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Arte della guerra e Rivoluzioni Militari, di Marco Formisano “

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L‘arte della guerra e le rivoluzioni militari

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di Marco Formisano

Questo breve saggio prende abbrivio da una questione che da tempo accompagna le mie riflessioni intorno all’arte della guerra antica e alla storia della sua lunga tradizione nella cultura occidentale, e cioè come e sino a che punto la scrittura de re militari abbia influenzato, reggendolo o fors’anche destabilizzandolo, il progresso tecnologico in ambito bellico. Da questa prospettiva, la così detta military revolution dell’età moderna assume un ruolo che va ben al di là del dibattito intorno alla sua ricostruibilità storica. Infatti, la rivoluzione ascritta all’ambito strategico, tattico e tecnico in età moderna, a ben guardare, finisce per simbolizzare la pervicace immutabilità del discorso militare stesso. Intorno a questo argomento ruotano le considerazioni presentate in queste pagine, che non si pongono pertanto il fine di riassumere le varie tesi che negli anni sono state elaborate sulla military revolution né tanto meno di entrare nel merito di uno dei più celebri dibattiti storiografici sulla guerra.

Si è spesso sottolineato il ritardo paradossale con cui le innovazioni tecniche, sono state recepite nei trattati di arte della guerra del Rinascimento, distinti dalla letteratura tecnico-militare (artiglieria, fortificazione, macchine). Come osserva Beatrice Heuser, si continuò a scrivere sulla guerra senza considerare in alcun modo gli sviluppi epocali apportati dalla polvere da sparo, concentrandosi fino alla fine del XVIII secolo, sulla scia della celebre Querelle, sulla questione se fossero stati gli antichi generali e strateghi migliori degli odierni.

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Da un lato quindi è dato constatare la quasi incredibile continuità del genere letterario ‘arte della guerra’ e del discorso sulla guerra, come esso emerge e si delinea nei trattati militari dalle origini della cultura occidentale almeno sino a Clausewitz. Dall’altro, tuttavia, è necessario mettere in evidenza un aspetto che non ha ricevuto attenzione e che pure risulta essere strutturale al suo stesso costituirsi: la volontà di riformare la guerra nei suoi vari ambiti tattici e strategici è insita al discorso della guerra stesso. Il paradosso è dato dal fatto che ogni cambiamento o rivoluzione auspicata passa sempre attraverso la riformulazione dei modelli offerti dall’antichità. Da tale particolare costellazione argomentativa si delinea un altro livello che in realtà rappresenta la base epistemica del discorso della guerra, cioè la dialettica tra teoria e azione.

Una precisazione terminologica e metodologica va fatta: in questo come in altri miei precedenti contributi, intendo considerare il discorso della guerra come si delinea nei trattati militari dell’antichità e dell’età moderna, tralasciando quindi altri generi letterari quali storiografia, memorialistica, epistolografia etc. In tal senso mi discosto dal criterio – seguito ad esempio da Beatrice Heuser e Therese Schwager - di prendere in considerazione più generi e tipi di testi. A parer mio, le arti della guerra vanno trattate a parte, proprio perché da un lato godono di una loro stabilissima tradizione dotata, come vedremo, di una propria struttura argomentativa, dall’altro producono una teoria della guerra distinta dal discorso storico e/o letterario.

* * *

Forse in nessun’altra attività umana la discrepanza tra teoria e pratica, tra scrittura e azione è così grande come nel caso della guerra. Ogni qual volta si cerca di gettar luce sull’essenza della guerra si pone l’inevitabile

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problema della corrispondenza dei due poli. Ma la tensione tra teoria e pratica, a ben guardare, caratterizza la cultura occidentale nel suo insieme. In qualsiasi settore o attività, infatti, si tende a concepire l’azione come emanazione o derivato da determinati modelli teorici; non stupirà pertanto che tale tensione si accresca proprio nei casi in cui si cerca di mettere per iscritto e codificare in sistema l’azione stessa. Ne la memoria culturale Jan Assmann ha ben spiegato i processi di trasmissione dell’agire pratico, definendoli come «memoria mimetica». Sul difficile ruolo della codificazione scritta di tali processi così scrive:

«Noi impariamo ad agire copiando. L’impiego di guide scritte per fare qualcosa – come le istruzioni per l’uso, i libri di cucina, le indicazioni di montaggio – rappresenta uno sviluppo relativamente tardo e mai davvero compiuto. Non è mai possibile codificare completamente l’agire».

La prima età moderna si profila in generale come un’epoca nella quale la tensione tra teoria e pratica nei vari ambiti delle scienze, delle arti e dei saperi si acuisce, in particolare nel discorso della guerra, proprio perché in esso convergono in modo esemplare diversi fattori. La guerra oscilla tra due dimensioni: da un lato essa è oggetto di teorizzazione e pertanto trae la sua linfa vitale proprio dalla tradizione letteraria, in particolare dalla memoria dell’antico. Dall’altro in questo periodo, come sopra indicato, fanno comparsa alcune innovazioni tecnologiche che effettivamente, anche se lungo percorsi che non indicano affatto un progresso univoco e lineare, cambiano radicalmente il modo di condurre la guerra nei suoi aspetti pratici. Di condurla, ma appunto, non di concepirla. A tal proposito va ricordato per inciso come la balistica, quella scienza cioè che si costuisce proprio in età rinascimentale, avente per oggetto l’analisi matematica del moto e della traiettoria del proiettile, alle sue origini si configuri proprio come un’emanazione diretta delle riflessioni condotte da Aristotele sul moto naturale e violento.

Tornando all’arte della guerra, cioè al genere letterario comprendente trattati militari di varia natura, tenendo presenti le considerazioni appena esposte, è necessario porci la domanda fondamentale della loro funzione non tanto per appurare se e sino a che punto essi fossero in grado di fornire istruzioni davvero applicabili sul campo di battaglia, quanto piuttosto per valutare il ruolo da essi assunto proprio nella costruzione del discorso della guerra. Va subito sottolineato come ad essi, nella maggior parte dei casi,

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anche negli studi più recenti, vada attribuito un ruolo marginale, utilizzati quasi sempre come fonti, neppure troppo utili, di ricostruzione storica. Eppure, come ho già avuto modo di affermare1, la guerra risulta impensabile senza la sua propria dimensione letteraria e testuale, dove è proprio il divario tra teoria e pratica, tra norma astratta e applicazione concreta, tra un passato ideale e il presente, infine tra scrittura e azione a venire generato e continuamente tematizzato.

L’arte della guerra, a cui faccio qui riferimento, è un genere letterario dalla lunghissima esistenza e dall’eccezionale continuità sia nel linguaggio sia nei contenuti. A mio avviso fu l’epitoma rei militaris di Vegezio2 , risalente alla fine del IV secolo, a sostituire la precedente trattatistica militare greca e latina e ad inaugurare il genere dell’arte della guerra, così come esso si svilupperà in seguito3. In essa affiora già ben delineata la tensione, già sopra indicata, tra scrittura e azione, tra passato e presente, tra norma e imprevisto, tra letteratura e tecnica. Il genere letterario ‘arte della guerra’, se osservato nella lunga durata auspicata in queste pagine, senza troppo guardare alle differenze che emergono dai vari contesti storici, culturali, nazionali e linguistici, svela un paradosso: più si avverte la discrepanza tra scrittura e azione, cioè più si diventa scettici nei confronti dell’applicabilità delle nozioni esposte nei libri della guerra, più proprio questa tensione diventa il cardine teorico e la caratteristica fondamentale, ossia il paradigma del genere stesso. Come scrive François Jullien nel Trattato dell’efficacia

«ciò che costituisce la guerra è appunto la distanza inevitabile che il reale assume in essa rispetto al suo modello: pensare la guerra, insomma, significa pensare come essa è portata a tradire il suo concetto» 4 .

1 M. Formisano, «La tradizione dell’arte della guerra antica nel rinascimento», in Guido

Beltramini (cur.), andrea Palladio e l’architettura della battaglia con le illustrazioni inedite alle storie di Polibio, Venezia, Marsilio, 2009 pp.226-239; Id., «Stuck in Panduria.

Books and War», in Id. e Hartmut Böhme (Eds.), War in Words. transformations of War from antiquity to Clausewitz, Berlin, De Gruyter, 2012, pp. 1-12. 2 M. Formisano, Vegezio. arte della guerra romana, Milano, Rizzoli 2003. M.D. Reeve, Vegetius. epitoma rei Militaris, Oxford U. P., 2004. 3 M. Formisano, «Kriegskunst», in M. Landfester (Hg.), Der Neue Pauly. Supplementband renaissance-Humanismus, Darmstadt, WBG, 2014. 4 F. Jullien, Trattato dell’efficacia, Torino, Einaudi, 1998, p. 15.

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Se si osserva l’arte della guerra da questa prospettiva, ci si renderà subito conto di quanto non solo superflua ma anche fuorviante sia la domanda tipicamente posta da moltissimi studiosi di varie epoche se i trattati militari fossero davvero applicabili nel campo di battaglia.

Come dicevamo sopra, il paradosso generato dall’arte della guerra è la problematizzazione della propria stessa essenza argomentativa, la quale si manifesta come una tensione tra speculazione teorica ed esigenze praticoapplicative. Una tale tensione si rende particolarmente visibile proprio nei momenti in cui ci si appresta ad una riforma del sistema militare. Werner Hahlweg in un articolo sulla Heeresreform degli Orange ha commentato questo punto con estrema chiarezza: «La connessione tra ristrutturazioni o riforme in ambito militare e la questione del rapporto tra teoria e prassi è fondamentalmente stretta, e persino originaria al fenomeno stesso»5 .

Ma, come si ricordava prima, il discorso della guerra è sorprendentemente povero di turning points decisivi. La così detta military revolution rappresenta senz’altro, per quanto dibattuti e controversi restino alcuni suoi aspetti, uno dei pochissimi punti di svolta nella storia della guerra in occidente. Alla riforma militare che ha avuto luogo tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo nei Paesi Bassi, soprattutto a opera di Moritz von Oranien, Wilhelm Ludwig von Nassau e Johann der Mittlere von NassauSiegen, va attribuito il ruolo di preludio della nuova fase, che verrà a posteriori definita rivoluzione militare. Il termine ha origine, come è noto, da un breve studio del 1956 di Michael Roberts 6. Con esso lo storico britannico, che si concentrava sugli effetti della Heeresreform in Svezia sotto Gustavo II Adolfo nella prima metà del XVII secolo, definiva soprattutto la ristrutturazione dell’esercito e le riforme in campo tattico, che esigevano una preparazione costante dei soldati. In breve, i punti più importanti su cui si concentrava Roberts erano la crescita numerica dell’esercito, l’innalzamento delle tasse dovuto ai nuovi costi degli eserciti, la standardizzazione delle armi, la maggiore coordinazione tra cavalleria e fanteria e il sorgere delle accademie militari e del relativo sviluppo di un sistema didattico

5 W. Hahlweg, «Umformungen im Militärwesen und das Verhältnis von Theorie und Praxis», in Wehrwissenschaftliche rundschau 19. Jg., 1969, p. 182. 6 M. Roberts, the Military revolution, 1560–1660, Belfast, rist. con revisone in essays in

Swedish History, Londra, 1967.

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adeguato. Dopo Roberts, Geoffrey Parker riprese il concetto di military revolution, modificandolo in alcuni aspetti essenziali, insistendo non solo sulle innovazioni in campo tattico e tecnologico, come l’artiglieria, ma dando rilievo alle modifiche dell’intero sistema della guerra avvenute tra la fine del Medioevo e la prima età moderna7 .

Soprattutto, Parker si concentrava sul nuovo stile delle fortezze (trace italienne), così come costruite in Italia già dalla metà del XV secolo e che successivamente si diffusero anche in Spagna, Francia e Paesi Bassi, relativizzando così il ruolo centrale attribuito alla riforma degli Orange da Roberts. Lo storico della tecnica Bert Hall, generalmente critico nella tesi della military revolution così come formulata da Parker e altri, farà riferimento proprio alla trace italienne per dimostrare come essa più che testimoniare un evento rivoluzionario fosse in realtà una sorta di restaurazione del passato: «La ‘rivoluzione militare’ fu preceduta da una ‘restaurazione militare’, un ritorno ai modelli antichi basato su una tecnica nuova»8. Un altro punto, a cui Parker dedicava attenzione è il processo di matematizzazione dell’arte della guerra, accompagnato e sostenuto dal vero e proprio boom editoriale dei trattati militari9. Tuttavia, come rileva Schwager, Parker non ha valutato in modo sistematico la massiccia produzione di testi militari, che egli tende a considerare più semplicemente come funzionali alla formazione dei soldati nelle accademie militari10. L’approccio di Parker non è affatto isolato; i trattati militari antichi e moderni non vengono dagli studiosi ‘presi sul serio’ in quanto testi11 ma semmai come strumenti, per lo più inutili e fallimentari dal punto di vista pratico.

Per tornare alla Heeresreform, gli autori antichi vi ebbero un ruolo centralissimo. Nella prima accademia militare, fondata a Siegen nel 1617 da Johann von Nassau-Dillemburg, gli studenti erano obbligati a leggere Eliano, Leone di Bisanzio, Polibio e, ça va sans dire, Vegezio da un

7 G. Parker, the Military revolution, Cambridge University Press 1988. 8 B. Hall, Weapons and Warfare in renaissance europe, Baltimora, John Hopkins U. P., 1997, p. 212. 9 R. Hale, renaissance War Studies, London, The Hambledon Press, 1983. 10 T. Schwager, op. cit., pp. 40 e 47. 11 M. Formisano, «The Strategikós of Onasander. Taking Military Texts ‘Seriously», in technai 2, 2011, pp. 57-70.

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lato, e Machiavelli, Patrizi, Savorgnan e altri dall’altro, autori moderni che esplicitamente si rifacevano senza alcuna riserva alla tradizione antica dell’arte della guerra12. Moritz von Oranien nel tracciare il programma della riforma applicò i concetti sviluppati dal filosofo neo-stoico Giusto Lipsio, autore del De militia romana (1595) e del Poliorketikon sive de machinis, tormentis, telis (1596) e Johann der Mittlere von Nassau-Siegen compose lui stesso un Kriegsbuch, totalmente ispirato all’arte della guerra antica13. Come primo direttore dell’accademia militare di Siegen fu nominato Johann Jacobi-Tautphoeus von Wallhausen. Wallhausen era un erudito che al momento della nomina aveva già pubblicato alcuni trattati militari e tradotto alcuni classici militari antichi in tedesco e in francese. Su Wallhausen si tornerà dopo. Intanto è importante sottolineare che l’antichità assunse un ruolo chiave nella riforma degli Orange, che venne così presentata come una sorta di rinascimento dell’arte della guerra antica. Il discorso che affiora dal genere letterario ‘arte della guerra’ si delinea così come un sapere in tensione non solo tra teoria e pratica, ma anche tra antichità e presente e, infine, tra letteratura e tecnica. Lo schema qui tracciato propone una visualizzazione di tale complessa costruzione argomentativa:

teorIa \ / PrassI

exemPlum-norma antIChItà / \ Presente

Al centro si trovano l’esempio e la norma, l’uno genera l’altra. Attorno a questi due concetti se ne raggruppano altri quattro, la teoria e la pratica, l’antichità e il presente. Teoria e pratica hanno uno stretto rapporto con il concetto di norma, mentre antichità e presente trovano nell’exemplum il loro trait d’union. Norma ed esempio si trovano a loro volta connessi tra di loro così che l’una costruisce l’altro.

L’antichità diviene quindi nel discorso della guerra, abbastanza sorprendentemente, il paradigma assoluto dell’azione presente. Essa, forse per l’ultima volta nella storia della cultura occidentale, offre regole sempre

12 Vedi W. Hahlweg, Die Heeresreform der oranier und die antike, Osnabrück, Biblio Verlag 1987 (Berlino 1941); V. Ilari, art. cit.; T. Schwager, op. cit. 13 V. l’edizione curata da W. Hahlweg, Die Heeresreform der oranier. Das Kriegsbuch des

Grafen Johann von Nassau Siegen, Wiesbaden, Selbstverl. der Historischen Kommission für Nassau, 1973.

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valide anche per la pratica e la realtà del campo di battaglia. Alcuni storici hanno argomentato come i riformatori olandesi ricorressero ai trattati antichi e alle norme in essi contenute ai fini dell’applicazione extratestuale. Secondo Hahlweg, i padri della Heeresrefom avrebbero avuto uno spiccato senso della realtà e di ciò che è veramente possibile e, pertanto, sarebbero stati ben lontani dalle avventure della speculazione teorica e poco attratti dal pensiero sistematico, scisso dalla realtà concreta 14. Per quanto attraente, questa tesi va ridimensionata, forse persino contestata, se si considera per esempio quanto altri studiosi osservano a proposito della ricostruzione di guerre e battaglie, antiche e moderne, attraverso i trattati militari. L’arte della guerra mostra di essere una fonte poco fededegna proprio perché non offre che una visione letteraria del fenomeno, pertanto distorta e ben lontana dalla realtà. Chiunque abbia una qualche familiarità con la bibliografia relativa all’arte della guerra, vedrà che è pienamente accettata l’opinione che i trattati militari riproducano solo una rappresentazione ideale e intellettuale della guerra, non la sua realtà. Si citi qui un unico esempio tratto dal peraltro eccellente volume di David Parrott, richelieu’s army :

«Trattati militari di tal sorta possono fornire informazioni utili per la guerra contemporanea, ma sarebbe fuorviante considerare le prescrizioni teoriche, e spesso impraticabili, in essi contenute come un resoconto reale di una realtà militare più cruda e molto più complessa» 15 .

Parrot pone la questione se l’ambizione degli Orange di derivare la propria riforma dai testi antichi non fosse in realtà solo un «rhetorical exercise», il cui scopo era quello di convincere il pubblico di lettori pronti a seguire l’autorità della tradizione classica e soprattutto dell’eccellenza marziale di Roma16. La questione tuttavia è ben più complessa e risulta alquanto riduttivo attribuire ai trattati antichi e antichizzanti unicamente una funzione retorico-persuasiva, efficace solo perché asseconda le mode classicistiche dell’età moderna.

Come dicevo, l’argomentazione di Parrott a proposito dei trattati militari si trova, mutatis mutandis, presso molti altri storici sia del mondo antico sia dell’età moderna. Nella maggior parte dei casi l’arte della guerra

14 W. Hahlweg, art. cit., p. 183. 15 D. Parrott, richelieu’s army, Cambridge U. P., 2001, p. 24. 16 ibidem, p. 25.

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non viene presa sul serio nella sua dimensione propriamente testuale e letteraria, motivo per il quale la si fraintende quando si vuole valutare il suo peso nel processo delle varie riforme o rivoluzioni militari. Essa in realtà contiene al suo interno la risposta stessa al quesito proprio in quanto ha elaborato un concetto di guerra che, nonostante tutte le possibili innovazioni tecnologiche, regge come un nocciolo duro, forse persino anche dopo Clausewitz, il pensiero militare occidentale.

Come si diceva, l’arte della guerra (come genere letterario) comincia con Vegezio proprio perché nel suo testo si trovano gran parte delle strutture argomentative sulle quali si imperniano i trattati militari successivi. Molto brevemente: l’epitoma ha il compito di lanciare una riforma degli eserciti romani tardoimperiali proprio attraverso la stretta connessione al passato. Tale riferimento all’antichità, va sottolineato, è annunciato già dal titolo stesso che indica come l’opera sia una ‘epitome’ della tradizione militare romana. Vegezio ricorre a eventi esemplari e a norme, che riformula all’interno di una nuova cornice teorica e argomentativa. Se i materiali stessi non sono nuovi, nuova è la loro riorganizzazione e il metodo di presentazione. Vegezio intende la sua opera come una contromisura contro il disfacimento della res militaris del periodo in cui visse, l’età tardoantica. La disciplina delle armi sarebbe stata trascurata a causa di una dannosa negligentia causata a sua volta da una pace troppo lunga, durante la quale non si reputò più necessario reclutare le leve e disporre gli eserciti (1, 28, 6). Ma questa situazione, continua Vegezio, non è nuova, già nel passato si era periodicamente verificato che la disciplina militare venisse tralasciata. A questo danno gli antichi romani trovarono un rimedio: ritrovare nei libri di storia le rette norme da seguire ad uso dei generali sul campo di battaglia (3, 10, 17-18). Seguendo questo principio, Vegezio stesso vuol quindi offrire un insieme di regole che provengono dalla lettura di antichi testi.

Egli, come primo autore di una lunghissima tradizione, stabilisce che le qualità militari vanno dedotte dai libri, contenenti exempla sempre validi e applicabili in analoghe circostanze future. Vegezio, proprio come i riformatori olandesi dodici secoli più tardi, introduce la riforma basandola sulla restaurazione di antichi modelli. Egli crea una struttura argomentativa e uno maniera di concepire la res militaris che resteranno invariate nei secoli. exemplum e norma divengono i concetti chiave del discorso della guerra: gli exempla vengono evocati dalla tradizione letteraria per stabi-

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lirsi in norma, modelli sempiterni per l’azione e criteri tecnico-strategici. Gli exempla vengono privati della loro storicità, diventando così argomenti la cui validità e forza normativa non viene mai meno. E a Vegezio va attribuita un altro argomento, destinato a una fortuna ininterrotta: la preminenza della disciplina, cioè dell’esercizio continuo e disciplinato, sulla pura quantità (numerus) (1, 1, 1). L’epitoma rappresenta così il libro della guerra per eccellenza a cui ogni soldato deve ricorrere per raggiungere il successo, e non solo a causa del suo contenuto ma anche, è bene ricordarlo, per la sua struttura argomentativa e per la sua forma-epitome.

Come per qualsiasi altro autore antico, così anche per Vegezio, per comprenderlo a fondo si deve considerare la sua ricezione, i modi cioè secondo i quali il suo testo è stato letto, interpretato e usato nelle epoche successive alla sua produzione. Sarebbe impossibile, in queste poche pagine, dare anche solo un’idea del vastissimo Nachleben vegeziano 17, desidero tuttavia soffermarmi brevemente su Wallhausen, proprio perché i suoi scritti sono tradizionalmente considerati tra le fonti principali ispiratrici della Heeresreform. Non è qui il caso di elencare tutti i suoi scritti (si veda da ultimo Schwager 2012, 262-280), si ricordino almeno alphabetum pro tyrone Pedestri (Francoforte 1615), Programma Scholae Militaris (Francoforte 1616) e romanische Kriegskunst, tradotto in francese come la milice romaine (Francoforte 1616), che contiene una traduzione di Vegezio, e Camera militaris oder Kriegskunst Schatzkammer (Frankfurt 1621).

Come messo in evidenza da Schwager, Wallhausen intende rivalorizzare l’arte della guerra partendo dai suoi presupposti di sistematica del sapere e di antiquaria, tipici dell’epitoma, opponendosi così alla prospettiva di Lipsio, il quale invece, concentrando le sue critiche proprio sull’approccio elaborato da Vegezio, rivolgeva attenzione a Polibio come fonte massima per l’arte militare antica. Il Vegezio letto e ‘prodotto’ da Wallhausen viene aggiornato da un lato sulla base delle aspirazioni pragmatiche, tipiche delle argomentazioni della riforma, dall’altro sul processo di scientifizzazione

17 Si vedano P. Richardot, Végèce et la culture militaire au moyen âge, Economica, Paris 1998 e C. Allmand, the ‘De re Militari’ of Vegetius. the reception, transmission and legacy of a roman text in the Middle ages, Cambridge University Press, 2011. (recensito da M. Formisano, Bryn Mawr Classical review 2012.11.59).

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dell’arte della guerra18. Nella sua traduzione di Vegezio, Wallhausen critica apertamente l’umanista olandese, per non avere trovato la giusta chiave di lettura per intendere Vegezio. Una tale chiave, proprio per non essere stata usata per lunghissimo tempo, si è arrugginita cadendo in disuso19. Il compito di Wallhausen è proprio quella di ristabilire la validità del testo tardoantico, proprio perché esso oppone la didassi sistematica alla narratività esemplare degli storici, come Livio e Polibio. I soldati, soprattutto le leve, si ingannano se credono di potere fare bene il loro mestiere senza avere prima ricercato nei libri le gesta di greci, lacedemoni e romani20 . Secondo Schwager, ciò che in Vegezio attraeva l’attenzione dell’erudito tedesco era proprio l’approccio sistematico ed enciclopedico all’arte della guerra in quanto esso forniva una scienza militare fatta di strumenti pronti a uscire dai libri per essere direttamente applicati nella realtà extratestuale. L’approccio che si evince dagli storiografi antichi, privilegiato da Lipsio e altri teorici della guerra, offriva di contro un catalogo di pur ottimi exempla concentrato sui grands faicts, cioè sugli eventi decisivi, ma non sui mezzi stessi (moyens) dell’arte della guerra21. L’intento di Wallhausen era di fornire una compilazione e una sintesi del sapere sulla guerra, e Vegezio offriva in questo caso un modello eccellente.

Da un certo punto di vista, Schwager ben individua i termini del dibattito tra Wallhausen-Vegezio e Lipsio-Polibio. Tuttavia, se prestiamo attenzione al testo dell’epitoma stesso, ci si renderà conto della circolarità, che definirei inattaccabile, delle argomentazioni vegeziane, che propongono uno schema predisposto per non essere mai veramente superato e sovvertito. Ciò che è stato affermato da qualcuno, a proposito del «trionfo della mediocrità» di Vegezio22, definendo così con inutile sarcasmo l’incredibile fortuna dell’epitoma attraverso i secoli, non può che essere contraddetto proprio sulla base della ricezione. L’aspetto del testo che più sorprende, e qui sta la chiave del suo successo, sta nell’a-temporalità, tutta tardoantica,

18 T. Schwager, op. cit., pp. 266-267. 19 ibidem, 268. 20 ibidem, 264-265. 21 ibidem, p. 271 22 S. Anglo, «Vegetius’ de re militari. The Triumph of Mediocrity», in the antiquaries Journal 82, 2002, pp. 247-269.

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delle argomentazioni, e nella loro circolarità, in grado non solo di istituire il discorso della guerra e di fondare il genere ‘arte della guerra’ ma anche, paradossalmente, di divenire il testo fondamentale a cui rifarsi proprio ai fini del rinnovamento delle strutture militari. Il metodo di Wallhausen, e di tanti altri autori, il Machiavelli dell’arte della Guerra compreso23, adottavano un approccio al modello tardoantico che va ben al di là di uno ‘spiegare Vegezio con Vegezio’, come pure si potrebbe dire. Essi seguendo la via indicata dall’epitoma, fondavano la pratica sui libri antichi, tra i quali ovviamente quello di Vegezio spiccava per chiarezza e per l’immutata autorità conferitagli nei secoli. Concludendo, ho cercato qui di dare voce a un’altra tensione, quella che emerge dal genere letterario ‘arte della guerra’, soprattutto come formalizzato da Vegezio e dalla sua lunghissima tradizione. La voce del testo non è opposta a quella storicistica, ma la completa dal punto di vista della letteratura, che non è storia né tecnica né politica né altro. Il testo è sempre dotato di un proprio linguaggio che gli è proprio, e anche qualora esso tratti una materia storica o tecnica, esprimerà un punto di vista che non sarà mai riducibile a quella stessa materia, ma che di questa stessa materia offrirà una visione e un’interpretazione, che pur essendo altre, potranno illuminare in modo diverso ma con grande profitto la realtà storica.

23 M. Formisano, «Strategie da manuale. Vegezio, Machiavelli e l’arte della guerra», in Quaderni di Storia 55, 2002, pp. 99-128.

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