27 minute read
Passato e futuro nell’“orizzonte tecnico” di Guido da Vigevano, di Aldo Settia “
93
Codices Machinarum: 1 texaurus regis Francie (1335)
Advertisement
(ca. 1280-1350)
di Aldo A. Settia
Per facilitare a Filippo VI di Francia la progettata riconquista della Terrasanta il medico di corte Guido da Vigevano gli indirizzò nel 1335 uno scritto intitolato texaurus regis Francie nel quale esponeva innanzitutto il modo di conservarsi in salute e poi di fabbricare certe macchine da guerra di cui – diceva – “nessuno finora si è trovato che ne avesse cognizione” 1: si trattava di scale e torri d’assalto per espugnare luoghi fortificati, di natanti per attraversare corsi d’acqua inguadabili e carri da combattimento autopropulsi destinati ad appoggiare azioni in campo aperto, tutti mezzi accuratamente descritti nel loro funzionamento e presentati come smontabili e facilmente trasportabili a dorso di cavallo.
Benché alcuni di tali mezzi fossero allora obiettivamente irrealizzabili – si è osservato – la fantasia precorritrice del loro ideatore ebbe il merito di diffonderne l’interesse fuori della ristretta cerchia degli specialisti dando così avvio a una vera e propria trattatistica i cui autori – da Konrad Kyeser a Valturio, da Mariano Taccola e Francesco di Giorgio Martini a Leonardo da Vinci – furono largamente influenzati dal texaurus, il quale contribuì perciò di lunga mano alla futura, effettiva realizzazione di quegli impossibili macchinari2 .
1 Giustina Ostuni (cur.), le macchine del re. il “texaurus regis Francie” di Guido da Vigevano, Vigevano 1993, p. 89; v. inoltre introduzione, pp. 18-29 e, sulla vita dell’autore, A.
A. Settia, «Guido da Vigevano», in Dizionario biografico degli italiani, 61, Roma 2003, pp. 433-436. 2 Su tale trattatistica basti qui rinviare a Bertrand Gille, leonardo e gli ingegneri del rinascimento, Milano 1972 (ed. originale Paris 1964); Bert S. Hall, «Production et diffusion de
94
Future Wars
le fonti delle innovazioni.
Da dove traevano ispirazione le macchine proposte da Guido nel suo texaurus? Si è notato che alcune sue illustrazioni «presentano stupefacenti analogie con certe immagini presenti nei manoscritti greci e latini» e, in particolare, con le illustrazioni del cosiddetto Erone di Bisanzio 3, dimenticando che in realtà ben pochi codici greci circolavano in Occidente dove era invece facile e quasi obbligato l’accesso ad opere latine tardo antiche fra le quali, in primo luogo, le suggestioni non figurative esercitate dall’epitoma rei militaris di Vegezio.
Quest’opera propone infatti «diverse macchine per l’attacco e la difesa di piazzeforti» che non oltrepassavano le capacità tecnologiche medievali; non se ne fornisce, è vero, né piani né disegni ma se ne offrono concetti e materiali lasciando ai carpentieri la cura della loro applicazione4. Il quarto libro dell’epitoma sembra infatti stare alla base di numerose realizzazioni proposte da Guido: dal modo di proteggere dalle frecce gli assedianti, alla torre d’assalto e alla bertesca elevabili mediante corde, sino al ponte per accedere alle mura di una piazzaforte; dal testo di Vegezio può inoltre derivare l’idea di installare macchine da lancio su carri trainati da buoi e di superare fiumi inguadabili mediante tavolati su botti galleggianti e scafi speciali5 .
certains traités de technique au moyen âge», in Guy H. Allard e Serge Lusignan (éd.), Cahiers d’études médiévales, VII, les arts mécaniques au moyen âge, Montréal-Paris 1982, pp. 147-169; Francisco Garcia Fitz, «Tecnología, literatura técnica y diseño de máquinas de guerra durante la baja edad media occidental: el “Texaurus regis Franciae acquisitionibus [sic] Terrae Sanctae” de Guido da Vigevano (1335)», anuario de estudios medievales, 41/2 (2011), pp. 829-864. 3 Gille, leonardo, pp. 30-31; le macchine del re, pp. 30, 36, 41, 50, 75. 4 Philippe Richardot, Végèce et la culture militaire au moyen âge (Ve-XVe siècles), Paris 1998, p. 168. Per quanto Guido da Vigevano consigli un modo di misurare l’altezza delle torri diverso da quello proposto in Vegezio (cfr. le macchine del re, p. 112 e P. Flavius
Vegetius Renatus, epitoma rei militaris, ed. Alf Önnefors, Stutgardiae et Lipsiae 1995, pp. 232-233 [IV, 30]) ciò non impedisce la conoscenza dell’opera; rettifichiamo perciò in tale senso quanto ipotizzato in A. A. Settia, Comuni in guerra. armi ed eserciti nell’italia delle città, Bologna 1993, pp. 284-285, nota 32. 5 Cfr. rispettivamente: Vegetius, epitoma, pp.: 203 (IV, 6), 219 (IV, 19), 221 (IV, 21), 94 (II, 25), 124 (III, 7), con le macchine del re, pp.: 92, 122, 96-104, 106-108, 172, 130-140.
Passato e futuro nell’“orizzonte tecnico” di Guido da ViGeVano (ca. 1280-1350) 95
Alle suggestioni vegeziane non sembra dubbio che vadano unite quelle derivanti dal codice figurato dell’Anonimo De rebus bellicis di cui Guido si è certo valso per elaborare ponti e mezzi per l’attraversamento dei corsi d’acqua fra i quali, in specie, l’imbarcazione mossa da un meccanismo a pale, mentre l’idea della panthera (intesa come transenna protettiva munita di «molti ferri acuti e leggeri») e delle sue diverse applicazioni appare suggerita dalle forche e dalle lance che l’Anonimo pone a difesa del ticodifrus, dai coltelli e dalle «falci acutissime» che muniscono il currodrepanus e dagli scudi «circondati da ferro acuminato» del currodrepanus clipeatus; la funzione delle macchine da lancio montate su carri, già ricordate da Vegezio, può avere, a sua volta, riscontro nell’azione della ballista quadrirotis6 .
6 Cfr. Anonimo, le cose della guerra, a cura di A. Giardina, Milano 1989, rispettivamente pp.: 28 (cap. 16), 30 (cap. 17), 27 (cap. 8), 24 (cap. 12), 26 (cap. 14), con le macchine del re, pp.: 52-53 (dove la curatrice rettifica quanto affermato da Giardina a p. 53, nota 10), 56-57, 168-172. Somiglianze già osservate da H. Hodges, the anonymus in the later middle age, in Mark W.C. Hassal (Ed.), De rebus bellicis, part I, aspects of the “De rebus bellicis”. Papers presented to professor e.a. thompson, “BAR international series”, 63 (1979), pp. 119-121.
96
Future Wars
A ispirare la maggior parte delle macchine presenti nel trattato di Guido da Vigevano, in conclusione, avrebbero concorso, in modo fra loro complementare, tanto l’epitoma di Vegezio quanto l’Anonimo del De rebus bellicis, e ciò deve essere avvenuto grazie a una stretta collaborazione fra persone in grado di comprendere i testi latini e geniali artigiani capaci di riflettere su di essi e di metterne a frutto l’insegnamento. La progettazione di nuove macchine richiede comunque eccezionali capacità inventive, grande esperienza professionale e tempi di sperimentazione non brevi, condizioni che ben difficilmente si trovano riunite nell’attività di una sola persona.
Guido da Vigevano svolgeva inoltre una professione molto lontana da quella richiesta per mettere a punto macchine da guerra da lui presentate come frutto della sua personale applicazione: in quanto medico di fama e politicamene impegnato non si vede come egli potesse aver conseguito le competenze necessarie per progettare, disegnare e spiegare diffusamente il funzionamento di complesse attrezzature meccaniche; non stupisce quindi che Carlo Promis a suo tempo abbia considerato l’autore del texaurus «tropp’estraneo» alla materia ivi esposta7 .
Per quanto nella descrizione delle macchine si sia voluto scorgere «la puntualità di un medico attento ai sintomi e alle loro intrinseche valenze», e influenze della formazione medica applicate alla «nuova attività di ingegnere»8, Guido da Vigevano non risulta catalogabile nella categoria di quei medici di corte che, attraverso la pratica dell’astrologia, furono indotti a occuparsi anche di problemi militari9. Alla stessa conclusione si giunge anche analizzando il linguaggio del texaurus il quale appare scritto bensì in un latino colto che cerca di rendere la materia comprensibile alla corte regia, ma avvalendosi di un lessico «terribilmente oscuro» folto di termini tecnici propri dei fabbri e dei carpentieri, in vivo contrasto con lo
7 Carlo Promis, Gl’ingegneri militari che operarono o scrissero in Piemonte dall’anno
MCCC all’anno MDCl, Torino 1871, pp. 10-11. 8 Rispettivamente: Vittorio Marchis, «Il “Texaurus” come protocollo per la nuova tecnologia», in le macchine del re, p. 213, e Giustina Ostuni, «Artificia regis», ibidem, p. 30. 9 Su costoro cfr. Lynn Townsend White, «Medical astrologers and late medieval», in Id.,
Medieval religion and technology. Collected essays, Berkeley-Los Angeles-London 1978, pp. 303-306 (già in Viator, 6, 1975) e, per quanto riguarda la posizione di Guido, rispetto ad essi del tutto anomala, Hall, Production et diffusion, pp. 165-167.
Passato e futuro nell’“orizzonte tecnico” di Guido da ViGeVano (ca. 1280-1350) 97
stile «austero e laconico» di altri medici autori di trattazioni tecniche a Guido contemporanei10 .
L’opera dunque, pur sforzandosi di apparire come «il risultato di una diretta esperienza di Guido nei confronti delle macchine di cui parla», potrebbe in realtà avere utilizzato appunti di artigiani poco scolarizzati che, contro una tendenza corrente della categoria, avevano messo per scritto informazioni tecniche riguardanti le loro esperienze professionali, come lascia pensare, in specie, il ricorso a pittogrammi stilizzati, debitamente corredati di misure, che conferiscono ai progetti dimensioni quantitative «assai rare nei trattati militari dell’epoca»11 .
Dove e quando tali scritti erano stati prodotti? La non breve maturazione di esperienze che essi presuppongono induce a risalire almeno alla metà del secolo XII, epoca in cui la storiografia ha individuato l’inizio di un «medioevo tecnologico» implicante, «se non una rivoluzione tecnica totale, almeno un insieme di significative innovazioni»12 che trova nell’Italia del nord numerosi riscontri.
Nella prima metà di quel secolo doveva perdurare nella Lombardia montana la tradizione dei carpentieri di guerra della valle d’Intelvi che dal secolo X in poi, durante le spedizioni imperiali in Italia, avevano reso possibili, con la loro competenza tecnica, le operazioni di assedio. Ciò nonostante, prima le guerre fra Milano e Lodi e poi fra Milano e Como mostrarono che impadronirsi di una città fortificata poneva difficoltà non facilmente superabili tanto che i milanesi furono indotti a ricorrere all’abilità dei «famosi ingegneri» attivi a Genova e a Pisa13. Non stupisce dunque che nel corso della prima età sveva appaiano diffuse in Lombardia
10 Alfred Rupert Hall, «The military inventions of Guido da Vigevano», in actes du Viiie congrès international d’histoire des sciences (Florence, 1956), III, Firenze 1958, p. 968;
Id., «Guido’s Texaurus, 1335», in Bert S. Hall e Delno C. West (Eds.), on pre-modern technology and science. A volume of studies in honor of Lynn White jr, Malibu 1976, p. 12 (con glossario alle pp. 30-31); Id., Production et diffusion, p. 163. 11 Così Marchis, il “texaurus” come protocollo, p. 211. 12 B. Gille, Storia delle tecniche, a cura di C. Tarsitani, Roma 1985 (ed. originale Paris 1978), pp. 275-276. 13 Cfr. A. A. Settia, «L’ingegnere errante e la diffusione della tecnologia militare», in Circolazione di uomini e scambi culturali tra città (secoli Xii-Xiii), Ventitreesimo convegno internazionale di studi (Pistoia, 13-16 maggio 2011), Pistoia 2013, pp. 305-308.
98
Future Wars
cognizioni di tecnologia militare maturate nell’area mediterranea e sperimentate durante le prime crociate.
Raggiungono allora grande notorietà due valenti “ingegneri” dei quali si ignora nondimeno la provenienza: mastro Guintelmo, al servizio del comune di Milano fra 1156 e 1162, abile costruttore di carri da combattimento, di ponti e di macchine d’assedio, mentre nel contempo opera a Crema il suo collega Marchese “assai più ingegnoso di tutti gli altri”, e appunto durante l’assedio di questo luogo viene inoltre a mettersi al servizio dell’imperatore un altro anonimo “maestro d’opera” che aveva fatto le proprie esperienze in Terrasanta14 .
Il senso di stupore e di meraviglia espresso dai cronisti contemporanei di fronte alla grandiosità e alle impressionanti prestazioni delle macchine belliche da costoro allestite15 lascia credere che siano allora maturate almeno alcune delle realizzazioni di tecnologia militare che troveremo poi riprodotte nella trattazione di Guido da Vigevano. Ottone Morena, ad esempio, ci mostra Marchese, passato anch’egli al servizio dell’imperatore, costruire una “mirabile macchina di legno” sopra la quale è innestato un ponte coperto di graticci, lungo più di quaranta braccia e largo sei, che era possibile lanciare sulle mura per venti braccia “senza che nessuno potesse opporvisi”. Per quanto l’esatto funzionamento dell’apparecchiatura non risulti chiaro, certo essa ricorda il “modo di fare un ponte e di porlo sul muro di una piazzaforte” descritto in seguito da Guido16 .
“Panthera super lecto carri”
Sembra avere un sicuro antecedente nell’ambiente milanese di metà secolo XII anche il carro trainato da buoi che Guido descrive come protetto dalla panthera. I Gesta Federici tramandano infatti che nel 1160 mastro Guintelmo costruì cento plaustrella (senz’altro derivati dal De rebus bel-
14 Cfr. Settia, Comuni in guerra, pp. 118-122, 263-266, 283-284, e Id., l’ingegnere errante, p. 301. 15 Settia, Comuni in guerra, pp. 266-267. 16 Rispettivamente: Otto Morena et continuatores, Historia Frederici i, ed. F. Güterboch,
Berlin 1930, pp. 88-90; Carmen de gestis Frederici i imperatoris in lombardia, ed. Irene
Schmale-Ott, Hannover 1965, p. 101, vv. 3097-3101; le macchine del re, pp. 106-108.
Passato e futuro nell’“orizzonte tecnico” di Guido da ViGeVano (ca. 1280-1350) 99
licis) da impiegare in funzione difensiva. Essi erano fatti «quasi a modo di scudo sulla fronte» e tutto intorno «circondati da ferri taglienti costituiti da falci fienaie» appunto corrispondenti all’elemento indicato da Guido come panthera. Essa serve anche a realizzare sbarramenti lunghi sino a una lega che permettono di bloccare i movimenti di un intero esercito, con la panthera si possono, infine, circondare carri dotati di «manganelle che lancino ovunque pietre e altri proiettili»17 .
Ora entrambi questi ultimi accorgimenti risultano utilizzati nel 1229 dai bolognesi a San Cesario sul Panaro dove essi impediscono dapprima all’esercito nemico, ivi presente, di intervenire mentre viene espugnato il castello, e poi immettono sul campo di battaglia una vera e propria artiglieria semovente montata su carri che, prendendo di mira il carroccio parmigiano, manca di poco la vittoria18 .
La notizia può essere collegata all’attività di mastro Buvalello, membro di una nota famiglia bolognese, il quale pochi anni prima aveva fabbricato, per conto del comune di Imola, macchine da lancio indicate come de carro, cioè carreggiabili come quelle impiegate a San Cesario19. Esisteva dunque a Bologna una “scuola” meccanica formata da ingegneri militari in grado di produrre nuovi mezzi di combattimento che appaiono, in questo caso, singolarmente affini ai carri a suo tempo costruiti a Milano da mastro Guintelmo e descritti in seguito nel trattato di Guido da Vigevano.
Un cronista faentino contemporaneo indicò l’“artiglieria semovente” bolognese come «un nuovo genere di flagello mai sentito prima», e Salimbene da Parma la definì un «inusitato modo di combattere»20 sotto-
17 Rispettivamente: Gesta Federici i imperatoris in lombardia, auctore cive Mediolanensi (annales Mediolanenses maiores), ed. Oswald Holder-Egger, Hannoverae 1892, p. 40 (cfr. anche Settia, Comuni in guerra, pp. 118-119); le macchine del re, pp. 168 e 171-172. 18 Settia, Comuni in guerra, pp. 125 e 304-306; Id., «La battaglia di S. Cesario (1229) e la sperimentazione di nuove tecniche di combattimento», Quaderni della bassa modenese.
Storia, tradizione, ambiente, XXIV/2 (2010), pp. 22-27. 19 libro rosso. il “registrum comunis Ymole” del 1230 con addizioni al 1269, ed. Tiziana
Lazzari, Imola 2005, doc. 81 (4 maggio 1222), pp. 125-127, e docc.: 52 (4 luglio 1232), p. 81; 54 (5 luglio 1232), p. 83; cfr. Settia, l’ingegnere errante, pp. 311-312. 20 Magister Tolosanus, Chronicon Faventinum, ed. G. Rossini, Bologna 1936 (Rerum Italicarum scriptores, 2a ed., XVIII/1), p. 157; Salimbene de Adam, Cronica, ed. Giuseppe Scalia, Bari 1966, p. 51.
100
Future Wars
lineandone così espressamente la novità. Questi, scrivendo circa quarant’anni dopo i fatti, parla di quel procedimento come «allora inaudito» ammettendo così implicitamente che esso era praticato ai suoi tempi, e lo era certo anche in seguito poiché sappiamo da un documento veneziano che nel castello di Treviso si custodivano nel 1345 due manganelle «que fereantur super quodam caro per castrum ubi oportebit»21 . Nel primo decennio del ‘300, quando Guido da Vigevano viveva a Pavia, era attivo in quella città anche il cronista Galvano Fiamma il quale qualche decennio dopo, rievocando nei suoi scritti le passate glorie milanesi, descrive in più occasioni i carri costruiti da mastro Guintelmo: essi apparivano – dice – come «navi triangolari» fatte in modo da proteggere i sei cavalli da traino e l’equipaggio di dieci uomini incaricato di manovrare falci fienaie come altrettanti remi: una descrizione che sembra basata non tanto su una libera interpretazione dei Gesta Federici quanto sulla raffigurazione del carro con panthera presente nel trattato di Guido22. Come può essere spiegata una simile coincidenza?
Mastro Guintelmo fu al servizio dei milanesi, abbiamo detto, fra 1156 e 1162; dopo di lui, negli anni fra 1181 e 1196, si fregiò del titolo di «ingegnere del comune di Milano» un magister Alamanno de Guitelmo che nel gennaio del 1194 progettò i nuovi fossati della città di Piacenza. Nel 1269 lo stesso incarico risulta coperto da un altro «magister Alamannus ingegne-
21 Venezia-Senato. Deliberazioni miste. registro XXii (1344-1345), ed. Edoardo Demo, Venezia 2007, doc. 683, p. 331. 22 Cfr. Settia, Comuni in guerra, pp. 278-281.
Passato e futuro nell’“orizzonte tecnico” di Guido da ViGeVano (ca. 1280-1350) 101
rius» e infine, fra 1297 e 1311, da un «magister Alpinus Alamanni», nomi questi ultimi che richiamano l’Alamanno attivo nel XII secolo. Risulterebbe così delineata una dinastia di ingegneri che servì con continuità il comune di Milano e i suoi alleati emiliani per quasi un secolo e mezzo.
L’ultimo suo rappresentante, Alpino di Alamanno, fu dunque contemporaneo di Galvano Fiamma e di Guido da Vigevano; si ha pertanto qualche ragione per sospettare che costoro siano venuti in possesso di un “taccuino” di lavoro nel quale gli ingegneri al servizio dei comuni padani si erano tramandati “invenzioni” del tempo di Guintelmo e di Marchese arricchendole di proprie sperimentazioni e proposte innovative: un “taccuino” il cui contenuto, dopo essere stato visto da Galvano, potrebbe poi essere confluito nel texaurus di Guido da Vigevano23 .
Contribuirebbero a corroborare tale ipotesi anche alcune caratteristiche del latino di Guido: egli parla, ad esempio, con frequenza di «scale imbataliate», di «castrum imbataliatum», «carrum imbataliatum», «domus imbataliata», e invece dell’usuale “bertesca”, usa costantemente la forma baltresca24, due particolari lessicali che sembrano appartenere non all’uso lombardo, come sarebbe lecito aspettarsi da un pavese come Guido, ma piuttosto all’ambiente emiliano; e anche il termine panthera, che si vorrebbe desunto dalle figure mostruose di certi codici greci, è invece, assai più probabilmente, mutuato da un dispositivo utilizzato in ambito padano per la cattura degli uccelli25 .
23 Cfr. Settia, “De re militari”. Pratica e teoria nella guerra medievale, Roma 2008, pp. 1819. 24 le macchine del re, pp.: 90 e 118 (scale), 122 (castrum), 152 (carro), 164 (domus); baltresca ricorre, ad esempio, alle pp. 90. 100 e 102; cfr. Glossario latino emiliano, a cura di
Pietro Sella, Città del Vaticano 1937, s.v. imbataiare e baltrisca. 25 le macchine, p. 76, con le fig. a p. 78, e Glossario latino emiliano, s. v. panteria.
102
Future Wars
l’utopia di “currere cum furore”
Lo stesso Marchese, che «artificum numero pollebat», viene anche designato con l’epiteto di Molinarius26 indicando così la sua eccellenza nell’arte di costruire impianti molitori: sarà da attribuire a lui l’idea, esposta nel texaurus, di far muovere carri da guerra mediante manovelle e con la forza del vento? I carri, che dovrebbero spostarsi «sine bestiis», richiedono appunto l’intervento di un «maestro dei mulini» capace di «far ingranare le loro ruote» e, in particolare, la competenza di un «maestro dei mulini a vento»27 .
Più che come carri essi vengono invero raffigurati sotto forma di vere e proprie torri da assedio, e queste, a loro volta, sono spesso descritte dai cronisti come dotate di una sorprendente mobilità: l’anonimo autore del liber Maiolichinus ci mostra le torri costruite dai pisani nel 1119 a Maiorca correre senza sforzo sui rulli sotto gli occhi ammirati dei presenti, e secondo Caffaro i genovesi nel 1147 conducono agevolmente per la città di Tortosa due loro «castelli» che in pochi giorni hanno ragione delle fortificazioni nemiche28 .
Non manca neppure un loro impiego in campo aperto: nel 1171 i pisani schierano infatti contro i lucchesi «sex castella lignea fortissima», ciascuno trasportato su quattro carri, e attorno ad essi dispongono la prima schiera costituita da fanti, tiratori e cavalieri29. Non viene detto come i sei “castelli” siano stati utilizzati nel corso della successiva battaglia né quale apporto abbiano dato alla vittoria, ma sembra palese il tentativo di impiegarli proprio nel modo proposto da Guido il quale non esclude, per i suoi carri da guerra autopropulsi, il tradizionale traino a mezzo di buoi o di cavalli30 .
I carri del texaurus – ha scritto Vittorio Marchis – «costituiscono una sintesi della tecnologia più avanzata per il XIV secolo»; questo autore
26 Carmen de gestis, p. 100, rispettivamente vv. 3068 e 3059. 27 le macchine del re, pp. 152-165. 28 Rispettivamente: liber Maiolichinus de gestis Pisanorum illustribus, ed. Carlo Calisse, Roma 1904, p. 84, v. 2143; Caffarus, Ystoria captionis almarie et turtuose ann.
MCXXXXVii et MCXXXXViii, in annali genovesi di Caffaro e de’ suoi continuatori, I, ed.
Luigi Tommaso Belgrano, Roma 1890, pp. 86-87. 29 Gli “annales Pisani” di Bernardo Maragone, ed. M. Lupo Gentile, (Rerum Italicarum scriptores, 2^ ed., VI/2), Bologna 1936, pp. 50-51. 30 le macchine del re, p. 156.
Passato e futuro nell’“orizzonte tecnico” di Guido da ViGeVano (ca. 1280-1350) 103
tende però a interpretarli tout court come «carri d’assedio»: il mezzo semovente ad energia eolica, certo pesantissimo, sarebbe così destinato ad avvicinarsi alle mura nemiche percorrendo lentamente brevi tragitti nel corso dei quali «anche un debole aiuto dal vento poteva assumere una significativa importanza strategica»31 .
Tale interpretazione è però in netto contrasto con quanto stabilisce il trattatista il quale non lascia dubbi sull’impiego dei suoi carri «imbattagliati»: il primo, muovendosi «senza vento e senza bestie», deve servire a “confondere molte truppe”, e al secondo, «mosso dal vento», si assegna l’esplicito compito di «correre con furore per i campi pianeggianti disorientando tutto l’esercito» nemico32, funzioni destinate a rimanere, al di là di ogni dubbio, irrealizzabili ancora per molti secoli durante i quali continuerà però ad essere incessantemente coltivata l’illusione di carri d’assalto capaci di un irruente dinamismo. Mentre in Toscana alla vigilia di Campaldino Barone dei Mangiadori osserva che le battaglie vinte in passato da chi sapeva «ben assalire», si devono ora vincere con lo «stare ben fermi»33, l’Italia padana viene invece colta da un impellente desiderio di mobilità che giunge a coinvolgere lo stesso impiego tattico del carroccio.
Questo – carro da guerra ma non da combattimento – che era stato sino allora utilizzato in battaglia in modo statico come punto di riferimento e posto di comando, nel corso del Duecento, viene spinto nella mischia dai fanti «velocissimo come un destriero» quasi a modo di carro d’assalto34; si spiega così che il carroccio padovano, secondo un cronista in vena di esagerazioni retoriche, facesse «tremare tutta la terra dovunque passasse, quasi volando come fulmine e drago»35: effetti non molto dissimili da quelli che Guido avrebbe voluto ottenere dai suoi carri imbattagliati.
31 Marchis, il “texaurus” come protocollo, pp. 206, 208, 213. 32 le macchine del re, pp. 152 e 160. 33 Dino Compagni, Cronica, ed. G. Luzzatto, Torino 1968, p. 22. 34 Hannelore Zug Tucci, «Il carroccio nella vita comunale italiana», Quellen und Forschungen aus italienischen archiven und Bibliotheken, 65 (1985), pp. 33 e 51-52; Fabio Bargigia, A. A. Settia, la guerra nel medioevo, Roma 2006, pp. 36-37. 35 Rolandino, Vita e morte di ezzelino da romano (Cronaca), ed. F. Fiorese, Milano 2004, pp. 403-405.
104
Future Wars
Nel texaurus – si è osservato – manca ogni riferimento alle armi da fuoco che pure ai suoi tempi dovevano già essere in uso36: si tratta di un indizio in più – riteniamo – per far risalire le invenzioni da lui esposte a un’epoca in cui tali armi non esistevano ancora, ma in realtà, se si esclude la manganella montata su carro, l’opera non contempla macchine da getto di nessun genere, un’assenza che deve corrispondere a una scelta precisa. Le armi da fuoco erano invece già abbondantemente diffuse allorché, qualche decennio dopo, l’esercito di Antonio della Scala fece sfoggio di un suo innovativo macchinismo, diverso ma per certi aspetto analogo a quello proposto da Guido..
Vi attende un personale tecnico al corrente della trattatistica militare antica e in grado di coniugarla con le risorse offerte dalle nuove armi: doveva conoscere il vecchio liber ignium ad comburendum hostes il farmacista vicentino Sbrega il quale mise a punto certe palle infuocate e «altre composizioni ardenti con fetore» che, lanciate da numerose bombarde, costrinsero alla resa i difensori dell’imprendibile covolo di Brenta37 .
36 A.R. Hall, the military inventions (sopra, nt. 10), p. 969. 37 Conforto da Costoza, Frammenti di storia vicentina (aa. 1371-1387), ed. C. Steiner, Città di Castello 1915 (Rerum Italicarum scriptores, 2^ ed., XIII/1), p. 39 (15 gennaio 1387).
Passato e futuro nell’“orizzonte tecnico” di Guido da ViGeVano (ca. 1280-1350) 105
E certo conoscevano il De rebus bellicis gli ingegneri che realizzarono per il signore di Verona tre carri da combattimento ciascuno dei quali portava una torre quadrangolare di legno rotante a tre piani dotata su ogni lato di 12 bombardelle per un totale di 144 bocche da fuoco: con modalità d’azione ispirata alla ballista quadrirotis, e non diversamente dai carri imbattagliati di Guido da Vigevano, essi avevano il compito di “rompere e dividere” le schiere nemiche; la loro mobilità non era però data da artifici meccanici di nuova concezione bensì, in modo alquanto tradizionale, dal traino di quattro grandi destrieri coperti di cuoio e bardati di acciaio come quelli che l’Anonimo consiglia di aggiogare al currodrepanus38 .
“in peciis aportare”: i precedenti della modularità.
Nel trattato di Guido da Vigevano – si è rilevato – «i ponti galleggianti, le rampe per dare la scalata alle mura e le opere difensive mobili sono tipici esempi di tecniche basate sulla modularità e sulla componibilità» di cui «incastri, giunti, accoppiamenti, inchiavardature, cerniere, costituiscono gli elementi innovatori più importanti»39. Non si trattava però di una novità assoluta poiché pratiche simili erano in uso nell’ambiente comunale italiano sin dal secolo XII allorché ne sarebbe stato interessato anche il carroccio.
Si ritiene infatti che nel 1175, quando la Lega lombarda mobilitò il suo esercito contro Federico I, i carrocci di alcune città lontane dal campo di battaglia «furono smontati e trasportati nei pressi di Alessandria a dorso di mulo»40. Il cronista Giovanni Codagnello si limita in realtà ad affermare che ivi piacentini, milanesi, veronesi e bresciani «quatuor carocia (…) construxerunt»41: il dato non è quindi esplicito ma frutto di interpretazione. Del resto già nel 1160 a Carcano i milanesi improvvisarono il carroccio sul campo la notte prima della battaglia 42, forse adattando un normale
38 Galeazzo e Bartolomeo Gatari, Cronaca carrarese confrontata con la redazione di andrea
Gatari, ed. Antonio Medin e Guido Tolomei, Città di Castello 1909-1920 (Rerum Italicarum scriptores, 2a ed., XVII/1), p. 267. 39 Marchis, il “texaurus” come protocollo (sopra, nt, 8), p. 209. 40 Zug Tucci, il carroccio, pp. 62-63; E. Voltmer, il carroccio, Torino 1994, p. 217. 41 Iohannes Codagnellus, annales Placentini, ed. O. Holder Egger, Hannoverae et Lipsiae 1901, p. 10. 42 Gesta Federici (sopra, nota 17), p. 43.
106
Future Wars
carro da trasporto, e così potrebbe essere successo anche nel 1175. Ciò non esclude che, se necessario, il carroccio potesse talora essere scomposto in alcune parti fondamentali come sicuramente avvenne nel gennaio 1238 per quello milanese: esso, catturato da Federico II a Cortenuova, fu inviato a Roma «super mullos qui illud portaverunt»43 .
Il libro di Montaperti, da parte sua, stabilisce nel 1260 l’elezione di sei capitani «ad faciendum fieri et conduci hedificia et scalas, grillos, gattos et turres lignaminis» necessari per espugnare il castello di Menzano44 , macchinari che – si ritiene – «venivan portati dietro in pezzi già confezionati e messi insieme sul posto». Essi non risultano in verità menzionati fra i materiali di cui è specificamente documentato il trasporto45, ma intorno alla metà del secolo XIII, doveva essere abituale che le macchine da lancio a contrappeso, debitamente smontate, viaggiassero al seguito delle truppe operanti per essere ricomposte e messe in posizione non appena raggiunto l’obiettivo da attaccare46; non c’è dubbio infatti che tali mezzi fossero conservati in pezzi nei magazzini di certi comuni; ne fa fede, per esempio, un inventario perugino del 1241, mentre conosciamo a Imola le singole parti che componevano le venti tortorelle affidate in custodia ad altrettanti cittadini dai «suprastantes edificiorum» del comune47 .
A Firenze si attesta poi che gli ingegneri avevano il compito di costruire ponti «di cui gli elementi preparati in precedenza e fatti in modo da essere combinati insieme, erano trasportati da animali da soma»48. La ripetuta dichiarazione di Guido da Vigevano, che le sue macchine prefabbricate si potevano «facilmente trasportare a cavallo ed essere montate
43 annales Placentini Gibellini, in Mon. Germaniae Historica, Scriptores, 18, Hannoverae 1863, p. 478; cfr. Zug Tucci, il carroccio, p. 30; Voltmer, il carroccio, p. 222. 44 G. Paoli (cur.), il libro di Montaperti (an. MCClX), Firenze 1889, p. 76. 45 Robert Davidsohn, Storia di Firenze, II, Guelfi e Ghibellini, parte I, lotte sveve, Firenze 1972, p. 578; sui materiali trasportati Fabio Bargigia, Gli eserciti nell’italia comunale. organizzazione e logistica (1180-1320), Milano 2010, pp. 178-182. 46 Settia, Comuni in guerra, pp. 311-312, 315. 47 Codice diplomatico del comune di Perugia. Periodo consolare e podestarile (1139-1254), a cura di A. Bartoli Langeli, I, Perugia 1983, doc. 192 (dicembre 1241), pp. 414-417; libro rosso (vedi sopra , nota 19). 48 Robert Davidsohn, Storia di Firenze, IV, I primordi della civiltà fiorentina, parte I, impulsi interni, influssi esterni e cultura politica, Firenze 1977, p. 443.
Passato e futuro nell’“orizzonte tecnico” di Guido da ViGeVano (ca. 1280-1350) 107
senza perdere tempo»49 non sarà pertanto da considerare come una stupefacente novità, allora del tutto virtuale, che sarebbe stata realizzata soltanto molti secoli dopo50. Altri accorgimenti menzionati da Guido nel texaurus trovano del resto sicuro riscontro nelle fonti dell’epoca come gli apprestamenti adatti a proteggere i combattenti dalle frecce nemiche: nel 1318, infatti, l’ingegnere militare Segatino da Bassano vanta, fra le sue diverse abilità, anche quella di sapere mantellare mura e torri di Treviso per renderle sicure dalle frecce e dalle pietre nemiche51 .
Per quanto i corsi d’acqua siano molto numerosi in Lombardia e, più in generale, nell’Italia padana, le fonti a noi note non contengono invece alcun riscontro con gli espedienti suggeriti da Guido per il loro attraversamento; le cronache parlano tuttavia assai spesso di passaggi avvenuti, in modo talora assai rischioso, su ponti e guadi52, e benché fiumi e laghi fossero solcati da vere e proprie flotte di navi da battaglia53, costituirono sempre un grave impedimento al regolare svolgimento delle operazioni militari terrestri. Si capisce quindi che essi abbiano ripetutamente sollecitato la capacità inventiva di magistri e ingegneri al servizio dei comuni padani: lo stesso Guintelmo nel novembre 1156 ebbe modo di sovrintendere alla costruzione di un ponte sul Ticino che riuscì «più bello, più largo e più forte di qualunque altro visto in quel tempo», ma che ebbe breve durata54 .
Tanto i codici dell’antichità quanto le effettive esigenze militari spinsero pertanto generazioni di “ingegneri” a progettare nuovi mezzi e a ricercare inediti procedimenti; alcuni di essi furono effettivamente sperimentati nella pratica bellica mentre altri, come i battelli destinati a muoversi da soli sulle acque, e i carri autopropulsi, che con il loro impeto avrebbero
49 le macchine del re, p. 90. Vedi inoltre pp.: 96, 106, 118, 122, 130, 136, 152. 50 Come ritengono, ad esempio, Gille, leonardo, p. 31; B.S. Hall, Production et diffusion, p. 164; Garcia Fitz, tecnología, p. 846 (tutti sopra, nt. 2). 51 Rispettivamente: le macchine del re, p. 92; Giovanni Battista Verci, Storia della Marca trivigiana e veronese, VIII, Venezia 1788, appendice, doc. 857 (7 febbraio 1318), pp. 9697. 52 Cfr., ad esempio, Settia, “De re militari”, (sopra, nota 23), pp. 247-273. 53 Fabio Romanoni, «Guerra e navi sui fiumi dell’Italia settentrionale (secoli XII-XIV)», archivio storico lombardo, CXXXIV (2008), pp. 11-46. 54 Gesta Federici (sopra, nt. 17), p. 23.
108
Future Wars
dovuto sconvolgere lo schieramento nemico e facilitare il conseguimento della vittoria, rimasero pura utopia. Si trattava nondimeno di un “miscuglio di ‘reale’ e di ‘immaginario’ (quest’ultimo forse sinonimo di ‘progettuale’): due componenti – si è scritto – «di non sempre facile separabilità» sulle quali «il discorso è destinato a rimaner aperto molto a lungo» e «forse a non esaurirsi mai»55 .
55 Franco Cardini, «Le bombe intelligenti di Sigismondo. Umanesimo e arte della guerra tra
Medioevo e Rinascimento», in roberto Valturio “De re militari”. Saggi critici, Rimini-
Milano, 2006, p. 15.