ci insegna il Papa: «Gesù, confida in noi». Elena Scavino ADMA Giovani Torino - Valdocco redazione.rivista@ausiliatrice.net
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Il Rosario in arabo
E non dimenticheremo il rosario che abbiamo recitato in pullman in italiano e in arabo con i ragazzi del Medio Oriente. Segno visibile, nel nostro piccolo, di una risposta all’invito di costruire ponti. E preghiera dopo preghiera, abbiamo scoperto e condiviso le diverse sfumature della fede. Di quella che si vive con difficoltà tra le bombe e le lacrime della guerra e quella che arranca tra un
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La gioia dell’amore Il Vangelo della famiglia sulle orme di papa Francesco.
È questo il tema formativo che ha accompagnato gli Esercizi Spirituali delle coppie e famiglie dell’ADMA, svoltisi in tre turni, dal 31 luglio al 21 agosto 2016, con la partecipazione di circa 90 famiglie, nel suggestivo ambiente alpino di Pracharbon (Valle d’Aosta). Non sembrerebbe una notizia “che fa notizia”, dal momento che sono in molti a scegliere il periodo estivo per un tempo di ricarica spirituale a contatto con la natura. Ciò che rende questo tipo di esercizi spirituali unici e modernissimi, dopo i due sinodi sulla famiglia, è il fatto che a parteciparvi sono famiglie intere, coppie con i figli, da chi ha appena pochi mesi a chi è già maggiorenne. Vedere insieme sposi, consacrati, giovani e ragazzi condividere giornate di fraternità, riflessione, preghiera è un vero dono che rinnova in tutti la chiamata a vivere la propria vocazione con gioia, fedeltà ed entusia42
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smo. Inoltre la presenza dei giovani dell’ADMA che animano i più piccoli con passione educativa e con dedizione è una forte testimonianza di servizio e di vita impegnata con il cuore di don Bosco. Riportiamo una rilettura poetica di queste settimane fatta da Rosanna Marchisio. Pracharbon 2016
Montagne di preghiera, fiumi di lacrime: di gioia, di pentimento, di commozione, di dolore... Ore passate in ginocchio davanti a Gesù Eucarestia, abbracci e sorrisi, il Perdono ricevuto, quanti «Io ti assolvo!». Ceste di Pane Eucaristico spezzato nella Messa: al mattino per gli animatori e per chi lavora, perché tutto il delicatissimo ingranaggio sia possibile e prosegua senza incepparsi; e al tramonto, dopo la condivisione dei cuori, arriva il momento di lasciar bruciare tutto dall’Amore che si lascia mangiare. Chili di pasta, litri di latte, centinaia di fette di pane e nutella,
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pentoloni di polenta, ma quanto aumenta l’appetito in montagna? Lingue nere di mirtilli, notti lucide di stelle. Scarponi e corse, urla di bimbi che non vogliono staccarsi da mamma per andare al nido, risa degli stessi bimbi che 5 minuti dopo già si tuffano nella piscina di palline o nel tunnel delle sorprese. Salti e corse e partite di calcio. Legacci strani e mai prima svelati, che all’improvviso diventa così importante toglierli con l’aiuto di amici “importanti”... Giovani che “sprecano” i loro preziosi giorni di vacanza per avvolgere di amore i più piccoli a loro affidati e, come Lui aveva detto, ricevono il centuplo per uno... Mani che si stringono forte, cuori che si sciolgono in abbracci, mamme e papà, sposi e spose, sacerdoti e consacrate, ma cos’è che ci fa sentire così uniti? Cosa c’è a Pracharbon che ti dà il pieno di energia per tutto l’anno? Sarebbe meglio chiedersi CHI C’È? Lei, la Mamma del Cielo, che dal bordo del pratone tende le mani in un abbraccio nel tempo e nello spazio, nella storia di tutti noi, da Valdocco, anzi dal Colle don Bosco fino alle nostre case
quando stasera chiusa la porta, svuotate le valigie, un bacio in fronte ai bambini crollati nel sonno, lo sguardo si perde negli occhi e nel cuore dello sposo, della sposa, di Gesù. «Sotto la tua protezione noi cerchiamo rifugio Santa Madre di Dio». È proprio vero: Tu ci proteggi, ci accompagni, ci porti a Gesù! Non voglio più dimenticare questa gioia che ho nel cuore.Vogliamo continuare a camminare con Te, ad affidarci a Te. Tu conosci le nostre fatiche e le nostre debolezze, aiutaci nel nostro cammino verso la santità. Pracharbon è finito. La vita è adesso, «la carità non avrà mai fine». ADMA Famiglie redazione.rivista@ausiliatrice.net
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Cheesecake (difficile, neh?) ai mirtilli ANNA MARIA MUSSO FRENI redazione.rivista@ausiliatrice.net
• 100 g di biscotti secchi integrali • 60 g di zucchero di canna • 250 g di ricotta • 2 uova • 50 g di burro • scorza grattugiata di un limone • un vasetto di marmellata di mirtilli. 44
“Partito”, nell’anno 1300, il primo Giubileo, la pratica si consolidò nel corso del secolo, ripetendosi ogni 25 anni, con il nome di Giubileo ordinario. L’Anno Santo indetto con cadenza più breve rispetto a questa, ad esempio negli anni 33 di qualche secolo, a ricordare l’anniversario della morte di Cristo, o in altre circostanze particolari, fu invece denominato straordinario, come il Giubileo attuale. Nel corso del Quattrocento il flusso dei pellegrini giubilari a Roma aumentò tanto che si rese necessaria la costruzione di una chiesa tanto grande da poter abbracciare simbolicamente tutta l’umanità: l’attuale Basilica di San Pietro, con le braccia del colonnato del Bernini aperte a tutti gli uomini. L’opera richiese due secoli di lavoro e impegnò i maggiori artisti del Rinascimento italiano. Il Giubileo del 1500, indetto da Papa Alessandro VI, acquistò carattere di particolare solennità: fu stabilita in quell’occasione l’apertura delle Porte Sante nelle quattro basiliche
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papali romane; fu inoltre ristrutturata e ampliata la via che collega Castel Sant’Angelo a San Pietro, chiamata via Alessandrina, in onore del pontefice (oggi via Della Conciliazione). Nello stesso anno fu posta all’ingresso di San Pietro la statua della Pietà scolpita da Michelangelo. L’opera dell’artista connotò lo svolgimento dei successivi Anni Santi del Rinascimento, con il completamento, nel 1525, degli affreschi della Cappella Sistina e nel Giubileo successivo, del 1550, con la presentazione ai fedeli della parete raffigurante il Giudizio Universale. Occorre anche ricordare che i Giubilei cinquecenteschi furono turbati dalla grande spaccatura operata nell’Occidente cristiano dalla Riforma protestante e dalla Controriforma cattolica, iniziata con il Concilio di Trento, il più lungo della storia, durato dal 1545 al 1562, tra un Giubileo e l’altro. Proveniente dall’estero, come la Riforma protestante, ecco la cheesecake, di facile esecuzione, malgrado il nome complicato. Sbriciolare finemente nel mixer i biscotti, aggiungervi, mescolando, il burro fuso. Con l’impasto ottenuto ricoprire il fondo di una tortiera, precedentemente foderato con carta da forno. Livellare bene il composto con il dorso di un cucchiaio e metterlo in frigorifero per un’ora. Mescolare la ricotta con le uova, lo zucchero, la scorza di limone. Stendere la crema ottenuta sul composto di biscotti e cuocere per 10 minuti in forno a 180 gradi. Sfornato e raffreddato il dolce, spalmarlo con la marmellata di mirtilli.
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è officiata per tutti i benefattori dell’opera salesiana. La redazione
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