LA RIVISTA DEL DIGITALE NEI BENI CULTURALI

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Numero 0 - 2005

Rivista del digitale nei beni culturali

ICCU-ROMA


ICCU Istituto centrale per il catalogo unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche www.iccu.sbn.it

Copyright Š 2005 ICCU - Roma La riproduzione totale o parziale del contenuto della rivista è ammessa con obbligo di citazione


Rivista del digitale nei beni culturali Numero 0 - Dicembre 2005 In copertina: L’immagine è una libera elaborazione grafica della testa della statua di Apollo del I sec. d.c. (Civitavecchia, Museo Nazionale), copia da un originale greco avvicinabile all’Apollo di Leochares (IV sec. a.c.)

Direttore Responsabile Marco Paoli Comitato di Redazione Anna Maria Maiorano Mandillo (coordinatore) Giovanni Bergamin Simonetta Buttò Eva Gilmore Andrea Giuliano Cristina Magliano Alessandra Ruggiero Mario Sebastiani Vittoria Tola Varo Augusto Vecchiarelli Segreteria Antonella Corradi Lucia Basile Federico Circi Impaginazione ed editing R&R di Roberta Micchi PostScriptum di Paola Urbani Produzione e Stampa Futura Grafica 70 s.r.l. Via Anicio Paolino, 21 - 00178 Roma Editore ICCU - Roma Istituto centrale per il catalogo unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche Viale Castro Pretorio, 105 00185 Roma T +39 06 49.89.484 F +39 06 49.59.302 www.iccu.sbn.it In attesa di registrazione al Tribunale di Roma


ICCU

Comitato Scientifico Osvaldo Avallone Armida Batori Rossella Caffo Michele Ciliberto Gabriella Contardi Flavia Cristiano Gianfranco Crupi Gisella De Caro Maurizio Fallace Gigliola Fioravanti Antonia Ida Fontana Paolo Galluzzi Daniela Grana Tullio Gregory Maria Guercio Mauro Guerrini Hans Hofman Salvatore Italia Claudia Leoncini Claudio Leonardi Franco Lotti Cristina Magliano

Anna Maria Maiorano Mandillo Massimo Menna Maurizio Messina Massimo Pistacchi Amedeo Quondam Antonia Pasqua Recchia Aldo G. Ricci Seamus Ross Padre Stefano Russo Maria Rita Sanzi Di Mino Luciano Scala Salvatore Settis Giuliana Sgambati Giovanni Solimine Maria Carla Sotgiu Laura Tallandini Anna Maria Tammaro Costantino Thanos Paul Weston


SOMM ARIO dicembre 2005

Introduzione del prof. Salvatore Italia

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Prefazione del dott. Luciano Scala

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SAGGI Editoriale. Ragioni della Rivista di Marco Paoli

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Che cos’è una biblioteca digitale? di Anna Maria Tammaro

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Introduzione

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1. Definizioni di biblioteca digitale 1.1 Definizioni internazionali di biblioteca digitale 1.2 Definizioni di biblioteca digitale in Italia

2. La biblioteca digitale è una biblioteca? 2.1 Biblioteca digitale o biblioteche digitali?

3. Ruolo della biblioteca digitale 4. Elementi centrali della biblioteca digitale 4.1 Biblioteca digitale: con o senza bibliotecari? Lo standard nazionale dei metadati gestionali amministrativi di Cristina Magliano

1. Il contesto 2. Funzionalità dei metadati 3. I modelli logici 4. Lo standard MAG Diritto d’autore e nuovi servizi al pubblico di Anna Maria Mandillo

Lo scenario del diritto d’autore nella società dell’informazione La legislazione italiana e i riferimenti internazionali Le modifiche alla legge 633 L’evoluzione della legislazione italiana Conclusioni

Identificatori persistenti per gli ogetti digitali di Mario Sebastiani

Identificare opere a stampa e testi elettronici: le differenze Il name-system di Internet è il Domain Name System (DNS)

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Gli standard URI, URL, URN

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Identificatori basati sul DNS: 1) il Persistent uniform Locator (PURL)

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Identificatori basati sul DNS: 2) l’Archival Resource Key (ARK) Il Digital Object Identifier (DOI)

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L’identificazione persistente è un problema di Internet Governance

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Un name-system alternativo al DNS: lo Handle System

PROGETTI I progetti di digitalizzazione della biblioteca digitale italiana di Marco Paoli

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Le attività e i progetti di digitalizzazione nell’amministrazione archivistica di Daniela Grana

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L’utilizzo della digitalizzazione nell’ICCD: stato dell’arte e prospettive di Elena Berardi e Clemente Marsicola Supervisione di Maria Rita Sanzi Di Mino

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Tra ricerca e catalogo: un nuovo software per la descrizione dei manoscritti in Germania di Gigliola Barbero

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Formazione e ricerca per la conservazione digitale: La Scuola estiva di Delos di Maria Guercio

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Progetti di digitalizzazione nella Regione Veneto: bilancio e prospettive di Lorena Dal Poz

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DOCUMENTI La Dichiarazione sull’avvio e lo sviluppo di procedure di deposito volontario delle pubblicazione elettroniche di Antonia Ida Fontana Traduzione a cura di Clara Ronga

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EVENTI Convegno su: «Gli attuali supporti di conservazione ottici e magnetici per i documenti digitali» di Vittoria Tola Convegno su: «New Tools and New Library Practices» di Eva Gilmore

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SEGNALAZIONI La norma ISO per i file PDF di Alessandra Ruggiero

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a rivoluzione digitale rappresenta una straordinaria opportunità di informazione, condivisione della conoscenza, crescita culturale. La possibilità di trasferire in forma digitale ogni tipologia di contenuto e la diffusione delle reti di comunicazione elettronica permettono a un numero infinito di persone, situate in ogni parte del mondo di consultare un libro, di ascoltare un brano musicale, di accedere alle raccolte di un museo. Fin dal 1993 l’Unesco (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura), con il progetto «Memorie del mondo», ha sollecitato i governi a intraprendere azioni positive per conservare il patrimonio culturale mondiale. Nel 2003 ha stilato una Carta per la salvaguardia del patrimonio culturale digitale, riconoscendone così l’importanza per la tutela della memoria e della stessa identità delle nostre civiltà. Dalla sua istituzione l’ICCU (Istituto centrale per il catalogo unico delle biblioteche italiane) ha avuto tra i suoi compiti principali il coordinamento e la promozione di tutti gli strumenti atti all’unificazione e alla standardizzazione dei metodi per la catalogazione e la localizzazione dei documenti. Il risultato più significativo di tale attività è il Servizio Bibliotecario Nazionale (SBN), che ha reso identificabile e accessibile il patrimonio bibliografico italiano.

L

Con l’avvio della Biblioteca Digitale Italiana e la costruzione del portale Internet Culturale il servizio di reference di SBN viene incrementato dalla possibilità di accedere agli oggetti digitali correlati. La creazione e la conservazione di tali oggetti rappresenta quindi la nuova sfida che l’Istituto si trova ad affrontare. La digitalizzazione, nell’ambito dei beni culturali, è ormai un obiettivo essenziale per garantire la conservazione degli originali dall’usura dell’uso e per potenziare la ricerca e la fruizione grazie all’integrazione dei diversi elementi del documento: testo, immagini, suoni, nonché l’interconnessione con tutti i metadati afferenti. Il potenziamento della capacità di comunicare la conoscenza nel mondo è altresì correlato alla possibilità di produrre ed estrarre automaticamente i metadati, sia dai supporti born-digital sia dai supporti analogici trasferiti su file digitali, che consentono la realizzazione di strumenti di accesso e ricerca con relativo dispendio di risorse umane. L’elevato numero di documenti oggi disponibili, la diffusa progettualità delle Istituzioni culturali, costituiscono la base di una esperienza preziosa e proficua per la Pubblica Amministrazione nella quale tuttavia non bisogna sottacere alcuni elementi di criticità, che inducono l’Amministrazione a un’operatività basata sulla condivisione degli indirizzi e su standard uniformi. Basti pensare all’obsolescenza della memoria informatica che, ai danni meccanici, fisici, biologici, non diversamente da quanto accade ai supporti tradizionali, unisce il rischio legato al rapido avvicendamento di programmi e di elaboratori, tanto che non si è più in grado di accedere ai dati archiviati con sistemi precedenti, e alla volatilità del formato file, il cui recupero dipende dall’organizzazione logica del sistema. Basta un piccolo danno in questa organizzazione che viene compromesso tutto il contenuto del documento.


Va inoltre evidenziata l’esigenza di equilibrare gli standard tecnici e tecnologici a questioni correlate di natura normativa. Si pensi ai problemi legislativi e amministrativi quali: la gestione del diritto d’autore, il rispetto delle norme sulla riservatezza, la garanzia della autenticità dei contenuti, il deposito legale delle pubblicazioni elettroniche. Ancora non siamo in possesso di standard nazionali e internazionali che diano delle direttive univoche come è avvenuto nel passato per gli standard catalografici, con l’aggravante che la rapidità dei mutamenti tecnologici impone altrettanta rapidità di scelta e di decisione in un contesto che procede ancora per molti aspetti a due velocità, con punte di eccellenza e situazioni di arretratezza informatica. Ben venga quindi una pubblicazione che si proponga l’obiettivo di ospitare contributi italiani e stranieri sullo stato dell’arte della digitalizzazione, favorendo lo scambio di informazioni sul piano tecnico, gestionale, organizzativo e giuridico. «Digitalia, Rivista del digitale nei beni culturali», si propone questo obiettivo: riunire in un unico luogo di informazione, riflessione, discussione, tutte le problematiche specifiche della digitalizzazione dei beni culturali. Nelle intenzioni dei promotori si tratta di uno strumento non solo di confronto teorico, ma di chiarimento per alcuni aspetti delle attività dell’Istituto e di indirizzo per quanti, tecnici, funzionari, amministrativi dello Stato, degli Enti locali, delle Università, degli Istituti di ricerca operano nel campo della digitalizzazione dei beni culturali. L’iniziativa attuale è idealmente il proseguimento dell’impegno assunto dall’ICCU nel convegno internazionale di Firenze nel 2003 “Futuro delle memorie digitali e patrimonio culturale”, che ha visto riuniti i principali esperti e protagonisti del settore di tutto il mondo e dato un contributo fondamentale alla definizione dei termini del dibattito e delle prospettive di intervento nell’ambito dei Beni Librari e di tutto il patrimonio culturale, data la trasversalità che tali tematiche rivestono nell’ambito della conservazione, fruizione e gestione delle risorse digitali.

Prof. Salvatore Italia Capo Dipartimento Archivi e Biblioteche


u ando se proclamó que la Biblioteca abarcaba todos los libros, la primera impresión fue de extravagante felicidad». La biblioteca infinita immaginata da Jorge Luis Borges, capace di contenere tutti i libri, non cessa di alimentare una plurisecolare mitologia, fondata sull’aspirazione a erigere il monumento dei monumenti alla cultura umana, realizzando la trascrizione scritta e integrale del mondo, l’enciclopedia totale che in luogo delle pagine rechi libri. La «stravagante felicità» che l’appassionato bibliofilo o, a maggior ragione, il bibliotecario vocato e istruito alla catalogazione dello scibile umano aspira a provare sembra oggi più vicina a essere attinta.

«C

L’impiego sempre più massiccio e affinato delle moderne risorse tecnologiche basate sugli sviluppi dell’informatica e dell’elettronica ha posto in essere da più di un decennio nel nostro paese le basi per una trasformazione radicale e un possibile salto di qualità nella realizzazione di sistemi di automazione di biblioteca e nella loro interconnessione in rete, col fine principale di rendere disponibili all’utenza collegata l’accesso alle informazioni bibliografiche. D’altra parte, il Servizio Bibliotecario Nazionale (SBN), la rete informatica delle biblioteche italiane coordinate dall’Istituto Centrale per il Catalogo Unico (ICCU), è cresciuto e si è potenziato; l’attività dell’ICCU si è estesa al coordinamento di iniziative di digitalizzazione di patrimoni testuali, iconografici, musicali sempre più vasti. Il documento digitale acquista una fisionomia e una valenza nuove. L’immagine della biblioteca infinita, fatta di bit e ricamata sul codice binario, sembra prendere contorni meno sfumati. Il virtuale come dimensione dell’essere è però un luogo vero, ancora largamente inesplorato, e non un non luogo utopico, immune dalla contraddizione e dall’attrito con la realtà. Ogni luogo ha leggi che ne definiscono gerarchie, organizzazione, tempi. Ogni luogo non ancora battuto palmo a palmo presenta, a macchie, zone propizie, da lavorare, e zone poco ospitali, da bonificare. Così è nel dominio virtuale comprendente l’insieme dei nuovi servizi digitali che l’ICCU e la Direzione generale per i Beni Librari e gli Istituti Culturali sviluppano attraverso SBN, attraverso il progetto della Biblioteca Digitale Italiana e utilizzando il portale Internet Culturale (http://www.internetculturale.it). L’acquisizione in progress – e comunque non pacifica – degli standard di interoperabilità di dati e metadati digitali; la questione decisiva della conservazione a lungo termine delle memorie digitali (digital preservation); il tema delicato e controverso della gestione dei diritti digitali sono tre degli importanti territori soltanto in parte esplorati che pongono problemi di conoscenza, gestione, coordinamento tecnicoscientifico e politico a chi operi in questo campo. Sono sicuro che a Dig Italia , l’originale iniziativa editoriale ora proposta dall’ICCU, sotto la direzione di Marco Paoli, non mancherà l’ambizione di affrontare di petto tali grandi questioni e tutte le altre collegate, mettendosi a dispo-


sizione, come strumento di dibattito e di confronto, non solo di chi opera nell’ambito dell’ICCU, ma di studiosi ed esperti di contenuti digitali nell’ambito dei beni culturali, delle Università, degli Istituti di ricerca, e di funzionari e tecnici degli Enti locali e dello Stato. Buon lavoro a DigItalia, auguri per una possibile futura «extravagante felicidad».

Dott. Luciano Scala Direttore per i Beni Librari e gli Istituti Culturali


Saggi



Editoriale

Ragioni della Rivista

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ono ormai alcuni anni che i due periodici dell’ICCU, «SBN Notizie» e «Il Corsivo» sono cessati. Il primo, diffuso dal 1989 al 2001, costituiva uno strumento di informazione sull’avanzamento del progetto del Servizio Bibliotecario Nazionale, il secondo, pubblicato dal 1982 al 1999, si proponeva come notiziario del Censimento Nazionale delle Edizioni Italiane del XVI secolo. Era dunque avvertita da tempo l’esigenza di riprendere la pubblicazione di un organo dell’Istituto, che avesse la funzione di rendere note all’esterno alcune rilevanti attività dell’ICCU. Ma «DigItalia» non si pone solo l’intento di garantire un nuovo flusso di informazioni che si apra ovviamente anche a contributi esterni all’Istituto. Il sottotitolo «Rivista del digitale nei beni culturali» dichiara in effetti la volontà di contribuire a colmare un vuoto nel campo dell’editoria periodica specializzata in Italia, individuando come obiettivo primario lo studio e il dibattito critico sulle tematiche dell’applicazione delle tecnologie digitali alle varie tipologie del patrimonio culturale. Puntare l’attenzione su una procedura di archiviazione e di pubblicazione sulla rete web di dati relativi ai beni culturali, di grande efficacia in termini di resa virtuale e di comunicazione, impone al periodico di non operare distinzioni rigidamente settoriali, ma di prendere in considerazione le differenti categorie del patrimonio culturale, oggetto via via di specifici approfondimenti teorici di progetti dedicati. Ne consegue il coinvolgimento di specialisti afferenti a diversi ambiti, come peraltro è attestato dalle diverse componenti del Comitato scientifico, nonché la distribuzione del periodico a Biblioteche, Archivi e Musei. Varie anche le tematiche affrontate, tutte trasversalmente connesse al digitale: la configurazione dei metadati, la problematica della digital preservation, il progredire delle tecnologie, la gestione di diritti digitali, e altre ancora. La rivista potrà contare, oltreché su uno spazio fisso destinato ai saggi, su sezioni variabili, ora contenenti relazioni su progetti di digitalizzazione (italiani, europei, extraeuropei), ora resoconti su eventi significativi, ora documenti redatti da organismi nazionali o internazionali, eventualmente tradotti, ora recensioni e segnalazioni. «DigItalia» sarà pubblicata in due versioni: una cartacea con cadenza semestrale (il numero 1 uscirà entro giugno 2006), e una elettronica, in fase di progettazione. Un sentito ringraziamento a coloro che hanno creduto nell’iniziativa fin dal manifestarsi della prima idea: al prof. Salvatore Italia, Capo dipartimento Archivi e Biblioteche, al dott. Luciano Scala, Direttore Generale per i Beni Librari e gli Istituti Culturali, ai membri del Comitato scientifico e del Comitato di redazione. Marco Paoli Direttore ICCU 13


Saggi

Che cos’è una biblioteca digitale? Anna Maria Tammaro Università di Parma

Introduzione

V

iviamo in un’era tecnologica e in particolare in un periodo dominato dalla tecnologia digitale. Per molti, la tecnologia digitale sembra avere il potere di realizzare ogni nostro desiderio, migliorare la nostra vita, moltiplicare le nostre possibilità e anche trasformare la società in cui viviamo, che diventa la Società dell’informazione o della Conoscenza, fino a ridisegnare il corso della storia. Per altri invece, la tecnologia digitale è un fattore di forte discontinuità con un passato che si vorrebbe conservare inalterato o di cui, in ogni caso, si vorrebbero difendere alcuni “valori” che sembra potrebbero andare persi. Le biblioteche digitali si trovano a nascere e a svilupparsi in questo contesto. C’è un filone di pensiero e di idee che le ha anticipate, come previsione che le biblioteche del futuro sarebbero state innovative e differenti nella struttura, nelle procedure, e nelle modalità di accesso per mezzo delle tecnologie. Una prima visione di biblioteca innovativa è quella che persegue l’eterna utopia dell’accesso universale alla conoscenza umana, ripercorrendo antichi miti come quello della Biblioteca di Alessandria o dell’Enciclopedia universale; in questa visione il termine “biblioteca” è una metafora, piuttosto che un servizio. Potremmo citare i nomi di Herbert George Wells (Wells 1937) o, più recentemente, di Paul Levy (Lévy 1998), che osservando gli sviluppi tecnologici, affermano la possibilità che tutto il sapere umano possa essere reso accessibile, senza concentrarlo in un singolo luogo ma in depositi distribuiti in varie parti del mondo. Una seconda visione, a circa metà del XX secolo, dimostra una migliore comprensione dei bisogni di accesso all’informazione delle persone. Il Memex di Vannevar Bush evidenzia la consapevolezza che gli scaffali di una biblioteca non sono più adeguati per raccogliere e conservare una collezione per una ricerca efficace e di supporto alla creazione di nuova conoscenza. Negli anni ’60, Licklider (Licklider 1965) nel suo libro Libraries of the Future anticipa il cambiamento delle biblioteche attraverso l’uso del computer e parla del «procognitive utility net» come servizio di supporto all’apprendimento. Come realizzazione di queste anticipazioni, le biblioteche digitali hanno una storia breve, ma molto discussa. A cominciare dalla definizione di biblioteca digitale, di cui si contano diverse formulazioni, senza che si sia riusciti ad accordarsi su un testo 14


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condiviso (Tennant 1999). Nel frattempo, le tecnologie stanno trasformando le biblioteche che, tuttavia, non sempre capiscono l’ambito digitale e quindi rischiano di perdere coerenza in questo cambiamento. Cosa significa capire la tecnologia, come possiamo capire bene il suo carattere, le sue sollecitazioni, le sue possibili conseguenze? La definizione di biblioteca digitale è una palestra interessante per cominciare ad affrontare il problema dell’impatto delle tecnologie dell’informazione nella società. Una definizione infatti non è un’esercitazione accademica ma invece è essenziale per chiunque voglia realizzare una biblioteca digitale, per chiarirsi la missione e il ruolo della biblioteca digitale insieme alle funzionalità del servizio. Ci si potrebbe chiedere: la biblioteca digitale è una biblioteca? Quale è il ruolo della biblioteca digitale? Quali sono i suoi caratteri fondamentali? E soprattutto, quale è l’impatto possibile della biblioteca digitale nelle persone. Ecco, capire la biblioteca digitale significa proprio saper cogliere tutte le opportunità che le tecnologie possono offrire per dare un servizio migliore alle persone e nello stesso tempo chiarirsi gli ostacoli da rimuovere e le barriere culturali che ancora si frappongono. Questo articolo non ha l’ambizione di proporre una definizione di biblioteca digitale: per questo motivo si è lasciato nel titolo un segno interrogativo. Vuole invece fornire delle riflessioni e del materiale di approfondimento perché gli interessati possano arrivare a una definizione di biblioteca digitale che sia funzionale agli obiettivi che si prefiggono. Ci si limiterà quindi a riportare quello che i protagonisti di questo periodo, cioè gli autori che hanno maggiore autorevolezza nella costruzione del sistema teorico di riferimento della comunità bibliotecaria, dicono circa il concetto di biblioteca digitale, i servizi e gli elementi della biblioteca digitale e la necessaria cooperazione delle biblioteche digitali verso il sistema delle biblioteche digitali. In conclusione, non si potrà non parlare dell’abbattimento di confini tra professioni finora separate, come gli archivisti, i bibliotecari e i curatori dei musei.

1. Definizioni di biblioteca digitale Esistono numerose definizioni di biblioteche digitali nella letteratura 1. Alcune sono state formulate nell’ambito di specifici progetti di realizzazione di biblioteche digitali dagli stessi sviluppatori e quindi sono finalizzate al raggiungimento degli scopi del progetto stesso. Altre sono legate al mondo della ricerca e riflettono le diverse interpretazioni del fenomeno biblioteca digitale. La ricerca sulla biblioteca digitale è un’area di studi in cui si possono individuare diversi approcci: 1

Un vivace confronto delle diverse concezioni di biblioteca digitale dei diversi esperti attivamente coinvolti nella realizzazione delle prime biblioteche digitali si può trovare nell'archivio della lista diglib, raccolte da Terry Kuny: http://www.clir.org/diglib/dldefinition.htm.

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la teoria sociale esamina come la biblioteca digitale sia connessa al contesto sociale di riferimento; la biblioteconomia e la scienza dell’informazione cercano di capire l’organizzazione dell’informazione in ambito digitale e i comportamenti di ricerca di singoli utenti; l’informatica studia le interfacce, la relazione uomo-macchina (HCI - Human Computer Interaction), l’ergonomia e il funzionamento del pensiero cognitivo.

La ricerca sociale sulla biblioteca digitale, in particolare, è un nuovo filone di studio e ha dimostrato che la biblioteca digitale non è solo una nuova tecnologia oppure una nuova modalità di organizzazione di oggetti digitali ma rappresenta un vero cambiamento nelle basi sociali e materiali del lavoro della conoscenza e di come le persone usano e creano prodotti informativi e conoscenza. Si può dire che queste due comunità, quella degli sviluppatori di biblioteche digitali e quella della ricerca, lavorano in modo indipendente l’una dall’altra, così che si possono considerare agli estremi di un continuum (Saracevic 2000). 1.1 Definizioni internazionali di biblioteca digitale Il termine più antico per definire una biblioteca che usa le tecnologie è stato quello di biblioteca elettronica (Electronic Library), termine che ha ormai circa venti anni. La biblioteca elettronica definisce la biblioteca automatizzata che usa ogni tipo di strumentazione elettronica necessaria al suo funzionamento: grossi calcolatori, PC, terminali. La qualificazione “elettronico” si intende per l’attrezzatura usata per la lettura dei dati e non per la caratteristica dei dati usati. In questo senso “elettronico” definisce documenti e servizi inaccessibili senza attrezzature adeguate. La prima definizione di biblioteca digitale è nata nel 1993 e l’autrice è stata Borgman (Borgman 1993; Borgman 1999) che, in un periodo in cui veniva usato solo il termine biblioteca elettronica per definire il concetto, usa invece biblioteca digitale per definire la combinazione di: – un servizio; – un’architettura di rete; – un insieme di risorse informative, incluso banche dati testuali, dati numerici, immagini, documenti sonori e video, eccetera; – un insieme di strumenti per localizzare, recuperare e utilizzare l’informazione recuperata. Una seconda definizione è stata successivamente data da Arms (Arms 2000) che focalizza la necessità della organizzazione e della gestione sia delle collezioni digitali che dei servizi basati su questa. Secondo Arms, la biblioteca digitale è una col16


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lezione di informazioni organizzata insieme ai servizi correlati, dove l’informazione considerata è in formato digitale e i servizi sono accessibili attraverso la rete. Un’altra definizione, introdotta da Oppenheim e Smithson (Oppenheim and Smithson 1999) negli stessi anni, pone l’enfasi nelle tecnologie digitali. Secondo gli autori, una biblioteca digitale è un servizio informativo, in cui tutte le risorse informative sono disponibili in formato digitale e le funzioni di acquisizione, archiviazione, preservazione, recupero e accesso sono realizzate attraverso l’uso di tecnologie digitali. Gli autori, tuttavia, usano anche il termine “biblioteca ibrida” coniato da Rusbridge per definire le attuali biblioteche che, nella transizione al digitale, continueranno ad integrare i servizi tradizionali delle biblioteche con i nuovi servizi. Rusbridge (Rusbridge 1998) con il termine “biblioteca ibrida” vuole indicare la combinazione di tecnologie diverse e diversi supporti informativi per i servizi di una biblioteca in transizione. Secondo Rusbridge la biblioteca ibrida dovrebbe essere «disegnata per mettere insieme tecnologie diverse nel contesto di una biblioteca reale e per cominciare a sperimentare sistemi integrati e servizi sia nell’ambiente elettronico che in quello a stampa». È importante osservare che in inglese hybrid non significa la compresenza di elementi diversi nella stessa realtà, ma invece la trasformazione e la crescita da una specifica realtà a un’altra, in cui anche gli elementi di continuità si trovano a essere completamente rinnovati; la giusta traduzione dovrebbe essere quella di biblioteca in transizione. Il termine “biblioteca ibrida” nel tempo è caduto in disuso per il più diffuso termine di “biblioteca digitale”; tuttavia molte delle attuali biblioteche digitali sono essenzialmente delle biblioteche ibride. Marchionini e Fox (Marchionini and Fox 1999) focalizzano il servizio e dichiarano che la biblioteca digitale nasce in uno spazio informativo dove si trovano quattro dimensioni: – la comunità degli utenti: questo aspetto riguarda le problematiche culturali, sociali, politiche e legislative del contesto socio-culturale che pesantemente condiziona la biblioteca digitale; – la tecnologia: rappresenta il motore della biblioteca digitale, includendo i progressi tecnologici e in particolare il recupero dell’informazione, la multimedialità, le interfaccie e cosi via; – i servizi: sono l’elemento essenziale delle biblioteche digitali attuali e future e dovranno rendere facile soprattutto il servizio di reference, anche con domanderisposte in tempo reale, possibilità di aiuto in linea, corsi di educazione dell’utenza alle capacità informative e infine personalizzazione dei servizi; – i contenuti: includono ogni tipologia di documento e di formato. Tra i primi a usare il termine biblioteca digitale, sono stati alcuni membri della comunità della scienza dell’informazione. Il focus è l’esaustività dei contenuti 17


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accessibili in rete, lasciando all’utente la possibilità (o l’onere) di valutare la qualità dell’informazione raccolta e l’utilità per i suoi bisogni informativi. La biblioteca in questo caso non ha bisogno di intermediari. «Il concetto di biblioteca digitale non è quello di una collezione digitale dotata di strumenti di gestione dell’informazione. È piuttosto uno spazio in cui mettere insieme collezione, servizi e persone a supporto dell’intero ciclo di vita della creazione, uso, preservazione di dati, informazione e conoscenza».2 Questa definizione, che nasce dal mondo della scienza dell’informazione, identifica tre componenti essenziali della biblioteca digitale: la collezione, l’accesso, l’utente, nello spazio virtuale che la biblioteca digitale cerca di organizzare. La comunità bibliotecaria sta anch’essa tentando di trovare un suo posto nella definizione di biblioteca digitale: è per questo che la definizione resta dinamica e suscettibile di continui miglioramenti. Tra le definizioni elaborate in ambito bibliotecario la più rilevante, perché identifica il servizio della biblioteca digitale, e la più diffusa è quella del Digital Libraries Federation (DLF). La Digital Libraries Federation precisa: «Le biblioteche digitali sono organizzazioni che forniscono le risorse, compreso il personale specializzato, per selezionare, organizzare, dare l’accesso intellettuale, interpretare, distribuire, preservare l’integrità e assicurare la persistenza nel tempo delle collezioni digitali così che queste possano essere accessibili prontamente ed economicamente per una comunità definita o per un insieme di comunità».3 La comunità bibliotecaria focalizza i servizi e vede la biblioteca digitale come estensione e/o come aggiunta di nuovi servizi delle biblioteche nella Società dell’informazione. Estensione dei servizi, dal punto di vista dei bibliotecari, significa migliorare i servizi esistenti e ampliare le risorse informative attuali, ad esempio avviare il servizio di reference digitale attraverso Internet, oppure usare le risorse informative disponibili liberamente in Internet per rispondere alle richieste degli utenti. Aumentare i servizi significa invece avviare nuove funzionalità e servizi a supporto degli utenti e, in alcuni casi aumentare anche il target di utenza istituzionale. Ad esempio le biblioteche potranno avviare nuovi servizi di disseminazione selettiva dell’informazione, trasmettendo non singoli oggetti digitali ma “stream” o flussi di informazioni continue ai loro utenti che potranno ricevere e selezionare queste informazioni attraverso auricolari o altri supporti wireless. Le biblioteche digitali in questa accezione sono centrate sui servizi e sono sempre 2

Il Santa Fe Planning Workshop on Distributed Knowledge Work Environments: Digital Libraries, svoltosi dal 9 all'11 marzo 1997 a Santa Fe, in New Mexico, focalizzò le problematiche evidenziate dalle prime sperimentazioni della Digital Libraries Initiative. Il confronto fu di notevole importanza poiché per la prima volta assunse rilievo la centralità dell'utente e del suo contesto nella realizzazione della biblioteca digitale. Accessibile alla URL: http://www.si.umich.edu. 3 La Home page della Digital Library Federation è consultabile alla URL: http://www.clir.org.

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immerse in un preciso contesto socio-economico che condiziona la loro gestione e le loro attività. Dalla pluralità di definizioni di biblioteca digitale tuttavia, i bibliotecari che sono impegnati nel gestire il grande cambiamento che l’ambiente digitale comporta nelle istituzioni bibliotecarie, devono riuscire a trovare una definizione funzionale che guidi il loro lavoro quotidiano, senza disperdere energie e risorse. Borgman (Borgman 1999) parte dalle diverse interpretazioni della biblioteca digitale da parte di comunità diverse per chiarire gli attori e le forze in gioco nella realizzazione della biblioteca digitale. Convivono almeno due concezioni di biblioteca digitale: una più “digitale”, un’altra più legata alla “biblioteca”. Le due visioni che si contrappongono sono la visione della comunità della ricerca e quella della comunità di pratica. La comunità di ricerca guarda più alla visione dei pionieri della biblioteca digitale o della biblioteca virtuale, piuttosto che pensare ai limiti attuali della realizzazione della biblioteca digitale nella vita quotidiana. Il focus della comunità di ricerca è sui contenuti digitali, o sulla conoscenza collettiva, a cui si accede con sofisticati sistemi di recupero dell’informazione, veloci e potenti. La comunità dei professionisti si concentra invece sui servizi e per questo si pone domande essenzialmente pratiche, per risolvere i problemi per la realizzazione e lo sviluppo di biblioteche digitali che nascono dai presenti limiti e vincoli istituzionali, legislativi ed economici. Secondo Borgman, il problema è che bisognerebbe avere consapevolezza che le biblioteche digitali hanno un ruolo da svolgere nella società e, per questo motivo, devono combinare due approcci che sono complementari: il primo riguarda l’estensione e il miglioramento dell’approccio classico delle tecnologie del recupero dell’informazione, includendo l’organizzazione di oggetti digitali e i metadati; il secondo si riferisce al fatto che il disegno, la strategia e la pratica della biblioteca digitale devono riflettere il contesto sociale di riferimento dell’utente insieme ai reali bisogni e ai comportamenti di ricerca dell’utente medesimo. 1. 2 Definizioni di biblioteca digitale in Italia In Italia si è preferito per molto tempo il termine biblioteca virtuale per definire il concetto della nuova biblioteca. Il primo a usare il termine biblioteca virtuale (Virtual Library - VL) è stato lo stesso autore del Web: Tim Berners-Lee per il sito che è così chiamato4 e che realizza la visione della biblioteca come una collezione pressoché illimitata di documenti collegati in rete, costituiti da oggetti digitali e pagine Web realizzate da migliaia di autori. I cataloghi virtuali sono meta-cataloghi che cercano contemporaneamente molti cataloghi e pagine Web in linea. La mag4

Il sito Virtual Library è accessibile alla URL: http://vlib.org. Informazioni sull’organizzazione e la gestione del sito sono reperibili alla URL: http://vlib.org/AboutVL.html.

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giore anzianità del termine “biblioteca virtuale” rispetto al più recente termine biblioteca digitale è evidente. L’aggettivo “virtuale” significa che la biblioteca non c’è. Il termine biblioteca virtuale è stato usato anche per indicare un concetto più ampio sia della biblioteca elettronica sia della biblioteca digitale e cioè per indicare l’intera collezione di documenti esistente, esterna alla biblioteca come spazio fisico. La “Virtual Library” è il World Wide Web, che può essere pensato anche come la realizzazione del World Brain di Wells. La collezione dei documenti è nel cyberspazio e non ha niente a che vedere con la biblioteca. Il primo libro a occuparsi del fenomeno dell’applicazione delle tecnologie digitali alle biblioteche è stato La biblioteca virtuale. L’accesso alle risorse informative in rete (Basili and Pettenati 1994). Per gli autori la biblioteca elettronica è il presupposto della biblioteca virtuale, che si basa su tre realtà distinte: la biblioteca elettronica, l’insieme delle telecomunicazioni, la visione personale dell’utente finale. Nel 1996 Riccardo Ridi (Ridi 1996) sceglie ancora “biblioteca virtuale” indicandone alcune definizioni. In Italia, il termine “biblioteca digitale” si afferma alla fine degli anni ’90. Il termine è introdotto nel 1998 da Malinconico (Malinconico 1998): «Le tecnologie digitali facilitano l’accesso alle raccolte bibliotecarie, trasferendo i contenuti delle fonti d’informazione o loro fedeli rappresentazioni attraverso lo spazio, dal luogo in cui sono conservate a quello in cui sono richieste. Le stesse tecnologie potrebbero essere utilizzate per trasportare la sostanza dei materiali nel tempo, contribuendo in tal modo alla loro conservazione». I contributi sulla biblioteca digitale pubblicati in Italia che avviano la riflessione sul tema, sono quelli di Bardi, di Scolari e di Leombroni. Il contesto di riferimento e le problematiche specifiche della biblioteca digitale sono definiti da Luca Bardi (Bardi 1998), mentre Antonio Scolari (Scolari 1999) affronta per primo il tema di una federazione di biblioteche, aprendo il discorso con esperienze che non hanno origine da biblioteche pre-esistenti come C-BIT e AIB-WEB. Il tema della cooperazione e dell’innovazione organizzativa è centrale nel contributo di Leombroni (Leombroni 2004). Nel volume Biblioteca digitale, Salarelli e Tammaro (Salarelli and Tammaro 2000) danno la seguente definizione: «La biblioteca digitale descritta nel volume è uno spazio informativo in cui le collezioni digitali, i servizi di accesso e le persone interagiscono a supporto del ciclo di creazione, preservazione, uso del documento digitale». Ciotti e Roncaglia (Ciotti and Roncaglia 2002) centrano l’attenzione nell’organizzazione dei documenti e dei metadati. «definiamo “biblioteca digitale” una collezione di documenti digitali strutturati (sia prodotti mediante digitalizzazione di originali materiali, sia realizzati ex-novo), dotata di un’organizzazione complessiva coerente di natura semantica e tematica, che si manifesta mediante un insieme di 20


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relazioni interdocumentali e intradocumentali e mediante un adeguato apparato metainformativo. In questo senso possiamo distinguere una biblioteca digitale da un insieme non organizzato di informazioni assolutamente eterogenee come World Wide Web, ma anche da molti archivi testuali che attualmente sono disponibili su Internet e che si presentano come “depositi testuali” piuttosto che come vere e proprie biblioteche». L’ultima definizione di biblioteca digitale, recentemente pubblicata (Mazzitelli 2005) rappresenta l’evoluzione di una biblioteca tradizionale in digitale (forse più opportunamente da definire come “ibrida”): «possiamo affermare che la biblioteca digitale è l’insieme di una o più collezioni di oggetti digitali, della descrizione di questi oggetti (che si effettua utilizzando i cosiddetti metadati), messi a disposizione di tutti gli utenti interessati grazie a un’interazione di tipo elettronico che può comprendere diversi servizi quali la catalogazione, l’indicizzazione, il servizio di recupero dei documenti e di fornitura di informazioni a distanza (in cui tutte le richieste degli utenti e le relative risposte si effettuano, pertanto, usando la rete). La biblioteca digitale si presenta come un sistema complesso organizzato in cui si mettono a disposizione dell’utenza, in maniera strutturata, dei contenuti che, oltre ad essere derivati da una raccolta cartacea, possono già essere disponibili in rete o essere il risultato di un’attività intellettuale originale posta in essere dalla biblioteca o dai membri della comunità che fa parte della sua utenza istituzionale (ad esempio in ambito universitario, dispense di corsi o relazioni tenute a convegni)». In Italia, sembra di poter dire che l’attenzione per la biblioteca digitale è soprattutto centrata sull’organizzazione dell’informazione (struttura dei documenti e metadati) e su una serie di tecnologie, come gli standard per l’interoperabilità. Un altro tema centrale nella discussione è quello della cooperazione.

2. La biblioteca digitale è una biblioteca? La domanda che è lecito porsi è quella di capire se la biblioteca digitale può chiamarsi una biblioteca. La crescita del fenomeno “biblioteca digitale” ha creato un acceso dibattito e una riflessione su cosa sia una biblioteca, quali siano le sue funzioni, quali siano la riorganizzazione e il cambiamento necessario della biblioteca nella Società dell’Informazione. Si è molto discusso delle differenze concettuali, organizzative e funzionali delle biblioteche tradizionali e delle biblioteche digitali. Attualmente ci sono esempi di biblioteche digitali che sono naturale sviluppo di biblioteche tradizionali, come nel caso delle biblioteche nazionali; come anche esistono delle realizzazioni di biblioteche digitali che si rifanno al concetto di biblioteca solo come una metafora. Il termine biblioteca, per la biblioteca digitale può essere un ostacolo che limita l’accesso a nuovi utenti e previene nuovi usi, secondo Borgman (Borgman 1999). 21


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Le realizzazioni attuali della biblioteca digitale – come nota Lynch (Lynch 2003, 2005) – rivelano il contrasto tra i valori tradizionali delle biblioteche con il prevalente orientamento commerciale delle biblioteche digitali. C’è anche da dire che le biblioteche tradizionali, nello sforzo di realizzare delle biblioteche digitali, hanno perso la loro coerenza. Secondo Lynch, le biblioteche sono diventate meno visibili per i loro utenti, poiché i servizi di accesso sono remoti e senza intermediazione diretta e le biblioteche hanno inoltre dato all’esterno gran parte dei servizi collegati alle risorse digitali, ad esempio attraverso i consorzi per gli acquisti o addirittura lasciando anche l’accesso e i servizi affidati interamente agli stessi fornitori di informazione, a cui ci si limita a fare un collegamento dal sito della biblioteca. Nessuna biblioteca tradizionale, secondo l’autore, potrà realizzare appieno il tipo di servizio attivo che ci si aspetta dalla biblioteca digitale, e se lo farà sarà solo per un frammento della comunità di utenti; nella maggior parte dei casi tuttavia, questo servizio di accesso sarà appaltato a fornitori esterni, e il ruolo che la biblioteca si assumerà è solo quello di finanziare questo servizio. Lynch afferma inoltre che questo è il motivo per cui molte biblioteche preferiscono costruire biblioteche digitali con un accesso passivo a risorse digitali, create dalla stessa biblioteca o già esistenti, senza consentire all’utente un servizio interattivo. Per Lynch invece la biblioteca digitale dovrebbe essere un ambiente non solo per recuperare informazione ma anche per fare un lavoro attivo: dai sistemi monolitici di recupero dell’informazione si deve arrivare ai sistemi di accesso collaborativi alla conoscenza. Se le biblioteche digitali sono viste non solo come strumenti di accesso all’informazione ma come strumenti per un approccio collaborativo e comunicativo, sono molto diverse dalle biblioteche tradizionali e potenzialmente rivoluzionarie. Più le biblioteche digitali (in particolare quelle sviluppate dalle biblioteche) evolvono da strumenti di ricerca dell’informazione a strumenti per il lavoro collaborativo più, secondo l’autore, migliorerà la possibilità di cambiare positivamente la produttività delle comunità partecipanti. Tuttavia più le biblioteche digitali evolvono in questo senso, più si allontano dalle biblioteche tradizionali che pure investono nello svilupparle. Van House (Bishop, Van House, and Buttenfield 2003) ha un approccio più moderato ed evidenzia come le biblioteche digitali sono ancora allineate con il processo di pubblicazione dell’editoria digitale e sono delle istituzioni, esattamente come le biblioteche tradizionali, gestite da professionisti con il ruolo di intermediari. Tuttavia ci sono sostanziali differenze: le biblioteche digitali hanno perso il controllo di qualità del sistema editoriale delle pubblicazioni a stampa, pur con le imperfezioni e lacune che tutti conoscono. I risultati rilevanti che si possono evidenziare dalle prime esperienze di biblioteca digitale per Van House (Van House et al. 1996) sono due. Il primo è stato quello di abbattere le barriere che tradizionalmente esistono per la diffusione e la condivisione di conoscenza. La comunicazione della conoscenza attualmente avviene attraverso la pubblicazione o attraverso le relazio22


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ni tra persone note (invisibile college) o nell’ambito di organizzazioni sociali e professionali definite, come istituti di ricerca che hanno il compito di aiutare e stimolare la comprensione reciproca, il riuso e la reciprocità nella condivisione. La biblioteca digitale ha la grande potenzialità di de-contestualizzare l’informazione e renderla disponibile al di là di questi ristretti ambiti, allargando la comunicazione della conoscenza a tutti gli interessati e non solo alla ristretta cerchia della comunità di esperti originariamente prevista. Il secondo aspetto è che le biblioteche digitali stimolano (o dovrebbero stimolare) tutti gli utenti a partecipare attivamente alla comunicazione, per armonizzare (ma non standardizzare) concezioni e punti di vista diversi. La biblioteca digitale rappresenta una base comune per capire come la conoscenza sia creata, condivisa, usata e soprattutto sia filtrata per essere di qualità e affidabile. Per Borgman (Borgman 2003) le biblioteche digitali sono simili alle biblioteche tradizionali ma estendono notevolmente i loro servizi per comunità precise di utenti. I servizi della biblioteca digitale devono essere molto di più di quei portali, a cui ora sembrano aspirare i primi progetti di biblioteca digitale. Come ogni biblioteca degna del nome, una caratteristica precipua della biblioteca digitale sarà la decisione di criteri di selezione della collezione adatti alla missione strategica dell’istituzione; le biblioteche digitali dovranno inoltre fornire dei servizi che includono la ricerca ma anche tutti quegli altri possibili servizi che facilitano l’uso delle risorse da parte della comunità di utenti di riferimento. Tuttavia, libere dai limiti della biblioteca tradizionale, come lo spazio e diversi supporti informativi, le biblioteche digitali possono fare ancora di più, ed essere molto più flessibili, adattandosi e riflettendo perfettamente ai bisogni specifici delle comunità a cui rendono disponibili i servizi. Secondo l’autrice, esse dovrebbero diventare collaborative, consentendo ai loro utenti dei ruoli attivi come la creazione di nuova conoscenza, ad esempio con annotazioni, recensioni e altro, oppure in modo più passivo anche attraverso il monitoraggio attento dell’uso delle risorse effettuato da ciascuno. Inoltre, dovrebbero essere contestuali, esprimendo la rete in espansione di interrelazioni concettuali e a diversi livelli di conoscenza, che si estendono al di là delle risorse primarie selezionate nella collezione. In questo approccio, quello che identifica la biblioteca digitale dovrebbe essere una base informativa che si evolve nel tempo, combinando insieme la caratteristica tradizionale della biblioteca di selezione e sviluppo della collezione con i servizi derivanti da una profonda comprensione dell’utenza. Questa visione estesa della biblioteca digitale richiede un ripensamento dei modelli informativi su cui si basa la biblioteca digitale. Nelle attuali realizzazioni, Borgman (Borgman 2000, 2003) evidenzia che si tende a focalizzare un modello di biblioteca digitale basato sui metadati, prendendo a modello il catalogo unico della biblioteca tradizionale. Anche se alcune biblioteche digitali non seguono esattamente 23


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questo modello, tuttavia continuano a creare delle raccolte organizzate per una ricerca di metadati contenuti nel catalogo. Le biblioteche digitali sono quindi un nuovo tipo di biblioteca che può essere definito per la tipologia di utenza di riferimento, generica o specialistica, o per diverse tipologie di materiali, generali o speciali (musica, mappe, brevetti, ecc.). Un’altra caratteristica è che possono essere virtuali (o se si preferisce immateriali) intendendo con questo che non hanno bisogno di edifici o di un numero cospicuo di bibliotecari per la gestione dei depositi e della distribuzione. Mentre in passato, la vicinanza fisica della biblioteca all’utente era importante, ora l’accesso non dipende dalla compresenza in uno spazio geograficamente delimitato. La caratteristica funzionale più importante è che la biblioteca digitale non è isolata ma inserita nel contesto sociale dell’utente, e ha l’importante ruolo di costruire un servizio a supporto dei temi e delle problematiche più importanti dell’istituzione e della società che le finanzia. Può arrivare a diventare un’infrastruttura per il lavoro collaborativo dei suoi utenti per facilitare la creazione di conoscenza. 2.1 Biblioteca digitale o biblioteche digitali? Si vuole affrontare in questo paragrafo, quello che sembra il reale problema della biblioteca digitale in Italia. Usando le parole di Leombroni (Leombroni 2004), possiamo dire: «Il ritardo del nostro paese non è consistito tanto nella mancanza di progetti, di idee o di competenze. Già nella prima metà degli anni Novanta compaiono o si affermano esperienze applicative di digitalizzazione e di gestione delle risorse digitali: basti solo pensare ai progetti della Biblioteca nazionale centrale di Firenze (SDIEF, Fondi galileiani) e alla straordinaria creatività del compianto Pino Ammendola; o ai progetti che diverse istituzioni promuoveranno negli anni successivi nel campo della musica, dei periodici, della cultura letteraria, e così via, peraltro ben documentati nello stesso studio di fattibilità [della Biblioteca Digitale Italiana]. Il vero ritardo si è manifestato piuttosto nell’affrontare in modo organico il complesso tema del digitale». Tentando una sintesi di varie discussioni in convegni e seminari che si sono tenuti in questi ultimi anni5, potremmo definire il problema Italia con la domanda: la biblioteca o le biblioteche digitali? La scelta del singolare o del plurale implica diverse interpretazioni del concetto che ci sembra di poter evidenziare a tre livelli, il livello nazionale, quello istituzionale e quello della singola biblioteca: – livello nazionale: un aspetto importante che è stato evidenziato da molti è quello della cooperazione necessaria tra biblioteche digitali, così importante che dovrebbe dirsi che la cooperazione è parte essenziale dell’esistenza 5

La sintesi che viene presentata si basa su numerosi convegni e riunioni di gruppi di lavoro organizzati in Italia nell’ambito della biblioteca digitale che sarebbe troppo lungo elencare. Le opinioni espresse sono dell’autore.

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della biblioteca digitale e che non dovrebbe esistere nessuna biblioteca digitale che voglia nascere e rimanere isolata. Su questo aspetto i pareri sono stati contrastanti. C’è chi arriva a dire che possono esistere biblioteche digitali isolate e chi invece vuole puntualizzare la necessità di un unico punto di accesso a un sistema distribuito di biblioteche digitali. Si dovrà sicuramente focalizzare un’attività di analisi per chiarire i diversi punti di vista che andranno necessariamente armonizzati. In questo caso appare importante il ruolo della Biblioteca digitale italiana. –

livello istituzionale: la biblioteca digitale è un’istituzione o un nodo di rete, del tutto virtuale? In questo caso, alcuni tendono a non considerare la biblioteca digitale come un’istituzione; il focalizzare l’istituzione si teme che vada a detrimento dei servizi, almeno nella specificità del caso italiano dove più che i ruoli esistono le persone, cioè si istituiscono dei ruoli per specifiche persone. Piuttosto che far evolvere istituzioni mastodontiche, e quindi lente, pare più facile la soluzione di costruire organizzazioni flessibili, nuove, virtuali, che nascono con lo scopo specifico di creare biblioteche digitali come aggregazioni di collezioni e risorse digitali di rete. Tuttavia, sembra di poter dire che per veri servizi all’utente sia necessaria una struttura di riferimento permanente e possibilmente integrata con il sistema delle biblioteche, quanto meno interoperabile, anche se l’uso di standard di per sé non garantisce unicità di servizi.

livello della singola biblioteca digitale: sembra di poter evidenziare una confusione tra collezione digitale e biblioteca digitale che appare nelle attuali realizzazioni. Questa confusione nasce soprattutto in ambito bibliotecario, dove di fatto si tende a chiamare biblioteca digitale quella che più propriamente si potrebbe chiamare biblioteca ibrida o multimediale. La nuova organizzazione della biblioteca digitale è per collezioni, visibili nel sito della biblioteca digitale, così come nella biblioteca ci si preoccupa di organizzare l’accoglienza del pubblico e la disposizione degli scaffali e dei punti di servizio. La collezione, e la sua importanza per la biblioteca digitale, dovrà essere maggiormente curata, a cominciare dalla sua descrizione e presentazione agli utenti.

3. Ruolo della biblioteca digitale Non si può intraprendere un progetto di biblioteca digitale senza avere una chiara visione degli scopi e degli obiettivi che si vogliono raggiungere. Perché quindi si dovrebbero costruire delle biblioteche digitali e come queste ci possono aiutare? 25


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Le biblioteche di ricerca statunitensi, riunite dall’Association Research Libraries (ARL), ad esempio si sono date questa risposta6. Gli scopi del Sistema biblioteca digitale del Nord America sono: – accelerare lo sviluppo sistematico di mezzi per raccogliere, memorizzare, organizzare l’informazione e la conoscenza in formato digitale e di collezioni di biblioteche digitali in Nord America; – promuovere la trasmissione economica ed efficiente di informazione a tutti i settori della società nord americana; – incoraggiare gli sforzi cooperativi per rendere sostenibile la considerevole spesa necessaria per la ricerca, i calcolatori e la rete di comunicazione; – migliorare la comunicazione e la collaborazione tra ricercatori, imprenditori, politici e le comunità scientifiche; – assumere un ruolo guida internazionale nella creazione e diffusione di conoscenza in aree di importanza strategica in Nord America; – contribuire a dare l’opportunità a tutti i nord americani della formazione lungo tutto l’arco della vita. Arms (Arms 2000) si dà una risposta piuttosto semplice: le biblioteche digitali vengono realizzate con la speranza che possano migliorare l’accesso all’informazione rispetto al passato. Poiché gli autori e gli editori sempre più spesso producono informazione originariamente in formato digitale, ci si aspetta che l’aumentare della massa critica porterà a un cambiamento di paradigma nella creazione, diffusione, gestione e uso dell’informazione. Alcuni degli obiettivi citati da Arms sono: – la biblioteca digitale porta l’informazione direttamente all’utente. L’informazione è accessibile da ogni luogo e si può dire che invece di essere l’utente a muoversi sarà l’informazione che va dove è l’utente; – la biblioteca digitale consente una ricerca avanzata e la manipolazione di informazione digitale; – un migliore accesso all’informazione si accompagna nella biblioteca digitale con funzionalità nuove o diverse; – c’è la possibilità di condivisione dell’informazione. Molte aziende e istituzioni private e pubbliche usano Internet e le biblioteche digitali come infrastruttura per la condivisione dell’informazione, ad esempio per la preparazione cooperativa di documenti e il loro ri-uso; – la biblioteca digitale consente un veloce accesso all’informazione che è sempre aggiornata; 6

Si veda la definizione e gli scopi della biblioteca digitale così come sono stabiliti dall'ARL, ai siti: http://www.ifla.org/documents/libraries/net/arl-dlib.txt e http://www.arl.org/arl/proceedings/126/2-defn.html.

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la biblioteca digitale consente anche un uso migliore dell’informazione: infatti elimina le barriere di tempo e spazio e rende disponibile una migliore infrastruttura; la biblioteca digitale consente una migliore collaborazione tra ricercatori: questo aspetto fa sperare in un profondo impatto nel ciclo della comunicazione scientifica; la biblioteca digitale riduce il digital divide7: infatti riduce le distanze dei popoli in Internet.

Bishop (Bishop 1998) ritiene che ancora mancano delle misure di come le biblioteche digitali diano un supporto all’intero ciclo dell’informazione, dall’identificazione del documento, alla sua valutazione e selezione, all’uso e infine all’applicazione dell’informazione ottenuta nel contesto di attività (lavoro o studio) dell’utente. Un punto di forza della comunità bibliotecaria sono gli studi sull’utenza, come base per il disegno di efficaci biblioteche digitali e per la valutazione dei servizi. Una risposta adeguata alle necessità della comunità di riferimento, secondo Lynch (Lynch 2003) di solito viene data dalla biblioteca digitale in due modi: – “costruiscila e poi avverrà”. Il campo dei sogni nella realizzazione di biblioteche digitali è sempre molto vasto; – pianificare il disegno delle biblioteche digitali dopo aver realizzato intensi studi sull’utenza, su specifici individui, su più ampie comunità, su vari gruppi di interesse, e cosi via. Lynch descrive gli attuali studi sulla biblioteca digitale, classificandoli secondo gli scopi più o meno dichiarati dei diversi finanziatori delle biblioteche digitali che condizionano gli indicatori di rendimento scelti per la valutazione. Gli enti finanziatori pubblici sovvenzionano l’innovazione tecnologica e indagano l’impatto sociale della biblioteca digitale, ma solo per prototipi personalizzati e non per servizi informativi su larga scala; questa ricerca tuttavia non ha un impatto immediato per le biblioteche digitali nel mondo reale. Le biblioteche tradizionali, soprattutto quelle universitarie, stanno passando alla trasmissione digitale dell’informazione scientifica e cercano di fare indagini mirate dell’utenza per analizzarne i bisogni e per trovare degli indicatori di soddisfazione degli utenti con particolari esigenze. Invece i sistemi commerciali di biblioteca digitale si concentrano su sistemi proprietari (e chiusi) costruiti per determinate comunità. Il principale interesse è aumentare il profitto attraverso una migliore interfaccia e un marketing mirato: usano focus group, test di usabilità, indagini generiche di soddisfazione dell’utente. 7

Il digital divide è definito da OECD come il gap tra individui in aree geografiche diverse e a livelli sociali diversi con riguardo a: 1) la loro capacità di accedere all’informazione e alle tecnologie; 2) il loro uso di Internet per una vasta area di attività.

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Per Nancy van House (Bishop, Van House, and Buttenfield 2003) le biblioteche digitali non hanno solo lo scopo di essere di supporto alla ricerca dell’informazione. Devono anche essere di supporto al lavoro cognitivo, alla creazione di nuova conoscenza e all’apprendimento. Il lavoro cognitivo è caratterizzato da tre elementi: – è situato in un contesto sociale; – è distribuito; – è un lavoro sociale. Il fatto che sia situato in un contesto significa che il lavoro della conoscenza è fatto da persone che fanno parte di una comunità di pratica o di apprendimento, in condizioni specifiche e per scopi specifici. Il lavoro cognitivo è distribuito perché implica cooperazione tra persone che non si conoscono neppure, oppure si conoscono ma sono separate nello spazio e nel tempo. Alcuni recenti approcci (Wenger 1998) alle teorie dell’apprendimento affermano che le comunità acquisiscono conoscenza e non gli individui. Infine il lavoro cognitivo è sociale, poiché si apprende e si lavora insieme e insieme si decide in cosa credere e su cosa concentrarsi. In altre parole, molto di quello che conosciamo non viene dalla nostra esperienza ma dall’esperienza di altri. Il focus sulla conoscenza si applica alla biblioteca digitale in due modi: – i documenti e tutti gli altri prodotti informativi, insieme ai servizi delle biblioteche sono di importanza critica per il lavoro della conoscenza. La biblioteca digitale è un’evoluzione dei sistemi informativi ed è influenzata dalle attuali relazioni cognitive e dai processi di creazione della conoscenza; – il disegno, la realizzazione e la gestione delle biblioteche digitali sono anch’esse forme di lavoro di conoscenza che coinvolge insieme gli utenti, gli sviluppatori, gli architetti dell’informazione. In conclusione, ogni biblioteca digitale dovrà nascere da un progetto che definisca le priorità e l’equilibrio scelto tra i molteplici elementi che la compongono. La strategia della biblioteca digitale, per chiarezza, dovrà essere formalizzata e diffusa in un documento scritto, che pianifichi le attività da intraprendere. Tre fattori sono critici in un progetto di biblioteca digitale: – la sostenibilità nel tempo; – chi detiene le responsabilità di controllo e gestione; – l’utenza di riferimento (audience).

4. Elementi centrali della biblioteca digitale Ad alcune domande dovrà essere trovata una risposta: – Quale è il nuovo paradigma della biblioteca digitale? Sono definiti in modo diverso le risorse o i servizi? – La missione della biblioteca sarà meno quella di deposito e più quella di organizzazione concettuale delle risorse? 28


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Come può essere stabilita la qualità delle risorse digitali? Come può essere fornito il controllo bibliografico delle risorse digitali? Come può essere affrontato il problema della preservazione e conservazione? Quali servizi saranno offerti dalla biblioteca digitale? I servizi della biblioteca digitale saranno limitati solo ad alcuni utenti? Come possono essere rispettate le regole del diritto d’autore? Quanto costa l’informazione elettronica? Chi la paga? Come si può valutare il valore della biblioteca digitale, rispetto all’investimento necessario?

Il disegno di efficaci biblioteche digitali non è solo un problema di convertire in formato digitale l’attuale collezione cartacea e adattare le procedure di organizzazione dell’informazione tradizionale retaggio delle biblioteche tradizionali nel mondo digitale. Tutte le definizioni fin qui presentate, pur se parzialmente diverse, sono concordi nel dichiarare che le biblioteche digitali non si limitano a essere un punto di accesso a risorse digitali in rete. Per aggiungere “digitale” al nome biblioteca, ci dovranno essere: una chiara finalità di servizio (mission), una politica dichiarata di sviluppo della collezione, un’adeguata organizzazione dell’informazione digitale e servizi nuovi o rinnovati di accesso, che usino le tecnologie per facilitare l’utenza di riferimento. Non si può quindi confondere progetti come Google Print con una biblioteca digitale. Pur nella sua indubbia semplicità e utilità, Google Print non seleziona e organizza l’informazione, non effettua alcuna metodologia di preservazione, non ha servizi se non quello della ricerca di termini contenuti nelle pagine dei libri digitalizzati, ma mancano altri servizi a cominciare dalla possibilità di scorrimento (browsing), manca soprattutto la considerazione di specifici bisogni degli utenti attivi in un preciso scenario. Gli elementi che caratterizzano le biblioteche digitali per Chwodhury (Chowdhury and Chowdhury 2003), in aggiunta a quelli già dichiarati da altri autori, sono: – le biblioteche digitali possono raccogliere una varietà di oggetti digitali; – le biblioteche digitali riducono (o eliminano) la necessità di spazio che hanno le biblioteche tradizionali; – gli utenti della biblioteca digitale possono essere geograficamente dispersi e in molti casi si organizzano livelli diversi di servizio, per gli utenti istituzionali e per gli utenti remoti; – a differenza delle biblioteche tradizionali, gli utenti delle biblioteche digitali possono costruirsi la propria biblioteca personale, utilizzando delle funzionalità che sono loro messe a disposizione; – le biblioteche digitali forniscono accesso a diverse risorse digitali che sono distribuite nello spazio e quindi l’interoperabilità è un requisito necessario per la gestione e lo sviluppo di ogni biblioteca digitale; 29


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diversi utenti possono usare contemporaneamente la stessa risorsa e questo non è possibile nella biblioteca tradizionale; le biblioteche digitali hanno portato a un cambio di paradigma nelle biblioteche, non solo nell’uso dell’informazione (dal cartaceo al digitale) ma soprattutto nel possesso della stessa. Le biblioteche digitali forniscono l’accesso a risorse di cui non sono proprietarie, alcune libere, altre a pagamento; lo sviluppo della collezione è sempre stato basato nelle biblioteche su politiche degli acquisti e criteri di selezione. I criteri si sono basati sul principio del miglior libro per l’utente giusto al momento giusto. Ora la politica di acquisti è più importante che mai, poiché il problema non è quello della disponibilità dell’informazione ma della sovrabbondanza di informazione e quindi le biblioteche digitali devono avere meccanismi adeguati per filtrare quello che non serve; per realizzare il sogno di un’infrastruttura all’informazione globale, le biblioteche digitali devono essere capaci anche di gestire risorse multilingue; le biblioteche digitali sono secondo alcuni biblioteche senza intermediari e quindi ci sono adeguati meccanismi (motori di ricerca e agenti) che aiutano gli utenti a diversi livelli; le biblioteche digitali abbattono le barriere di lingua, tempo e spazio; in teoria gli utenti potranno usare le biblioteche digitali da ogni parte del globo e con ogni lingua.

Nella discussione sugli elementi della biblioteca digitale, pare interessante evidenziare alcuni di questi elementi di particolare importanza nella biblioteca digitale: – I contenuti della biblioteca digitale si riferiscono a qualsiasi formato e tipologia di documenti; quello che tuttavia è veramente rivoluzionario rispetto al passato è che nella biblioteca digitale questi contenuti non solo non sono fisicamente presenti in una collezione della biblioteca ma non sono posseduti. – I servizi della biblioteca digitale vengono spesso identificati nella pubblicazione in Web e nella disponibilità di un portale che ha la caratteristica principale di aggregare collezioni interne ed esterne. L’indagine dell’utenza all’inizio di ogni progetto di digitalizzazione, dovrà focalizzare l’eventuale necessità di ulteriori servizi oltre questo. 4.1 Biblioteca digitale: con o senza bibliotecari? Il personale, in particolare, personale qualificato e competente, è il valore aggiunto da evidenziare nella biblioteca digitale. Eppure il punto di assoluta divergenza tra le due scuole di pensiero che abbiamo fin qui illustrato, quello della comunità di ricerca e quello della comunità di pratica, ha un nodo che non si riesce a scio30


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gliere proprio nel personale. Non ci sono bibliotecari nella biblioteca virtuale o meglio il loro ruolo viene svolto da software chiamati agenti, velocissimi nel trovare quello che si cerca nell’immensa massa dei documenti. Il fattore di successo della biblioteca digitale è invece il personale, nella concezione della comunità di pratica. Le funzioni sono quelle tradizionali, come la selezione della collezione, l’organizzazione attraverso i metadati, la preservazione e soprattutto il supporto dato all’utente nei servizi. Nuove funzioni si possono individuare nella realizzazione di infrastrutture di supporto al lavoro collaborativo e di creazione di conoscenza. Si può affermare che le competenze che sono richieste al bibliotecario nella biblioteca digitale sono molte di più che in passato (Cronin 1998). Molti autori (Saracevic and Dalbello 2001) hanno cercato di delineare il programma formativo necessario per i nuovi professionisti dell’informazione; tuttavia fino a oggi mancano scuole specificamente dedicate a formare i bibliotecari per la biblioteca digitale. Quello che è importante qui accennare brevemente è che sono sicuramente venute a cadere alcune barriere del passato tra professioni che erano vicine ma, per ragioni storiche, ben distinte nelle metodologie e nella pratica. Ci si riferisce a tutte le professioni che possono rientrare nell’ambito della comunicazione e dell’informazione e in particolare agli archivisti e ai curatori di musei. Ad esempio, finora i bibliotecari si sono occupati di pubblicazioni come i libri, alla fine del percorso editoriale, mentre gli archivisti tradizionalmente si occupavano di documenti; ora questa distinzione è sfumata, mentre gli oggetti digitali e la convergenza che ne deriva spingono a un trattamento uniforme di diversi media. Questo cambiamento è una delle conseguenze dell’impatto che la biblioteca digitale ha nell’allargare la ristretta cerchia della comunità bibliotecaria alla comunità più ampia dei professionisti dell’informazione, confrontandosi con il contesto sociale in cui si lavora e la società nel suo complesso. Questo articolo finisce qui, e non ci sono conclusioni. Consideriamo la biblioteca digitale come un giovane adolescente, o come un lavoro in progress, in cui molte sono le opportunità di una vera rinascita dei professionisti e di servizi nuovi o rinnovati per migliorare la vita delle persone, eppure tutte queste opportunità sono reali almeno quanti i rischi di perderle. Le ultime parole sono quindi: in continuazione.

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Riferimenti bibliografici

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Lo standard nazionale dei metadati gestionali amministrativi Cristina Magliano ICCU

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o sviluppo di nuove tecnologie e conseguentemente di nuove funzioni quali l’accesso ai documenti elettronici, alle reti, etc., rende necessaria l’elaborazione di standard tecnici e lo sviluppo di nuovi protocolli, ai fini dell’accesso ai documenti su qualsiasi supporto per una divulgazione e insieme conservazione dell’eredità culturale dei vari paesi. Le biblioteche assumono quindi un ruolo vitale “nell’era digitale” e lo sviluppo di tecnologie ai fini del reperimento dell’informazione dovunque prodotta. La biblioteca tuttavia rappresenta oggi e rappresenterà per il futuro, per i bisogni informativi della utenza, il primo luogo di conoscenza attraverso la quale viene messa a disposizione l’accesso alle risorse informative, siano esse disponibili in loco o telematicamente individuabili e raggiungibili. La costituzione di collezioni elettroniche e di cataloghi collettivi ha reso responsabili alcune biblioteche della costruzione e del mantenimento, di “due biblioteche”, l’una fisica e l’altra virtuale; con la necessità in primo luogo di una infrastruttura organizzativa ma anche tecnologica per la costituzione di una rete bibliotecaria sempre più allargata. L’incremento di collezioni digitali anche full text e la creazione di repository dell’informazione digitale ha indubbiamente sollecitato i bibliotecari verso lo studio e l’applicazione di strumenti di identificazione e descrizione nuovi che definiscano le risorse e le mettano in relazione con altri oggetti disponibili o meno in rete. Recentemente l’estensione e lo sviluppo di alcuni tipi di metadati hanno reso possibile l’applicazione non soltanto a risorse elettroniche o digitali ma anche a tutti i tipi di risorse: oggetti museali, di biblioteche e archivi ecc. La questione essenziale è quali risorse descrivere piuttosto che il modo in cui catalogarle. Occorre precisare però che, esattamente come avviene per lo sviluppo delle collezioni tradizionali e per la loro gestione, un progetto di biblioteca digitale deve operare una scelta sul materiale da trattare e questo avverrà sulla base del tipo di istituzione coinvolta, della domanda degli utenti e delle possibilità concrete che si hanno a disposizione. Le opzioni di descrizione e gestione sono conseguenti a questa scelta di base, da cui derivano caratteristiche e dimensioni del servizio che si vuole implementare. 34


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1. Il contesto La discussione sui metadati nell’ambito delle comunità bibliotecaria e dell’informazione, si è incentrata principalmente sui due obiettivi ritenuti prioritari della descrizione e del reperimento delle risorse (ad esempio Andy Powell 1e Michael Day2 1997; Lorcan Dempsey e Rachel Heery 19983). I metadati vengono intesi come una amplificazione in un contesto elettronico; forse perché il più diffuso standard internazionale di metadati, il Dublin Core, ha avuto come scopo principale il reperimento delle risorse (vedi ad esempio le tesi di Stuart Weibel e Juha Hakala 19984). Tuttavia nonostante questi siano obiettivi importanti si è andato riconoscendo che i metadati hanno anche altri ruoli importanti nella organizzazione delle risorse digitali. Per esempio gli editori e gli altri detentori dei diritti hanno inziato a investigare nell’organizzazione di tali diritti (Rust 1998)5. I metadati si possono definire informazioni strutturate che descrivono, specificano o localizzano una risorsa; i metadati permettono inoltre la sua ricerca, uso e organizzazione e sono la chiave per assicurarne la futura accessibilità nel tempo. Tra i principi generali e raccomandazioni che scaturiscono dalla pratica e dal lavoro delle due principali comunità di sviluppatori di MD: il Dublin Core Metadata Iniziative (DCMI) e l’Electrical and Electronics Engineers (IEEE) se ne possono ricordare i principali. Essi sono: –

La modularità o granularità dei MD che è la chiave per organizzare le diverse fonti, contenuti e approcci alla descrizione della risorsa. Questo permette per chi deve realizzare uno schema di metadati di creare nuove aggregazioni fra più schemi e di stabilirne di nuovi, tenendo conto di quelli già realizzati e che sono giudicati “best practice”, piuttosto che reinventarne altri;

L’estensione: nella costruzione dei metadati si deve partire dalla nozione di uno schema con elementi aggiuntivi per particolari applicazioni o dominii. Dall’altra parte queste estensioni non devono compromettere l’interoperabilità dello schema;

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Andy Powell. Unique identifiers in a digital world. March 1997. Ariadne (Web version), No. 8. http://www.ariadne.ac.uk/issue8/unique-identifiers/. Michael Day. Extending metadata for digital preservation. May 1997. Ariadne (Web version), No. 9. HTML: <http://www.ariadne.ac.uk/issue9/metadata/>. Lorcan Dempsey – Rachel Heery. Metadata: a current view of practice and issues. March 1998. «Journal of Documentation», Vol. 54, no.2, March 1998, p. 145-172. Stuart Weibel – Juha Hakala. A Report on the Workshop and Subsequent Developments. «DLib Magazine», February 1998, http://www.dlib.org/dlib/february98/02weibel.html. Metadata: Right Approach. A Integrated Model for descriptive and Rights Metadata in Ecommerce, «D-Lib Magazine», July/August 1998.

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Il Raffinamento: Nei vari profili di applicazione è auspicabile che il grado di dettaglio degli elementi vari in base alle diverse esigenze. Per ogni particolare applicazione deve essere scelto uno schema appropriato. Si possono considerare due tipologie di raffinamento: la prima riguarda l’aggiunta di qualificatori per rendere più specifico il significato di un elemento (ad es. illustrator, author, composer, sono tipologie particolari del termine più generale creator; mentre Date of creation, date of modification, ecc. sono tutti significati più ristretti dell’attributo della data). Altri raffinamenti riguardano la specificazione di particolari schemi o set di valori che definiscono un range per un dato elemento.

2. Funzionalità dei metadati Le operazioni dai metadati che comprendono individuazione e recupero, gestione e controllo (incluso il rights management) e conservazione a lungo termine delle risorse possono nella pratica essere supportate da singoli schemi, che comprendono più d’una delle categorie sotto elencate. I metadati possono essere distinti in tre categorie funzionali: – Descrittivi: per l’identificazione e il recupero degli oggetti digitali; sono costituiti da descrizioni normalizzate dei documenti digitali nativi, risiedono generalmente nelle basi dati dei sistemi di Information Retrieval all’esterno degli archivi degli oggetti digitali e sono collegati a questi ultimi tramite appositi link; – Amministrativi e gestionali: per le operazioni di gestione degli oggetti digitali all’interno dell’archivio; – Strutturali: descrivono la struttura interna fisica o logica dei documenti (es. introduzione, capitoli, sezioni, indice di un libro) e le loro relazioni fra le varie parti degli oggetti digitali. I metadati amministrativi e gestionali offrono maggiori informazioni e specificazioni sulla creazione, immissione e manutenzione degli oggetti digitali, fornendo quindi informazioni fondamentali ai fini del mantenimento dell’eredità culturale degli oggetti digitali. Comprendono inoltre metadati tecnici, che descrivono le caratteristiche tecniche della risorsa digitale, metadati per la conservazione relativi alla “ fonte”, che descrivono l’oggetto dal quale è derivata la risorsa digitale e metadati relativi alla “provenienza”, che descrivono la storia delle operazioni effettuate su un oggetto digitale fin dalla sua creazione; infine metadati per la gestione dei diritti (rights management) che descrivono i diritti d’autore e di riproduzione, le restrizioni e le licenze che vincolano l’uso della risorsa. 36


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In vari schemi sono presenti anche i metadati per la conservazione, necessari a conservare adeguatamente per un periodo di tempo indefinito il contenuto digitale. Si possono segnalare fra gli obiettivi non primari dei metadati la rappresentazione in ambiente OPAC di set estesi di oggetti e la possibilità di enfatizzare le loro relazioni anche con oggetti esterni. Passando brevemente in rassegna le comunità responsabili dell’organizzazione di differenti tipi di risorse si può evidenziare come ognuna abbia sviluppato i propri standard per supportare le diverse operazioni sulle proprie risorse. La comunità museale ha elaborato due standard SPECTRUM e CDWA (Categories for the Description of Works of Art); la comunità archivistica ha sviluppato l’ISAD(G), ISAAR(CPF) and EAD per i record d’archivio e la comunità bibliotecaria usa i formati della famiglia MARC per la rappresentazione e lo scambio dei metadati bibliografici e ha definito anche standard descrittivi, le varie ISBD. Altri domini hanno definito standard di metadati basati su linguaggi di marcatura quali lo Standard Generalised Markup Language (SGML) o l’Extensible Markup Language (XML): esempi di questi sono l’Encoded Archival Description (EAD) e il Document Type Definition (DTD) del consorzio CIMI. Per quanto riguarda la descrizione degli oggetti museali lo standard CDWA rappresenta una cornice di riferimento per la descrizione del contenuto dell’oggetto d’arte pittorico e definisce sia le informazioni utili da includere in una descrizione condivise sia dalle istituzioni depositarie che dai ricercatori, come pure terminologie comuni e pratiche descrittive per facilitarne l’accesso all’utenza. Il processo di standardizzazione dei metadati (modelli, semantica e sintassi) è iniziato quindi all’interno di domini specifici ma nel tempo si è andata consolidando una strategia che rispettando le specificità e tenendo anche conto degli standard descrittivi e dei profili esistenti, condividesse un set minimo di dati. La definizione di tale set e l’armonizzazione dei vari approcci porterà ad una riduzione di risorse nei vari campi di applicazione. Infatti l’utilizzo di informazioni dettagliate come quelle di un formato bibliografico sono poco appropriate per essere selezionate per una ricerca di oggetti digitali a un livello di cross-domain e di cooperazione. Inoltre gli interessi degli utenti/e o produttori di una risorsa digitale, poco stabile e tecnologicamente aggiornabile, “necessita di informazioni specifiche, spesso difficili da recuperare, che può solo basarsi su un lavoro di integrazione non solo fra diversi attori, ma anche fra servizi, strumenti tecnologici e meccanismi amministrativi che finora, nel trattamento del materiale tradizionale, erano separati fra loro e comunque meno complessi da gestire perché già consolidati” (vedi Studio di fattibilità per la realizzazione della biblioteca digitale). 37


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3. I modelli logici Per la definizione di un set minimo di dati soprattutto in contesti di collezioni multimediali e complesse è vantaggioso fare riferimento a modelli logici fra i quali quello dello studio dell’IFLA Functional Requirements for Bibliographic Records, applicando la lista di attributi e relazioni nella descrizione delle risorse digitali, secondo le quattro funzioni fondamentali dei record bibliografici: trovare, identificare, selezionare, ottenere. FRBR è un modello object-oriented che ha superato il modello tradizionalmente concepito dalle regole di catalogazione e ha introdotto il concetto che le opere esistono prima della loro concretizzazione materiale, collegando titoli e autori ai vari livelli. I livelli astratti (opere e espressioni) possono contenere infatti elementi essenziali per la comprensione sia delle manifestazioni che dei documenti. Ugualmente gli identificatori sono elementi importanti per legare record o parti di record che si riferiscono allo stesso documento anche esterni al record bibliografico di base. Sempre più le regole di catalogazione, gli standard di metadati e i sistemi in rete debbono evolversi insieme e utilizzare convenzioni e semantiche condivise ai fini della descrizione, ricerca e identificazione. A differenza dei formati bibliografici i record relativi alle risorse digitali non sono unitari ma possono consistere di parti accessibili anche fra differenti sistemi operativi. Un altro modello utilizzato all’interno del progetto internazionale di Digital Library Harmony, è l’ABC model che definisce entità e relazioni all’interno di vocabolari di metadati differenti. Il modello pone al centro della propria costruzione gli eventi (event-awareness) che scandiscono le tappe dell’esistenza di una risorsa dalla creazione originale dell’attività intellettuale, fino alle sue varie manifestazioni ai fini anche di una ricostruzione del ciclo di vita del contenuto intellettuale associato alla risorsa. All’interno di modelli logico-funzionali dell’archivio degli oggetti digitali ricordiamo infine l’Open Archival Information System (OAIS), divenuto recentemente standard ISO 14721 del 2003. Il Reference Model per un Open Archival Information System (OAIS) rappresenta un tentativo di fornire un quadro di riferimento di alto livello per lo sviluppo e il confronto di archivi digitali anche di ambiti diversi. Il Reference Model presenta sia il modello funzionale, che delinea le operazioni che un archivio deve svolgere, sia il modello informativo, che descrive i metadati necessari per supportare quelle operazioni. 38


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Nel quadro del modello OAIS, un gruppo di lavoro OCLC/RLG sui metadati per la conservazione preventiva ha sviluppato proposte per due componenti del modello informativo OAIS pertinenti direttamente ai metadati per la conservazione preventiva (Content Information e Preservation Description Information). Sono stati pubblicati due studi: Preservation Metadata for Digital Objects: A Review of the State of the Art (gennaio 2001). E nel giugno 2002: Preservation metadata and the OAIS information model: a metadata framework to support the preservation of digital objects, che ha sviluppato sia un modello concettuale sia un sistema di informazioni OAIS propone un modello di archiviazione distribuita, ma rispondente a un ben individuato modello logico. A tale scopo OAIS individua termini e concetti rilevanti per l’archiviazione di documenti digitali, identifica le componenti e i processi chiave comuni alla maggior parte delle attività di conservazione digitale, e propone un modello logico di riferimento per gli oggetti digitali e i metadati loro associati, che comprende la creazione e l’uso dei metadati utili a gestire il materiale elettronico, dalla fase di acquisizione a quella dell’accesso, fino alla conservazione. Un modello logico si propone appunto di essere uno strumento che consenta di passare agevolmente da una semantica a un’altra, senza che ciò comporti perdita di significato o ambiguità.

4. Lo standard MAG Sulla base degli studi e implementazioni elaborati a livello internazionale e dal confronto con progetti già attivati, si sono volute offrire indicazioni per l’utilizzazione di set standard di metadati gestionali per i numerosi progetti in fase di avviamento in Italia. L’ICCU, quale responsabile della diffusione delle normative e degli standard bibliografici, ha pertanto costituito nel 2003 un Gruppo di lavoro permanente6, il Comitato MAG 7, il quale, proseguendo le attività del Gruppo di studio sugli stan6

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Il gruppo era costituito da: Gianfranco Crupi (Università degli Studi La Sapienza di Roma); Gloria Cirocchi, Simona Gatta (Biblioteca della Camera dei Deputati); Maurizio Messina (Biblioteca Marciana di Venezia); Giovanni Bergamin (Biblioteca nazionale centrale di Firenze); Antonio Scolari (Centro Servizio Bibliotecario della Facoltà di Ingegneria - Università degli Studi di Genova); Francesco Baldi (Discoteca di Stato); Matilde Amaturo, Marco Lattanzi (Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione); Claudio Leombroni (Rete Bibliotecaria di Romagna - Provincia di Ravenna); Antonella Mulè (Ufficio Centrale Beni Archivistici); Marco Veneziani (CNR Roma) Paul Gabriele Weston (Università degli Studi di Pavia/Biblioteca Apostolica Vaticana); Cristina Magliano, Patrizia Martini (ICCU). Il Comitato MAG è costituito attualmente da: Gianfranco Crupi (Università degli Studi La Sapienza di Roma); Gloria Cirocchi, Simona Gatta (Biblioteca della Camera dei Deputati); Maurizio Messina (Biblioteca Marciana di Venezia); Giovanni Bergamin (Biblioteca nazionale centrale di Firenze); Francesco Baldi (Discoteca di Stato); Cristina Magliano, Patrizia Martini (ICCU); Valdo Pasqui (Università di Firenze).

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dard e le applicazioni di metadati nei beni culturali, ha focalizzato l’attenzione alle attività connesse alla diffusione ed evoluzione del set di Metadati Amministrativi Gestionali (MAG). Il gruppo si presenta quale struttura di riferimento per le attività connesse alla promozione, supporto, gestione ed evoluzione dello standard di Metadati Amministrativi Gestionali MAG, nonché all’assistenza e consulenza alla comunità bibliotecaria, archivistica e museale per la gestione e l’accesso alle informazioni sull’oggetto digitale, al fine di sviluppare standard comuni nell’ambito dei progetti di digitalizzazione del patrimonio culturale e per l’accesso alle risorse digitali. Il Gruppo ha ritenuto ambito naturale di applicazione di questo lavoro, la Biblioteca Digitale Italiana (BDI), e in particolare alcune indicazioni date nello studio di fattibilità per la BD commissionato dalla Direzione Generale Beni Librari del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Dallo studio è emersa la necessità di documentare gli aspetti materiali della conservazione (stato presente, restauri, ecc.) e della destinazione. Il modello analizzato è stato il modello di tipo logico-funzionale OAIS (Open Archival Information System) (http://lcweb.loc.gov/standards/metadata.html.). In vista anche della armonizzazione delle metodologie è parso utile riferirsi a un modello comune, «per condividere una terminologia e una cornice concettuale e facilitare così la comparazione e lo scambio di esperienze, non solo tra biblioteche, ma anche tra istituzioni diverse, quali musei, archivi, enti governativi». Lo Schema elaborato fornisce le specifiche formali per la fase di raccolta e di trasferimento dei metadati e dei dati digitali nei rispettivi archivi (fase SIP del modello OAIS). Ogni formato di metadati utilizzato è associato a un Namespace che fissa in modo non ambiguo la terminologia e a un XMLSchema che ne fissa la struttura sintattica. Per lo sviluppo di nuovi servizi è necessario disporre infatti non solo di standard relativi ai dati bibliografici, da sempre oggetto di analisi da parte delle biblioteche, ma anche di schemi di metadati amministrativi gestionali relativi a elementi quali le condizioni d’uso, le licenze, i diritti di proprietà e l’utilizzo nel tempo delle risorse digitali. Data la natura diversa e molteplice dei dati da documentare e gestire, la raccolta di tutti questi elementi deve essere il frutto di un lavoro coordinato dei vari attori coinvolti nelle fasi di creazione, distribuzione, analisi e messa a disposizione delle risorse La validità di un progetto di digitalizzazione deriva anche dalla scelta di un modello standard di rappresentazione degli oggetti di una collezione digitale sia per la ricerca sia per la gestione e trattamento. La situazione italiana ha evidenziato che i primi progetti di digitalizzazione si sono limitati agli aspetti tecnici di riproduzione e scansione senza documentare però le operazioni svolte vanificando l’utilizzo a lungo termine delle risorse digitalizzate. 40


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L’ambito di più immediata applicazione del MAG è stato quello dei vari progetti che fanno riferimento alla Biblioteca Digitale Italiana (BDI), anche se proprio per la sua modularità e flessibilità sta diventando di riferimento anche per ambiti diversi quali quelli archivistici e museali. L’uso di standard è una strategia che permette di preservare l’integrità e l’accesso alle informazioni digitali, facilita il trasferimento dei dati da piattaforme hardware e software che nel tempo si evolvono e rende le risorse accessibili per lungo tempo, soprattutto se si utilizzano standard aperti. L’accesso all’oggetto digitale deve essere reso possibile attraverso una infrastruttura di sistema informativo che aiuti l’utente nella selezione e identificazione della risorsa. I metadati rappresentano una chiave necessaria di questa infrastruttura: la descrizione, la classificazione e l’organizzazione aiutano a creare degli utili repository dell’informazione. Con l’acronimo MAG – Metadati Amministrativi e Gestionali – viene proposto un application profile che ha l’obiettivo di fornire le specifiche formali per la fase di raccolta e di trasferimento dei metadati e dei dati digitali nei repository delle varie istituzioni coinvolte in progetti di digitalizzazione. Lo Schema MAG è realizzato e mantenuto dal Comitato MAG che si è dato alcuni obiettivi, alcuni dei quali anche a lungo termine quali: – Diffusione dello Schema – Mantenimento ed evoluzione dello schema – Produzione di manuali e linee guida – Assistenza agli implementatori – Formazione e promozione – Rapporti con altri progetti e agenzie (Progetti europei, Dublin Core, etc.) Si vogliono brevemente descrivere le sezioni principali dello schema. Nello “start tag o metadigit” devono essere dichiarati tutti i namespace degli schemi utilizzati. Le sezioni obbligatorie sono quelle che contengono informazioni circa l’istituzione che opera la digitalizzazione, il progetto di digitalizzazione, lo stato dell’oggetto digitale e il codice identificativo dell’oggetto stesso. A queste sezioni, chiaramente insufficienti per lo scopo per il quale lo schema è stato creato se ne aggiungono molte altre alcune delle quali direi fondamentali quali ad esempio l’URI dell’oggetto digitale e l’elemento “Type” cioè la specificazione se si tratti di un documento di testo, di un video, ecc. Altri elementi necessari ai fini della fruibilità e definiti come obbligatori sono le condizioni di accessibilità dell’oggetto digitale e la dichiarazione di completezza o meno della digitalizzazione per i quali vengono stabiliti valori codificati. 41


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È fondamentale quindi nell’applicazione dello standard stabilire gli elementi che, in base anche alla tipologia dei documenti digitalizzati, alla complessità delle entità e dei requisiti e alla loro storia o evoluzione siano necessari per meglio comprendere le loro varie fasi. Il set di metadati MAG viene definito per tipologie di oggetti digitali (es. immagini statiche, testi prodotti con tecnologia OCR, suono, audiovisivi etc.); è uno standard aperto, documentato e disponibile, indipendente da specifiche piattaforme Hardware e software e quindi per un utilizzo generalizzato. A differenza dallo schema METZ della Library of Congress, che ha le caratteristiche di uno schema contenitore, quindi con pochi vincoli o indicazioni precise di riferimento a codifiche e regole, il profilo MAG si caratterizza come uno standard che indica in progressione una gerarchia di livelli e di relativi attributi in grado di specificare e dichiarare gli standard seguiti. Lo schema di codifica adotta le specifiche del W3C (Standard GEneralised Markup Language, ISO 8879:1986) e fa riferimento a diversi elementi codificati in standard internazionali. Sono stati individuati, soprattutto per le modalità di ricerca che necessitano di standardizzazione, liste normalizzate quali, ad esempio, i codici di ruolo delle responsabilità da prevedere, partendo dal confronto con i relator code di “Unimarc - Appendix C”; norme UNI/ISO, UNI/ISO 5963-189 per l’indicizzazione, ISO 2141976 per l’abstract, liste controllate TGN geografica e W3CDTF, temporale per l’elemento coverage, etc. Infatti il ricorso a tali strumenti come authority files, schemi di classificazione, sistemi di soggettazione, è un elemento qualificante di qualsiasi progetto di digitalizzazione e sono strettamente necessari ai fini di garantire l’interoperabilità. La scelta degli elementi descrittivi è stata volutamente limitata a quelli del Dublin Core simple e tali elementi sono derivati dagli archivi catalografici o dagli OPAC dei vari applicativi. Lo schema risulta composto delle seguenti sezioni, utilizzabili a seconda del contenuto dell’oggetto digitale: – GEN: informazioni generali sul progetto e sul tipo di digitalizzazione; – BIB: metadati descrittivi dell’oggetto analogico; – STRU: metadati strutturali dell’oggetto digitale; – MG: metadati specifici per le immagini fisse; – OCR: metadati specifici relativi al riconoscimento ottico del testo; – DOC: metadati specifici per oggetti digitali in formato testo (derivati o born digital); – AUDIO: metadati specifici per file audio; – VIDEO: metadati specifici per file video; – DIS: metadati specifici per la distribuzione di oggetti bibliografici. 42


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Alcuni dati possono essere creati automaticamente (data di creazione, di versione o altri attributi fisici della risorsa) mentre altri quali ad esempio l’assegnazione di un soggetto, l’attribuzione di parole chiave o il contenuto di un abstract sono elementi “soggettivi”e quindi prevedono un lavoro umano di selezione e di immissione. Tali automatismi semplificano la creazione di alcuni elementi dello schema dei metadati e ne riducono i costi. La scelta degli elementi deriva anche dal “profilo dei servizi” che una biblioteca intende offrire. I diversi oggetti digitali sono stati organizzati in una struttura gerarchica a livelli. – collezione digitale (set); – aggregato (aggregate) cioè un insieme di oggetti digitali omogenei per tipologia del contenuto; – oggetto primario (Primary object) un oggetto digitale definibile come un intero in genere corrispondente a una unità fisica; – oggetto intermedio (Intermediate object): una particolare vista o formato dell’oggetto primario; – entità digitale (terminal object) il singolo file che reca un’unità elementare di contenuto digitale. Il rapporto tra l’insieme dei file trasmessi e il record bibliografico è descritto dai tag <piece>, <completeness> e <sequence_number> associato a ogni immagine. I casi presi in considerazione sono: – unità bibliografica e unità fisica coincidono (es monografia in un volume); – pezzo fisico di un set (es. fascicolo di un periodico); – parte componente che non coincide con una unità fisica (es. capitolo di un libro). La sezione <stru> completa i metadati strutturali con un indice delle sezioni dell’oggetto digitalizzato. A tali metadati è possibile associare informazioni di rappresentazione. Tale rappresentazione può essere utilizzata anche in ambiti quali gli archivi che privilegiano aggregazioni a partire da insiemi complessi e in tale senso si sta procedendo a uno studio congiunto con una prima mappatura tra MAGg e standard archivistici e museali con la collaborazione di tecnici, archivisti e bibliotecari, al fine di progettare un eventuale prototipo intersettoriale. Come si è già detto per quanto riguarda i metadati descrittivi si è fatto riferimento al Dublin Core non qualificato in quanto i dati descrittivi, nel contesto della fase di archiviazione delle risorse digitalizzate, comunque già catalogate con standard bibliografici più ricchi, hanno come obiettivo la costituzione di un modello flessibile con un core minimo di dati, in modo tale da poter essere esteso nei vari ambiti 43


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dei beni culturali, finalizzato a una descrizione minima del suo contenuto per la ricerca e il recupero dell’informazione. D’altra parte con l’esposizione degli oggetti digitali si è evidenziata la necessità di incrementare le informazioni, soprattutto quelle relative al contesto e agli oggetti correlati in una struttura complessa o ad albero, oltre che quelle sulla fruibilità e condizioni, sui diritti di accesso e sulla catena di custodia degli oggetti stessi. Utilizzando lo schema è possibile produrre per ogni oggetto digitale un file guida standard che raccoglie tutte le informazioni sull’oggetto medesimo e contiene la mappa di tutti i file generati contestualmente alla digitalizzazione. Si ritiene che ogni sistema o processo di digitalizzazione sia in grado di attrezzarsi per produrre file di questo tipo. Lo standard MAG introduce inoltre elementi da altri schemi di metadati e fa riferimento a diversi standard internazionali di codifica, importando i vari namespaces secondo le regole xml. Al momento nei vari progetti è stato applicato sia a digitalizzazioni di testi (tra i quali codici e manoscritti musicali) che di file audio. Sono state prodotte inoltre le prime linee guida sulla digitalizzazione di particolari tipologie di materiali (materiale fotografico e cartografico) volte a problematiche tecniche di acquisizione delle immagini e alla definizione degli elementi core descrittivi ai fini dell’utilizzo di un linguaggio comune. Inoltre l’affermazione dello standard ha permesso di recuperare a posteriori la fruibilità di risorse di notevole valore culturale ma prive di elementi descrittivi per il recupero e la ricerca e di altri necessari alla gestione e manutenzione. Per quanto riguarda lo sviluppo dello standard dalla prima release limitata ad esempio per quanto riguarda i metadati descrittivi a pochi elementi identificativi si è fatto riferimento al set completo di elementi del Dublin Core. Si sono introdotti una serie di aggiornamenti necessari alla fase di harvesting e di dissemination per venire incontro alla fruizione degli oggetti digitali quali l’estensione dell’”holding” anche con l’elemento “Library” l’introduzione dell’”usage” e la sua ripetibilità, ecc. Inoltre i vari progetti hanno utilizzato tutte le componenti del DC introducendo accessi privilegiati per alcune utenze (vedi l’uso della relation per segnalare il titolo uniforme musica). Il Comitato sta elaborando il manuale applicativo che sarà disponibile per l’inizio del 2006 al fine di offrire uno strumento di supporto per le attività di gestione delle collezioni digitali. Lo schema terrà conto anche di aggiornamenti prodotti da altri standard di metadati quali ad esempio quello della Library of Congress e predisporrà un tool in grado 44


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di trasformare il formato MAG in quello usato dalla Library of Congress o da altri schemi per una reale interoperabilità a livello internazionale. Si vuole concludere segnalando uno schema di ultima generazione di codifica dei metadati l’IMPEG-21 (ISO/IEC 21000-N) che definisce un framework per la disponibilità e l’uso di materiale multimediale. Si tratta di un sistema aperto a tutti i creatori, produttori e distributori di servizi che si basa su due concetti essenziali: la definizione di una unità fondamentale di distribuzione e di transazione il Digital Item e sul concetto di interattività degli utenti con gli oggetti digitali. Il Digital Item è la rappresentazione di un’opera e come tale è descritto, raccolto e gestito insieme ad altri oggetti è puo modificarsi nel tempo; può essere costituito da varie componenti e interagire con esse quali strem video, tracce audio, immagini statiche etc. Il modello stabilisce un set di concetti e termini (metadati) per la definizione degli oggetti digitali (Digital Item Declaration). La parte del modello che si occupa dei dati identificativi Digital Item identification specifica come usare gli identificatori e come distinguere in maniera univoca le singole parti della risorsa digitale. Le principali caratteristiche del modello sono la flessibilità e l’interoperabilità ed è allo studio da parte del Comitato Mag la possibile conversione fra i due formati.

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Riferimenti bibliografici

ABC model: http://metadata.net/harmony/constructor/ABC_Constructor.htm. The Harmony Project. http://metadata.net/harmony. Categories for the Description of Works of Art (CDWA), Getty Research Institute http://www.getty.edu/research/conducting_research/standards/cdwa/. David Bearman – Eric Miller – Godfrey Rust – Jennifer Trant – Stuart Weibel. A Common Model to Support Interoperable Metadata, «D-Lib Magazine», January 1999, http://www.dlib.org/dlib/january99/bearman/01bearman.html. Data Dictionary – Technical Metadata for Digital Still Images, http://www.niso.org/pdfs/DataDict.pdf. DOI, The Digital Object Identifier System, [home page], http://www.doi.org/. Encoded Archival Description (EAD) http://www.loc.gov/ead/. Functional requirements for bibliographic records, IFLA, 2001. www.ifla.org/VII/s13/frbr/frbr.pdf. Traduzione italiana: Requisiti funzionali per i record bibliografici. Roma: ICCU, 2003. International Standard Archival Authority Record for Corporate Bodies, Persons and Families. http://www.ica.org/biblio/isaar_eng.pdf. International Standard for Archival Description (General) (ISAD(G)). Second Edition, http://www.ica.org/biblio/isad_g_2e.pdf. ISBD (G) General International Standard for Bibliographic Description, revised edition, 1992. Edizione italiana a cura dell’ICCU, 1999. Linee guida per la digitalizzazione del materiale fotografico. Roma: ICCU, 2005. Linee di indirizzo per i progetti di digitalizzazione del materiale cartografico. In corso di pubblicazione da parte dell’ICCU (il draft è disponibile all’indirizzo: http://www.iccu.sbn.it/PDF/Linee_guida_cartografia.pdf). Machine Readable Cataloguing (MARC): MARC 21 http://www.loc.gov/marc/. MAG Manuale per l’utente, a cura di Elena Pierazzo, ICCU, Comitato MAG. In corso di redazione. Manuale di buone pratiche per la digitalizzazione del patrimonio culturale, Versione 1.3 (3 marzo 2004), a cura del Gruppo di lavoro 6 del Progetto Minerva http://www.minervaeurope.org/ structure/workinggroups/goodpract/document/buonepratiche1_3.pdf. Metadata interoperability: http://www.ukoln.ac.uk/metadata/interoperability/. Metadata object description schema (MODS), http://www.loc.gov/standards/mods/. MPEG-21: http://www.chiariglione.org/mpeg/standards/mpeg-21/mpeg-21.htm. Carl Lagoze – Jane Hunter – Dan Brickley, An Event-Aware Model for Metadata Interoperability. http://www.cs.cornell.edu/lagoze/papers/ev.pdf. Schema MAG, versione 2.0, http://www.iccu.sbn.it/schemag_2.0.htm. Spectrum, the UK Museum Documentation Standard, 2nd Edition. Standard METS: http://www.loc.gov/standards/mets/. Unimarc Manual Authorities Format, 2. revised edition, Munchen: Saur, 2001. Unimarc Manual concise format 2001, http://www.ifla.org/VI/3/p2001/guideright.htm. Unimarc Manual Bibliographic Format, Munchen: Saur, 2002 (Update 5).

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Diritto d’autore e nuovi servizi al pubblico Anna Maria Mandillo ICCU

Lo scenario del diritto d’autore nella società dell’informazione

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a necessità di conoscere le norme che regolano il diritto d’autore da parte delle istituzioni culturali è strettamente legata alle esigenze dell’organizzazione dei servizi al pubblico. Questi possono essere sempre di più ampliati e potenziati nell’epoca attuale del grande sviluppo delle tecnologie informatiche e telematiche, non senza difficoltà tuttavia, perché, se da una parte crescono le opportunità di migliorare l’offerta agli utenti, dall’altra parte crescono di pari passo i dubbi sulle modalità di usare e sfruttare legittimamente i mezzi e gli strumenti che le nuove tecnologie mettono a disposizione. Sulla scena della società dell’informazione agiscono attori diversi: – gli autori, gli editori e i produttori tra i quali cresce l’allarme per il possibile uso indiscriminato e quindi illegittimo delle opere dell’ingegno, soprattutto se queste sono diffuse su supporti digitali o in Internet. Tra di loro prevale un atteggiamento di chiusura e di difesa perché temono di perdere ogni controllo sui contenuti e sugli strumenti tecnici di diffusione delle opere e sono quindi orientati a promuovere azioni volte a rafforzare, nelle norme, controlli e sanzioni; – gli utenti, sia quelli che sono frequentatori regolari delle istituzioni culturali, sia quelli, «remoti», che accedono direttamente ai contenuti in rete, manifestano la volontà crescente di muoversi agevolmente e senza vincoli, soprattutto utilizzando Internet, per soddisfare le proprie esigenze di informazione, di studio, di ricerca; – gli operatori delle istituzioni culturali, che si pongono tra gli uni e gli altri, cercano di mantenere il ruolo di mediazione, che hanno finora avuto, tra le fonti dell’informazione e della conoscenza e gli utenti. La loro situazione oscilla spesso tra due opposti: l’eccessiva confidenza e il grande timore delle norme sul diritto d’autore. In un caso possono commettere errori nella gestione dei servizi, a danno degli autori, nell’altro rischiano di ridurre ingiustificatamente i servizi, a danno degli utenti. Se guardiamo ai servizi al pubblico in relazione alla norme sul diritto d’autore qualche problema appare anche quando si tratta di fornire riproduzioni su carta o su 47


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altro supporto analogico (micrografia fotocopie o riproduzioni fotomeccaniche) o di dare in prestito libri e altre tipologie di documenti. Sono esemplari a tal proposito le vicende seguite all’emanazione della L.248 del 2000 (Nuove norme di tutela sul diritto d’autore), che ha imposto limitazioni nel servizio di riproduzioni in fotocopia e il pagamento dell’equo compenso a favore di autori ed editori. Per le riproduzioni fatte in biblioteca, in particolare, è previsto un compenso forfetario agli autori ed editori che le biblioteche devono versare alla SIAE (Società italiana autori editori), chiamata a svolgere dalla legge un rilevante ruolo di mediazione tra interessi opposti. La SIAE deve trovare i punti di accordo tra autori, editori e amministrazioni di biblioteche per stabilire tra tutte le parti i criteri dell’equo compenso, riscuotere e ridistribuire agli aventi diritto le somme introitate. Non si può parlare attualmente di una facile e completa applicazione della parte delle legge relativa ai compensi perché gli accordi si sono attuati lentamente con criteri diversi e una molteplicità di forme di applicazione sia per quanto riguarda la quantità del compenso, sia per ciò che concerne i limiti temporali di durata degli accordi. Quello con il Ministero per i beni e le attività culturali è stato stipulato, dopo lunghe trattative, tra la Direzione generale per i beni librari, la SIAE e le rappresentanze di autori ed editori nel mese di ottobre 2005 e riguarda le Biblioteche pubbliche statali. Sul servizio di prestito pesa la procedura d’infrazione della Commissione europea e il successivo deferimento, nel marzo 2005, alla Corte di giustizia europea dell’Italia e di altri Paesi dell’UE per la non corretta applicazione della direttiva 92/100 sul diritto di prestito. Allo stato dei fatti è probabile un esito negativo del procedimento che porterà alla condanna dei paesi chiamati in giudizio. L’interpretazione rigida della direttiva da parte della Commissione europea prevedeva la possibilità di fornire il prestito di opere agli utenti senza il versamento del compenso per i diritti d’autore solo, in via eccezionale, per alcune biblioteche, non per tutte le biblioteche pubbliche. Non è stata compresa né accettata, pertanto, la scelta politica e culturale dell’Italia di incentivare un servizio di base quale è il prestito e di estendere a tutte le biblioteche e discoteche dello Stato e degli enti pubblici l’esenzione dal pagamento del compenso. Per far fronte alla probabile condanna dell’Italia, che alla fine danneggerebbe gli utenti, soprattutto le categorie più disagiate, perché potrebbero essere chiamate a versare un compenso per i libri avuti in prestito, le amministrazioni pubbliche responsabili di biblioteche si stanno adoperando per ottenere la costituzione di un fondo nazionale, finanziato dallo Stato e dalle Regioni, che valga a fronteggiare l’eventuale pagamento del compenso per il prestito. Se non è agevole, come appare da questi esempi, la situazione per i servizi più semplici e diffusi nelle biblioteche, ancora più complessa potrebbe presentarsi l’orga48


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nizzazione dei servizi di document delivery per offrire agli utenti, in modo più rapido e adeguato ai tempi, strumenti di studio e di ricerca. Soprattutto nel caso di accesso a basi dati, di down load ,di riproduzione di opere digitali l’attenzione del bibliotecario,o più in generale dell’operatore delle istituzioni culturali, deve essere maggiore in quanto rilevanti quantità di documenti possono essere immagazzinati su diversi supporti e riprodotti senza alcuna differenza con l’originale, provocando, nel caso di un uso illegittimo, danni economici agli aventi diritto. È significativo il caso di Google, rimbalzato su tutti i media negli ultimi mesi, che ha dovuto prima sospendere e poi ridurre la portata del google print libray project di digitalizzazione delle opere di cinque importanti biblioteche americane (The New York public library, University of Michigan, Harvard University, Stanford University, Oxford University), partner del progetto, perchè ha incontrato l’ostacolo del diritto d’autore, posto dagli editori. L’attività di digitalizzazione si è perciò concentrata sulle opere di pubblico dominio, mentre per quelle ancora soggette a copyright vengono riprodotti e resi disponibili solo piccoli estratti e parallelamente vengono avviati accordi con editori in vari paesi, non solo statunitensi.

La legislazione italiana e i riferimenti internazionali Quando è stata emanata, la legge italiana n. 633 del 1941, sulla «Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi», ha segnato una tappa importante nella sistemazione della materia, quando è stata emanata, perché ha raccolto e ordinato in modo organico le norme prodotte sul diritto d’autore a partire dal 1865, norme che riguardano il complesso dei diritti a tutela delle creazioni intellettuali, le cosiddette «opere dell’ingegno» e si riferiscono anche ai «diritti connessi» che appartengono ai produttori, agli esecutori, agli interpreti e complessivamente a tutti coloro che, pur non partecipando alla fase creativa delle opere, hanno contribuito in vario modo alla loro realizzazione. La legge 633 ha come riferimento internazionale la Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche, convenzione che risale al 9 settembre 1886, ma che è stata modificata e ampliata nel corso del tempo. Alla Convenzione, che costituisce il quadro di riferimento generale per la protezione dei diritti d’autore, hanno aderito molti paesi (152 fino al 2004). L’Italia ha ratificato la Convenzione nel 1978, con la Legge 399 e l’ha resa applicabile con il DPR 19/1979. È importante richiamare l’attenzione su questo documento perchè, tra i trattati bilaterali e multilaterali inerenti la materia del diritto d’autore, questa convenzione è la più antica e stabilisce i principi fondamentali ai quali le leggi nazionali devono far riferimento per poter assicurare livelli minimi e comuni di protezione delle opere dell’ingegno Costituisce un testo di base sul quale si fonda il sistema internazionale di protezione che individua i diritti esclusivi da attribuire ai creatori delle opere e 49


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anche i limiti e le eccezioni che possono esserci a questi diritti in nome di interessi superiori, pubblici, che riguardano la cultura, il diritto di accesso all’informazione e alla conoscenza da parte dei cittadini. Nella Convenzione, infatti, perchè siano consentiti, a garanzia dei pubblici interessi, limiti ed eccezioni ai diritti d’autore, nel caso soprattutto di riproduzioni delle opere, devono essere rispettate tre condizioni così indicate nel comma 2 dell’articolo 9 del testo: «È riservata alle legislazioni dei Paesi dell’Unione la facoltà di permettere la riproduzione delle opere (letterrarie e artistiche protette dalla Convenzione in taluni casi speciali, purchè una tale riproduzione non rechi danno allo sfruttamento normale delle opere e non causi un pregiudizio ingiustificato ai legittimi interessi dell’autore». Queste tre condizioni (three steps della Convenzione di Berna) saranno richiamate in tutte le leggi sul diritto d’autore successivamente emanate dai diversi paesi, e anche nella nostra legge. Sono una sorta di filtro al quale devono passare le eccezioni ai diritti e costituiscono, quindi, la prova di ammissibilità delle eccezioni. Soprattutto nelle riproduzioni per uso personale (la copia privata) e quelle fatte per gli utenti mediante i servizi della biblioteca, il three step test ha una maggiore importanza quando lo si applica ai prodotti digitali perchè in tali tipologie di documenti appare sempre più difficile salvaguardare «lo sfruttamento normale delle opere» e può essere invece più facile arrecare danni economici agli aventi diritto (autori, editori, produttori) con la diffusione di riproduzioni (o download dalla rete) delle loro opere. È questo il «dilemma digitale» del nostro tempo: come raggiungere il giusto equilibrio tra diffusione di contenuti digitali e tutela della proprietà intellettuale nell’era di Internet.1 Altre indicazioni a livello internazionale per l’aggiornamento delle norme in materia di diritto d’autore vengono dall’organizzazione OMPI/WIPO (Organisation mondiale de la proprieté intellectuelle/World international property organisation), ossia dall’agenzia istituita nel 1967, con sede a Ginevra, responsabile della gestione della Convenzione di Berna, su mandato delle Nazioni Unite. L’OMPI/WIPO ha promosso una conferenza diplomatica a Ginevra nel dicembre 1996 per il riesame della Convenzione, che si è conclusa, dopo una serie di incontri, con l’approvazione di due trattati aggiuntivi.2 1

L’espressione, derivata da una pubblicazione americana (The digital Dilemma: Intellectual property and the information age. National research council, 2003) è utilizzata nel Rapporto sui contenuti digitali nell’era di internet elaborato dal Centro Studi del Ministro per l’innovazione e le tecnologie sulle risultanze della Commissione interministeriale (Ministro Innovazione e tecnologie, Ministero beni culturali, Ministero delle telecomunicazioni) sui contenuti digitali nell’era di Internet, pubblicato a marzo 2005. Consultabile in linea al sito: www.innovazione.gov.it.

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Scopo dell’aggiornamento è stato quello di inserire nel mutato scenario della società dell’informazione gli ampliamenti necessari a garantire ad una molteplicità di opere e di contenuti una continuità nella protezione dei diritti d’autore. I due trattati, approvati dalle delegazioni di 57 nazioni, sono relativi ai diritti degli autori di opere creative (artistiche e letterarie ), e a quelli degli esecutori e dei produttori di fonogrammi e sono ora alla ratifica degli Stati che li hanno sottoscritti nel 1996: per quanto riguarda l’Unione Europea (e quindi l’Italia) la ratifica è avvenuta nel marzo 2000. Per quanto riguarda le biblioteche l’interesse è soprattutto sul primo trattato che ha confermato, nella premessa all’articolato, «la necessità di mantenere un equilibrio tra i diritti degli autori e l’interesse pubblico generale, specialmente per quanto riguarda l’insegnamento, la ricerca e l’accesso alle informazioni». Nel testo sono previsti limiti ed eccezioni ai diritti d’autore da parte delle legislazioni nazionali che dovranno però tenere ferme le tre condizioni di base stabilite dalla Convenzione di Berna. Infine, in una delle dichiarazioni comuni, allegate al trattato, è ammesso che le leggi nazionali estendano all’ambiente digitale i limiti e le eccezioni del diritto d’autore che siano stati considerati accettabili secondo la convenzione di Berna, o che ne creino di più appropriati, se necessario, all’ambiente delle reti elettroniche. Per comprendere l’importanza delle norme sul diritto d’autore non si può non tener conto infine anche degli accordi e trattati, a livello internazionale, che riguardano in generale il commercio perché la loro influenza si estende anche sulle norme del diritto d’autore per dare linee di indirizzo su una materia in continua evoluzione, dato il grande sviluppo tecnologico che tocca tutti i prodotti dell’industria culturale (editoria, audiovisivi, opere e documenti digitali) e della loro diffusione mediante le nuove tecnologie. Tra questi di particolare rilievo sono gli accordi TRIPs (Trade related aspects of intellectual property rights) che riguardano gli aspetti del diritto d’autore nell’ambito del mercato dei più diversi prodotti e della circolazione di questi a livello internazionale. Sono stati firmati nel 1995 da molti paesi, tra cui l’Italia, come accordi specifici all’interno di un più generale accordo, il General agreement on tariffs and trade (GATT) che è alla base dell’organizzazione mondiale del commercio (WTO/OMC), creata a seguito dei negoziati dell’Uruguay round a Marrakech nel 1994. Gli accordi hanno messo in evidenza che, tra le opere creative, vanno posti i «programmi per elaboratore e le compilazioni di dati» (basi di dati). Alla Convenzione di Berna e agli altri trattati internazionali guarda anche l’Unione Europea che ha avviato dagli anni ‘90 un processo di aggiornamento delle legisla2

WIPO copyright treaty (WCT) sul diritto d’autore. WIPO Phonogram and performers treaty sui fonogrammi e sulle interpretazioni ed esecuzioni (WPPT). I trattati sono stati ratificati da 42 Stati fino al 2004.

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zioni in materia di diritto di autore. In poco più di dieci anni infatti c’è stata una crescita d’attenzione verso queste tematiche da parte degli organi dell’Unione. Attenzione che cresce di pari passo con lo sviluppo delle tecnologie e dei nuovi prodotti digitali, per i quali le norme esistenti appaiono inadeguate. Alla base di questo interesse c’è soprattutto la volontà di sostenere il mercato unico europeo e di proteggere editori e produttori degli Stati membri. Gli interessi economici di queste categorie, a causa della rilevanza degli investimenti nelle nuove linee editoriali, sono predominanti e influenzano la politica dell’UE che tende a privilegiare il settore privato degli editori e dei produttori. È comunque vero che non viene trascurato, d’altra parte, in un gioco di sapiente equilibrio, il rispetto degli interessi pubblici, rappresentati, in questo caso, soprattutto dalle biblioteche e dalle istituzioni di studio e di ricerca. Pertanto sono sempre date indicazioni nelle norme sul diritto d’autore perché, da una parte, siano salvaguardati i diritti economici che danno ai titolari dei diritti la giusta remunerazione per il lavoro, dall’altra siano salvaguardati anche diritti «superiori» che attengono alla sfera della diffusione della cultura e anche a quella della giustizia, della sicurezza, della critica, dell’insegnamento. Queste indicazioni trovano concretezza con l’introduzione, nelle leggi degli Stati, delle eccezioni e limitazioni ai diritti per permettere alcune utilizzazioni libere che non hanno bisogno di autorizzazione da parte degli aventi diritto e, a seconda dei casi, possono richiedere o meno il pagamento di un compenso. Queste linee di indirizzo dell’Unione Europea in materia di protezione del diritto d’autore si realizzano soprattutto con l’emanazione di direttive rivolte a tutti gli Stati membri, allo scopo di ottenere comportamenti uniformi, una volta che queste specifiche disposizioni siano introdotte nelle leggi nazionali. In Italia, il Parlamento con una legge delega dà mandato al Governo di emanare, entro il limite di tempo richiesto dalle stesse direttive, decreti legislativi che le applichino modificando la legge 633/41. Tra le direttive emanate, recenti e meno recenti,3 alcune riguardano in particolare anche l’attività delle istituzioni culturali. 3

Direttive europee che hanno modificato la legge 633/41: - direttiva 91/250 sulla tutela dei programmi per elaboratore attuata dal D.lgs. 518/92; - direttiva 92/100 sul diritto di noleggio e di prestito attuata dal D.lgs. 685/94; - direttiva 93/83 norme applicabili alla radiodiffusione via satellite e via cavo attuata dal D.lgs. 581/96; - direttiva 93/ 98 sull’armonizzazione della durata di protezione del diritto d’autore attuata dal D.lgs.154/97; - direttiva 96/9 sulla tutela giuridica delle banche di dati attuata dal D.lgs. 169/99; - direttiva 2001/29 sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nelle società dell’informazione attuata dal D.lgs. 68/2003; - direttiva 2001/84 sul diritto dell’autore di un’opera d’arte sulle successive vendite dell’originale.

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Su due direttive conviene porre maggiore attenzione: – la direttiva 96/9 sulla tutela delle banche di dati; – la direttiva 2001/29 sull’armonizzazione delle leggi europee del diritto d’autore nella società dell’informazione. È importante nella prima direttiva: – la definizione ampia delle banche di dati (estensibile anche a quelle non su supporto elettronico), indicate come «raccolte di opere, dati o altri elementi indipendenti sistematicamente o metodicamente disposti e individualmente accessibili mediante mezzi elettronici o in altro modo», da tutelare come opere dell’ingegno creativo; – l’introduzione del «diritto sui generis», nuovo diritto che tutela il costitutore di una banca dati, cioè colui che ha investito in modo rilevante «sia sotto il profilo quantitativo che qualitativo» per la sua realizzazione. È una protezione in più aggiunta al diritto d’autore sui materiali, i dati, le parti (ad esempio testo, suono, immagini) che, in quanto singole creazioni dell’ingegno, anche preesistenti su altro supporto, possono comporre la banca dati prima della sua realizzazione. Il diritto di chi ha investito per la produzione «può essere oggetto di licenza contrattuale» e ha una durata minore di protezione rispetto alle opere creative (15 anni, invece di 70), che può però decorrere nuovamente a ogni aggiornamento quantitativo e qualitativo del prodotto che viene così a configurarsi come una nuova banca dati. Si delinea chiaramente, nel contesto descritto, la figura dell’«utente legittimo», di colui, cioè, sia persona singola, sia istituzione/i pubblica/e, che ha acquisito una licenza o stipulato un contratto con il costitutore della banca dati finalizzato all’accesso e all’uso di questa per se stesso, o, nel caso di istituzioni, per il proprio bacino di utenza. Per l’istituzione culturale appare più conveniente non affrontare da sola, perchè in posizione più debole, la stipula di contratti/licenze, generalmente prestabilite dagli editori e produttori, ma scegliere, nel momento dell’acquisizione di un prodotto o della negoziazione dell’accesso a basi dati, di accordarsi con altre istituzioni culturali costituendosi in consorzi. La nascita di consorzi si sta attuando in Italia soprattutto in ambiente universitario perchè la costituzione di una controparte solida, ottenuta unendo le forze e le Uno schema di decreto legislativo è stato approvato il 28.10.2005 dal Consiglio dei Ministri in prima lettura. Il decreto ha lo scopo di recepire la direttiva nella legislazione italiana per arrivare a un comportamento uniforme nella successione delle vendite delle opere figurative in tutta l’UE ed evitare le speculazioni commerciali. - direttiva 2004/48 sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale (detta dell’enforcement) per meglio precisare e rafforzare le sanzioni contro gli illeciti. Il decreto legislativo è in via di elaborazione.

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risorse, dà la possibilità, al momento di stipulare contratti con editori e produttori per l’uso di opere digitali (soprattutto periodici elettronici, basi dati specialistiche), destinate all’utenza universitaria, di ottenere condizioni più vantaggiose. Tra le esperienze di consorzi realizzati in Italia attualmente vale citare quella del CILEA (Consorzio interuniversitario lombardo per elaborazione automatica) con la CILEA digital library, quella del CASPUR (Consorzio interuniversitario per le applicazioni di supercalcolo per università e ricerca) di Roma con il CIBER (Consorzio interuniversitario basi dati ed editoria in rete) che offre all’utenza di 26 università servizi di accesso in rete a risorse eletroniche bibliografiche e documentarie, quella infine del CIPE (Cooperazione interuniversitaria periodici elettronici), che riunisce 12 università in un progetto di cooperazione per l’acquisizione in cooperazione di periodici elettronici e basi dati dei maggiori editori scientifici. Per maggiori informazioni sulle attività messe in campo si rinvia alla consultazione dei rispettivi siti: http://cdl.cilea.it www.caspur.it www.unicipe.it. Nella seconda direttiva l’obiettivo dell’armonizzazione delle leggi nazionali su taluni aspetti del diritto d’autore nella società dell’informazione è indubbiamente ambizioso. Maturata dopo un intenso lavoro di confronto, promosso dalla Commissione Europea con gli Stati membri,4 ha avuto una lunga e faticosa gestazione: sono passati cinque anni dalla presentazione del primo testo della proposta (1997) all’approvazione di quello definitivo (2001). Durante il periodo di elaborazione e i vari passaggi tra gli organismi dell’UE, sono stati esaminati con ampiezza e approfondito dibattito tra le diverse parti interessate dei paesi membri i vari aspetti del diritto d’autore, soprattutto in relazione allo sviluppo della società dell’informazione e dei nuovi prodotti multimediali. Si sono definiti più chiaramente i diritti di cui tenere conto: diritto di riproduzione, diritto di comunicazione di opere al pubblico, diritto di distribuzione, oltre quelli già trattati nelle direttive precedentemente emanate. Lunghe trattative sono state necessarie inoltre per comporre posizioni diverse: lista chiusa delle eccezioni o lista aperta da ampliare o modificare eventualmente sulla base delle tradizioni legislative nazionali; obbligatorietà delle eccezioni o facoltà di scelta degli Stati membri tra quelle individuate. Alla fine si è preferita la scelta della lunga lista esaustiva: 20 limitazioni ed eccezioni ai diritti di riproduzione e di comunicazione al pubblico, che, elencate nell’articolo 5, costituiscono la fonte dalla quale gli Stati membri possono unicamente attingere per inserire deroghe nelle leggi nazionali. È stato anche affermato inequivocabilmente il principio dell’equo compenso da versare ai titolari dei diritti per le riproduzioni di qualsiasi tipo, eseguite per uso pri4

Nel 1995 è stato pubblicato il Libro verde su Il diritto d’autore e i diritti connessi nella società dell’informazione (COM (95) 382 def.) e successivamente il Follow-up: Le iniziative da assumere a seguito del del Libro verde (COM (96) 568 def.).

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vato, anche nel caso che le persone siano utenti di biblioteche e di altre istituzioni culturali. Sono state infine inserite le indicazioni sulle misure tecnologiche per proteggere le opere digitali dagli usi illeciti. Al raggiungimento della protezione sono naturalmente fortemente sensibili editori e produttori che ritengono necessario, per difendere i loro investimenti,di promuovere la diffusione di sistemi di gestione dei diritti (DRMS-digital right management system), tali da mantenere il controllo diretto e continuo dei contenuti digitali in tutti i passaggi che vanno dalla produzione all’uso da parte dell’utente finale. Le indicazioni piuttosto complesse che si leggono nell’articolo 6 della direttiva hanno avviato un ampio dibattito e appaiono ancora lontane soluzioni ottimali che contemperino gli interessi di tutti coloro che sono coinvolti: i titolari dei diritti d’autore, le industrie che sviluppano le tecnologie dei sistemi di gestione (e anche quelle che all’opposto realizzano i meccanismi di elusione delle misure tecnologiche), le esigenze degli utenti che si vedono ostacolati (anche quando sono legittimi fruitori dei contenuti digitali) e controllati nell’esercizio dei loro diritti di accesso alle fonti di informazione e di conoscenza e infine anche le tradizionali società collettive dei servizi, che si vedono escluse dai sistemi di DRM, gestiti direttamente dalle imprese editoriali, e quindi dalla mediazione finora svolta tra i titolari dei diritti e gli utenti.

Le modifiche alla legge 633 Tra le modifiche apportate alla legge 633, le più rilevanti per le biblioteche sono quelle che trattano le eccezioni e limitazioni ai diritti di riproduzione e di comunicazione al pubblico e regolano l’uso personale delle opere su qualsiasi supporto e i servizi erogati dalle biblioteche senza fini di lucro. Sono in massima parte contenute: – nel capo IV, le «Norme particolari ai diritti di utilizzazione economica di talune categorie di opere» per quanto riguarda le modalità d’uso delle banche di dati, sia in relazione ai diritti dell’autore, sia a quelli del costitutore (trattati nel successivo titolo II bis), come prescritto dalla direttiva 96/9; – nel capo V le «Eccezioni e limitazioni» derivate in massima parte dalla lista esaustiva dell’articolo 5 della Direttiva 2001/29. Allo stato attuale, quindi, dall’esame delle norme si delinea quale deve essere il comportamento delle biblioteche, quali i limiti dentro i quali devono mantenersi. Le norme sono puntuali quando si tratta di tipologie di opere tradizionali e di casi di 55


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utilizzo consolidati da molto tempo5, diventano più generali quando sono riferite a nuovi supporti e a modalità di accesso dipendenti dalle nuove tecnologie. Appare chiaro l’intento del legislatore di voler mantenere ed estendere l’efficacia della legge anche sui possibili futuri prodotti della tecnologia e sulle diverse modalità di accesso che potranno nascere da una realtà in rapido mutamento, a condizione che siano fatti salvi i criteri di base della Convenzione di Berna. Alla fine del capo V sono indicate pertanto «Disposizioni comuni» che recitano: «le eccezioni e limitazioni disciplinate nel presente capo e da ogni altra disposizione della presente legge, quando sono applicate a opere o ad altri materiali protetti messi a disposizione del pubblico in modo che ciascuno possa avervi accesso dal luogo e nel momento scelto individualmente non devono essere in contrasto con lo sfruttamento normale delle opere o degli altri materiali, né arrecare un ingiustificato pregiudizio agli interessi dei titolari».

L’evoluzione della legislazione italiana La legge 633/41 ha potuto garantire fino a 50 anni dalla sua emanzione un certo equilibrio tra i diversi interessi, pubblici e privati. Successivamente, come sopra 5

In sintesi le prescrizioni del capo V aggiornato della Legge 633 riguardano in particolare: - le riproduzioni in fotocopia fatte, senza limiti, per i servizi di biblioteca; - le riproduzioni con il limite del 15% se fatte per uso personale secondo le modifiche volute dalla legge 248/2000; - il pagamento della remunerazione alla SIAE a compenso dei diritti d’autore (art.68); - il prestito nelle biblioteche e discoteche dello stato, trattato nella legge 633, a differenza di altri paesi europei, privilegiando le ragioni culturali di questo servizio. Il prestito, infatti, “eseguito dalle biblioteche e discoteche dello Stato e degli enti pubblici, ai fini esclusivi di promozione culturale e studio personale , non è soggetto ad autorizzazione da parte del titolare del relativo diritto, al quale non è dovuta alcuna remunerazione”; - possono essere date in prestito le opere a stampa, ma non gli spartiti e le partiture musicali; - possono essere prestati anche i fonogrammi e videogrammi dopo 18 mesi dalla prima distribuzione, o , se non ancora distribuiti, dopo 24 mesi dalla realizzazione e di questi può essere fatta una riproduzione per i servizi della biblioteca o discoteca (art.69). Sono consentiti: - il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani per uso di critica o discussione, se fatti a fini di insegnamento o di ricerca scientifica o a fini illustrativi non commerciali (art.70); - le riproduzioni per uso personale ai portatori di handicap (art.71 bis); - la comunicazione o la messa a disposizione destinata a singoli utenti, a scopo di ricerca o di studio, su terminali aventi tale unica funzione, situati nei locali delle biblioteche accessibili al pubblico, degli istituti di istruzione, nei musei e negli archivi, limitatatamente alle opere o ad altri materiali contenuti nelle loro collezioni e non soggetti a vincoli derivanti da atti di cessione o da licenza (art.71 ter). Inoltre è possibile: - rimuovere le misure tecnologiche dietro richiesta delle autorità per ragioni di sicurezza pubblica o per assicurare il regolare svolgimento di un procedimento amministrativo, parlamentare o giuridico; - rimuovere le misure tecnologiche anche quando si è in presenza di accordi o licenze per l’uso delle opere (art 71 quinquies).

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accennato, a causa dello sviluppo delle tecnologie nella produzione e diffusione delle opere dell’ingegno ha avuto molte modifiche e aggiornamenti, soprattutto introdotti dal recepimento delle direttive europee. Attualmente è in corso una revisione della legge finalizzata a riordinare, emendare e aggiornare il testo originario con l’obiettivo finale di rendere la nostra normativa sempre più uniforme alle norme dettate dall’UE. La spinta iniziale alla revisione viene dalla Legge delega 137/2002 (rinnovata dalla L.186 del 27.07.2004) che ha dato al Governo mandato di emanare un decreto legislativo di riassetto della proprietà letteraria e del diritto d’autore per «armonizzare la legislazione relativa alla produzione e diffusione di contenuti digitali e multimediali e di s/w ai principi generali a cui si ispira l’UE in materia di diritto d’autore e diritti connessi». Una Commissione speciale nell’ambito del Comitato consultivo permanente per il diritto d’autore (art.190 L.633), costituito dal Ministero per i beni culturali, ha lavorato per due anni (2004-2005) all’elaborazione di una bozza di proposta di rinnovamento della Legge che, con qualche difficoltà, a causa di conflitti di competenza in materia di diritto d’autore tra Presidenza del Consiglio e Ministero per i beni e le attività culturali, attende di poter proseguire il suo cammino. Un’altra Commissione interministeriale tra il Ministero delle comunicazioni, il Ministero per i beni e le attività culturali e il Ministero per l’innovazione e le tecnologie ha svolto un lavoro di indagine nel 2004: – per rispondere all’esigenza di disporre di analisi relative allo sviluppo del mercato dei contenuti digitali, tenendo conto del contesto internazionale, nonché delle evoluzioni tecnologiche; – per rivedere la legge 633, tener conto della costante evoluzione del settore delle tecnologie informatiche, nonché garantire un’adeguata armonizzazione della legislazione italiana con quella europea. La seconda commissione, durante i suoi lavori, ha promosso 56 audizioni di rappresentanti di Amministrazioni, Enti pubblici, Associazioni e organismi interessati e ha pubblicato, a marzo 2005, un «Rapporto sui contenuti digitali nell’era di Internet» che indica alcune azioni da intraprendere per risolvere il «dilemma digitale»: – predisporre un modello legale di fruizione dei contenuti digitali; – avviare a soluzione i problemi del peer to peer, cioè dello scambio di file tra utenti in modo diretto e anonimo. Sono previsti quattro ambiti di intervento: – incentivare accordi tra le parti, definizione di linee guida per pratiche di autoregolamentazione; 57


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promuovere interventi normativi adeguati e flessibili; promuovere la conoscenza della normativa e lo sviluppo di una coscienza etico-sociale tra gli utenti di Internet; stimolare le istituzioni ad ampliare i contenuti digitali e «popolare la rete», allo scopo di fornire strumenti di diffusione del sapere e della cultura in modalità di pubblico dominio.

A seguito della conclusione dei lavori della commissione e della pubblicazione del Rapporto, è stato promosso dal Ministro per l’innovazione e le tecnologie, dal Ministro delle comunicazioni e dal Ministro per i beni e le attività culturali il «Patto di S. Remo», alleanza sottoscritta a S. Remo nel mese di marzo 2005, tra il Governo e una cinquantina di imprese (fornitori di connettività, titolari dei diritti, case di produzione, gestori di piattaforme di distribuzione) per l’adozione di codici di condotta per la diffusione dei contenuti digitali nell’era di Internet.6

Conclusioni A conclusione di questa rassegna sullo stato delle norme sul diritto d’autore, nel momento in cui le istituzioni culturali si trovano a gestire, sempre più frequentemente, risorse digitali, sia derivate da processi di riproduzione, sia born digital, diventa prioritario conoscere i diritti collegati alle risorse, come detto all’inizio, sia che si tratti di risorse acquisite dall’esterno, sia di risorse prodotte all’interno delle stesse istituzioni. L’individuazione è prioritaria rispetto all’organizzazione e gestione dei servizi da parte delle istituzioni culturali, ed è strettamente connessa agli attori che hanno concorso alla realizzazione delle risorse digitali. Le attività di servizio devono rispettare le restrizioni imposte dalla legge, ma possono godere delle limitazioni ed eccezioni ai diritti che la normativa prevede a favore di servizi di pubblico interesse. A tal proposito è necessario che si crei un clima di certezze intorno a quelle che sono custodi della memoria storica, culturale e scientifica dell’Europa. Le loro collezioni rappresentano un ineguagliabile patrimonio di conoscenze, che sono alla radice della identità e della cultura europea. Insostituibile è quindi il ruolo che queste possono svolgere nella società dell’informazione e della conoscenza, partecipando sì alle dinamiche del mercato, ma non abdicando agli obiettivi specifici e agli importanti compiti educativi.

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Il testo del “Patto di S. Remo” è consultabile al sito: www.innovazione.gov.it.

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Lo sviluppo dei prodotti digitali e della rete permette oggi di rendere accessibili le collezioni ai cittadini europei e di tutto il mondo, ma i problemi connessi alla gestione dei diritti sulle risorse digitali possono costituire un freno alla creazione di nuovi contenuti digitali, allo sviluppo dei servizi di accesso in rete e alla conservazione a lungo termine delle risorse digitali. La Carta Unesco sulla conservazione del patrimonio digitale7, all’articolo 2, invita gli Stati membri a cooperare con le principali organizzazioni e istituzioni per favorire la creazione di un contesto giuridico e di prassi fondato sul corretto equilibrio tra i diritti di autori e produttori e gli interessi di ogni tipologia di utenti, allo scopo di favorire un ampio accesso al patrimonio digitale. La carta sottolinea che lo scopo della conservazione del patrimonio digitale è quello di mantenerne la fruibilità per il pubblico. La volontà di rimuovere gli impedimenti che ostacolano il raggiungimento di tale scopo deve tradursi in azioni a livello europeo, sia sul fronte della normativa, sia sul fronte tecnologico. Alcune esigenze appaiono prioritarie: – seguire con maggiore attenzione l’evoluzione della normativa del diritto d’autore sia a livello nazionale sia internazionale perchè venga delineato un quadro di riferimento certo per la regolamentazione dell’accesso in rete a qualunque tipologia di opere e sia mantenuto e rafforzato il necessario equilibrio tra interessi di mercato e valori culturali; –

riconoscere uno status specifico di pubblica utilità alle istituzioni culturali, sia per i compiti di conservazione della memoria, sia per i servizi educativi e di informazione;

stabilire tavoli di trattative, a livello nazionale e dell’UE, con le organizzazioni dei detentori dei diritti, per arrivare a stipulare contratti che, mediante uno schema di licenza, assicurino un equo e comune sistema di compensi per tutti i possibili usi delle risorse digitali. Si verifica spesso, infatti, che le istituzioni rappresentino la parte obiettivamente più debole nella fase di contrattazione della licenza d’uso: emerge pertanto la necessità della scelta del consorzio, come aggregazione idonea a rafforzare il potere contrattuale delle istituzioni culturali.

pervenire a un comune modello di licenza-contratto d’uso a favore delle istituzioni culturali (ad esempio un contratto del Ministero per i beni e le

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Carta per la conservazione del patrimonio digitale, adottata dalla trentaduesima sessione della Conferenza generale dell’Unesco il 17 ottobre 2003.

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attività culturali) condiviso anche a livello europeo rispettoso degli interessi, pubblici e privati, delle parti in causa, e garante del diritto all’informazione e alla conoscenza da parte dei cittadini; –

promuovere accordi internazionali tra istituzioni e produttori per individuare e dare certezza agli utenti, ovunque essi siano, sulla qualità dei servizi ottenibili e sui sistemi di tariffazione;

promuovere investimenti per progetti che sviluppino sistemi di DRM economici, facilmente gestibili, rispettosi dei diritti di accesso e di privacy degli utenti;

favorire l’avvio di sistemi di open access per la diffusione della produzione culturale e scientifica mediante lo sviluppo di collezioni-depositi istituzionali (institutional repositories), sostenuti da software di tipo open source, con l’obiettivo di facilitare l’accesso e l’uso dei documenti, prevedendo, comunque, meccanismi di tutela e controllo dei diritti di proprietà intellettuale.

Lo sviluppo delle collezioni-depositi istituzionali al momento è un fenomeno prevalentemente concentrato nel mondo delle università, che possono così gestire e mettere a disposizione della propria comunità documentazione digitale prodotta dai propri membri. Modelli di gestione e diffusione della produzione scientifica e culturale potrebbero essere sperimentati con le pubblicazioni di istituzioni culturali pubbliche, quali, ad esempio, le strutture tecnico-scientifiche del Ministero per i beni culturali. Su queste priorità è auspicabile che si approfondisca il confronto tra le diverse forze in campo, soprattutto nell’ambito delle istituzioni. «DigItalia »è un nuovo spazio che si apre: la rivista vuole essere uno strumento, tra gli altri, aperto ad accogliere validi contributi per alimentare la riflessione e il dibattito.

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Riferimenti bibliografici Codice del copyright: il diritto d’autore fra arte e industria, a cura di Gustavo Ghidini e Maria Francesca Quadrone. III edizione riveduta e aggiornata. Milano: Giuffrè, 2004. Vittorio M. De Santis. I soggetti del diritto d’autore. Milano: Giuffrè, 2005. Laura Chimienti. La nuova proprietà intellettuale nella società dell’informazione: la disciplina europea e italiana. Milano: Giuffrè, 2005. Stefania Ercolani. Il diritto d’autore e i diritti connessi: la legge 633/41 dopo l’attuazione della direttiva 2001/29. Torino: Giappichelli, 2004. Roberto Caso. Digital rights management: il commercio delle informazioni tra contratto e diritto d’autore. Padova: CEDAM, 2004. Settimio Paolo Cavalli – Alberto Pojali. Dizionario del diritto d’autore. Milano: Editrice Bibliografica, 2003. Siti di interesse per essere aggiornati sul dibattito in corso a livello nazionale e internazionale e per avere i testi aggiornati delle leggi: www.interlex.it www.dirittodautore.it www.innovazione.gov.it www.adelphicharter.org

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Identificatori persistenti per gli oggetti digitali Mario Sebastiani ICCU

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a impressione constatare quanto sia cambiato rapidamente, a causa della rivoluzione elettronica, il mondo dell’informazione e della comunicazione scritta. In un convegno sui cataloghi delle biblioteche, svoltosi nel lontano 1987, presso la University of California di Los Angeles1, uno dei relatori delineava uno scenario prossimo venturo che sicuramente all’epoca poteva sembrare a molti alquanto fantascientifico: «Nella misura in cui la tecnologia della trasmissione dell’informazioni andrà avanti crescendo, l’informazione gestita in qualsiasi modo da una biblioteca sarà disponibile alle altre in una qualche forma senza bisogno che vi sia un trasferimento fisico di oggetti fisici. C’è ancora una lunga strada per arrivare a questo, ma la direzione è abbastanza chiara: quello che una biblioteca possiede sarà virtualmente presente in ogni altra biblioteca. La stessa collezione sarà virtualmente disponibile a tutti e le differenze tra i cataloghi locali saranno confinate a differenze nella forma di disponibilità. La distinzione tra cataloghi locali e collettivi si dissolverà in una pratica insignificanza. Se vogliamo pensare proficuamente alla catalogazione descrittiva, allora dobbiamo pensare ad un futuro nel quale le copie effettivamente leggibili costituiranno solo una piccola frazione della collezione disponibile in un dato luogo e nella quale le copie virtuali saranno trattate alla pari con le copie reali».2 Oggi, possiamo affermare che lo scenario prospettato da questo intervento era impreciso per difetto, perchè confinato al mondo delle biblioteche. Internet, invece ha trasformato questa visione in una realtà concreta, non solo per gli utenti delle biblioteche, ma anche per chiunque, ovunque nel mondo, si colleghi alla rete, anche da casa propria. Naturalmente l’esplosione della comunicazione online ha comportato, oltre agli enormi indiscutibili vantaggi di cui tutti facciamo esperienza in vario modo, anche svariati problemi che solo ora cominciano a essere percepiti, sia pure a stento, dal pubblico non specialista. In questo senso, uno dei problemi principali è rappresentato dall’identificazione permanente degli oggetti digitali in rete, siano essi file di testo, musica, video, immagini. La consapevolezza di questo 1

2

Conference on the Conceptual Foundations of Descriptive Cataloging, Univerity of California, Los Angeles, 14-15 febbraio 1987. Atti in: Elaine Svenonius (a cura di), The conceptual foundations of descriptive cataloging, San Diego: Academic Press, 1989. Patrick Wilson, The Second Objective, in: The conceptual foundations of descriptive cataloging cit., p.7.

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problema è nata soprattutto in relazione all’identificazione dei testi elettronici, ma riguarda comunque tutti gli oggetti digitali in genere. Elaine Svenonius, professore di Library Information Science, presso la University of California di Los Angeles, ha formulato così, in una pubblicazione di pochi anni fa, la questione: «Si incontrano problemi con gli indirizzi di Internet quando, per recuperare un dato documento, sono disponibili molteplici siti e mirror. Possono verificarsi problemi anche quando i siti per il recupero non sono distinti dai siti di pubblicazione. Ma il problema più grave capita quando cambiano gli indirizzi. Questo problema riguarda in particolare gli URL. L’URL di un documento può cambiare quando vengono fatti dei cambiamenti per riconfigurare l’hardware o riorganizzare il sistema. L’OCLC ha affrontato questo problema istituendo il servizio Persistent Uniform Resource Locator (PURL) che registra i cambiamenti degli indirizzi in modo da fornire agli utenti l’ultimo indirizzo di un documento. Ma questa soluzione è solo una misura temporanea».3 In altri termini, il punto è che per gestire e rendere effettivamente fruibili gli oggetti digitali distribuiti in rete e anche per garantire la loro conservazione duratura, è necessario disporre di sistemi che consentano di identificare in maniera chiara, univoca, non ambigua, ma soprattutto stabile nel tempo, questi oggetti, alla stessa stregua di quanto avviene, ormai da molto tempo, in modo semplice ed efficiente, per i documenti stampati (libri, periodici).

Identificare opere a stampa e testi elettronici: le differenze Per lllustrare le differenze tra opere a stampa e testi elettronici, relativamente al tema dell’identificabilità permanente, il modo più semplice di procedere è quello di descrivere un esempio concreto di ricerca. Nel 1813, Jane Austen descriveva, in Orgoglio e pregiudizio, la vita e il contesto sociale dell’aristocrazia di campagna inglese del secolo scorso e ne analizzava con delicata ironia i complessi rapporti tra il carattere individuale delle persone e la loro posizione sociale.4 Volendo leggere una copia originale inglese del testo di questa celebre opera, Pride and prejudice, potremmo percorrere due strade: la prima, quella più tradizionale, consisterebbe nel cercare una biblioteca che possieda l’opera a stampa. Potremmo allora procedere in tal senso, interrogando il catalogo online del “Servizio Bibliotecario Nazionale” (SBN).5 Il sistema, in risposta alla nostra richiesta, fornirà un elenco di edizioni che saranno identificate in primo luogo dai relativi dati bibliografici e, quando disponibile, anche da un codice sintetico, l’International Standard Book Number (ISBN). Questo codice viene pubblicato sull’ultima pagina 3

4

5

Elaine Svenonius, The intellectual foundation of information organization, Cambridge (Mass.): MIT Press, 2000, p.156. La scrittrice inglese Jane Austen nacque a Stevenson, Hampshire, nel 1775, e morì a Winchester nel 1817. Cfr. http://opac.sbn.it/.

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di copertina di un libro e consente di identificare immediatamente e inequivocabilmente quel dato libro. Nell’immagine 1 possiamo vedere la scheda bibliografica di un’edizione dell’opera di J. Austen, insieme al relativo codice ISBN, tratta dal catalogo online dell’SBN.

1 - Un’edizione a stampa di Jane Austen identificata: 1. tramite i dati bibliografici; 2. tramite il codice ISBN.

Il codice ISBN è nato nel 1967, in Inghilterra, e nel 1970 è diventato uno standard ISO.6 Sebbene l’ISBN sia utile soprattutto a editori e librai, anche la gente comune può trovarsi in situazioni nelle quali questo codice si rivela una risorsa molto utile. Ad esempio, all’inizio di ogni nuovo anno scolastico, costituisce un’esperienza comune a molti studenti e a molti genitori, quella di controllare l’esattezza dei testi scolastici acquistati confrontando il codice ISBN presente sui libri con quello riportato sulla lista fornita dalla scuola. Naturalmente la ricerca del testo non termina con l’identificazione di un’edizione: occorre anche accedere materialmente a un esemplare fisico di quella edizione. A questo scopo il sistema SBN fornisce, per ogni scheda relativa a un’edizione, un altro codice molto importante: il codice di localizzazione del libro. Questo è un numero che identifica quella o quelle biblioteche che, tra le tante che aderiscono all’SBN, possiedono una copia del libro in questione. Nel caso dell’edizione identificata dal numero “ISBN-88-09-02074-X”, uno dei codici di localizzazione forniti dall’indice dell’SBN sarà “RM0267”, vale a dire il codice corrispondente alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma (BNCR). Disponendo di questa informazione, potremo allora recarci presso la BNCR e chiedere di leggere il libro, tramite il prestito o la consultazione in sede. Non prima però, è ovvio, di esserci procurati un ultimo dato cruciale: la collocazione del testo nella biblioteca, vale a dire il codice che indica su quale scaffale, di quale magazzino della biblioteca, è fisicamente collocato il libro. Anche questo dato si può reperire sul web: basta interrogare il catalogo online della BNCR.7 Nel caso del nostro esempio, la collocazione sarà allora “AZD AST00 10372”. Possiamo vedere i tre codici riuniti nella tab.2. 6

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Come ISO 2108. L’amministrazione e il coordinamento internazionale del sistema ISBN sono svolti dall’Agenzia Internazionale ISBN con sede a Berlino presso la Biblioteca nazionale; cfr. http://www.isbn-international.org. Il ruolo di agenzia titolare dell’ISBN per l’area di lingua italiana è svolto dall’Associazione Italiana Editori (AIE); cfr. http://www.isbn.it. Per i periodici esiste l’International Standard Serial Number (ISSN); cfr. http://www.issn.org:8080/pub/. http://opac.bncrm.metavista.it/.

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2 – Codici per l’identificazione, la localizzazione, la collocazione di un libro di J. Austen.

Da notare, per quanto riguarda questi dati, che un cambiamento dei codici di localizzazione e di collocazione, non pregiudica l’identificazione permanente dell’edizione. Anche se l’esemplare fisico in questione viene spostato da un punto all’altro della biblioteca, e quindi cambia la collocazione, l’esemplare continua a essere identificato dallo stesso codice ISBN. Lo stesso vale se cambia la localizzazione. Nel caso dei testi elettronici su Internet, invece, le cose procedono alquanto diversamente. Come è noto sul World Wide Web (WWW) vi sono numerosi siti che rendono liberamente scaricabili le versioni elettroniche di opere a stampa che, per il tempo trascorso o altri motivi, non sono più protette dal diritto d’autore. Un sito del genere è quello denominato Project Gutenberg, forse la più “antica” biblioteca digitale della storia.8 Possiamo allora proseguire il nostro esempio, cercando in questo sito una eventuale versione elettronica dell’opera di J. Austen. Nell’immagine 3 è riportato l’indirizzo web di una versione eletronica dell’opera di J. Austen ottenuta interrogando il catalogo online del Project Gutenberg. Il testo elettronico è in formato PDF (Portable Document Format).9

3 – Indirizzo web che identifica e localizza, sul sito del Project Gutenberg, una versione elettronica dell’opera di J. Austen.

È evidente, a questo punto, che tra testi a stampa e testi elettronici vi è una differenza fondamentale: nel caso delle opere a stampa, tre distinti codici provvedono alle funzioni di identifcazione, localizzazione e collocazione; nel caso invece dei testi elettronici, un unico codice assolve simultaneamente a tutte le funzioni. Col risultato che se l’indirizzo web del testo elettronico dovesse cambiare – e questo può avvenire per una quantità di motivi di ordine tecnico e/o amministrativo – allora qualsiasi citazione di quel testo smetterebbe di avere valore. Cliccando sul link che rinvia a quell’indirizzo web, otterremmo in risposta il messaggio di errore: «HTTP 404 -File non trovato». In assenza di ulteriori informazioni, non saremmmo più in grado nemmeno di sapere di che testo si tratta. 8

9

Project Gutenberg è un progetto avviato nel 1971 da Michael Hart con l’obiettivo di costituire una biblioteca di versioni elettroniche liberamente riproducibili di libri stampati. Al settembre 2005 questa biblioteca digitale contava oltre 16.000 testi. Per il catalogo online cfr. http://www.gutenberg.org/catalog/. Da notare che sul Project Gutenberg non viene riportata l’indicazione di edizione dei testi.

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Internet si basa sul protocollo TCP/IP e gli indirizzi IP Perchè gli indirizzi web non garantiscono un’identificazione permanente degli oggetti digitali in rete? Per rispondere a questa domanda è necessario richiamare alcune nozioni fondamentali relative alla storia e al funzionamento di Internet. Il fondamento di questa rete è costituito dall’interconnessione globale di centinaia di migliaia di computer altrimenti indipendenti. Ciò che rende questa interconnesione possibile è l’uso di un insieme di standard di comunicazione, procedure e formati comuni in tutto il network, chiamati protocolli. A questo riguardo la suite fondamentale di protocolli di Internet è quella denominata TCP/IP (Transport Control Protocol / Internet Protocol). Il TCP/IP è un protocollo di interconnessione cosiddetto a pacchetti. O per meglio dire, di commutazione a paccheto. La commutazione a pacchetto si differenzia dalla tradizionale commutazione a circuito, quella della rete telefonica tradizionale per intenderci, per il fatto che tra il mittente e il destinatario dei dati, non si determina una connessione stabile, ma i dati trovano volta a volta, sulla rete complessiva, il percorso più rapido per giungere a destinazione. Questa particolare modalità di interconnessione ha finito per prevalere perchè più adatta a gestire il modo particolare in cui i computer si trasmettono i dati l’uno all’altro. I computer, infatti, quando comunicano tra di loro, lanciano brevi ma intense raffiche di dati, per poi rimanere silenziosi in attesa del flusso successivo. Nella commutazione a pacchetto questi flussi vengono trasmessi appunto come pacchetti di dati. Possiamo immaginare allora questi pacchetti che, come delle cartoline, vengono inoltrati da un computer a un altro finché non giungono a destinazione. In una rete di computer, quelli deputati unicamente a inoltrare e smistare i pacchetti di dati, sono chiamati router. L’insieme dei router e dei collegamenti tra loro costituiscono l’infrastruttura di base della rete Internet. L’enorme sviluppo di questa rete è dovuto proprio alla grande efficienza con cui questa infrastruttura, grazie alla interconnessione a pacchetti, è in grado di operare. Ritornando all’analogia delle cartoline, queste possono andare perse; possono essere inoltrate in modo disordinato e possono essere rallentate lungo il loro percorso da vari fattori. Lo stesso vale per i pacchetti Internet. Vi è quindi uno strato di rete che provvede a inoltrare i pacchetti, l’Internet Protocol (IP), e uno strato superiore, il Transport Control Protocol (TCP), che provvede a gestire gli inconvenienti che possono accadere: ad esempio rispedisce i pacchetti che si sono persi lungo il percorso o rimette in ordine quelli arrivati in disordine. Naturalmente, affinché i pacchetti possano giungere a destinazione – e ricevere una risposta – è necessario che trasportino con loro, proprio come una cartolina postale, l’indirizzo del destinatario e quello del mittente. A questo scopo – in una rete TCP/IP – ogni computer è “targato” con uno specifico numero di riconoscimento, diverso da tutti gli altri. Questo numero si chiama indirizzo IP. È con questo numero che, nei pacchetti TCP/IP, vengono compilati il campo “destinatario del pacchetto” e “mittente del pacchetto”. Gli indirizzi IP sono costituiti da quattro 66


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gruppi di cifre divisi da un punto. Ogni gruppo è composto da una, due o tre cifre. Ad esempio 193.206.221.29 è un indirizzo Internet valido. Questo sistema ha dato origine a una rete efficiente e affidabile che può essere ampliata a piacere, tanto che, pur avendo raggiunto una dimensione mondiale, le sue prestazioni continuano a crescere. Come hanno detto giustamente Robert Kahn e Vinton Cerf, gli inventori del protocollo TCP/IP: «Senza commutazione a pacchetto, non esisterebbe Internet così come la conosciamo».10

Il name-system di Internet è il Domain Name System (DNS) Nella rete Internet, sopra lo strato di trasporto (rappresentato dal protocollo TCP/IP) operano altri protocolli che, usati insieme a determinati linguaggi per codificare le informazioni, consentono alla rete di erogare quei servizi per i quali è diventata così popolare. In primo luogo il protocollo HTTP (Hyper Text Transfer Protocol) e il linguaggio HTML (HyperText Markup Language). Insieme, queste due componenti costituiscono l’infrastruttura della rete ipertestuale mondiale del WWW. Quando clicchiamo un link in una pagina web, il browser web non fa altro che inviare, mediante il protocollo HTTP, al computer remoto, corrispondente all’indirizzo web riportato nel link, una richiesta di visualizzazione della corrispondente pagina web. La pagina richiesta giungerà, codificata appunto in formato HTML, al nostro browser web che provvederà a visualizzarla sullo schermo del nostro pc. Lo stesso avviene se accediamo alla pagina web remota semplicemente digitando l’indirizzo web della pagina, nell’apposita barra degli indirizzi del browser. In tal caso, l’indirizzo sarà costituito dall’etichetta “http://” (che indica appunto il protocollo di alto livello che vogliamo usare) seguito dall’indirizzo web vero e proprio della pagina che ci interessa. Sorge però, a questo punto, un interrogativo: se alle pagine web si accede con un indirizzo composto di lettere, che fine hanno fatto gli indirizzi numerici IP che abbiamo visto prima? Non sono scomparsi; in realtà l’indirizzo web è una modalità di accesso alle pagine web complementare all’accesso tramite l’indirizzo IP. Nell’immagine 4 possiamo vedere un esempio in proposito. Si può accedere alle pagine web, in genere, o con l’indirizzo IP o con l’indirizzo web.

4 – Accesso al catalogo online dell’SBN digitando: 1. l’indirizzo IP; 2. l’indirizzo web.

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Robert E. Kahn – Vinton G. Cerf, What Is The Internet (And What Makes It Work), dicembre 1999, http://www.cnri.reston.va.us/what_is_internet.html.

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Il sistema sul quale si basano gli indirizzi web tradizionali è il Domain Name System (DNS). Fin dalla fase sperimentale di Internet, che va dagli anni ‘70 ai primi anni ‘80, ci si rese conto che molte applicazioni di rete facevano riferimento al nome del computer (ad es. UCLA, USC-IS) piuttosto che all’indirizzo IP. Occorreva perciò creare una corrispondenza, all’interno della rete, tra gli indirizzi IP e i nomi dei computer. Una lista di questo genere, chiamata “host.txt” file (poichè era un semplice file di testo), venne mantenuta per un certo tempo da un gruppo denominato Network Information Center (NIC)11. I computer collegati a Internet semplicemente scaricavano di tanto in tanto questa lista dal computer del NIC e facevano riferimento a essa per determinare quale indirizzo IP fosse associato a un determinato nome di computer. Tuttavia Internet crebbe così rapidamente che l’aggiornamento di tale lista divenne un compito sempre più arduo per il NIC. Prevedendo che, con l’espansione della rete, questo problema sarebbe andato sempre più peggiorando, alcuni ricercatori cominciarono a impegnarsi per disegnare un sistema che permettesse di fornire le medesime informazioni in modo più distribuito.12 Il risultato finale fu appunto il DNS che consente a centinaia di migliaia di name server di mantenere una piccola porzione del database globale contenente le informazioni che consentono di associare gli indirizzi IP con i nomi dei computer collegati a Internet. Il sistema DNS è essenzialmente gerarchico: al vertice della gerarchia troviamo i Top Level Domain name (TLD) o i country code Top Level Domain (ccTLD). Ad esempio nell’indirizzo iccu.sbn.it, il sottodominio iccu appartiene al dominio sbn il quale a sua volta appartiene al ccTLD it.13 Come ha scritto Paul Mockapetris nel 1983, in occasione della pubblicazione dei primi standard DNS: «L’obiettivo dei nomi di dominio è di fornire un meccanismo per denominare le risorse in modo che i nomi possano essere utilizzati in differenti host, network, famiglie di protocolli, internet e organizzazioni amministrative».14 Quando un Host ha la necessità di comunicare con un altro Host, comunica al suo server DNS di riferimento il nome dell’Host remoto al quale vuole connettersi chie11

Il gruppo risiedeva presso SRI International di Menlo Park (CA). Questo gruppo di ricerca era attivo presso lo Information Sciences Institute della University of Southern California. 13 Nel complesso sistema amministrativo di Internet, la gestione dei TLD è affidata a varie agenzie; ad es. il TLD.com è gestito da VeriSign Global Registry Services. La gestione dei ccTLD invece è affidata ai Regional Internet Registry (RIR). Il RIR della regione europea è il Réseaux IP Européens (RIPE). Al RIPE fanno capo le varie agenzie nazionali: quella italiana (responsabile del ccTLD.it) è rappresentata dall’Istituto di Informatica e Telematica del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Pisa). Tutte queste organizzazioni fanno capo alla Internet Assigned Numbers Authority (IANA) la quale a sua volta è controllata dall’Internet Corporation for Assigned Names and Numbers (ICANN), una associazione no-profit fondata il 18 settembre 1998 in California, ma che opera sotto il diretto controllo del Dipartimento al Commercio degli Stati Uniti. 12

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dendo di effettuare la risoluzione di tale nome nel relativo indirizzo IP. Se il server interrogato trova l’indirizzo ricercato all’interno del suo database, lo comunica all’Host richiedente che lo utilizzerà per connettersi all’Host remoto. Se il server non trova l’indirizzo, avvia una richiesta ricorsiva: sottopone cioè la medesima richiesta a un altro server DNS il quale a sua volta effettuerà la medesima ricerca. Nel caso che anche questa ricerca abbia esito negativo, la procedura andrà avanti finchè la domanda non arriverà a un qualche server DNS che dispone dell’indirizzo ricercato: questo allora verrà finalmente ritrasmesso indietro fino all’Host richiedente. Il WWW si basa su file di testo collegati tra loro mediante link ipertestuali basati appunto sul DNS. Altre applicazioni però, come la posta elettronica, si basano sul DNS: l’espressione che segue la chiocciolina (@) in un indirizzo di posta elettronica, è appunto un nome di dominio. È evidente allora l’importanza che questo name-system riveste all’interno dell’organizzazione complessiva della rete Internet. Il DNS però ha un limite apparentemente insuperabile: unisce in una unità praticamente indissolubile tanto la funzione di identificazione degli oggetti digitali quanto quella di localizzazione degli stessi sulla rete. Con il risultato che l’indirizzo web di un oggetto digitale non può cambiare senza che vengano meno, simultaneamente, tanto la localizzazione che l’identificazione dell’oggetto.

Gli standard URI, URL, URN Agli sviluppatori di Internet apparvero presto chiari tanto i vantaggi del DNS quanto i suoi limiti. Si avviò quindi presto un dibattito, volto a definire quali fossero le modalità auspicabili di identificazione e localizzazione degli oggetti digitali in rete e a formalizzare queste modalità in standard opportuni. Il primo di questi fu lo Uniform Resource Locator (URL). Questo standard è stato definito per la prima volta nel 1994 da T. Berners-Lee, ideatore del WWW. Dalla definzione che ne ha fatto il suo autore, emerge come la commistione tra localizzazione e identificazione sia espressamente ricercata: «Gli URL vengono utilizzati per localizzare una risorsa fornendo una identificazione astratta della localizzazione della risorsa. Dopo aver localizzato una risorsa, un sistema può effettuare varie operazioni sulla risorsa che possono essere caratterizzate con parole quali accesso, aggiornamento, sosti14

Paul Mockapetris, Domain names: Implementation and Specification, RFC 883, November 1983, pag.ii. Cfr. http://www.ietf.org/rfc/rfc883.txt. L’attività di standardizzazione in Internet viene portata avanti principalmente da due organismi: l’Internet Engineering Task Force (IETF) e l’InternetArchitecture Board (IAB). Entrambi fanno capo alla Internet Society (ISOC), un organismo internazionale, fondato nel 1992, del quale fanno parte più di 100 organizzazioni appartenenti a oltre 180 paesi. La sigla RFC (Request For Comment), con la quale l’ISOC pubblica i suoi standard, indica, a dispetto del nome, il documento definitivo. La sigla è un retaggio di quando gli organismi di standardizzazione di Internet erano strutture estremamente informali.

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tuzione, ricerca di attributi. In generale per uno schema URL è necessario specificare solo il metodo di accesso».15 Tutti i tradizionali indirizzi web, basati sul DNS, sono in pratica degli URL. Ma la commistione tra identificazione e localizzazione, che sta alla base di questo standard, è estremamente insoddisfacente. Ristrutturazioni tecniche e amministrative rendono inevitabile cambiare, prima o poi, i nomi di dominio dei server sui quali sono allocati i testi digitali. Inoltre può insorgere la necessità di trasferire i testi da un server a un altro con un altro nome di dominio. In tutti questi casi, nel momento in cui si cambia l’URL, i documenti vengono di fatto ridenominati. L’intrinseca non-persistenza dello standard URL ha portato la comunità degli sviluppattori di Internet a definire due nuovi standard più avanzati: lo Uniform Resource Identifier (URI) e lo Uniform Resource Name (URN). Secondo un primo orientamento, questi due standard dovevano costituire l’espressione di una netta demarcazione tra identificazione e localizzazione. Gli identificatori sarebbero dovuti ricadere in due classi: quella degli identificatori che specificano la localizzazione di una risorsa (URL) e quella degli identificatori che specificano il nome della risorsa a prescindere dalla localizzazione (URN). Tutti e due avrebbero rappresentato una particolare, differente, concretizzazione del più generico standard URI; infatti, come leggiamo in un documento del 2002: «Senza perdere generalità, è ragionevole affermare che lo spazio URI era stato concepito per essere partizionato in due nuove classi: URL e URN. Così, ad esempio, «HTTP:» costituiva uno schema URL, mentre «ISBN:» sarebbe diventato (prima o poi) uno schema URN. Ogni nuovo schema sarebbe dovuto ricadere in una di queste due classi».16 Ma, all’inizio del 2005, il principale oppositore dell’approccio dicotomico, T .Berners-Lee, è tornato alla carica ribadendo che, sulla rete, non è possibile separare tra loro le funzionalità di localizzazione e di identificazione; gli standard quindi devono limitarsi a prendere atto di questa realtà: «Uno schema individuale non deve necessariamente essere classificato o come “nome” o come “localizzatore”. In un qualsiasi schema dato vi possono essere dei casi di URI che possiedono le caratteristiche di nome, di localizzatore o di entrambi, spesso in dipendenza dalla perseveranza e dalla cura della naming authority nell’assegnare gli identificatori, piuttosto che dalla qualità dello schema. Perciò le specificazioni future, insieme alla documentazione correlata, dovranno usare il termine più generale URI, piuttosto che i termini più restrittivi URL e URN».17 15

Tim Berners-Lee – Larry Masinter – Mark McCahill (Eds), Uniform Resource Locators (URL), RFC 1738. Dicembre 1994, http://www.ietf.org/rfc/rfc1738.txt. 16 Michael Mealling – Ray Denenberg (Eds.), Report from the Joint W3C/IETF URI Planning Interest Group: Uniform resource Identifiers (URIs), URLs., and Uniform Resource Names (URNs): Clarifications and Reccomendations, RFC 3305. August 2002, pag.2, http://www.ietf.org/rfc/rfc3305.txt. 17 Tim Berners-Lee – Larry Masinter – Mark McCahill (Eds), Uniform Resource Locators (URL), RFC 1738 cit.

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Ovviamente, la replica più ovvia a una posizione di questo genere, è che: «Gli URL, comunemente intesi, sono dimostrabilmente non persistenti; ridefinirli come URI non risolve niente».18 A questo si può aggiungere che nemmeno risolve qualcosa il fatto di ridefinire gli URL come URN poiché, date le caratteristiche di questo standard: «La mancanza di un qualsiasi supporto infrastrutturale richiederà che ogni implementazione di URN dovrà sviluppare il suo proprio sistema di risoluzione, sottoforma di plug-in o come proxy-server».19 Perciò, alla luce di queste brevi considerazioni, su una materia che in realtà richiederebbe molto più spazio, possiamo dire che, nell’approfondire il tema degli identificatori persistenti, converrà limitarsi a esaminare le esperienze concrete realizzate finora, tralasciando di considerare se e quanto queste esperienze si conformino a uno standard piuttosto che a un altro. L’unico punto fermo è che gli indirizzi web tradizionali, basati sul sistema DNS, sono senza dubbio degli URL. Ma, per quanto riguarda gli URI e gli URN, sembra si possa condividere il punto di vista di N. Paskin, direttore dell’International Doi Foundation, quando afferma che: «Attualmente non esistono implementazioni pratiche sufficientemente diffuse di queste specificazioni che operino quali sistemi di denominazione degli oggetti: sia l’URI che l’URN sono specificazioni, non implementazioni operanti di per sé».20

Identificatori basati sul DNS: 1) il Persistent Uniform Locator (PURL) Possiamo allora tentare di classificare i sistemi di identificazioni persistente proposti finora, non in base allo standard cui si conformano, ma piuttosto secondo il sistema di risoluzione (cioè il sistema di traduzione degli indirizzi in numeri IP) che utilizzano. Tra gli identificatori permanenti che si basano sul tradizionale DNS, il più noto è senz’altro il PURL (Persitent Uniform Resource Locator) sviluppato dall’OCLC (Online Computer Library Center). Nella sostanza, il PURL è un tradizionale indirizzo web. Quello che il PURL offre in più, rispetto a un comune URL, è un servizio di reindirizzamento. Questo servizio consente, quando la localizzazione web di una risorsa elettronica cambia, di deviare sul nuovo indirizzo web tutte le richieste che continuano a pervenire al vecchio indirizzo. Funzionalmente un PURL è un URL che punta a un servizio intermedio di risoluzione. Il PURL, in risposta alle richieste del browser, invia un normale URL che può poi essere utilizzato per accedere alla risorsa remota in modo tradizionale. Nel linguaggio web questo è un comune servizio di redirect. Qui non c’è niente di nuovo: il redirect è un servizio già previsto dallo standard HTTP e comunemente usato. Quando si cambia un URL, sul 18

Norman Paskin (Ed.), The DOI Handbook. Edition 4.2.0, International Doi Foundation, 2005, p. 35, http://dx.doi.org/10.1000/186. 19 The DOI Handbook cit., p. 36. In genere con l’espressione proxy-server si indica una macchina che consente connessioni indirette da un servizio a un altro su un network. 20 The DOI Handbook cit., p.36.

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sito del vecchio URL si può implementare il servizio redirect, secondo le modalità previste dagli standard HTTP e HTML, in modo da reindirizzare le richieste mandate al vecchio URL, verso quello nuovo. Il PURL, a differenza di un comune indirizzo web, si limita a usare in maniera sistematica il servizio redirect al fine di garantire la persistenza dell’identificatore (o almeno per fornire un servizio che somigli quanto più possibile a un servizio di identificazione persistente). L’URL associata al PURL può cambiare, il PURL no. La persistenza offerta dal PURL sta tutta qui e i PURL sono a tutti gli effetti degli URL. A differenza del comune URL, il PURL è composto di tre parti: (1) l’indicatore di protocollo, (2) l’indirizzo del resolver e (3) il nome. Nell’immagine 5 possiamo vedere come si articolano queste tre componenti. Da notare che l’indirizzo del resolver è rappresentato dal nome di dominio (ovvero dall’indirizzo IP) del resolver PURL: questa parte del PURL continua ad essere risolta dal tradizionale DNS.

5 – Il Persistent Uniform Resource Locator (PURL) dell’OCLC.

Creare un PURL non è difficile. Occorre in primo luogo essere un utente registrato di un resolver PURL: ad esempio quello dell’OCLC.21 Ci si registra, alla stessa stregua di tanti altri siti web, immettendo nella form opportuna i propri dati e creando un proprio identificativo e una password.22 Un utente registrato può quindi creare i suoi propri PURL purchè rispetti determinate condizioni: in primo luogo che esista il dominio top-level dell’indirizzo web che si vuol rendere persistente. La parte del PURL che costituisce il nome della risorsa viene decisa dal creatore del PURL. La componente relativa all’indirizzo del resolver, no. I nomi possono essere arbitrari e non è necessario che vi sia alcuna correlazione tra il nome all’interno del PURL e l’URL associato con esso. Gli utenti possono assegnare un PURL a ogni risorsa discreta per la quale si desidera un accesso affidabile nel tempo. Ad esempio una home page, un giornale elettronico, un articolo individuale, uno scritto, sono tutti oggetti digitali suscettibili di ricevere un identificatore PURL. Invece le risorse che non sono discrete, come le sezioni di un documento, i grafici o quegli schemi che non avrebbero senso al di fuori del documento che li contiene, non sono adatti a essere identificati tramite un PURL. 21 22

Cfr. http://purl.oclc.org/. La form del resolver PURL dell’OCLC si trova su http://purl.oclc.org/maint/register.html.

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Per creare un PURL basta seguire la procedura guidata, dopo essersi registrati, presente sul resolver PURL. I PURL non vengono aggiornati automaticamente quando l’URL associato a essi varia. L’aggiornamento delle informazioni presenti nel server PURL è un compito di cui deve farsi carico un maintainer. La manutenzione del PURL viene svolta connettendosi al resolver PURL e quindi compilando l’opportuna form di manutenzione. Solo i maintainer autorizzati possono modificare un PURL. Se un maintainer dovesse eliminare il PURL, il resolver, invece di fornire una destinazione, fornirebbe la storia di quel PURL (gli indirizzi associati ad esso fino all’ultimo giorno in cui era operativo)23.

6 – Un PURL (1.) e l’URL associato (2.).

Gli utenti possono selezionare (cliccandoci sopra) un PURL su una pagina web o in un documento e il PURL verrà risolto verso l’URL associato che il browser userà poi per accedere alla risorsa. Gli utenti possono inserire i PURL nelle pagine web, nei documenti o in altre risorse con la ragionevole sicurezza che il PURL rimarrà persistente nel tempo. I link rimarranno validi anche se l’URL associato dovesse cambiare. Questo non significa che un PURL cambia magicamente il suo proprio URL associato quando la risorsa indirizzata viene spostata. È compito dei maintainer del PURL provvedere a ciò. Da sottolineare che il PURL, a differenza dell’ISBN, è un identificatore azionabile: cioè, se viene inserito in un documento elettronico, cliccandoci sopra si recupera il documento identificato.

Identificatori basati sul DNS: 2) l’Archival Resource Key (ARK) L’ARK, Archival Resource Key, è uno schema di identificazione per l’accesso persistente agli oggetti digitali (incluse immagini, testi, data set, e aiuti alla ricerca) che è attualmente in corso di test e che viene implementato dalla California Digital Library (CDL) per le proprie collezioni digitali.24 L’origine dell’ARK la si deve alla National Library of Medicine. L’ARK è l’unico indicatore che antepone gli aspetti procedurali del servizio di identificazione permanente, agli altri aspetti più prettamente tecnologici: «Un principio fondamentale dell’ARK è che la persistenza è una pura materia di servizio e che non è inerente all’oggetto né viene conferita a questo da una particolare sintassi di identificazione. Il massimo che un identificatore può fare è di ricondurre gli utenti a questi servizi».25 23

Cfr. http://purl.oclc.org/docs/inet96.html. Cfr. http://www.cdlib.org/inside/diglib/ark/. 25 John A. Kunze, Towards Electronic Persistence Using ARK Identifiers, University of California, July 2005, http://www.cdlib.org/inside/diglib/ark/arkcdl.pdf. 24

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In concreto l’ARK è un normale URL, caratterizzato da una forma particolare, che gli conferisce alcune delle condizioni necessarie per l’identificazione persistente. Un ARK è rappresentato da una sequenza di caratteri che contiene l’etichetta «ark:» e che, opzionalmente, può essere preceduta dalla parte iniziale di un URL. Questo URL, detto Name Mapping Authority Hostport (NMAH) è mutevole e sostituibile. Il NMAH è in sostanza l’indirizzo web convenzionale dell’host che risolverà, in maniera tradizionale, l’identificatore. Il vero e propio identificatore, unico, immutabile, globale, è quello che segue l’etichetta «ark:». L’identificatore comprende il Name Assigning Authority Number (NAAN), cioè un numero che identifica l’organizzazione che ha assegnato originariamente il nome all’oggetto, seguito a sua volta dal nome assegnato all’oggetto e da un eventuale qualificatore del nome. Vedere l’immagine 7.

7 – Un ARK è un comune URL strutturato in maniera particolare.

La particolarità dell’ARK sta nel connettere tre cose: l’oggetto identificato, i suoi metadati e l’impegno del gestore dell’identificatore circa la sua persistenza. Quando un utente inserisce l’ARK nel campo degli indirizzi del browser, l’identificatore conduce l’utente all’oggetto identificato. Lo stesso ARK, seguito da un singolo punto interrogativo (?) restituisce un breve record di metadati che è leggibile tanto dall’uomo che dalla macchina. Quando l’ARK è seguito da due punti interrogativi (??) i metadati in risposta contengono l’assunzione di responsabilità del gestore. Questo ci conduce alla enunciazione dei tre requisiti che deve possedere un ARK. Il primo requisito risiede proprio nel legame che l’identificatore stabilisce tra un oggetto e un’assunzione di responsabilità per la manutenzione di quell’oggetto. Il secondo requisito è che l’ARK deve fornire all’utente un link dall’oggetto a una descrizione di questo. A questo scopo l’ARK si avvale del set di metadati METS (Metadata Encoding and Transmission Standard) mantenuto dalla Library of Congress.26 Il terzo requisito è quello di garantire l’accesso permanente agli oggetti identificati. L’ARK trova la sua principale limitazione nel fatto che questo accesso è basato esclusivamente sulla risoluzione tramite il tradizionale sistema DNS. In altri termini: 26

Cfr. http://www.loc.gov/standards/mets/.

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«Il fatto di premettere «http://» e un NMAH a un ARK, è un modo per creare un identificatore azionabile tramite un metodo che è esso stesso temporaneo. Ipotizzando che un giorno non sia più disponibile l’infrastruttura che supporta il recupero dell’informazione tramite HTTP, l’ARK dovrà essere allora convertito in qualche nuovo tipo di identificatore azionabile».27

Un name-system alternativo al DNS: lo Handle System Ma la strada più promettente per risolvere il problema dell’identificazione persistente degli oggetti digitali è, probabilmente, quella che consiste nel creare sistemi di risoluzione affatto nuovi, basati su sistemi diversi dal DNS. Il principale esponente di questo approccio è rappresentato dall’Handle System.28 Questo sistema è stato inizialmente concepito e sviluppato presso la Corporation for National Research Initiatives (CNRI) come parte di una più vasta architettura globale per gli oggetti digitali. La prima implementazione pubblica è stata realizzata presso il CNRI nell’autunno del 1994, grazie a D. Ely. La complessiva architettura globale di oggetti digitali, incluso lo Handle System, è stata poi descritta da R.Kahn e R.Wilensky nel 1995.29 Lo sviluppo è poi proseguito presso il CNRI.30 L’Handle System è un servizio che utilizza un suo specifico protocollo per creare, aggiornare, mantenere e rendere accessibile in modo sicuro un database distributo per l’associazione permanente tra nomi e oggetti digitali. È stato disegnato per rendere possibili servizi di trasmissione sicura di informazione e condivisione di risorse su network quali appunto Internet. Le applicazioni dello Handle System possono includere servizi di metadati per le pubblicazioni digitali, servizi di gestione di identità per le identità virtuali e/o ogni altra applicazione che richieda la risoluzione e/o l’amministrazione di identificatori unici globali. Naturalmente l’Handle System, come tutte le realizzazioni concrete, è l’espressione di un compromesso tra varie diverse esigenze tecniche e pratiche. Come configurazione globale del servizio è stato adottato un modello gerarchico. Il top-level del sistema è rappresentato da un singolo servizio handle, meglio conosciuto come Global Handle Registry (GHR). I livelli inferiori sono rappresentati da tutti gli altri servizi handle, meglio noti come Local Handle Services (LHS). Il GHR 27

John A. Kunze, The ARK Persistent Identifier Scheme, Internet-Draft, 19 august 2005, p. 9, http://www.cdlib.org/inside/dglib/ark/arkspec.pdf. 28 Sam Sun – Larry Lannom – Brian Boesch, Handle System Overview, RFC 3650, novembre 2003, http://www.ietf.org/rfc/rfc3650.txt. Sam Sun – Sean Reilly – Larry Lannom, Handle System Namespace and Service Definition, RFC 3651, novembre 2003, http://www.ietf.org/rfc/rfc3651.txt. Sam Sun – Sean Reilly – Larry Lannom – Jason Petrone, Handle System Protocol (ver 2.1) Specification, RFC 3652, novembre 2003, http://www.ietf.org/rfc/rfc3652.txt. http://www.cnri.reston.va.us/k-w.html; anche hdl:cnri.dlib/tn95-01. 29 Robert Kahn – Robert Wilensky, A framework for Distributed Digital Object Services, «D-Lib magazine», 1995, http://www.cnri.reston.va.us/k-w.html; anche hdl:cnri.dlib/tn95-01. 30 Cfr. http://www.handle.net/.

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è il gestore unico di tutte le naming authorities appartenenti al sistema. I singoli LHS operano al servizio di una data naming authority. Ogni handle consiste di due parti: la sua naming authority, altrimenti nota come prefisso, e un nome locale univoco sotto la naming authority, meglio noto come suffisso. Tutto preceduto da un’etichetta che, nel caso di un handle tradizionale, è «hdl:» (immagine 8).

8 – Struttura di un handle.

La naming authority identifica l’unità amministrativa responsabile per la creazione e l’amministrazione dell’handle associato. Le naming authority sotto lo Handle System hanno struttura gerarchica ma, a differenza del DNS, le handle naming authorities, nello schema 8, sono costruite da sinistra verso destra. Operativamente il sistema funziona così: un utente che debba risolvere un indirizzo handle, interroga con il suo client il GHR; questi invia in risposta l’indirizzo dell’LHS responsabile per la risoluzione di quel dato handle; il client interroga allora LHS in questione; questi a sua volta invia in risposta l’indirizzo della risorsa digitale associata all’handle. Un aspetto importante dell’Handle System è la sua architettura distribuita. Lo Handle System, nel suo insieme, consiste di vari servizi handle individuali. Ognuno di questi servizi può consistere di uno o più siti di servizio. Ogni sito di servizio, a sua volta, può consistere di uno o più server handle. Tutte le richieste handle, indirizzate a un dato sito di servizio, possono essere ridistribuite, eventualmente, tra i vari server handle. Non ci sono limiti al numero di servizi handle o al numero di siti che possono essere allestiti per ogni servizio o al numero di server per ogni sito. La comunicazione tra le varie componenti del sistema avviene mediante uno specifico protocollo (lo Handle System Protocol), più efficiente sotto molti aspetti rispetto al tradizionale protocollo DNS. In primo luogo le applicazioni DNS non reggono bene le situazioni in cui grandi quantità di dati sono associate con un particolare nome DNS. Inoltre i nomi DNS sono gestiti dall’amministratore di zona di uno specifico livello della gerarchia DNS. Non sono previste modalità per implementare una struttura amministrativa finalizzata specificatamente alla gestione dei nomi. Solo l’amministratore del network può creare o maneggiare i nomi DNS. Ogni handle invece ha il proprio amministratore distinto dall’amministratore del server. Ancora, il protocollo dello Handle System include delle opzioni di sicurezza che garantiscono la riservatezza e l’integrità dei dati durante la trasmissione. Nel DNS questo non c’è. 76


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Riassumendo: «Lo Handle System fornisce un name service globale a scopi generali che permette di risolvere e amministrare in maniera sicura gli handle sulla rete pubblica Internet».31 Come è noto, dal punto di vista di un utente finale, per risolvere un URL basta scriverlo dentro lo spazio degli indirizzi del browser e quindi spingere il tasto invio. Anche gli handle si risolvono nello stesso modo. Ma prima occorre adattare il proprio browser Microsoft Internet Explorer o Netscape, scaricando dal sito del CNRI un apposito programmino. Questo si chiama Handle Resolver e va installato, con una procedura estremamente semplice, sul proprio PC. Un browser così adattato può risolvere gli handle direttamente.32 Non disponendo di un browser adattato, si possono comunque risolvere gli handle utilizzando il normale protocollo HTTP e un server proxy. Il CNRI, ad esempio, rende disponibile un server proxy all’indirizzo http://hdl.handle.net/. Risolvere l’handle utilizzando un server proxy consiste nel costruire una normale URL costituita dall’indirizzo del server proxy seguito dall’handle da risolvere. Nell’immagine 9 possiamo vedere i tre casi riuniti: 1. il normale URL; 2. l’handle da risolvere direttamente; 3. l’handle da risolvere tramite un proxy-server. Tutte e tre le diverse modalità di accesso puntano alllo stesso documento in rete, quello già citato di R.Kahn e R.Wilensky.

9 – Si può accedere ad un dato documento tramite: 1) il tradizionale URL; 2) risolvendo direttamente l’handle; 3) risolvendo l’handle tramite un proxy-server. In grassetto l’handle.

La differenza tra le diverse modalità d’accesso risiede nella persistenza: se dovesse cambiare la localizzazione del documento, l’handle, a condizione che le informazioni nell’LHS vengano aggiornate, continuerà a operare. L’URL no. L’unica limitazione per l’handle sta nell’indirizzo del server proxy che, essendo un normale indirizzo DNS, può variare anch’esso. In tal caso anche gli indirizzi come quello del punto 3. non saranno più validi. Ma l’handle al punto 2. continuerà comunque a funzionare correttamente.

Il Digital Object Identifier (DOI) Attualmente l’implementazione più importante dell’Handle System è rappresentata dal Digital Object Identifier (DOI). Il DOI System è gestito dall’International Doi Foundation (IDF)33, un consorzio aperto che comprende partner sia commerciali 31

Handle System Namespace and Service Definition, RFC 3651 cit., p. 1. Lo Handle Resolver si scarica da http://www.handle.net/resolver/win_95_98_NT.html. 33 http://www.doi.org. 32

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che non-commerciali. All’IDF fanno capo svariate agenzie regionali di registrazione DOI che finora hanno assegnato alcuni milioni di DOI negli Stati Uniti, in Europa, in estremo oriente. Il DOI è a tutti gli effetti un handle e l’IDF una handle naming authority. Un DOI si riconosce per la prima parte del prefisso che è sempre 10; ad esempio: 10.1045/xxxx è un DOI. La seconda parte del prefisso (1045) è l’identificativo della specifica agenzia di registrazione responsabile di quel particolare DOI; il suffisso è il nome della risorsa identificata in maniera permanente da quel DOI (xxxx). Il nome può essere rappresentato da qualsiasi sequenza di caratteri. Si possono usare per i nomi anche sistemi di codifica già esistenti. Ad esempio 10.1000/ISBN1-90051244-0 è un DOI valido che incorpora un codice ISBN. Recentemente il DOI è diventato uno standard NISO (National Information Standards Organization).34 Anche un DOI può essere risolto direttamente utilizzando lo stesso Handle Resolver indicato prima, oppure via proxy-server, utilizzando il sistema allestito dall’IDF; a questo scopo si usa l’URL http://dx.doi.org/.35 Nell’immagine 10 vediamo un esempio, analogo al n. 8, che espone tre diverse modalità di accesso a un dato documento (nella fattispecie all’editoriale di D-Lib Magazine di luglio/agosto 2005): 1. tramite l’URL convenzionale; 2. risolvendo direttamente il DOI dell’editoriale; 3. risolvendo il DOI tramite il proxy-server della International Doi Foundation.

10 – Si può accedere a un documento tramite: 1) l’URL convenzionale; 2) risolvendo direttamente il DOI; 3) risolvendo il DOI tramite il proxy-server della IDF. In grassetto il DOI.

Una caratteristica importante del DOI è quella di essere un sistema a pagamento. La spiegazione che viene data di questa circostanza è che «come per la registrazione dei nomi di dominio, anche l’assegnazione del DOI richiede un pagamento e l’impegno a seguire standard e regole definite. Questo non rende il sistema chiuso, o commerciale, ma lo rende gestibile. La DOI Foundation è un’organizzazione non-profit, non un operatore commerciale; tuttavia il sistema ha dei costi che vanno coperti. La persistenza è una funzione delle organizzazioni, non una tecnologia: per supportare un sistema di identificazione persistente, occorre che esista una organizzazione persistente».36 34

NISO Z39.84-200X. Cfr. http://www.doi.org/doi_proxy/index.html. 36 The DOI Handbook cit., p. 24-25. 35

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Per registrare un DOI occorre rivolgersi a una apposita agenzia. La più importante in assoluto, con oltre 17.944.074 DOI assegnati, è certamente CrossRef.37 Questa agenzia consente di assegnare i DOI ai seguenti materiali: – periodici/documenti di lavoro: titolo del periodico, volume, numero, articolo; – libri: collana, titolo, capitolo, voce; – atti di convegni: titoli multi-volume, titoli, elaborati; – componenti: sub-voci di articoli di periodici; voci/capitoli di libri e di atti di convegni comprese le figure, le tavole e gli aggiornamenti. CrossRef si sta attualmente attrezzando per includere tra i materiali ai quali può essere assegnato un DOI anche le tesi, le dissertazioni e i record di database. CrossRef è un’associazione indipendente di editori. La piattaforma di questa organizzazione funziona come un network di citazioni incrociate che copre milioni di articoli e altri elementi di contenuto appartenenti a varie centinaia di editori accademici e professionali. Recentemente CrossRef ha integrato la sua piattaforma con un resolver OpenURL liberamente disponibile al pubblico, enfatizzando così le possibilità di navigazione all’interno del proprio materiale registrato.38 L’agenzia di registrazione DOI ufficiale per l’Europa è mEDRA - multilingual European DOI Registration Agency - nominata ufficialmente dall’IDF il 1° luglio 2003. L’agenzia opera attraverso una società, mEDRA srl, costituita dall’Associazione Italiana Editori insieme al Cineca.39 L’adesione al servizio richiede il pagamento di una quota annua.40 Tale quota include la registrazione di un numero variabile di DOI, a seconda della fascia di pagamento. In caso di eccedenza dei DOI previsti dalla quota annua, è previsto un costo unitario per i DOI eccedenti, anch’esso rapportato alla fascia della quota annua. La persistenza dei DOI registrati è garantita per almeno 5 anni dall’ultimo anno di adesione. Vedere la tabella 11.

11 – Fasce di pagamento DOI secondo l’agenzia per l’area europea mEDRA (in euro). 37

Cfr. http://www.crossref.org. OpenURL è un tipo di URL che contiene metadati di uso bibliografico. OpenURL è un sistema originariamente ideato da Herbert van de Sompel, un bibliotecario dell’Università di Ghent. Cfr. http://www.crossref.org/01company/pr/press081505.htm. 39 Cfr. http://www.medra.org/it/index.htm. 40 Cfr. http://www.medra.org/it/medra_appl.htm. 38

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Naturalmente, quando un DOI viene assegnato a un dato oggetto, nel database della agenzia di assegnazione deve essere inserita una descrizione di quell’oggetto. Il DOI Handbook, a questo riguardo, prescrive un set minimo di metadati denominato DOI Kernel Metadata Declaration. Ogni risorsa identificata con il DOI deve essere descritta secondo le specifiche di questo insieme minimo di metadati.41 Ma oltre al kernel, le agenzie di registrazione possono implementare ulteriori schemi di metadati, soprattutto a fini di interoperabilità tra piattaforme e servizi differenti. mEDRA, a questo riguardo, si avvale di un set di metadati, denominato ONIX (Online Information Exchange), che è uno standard internazionale per rappresentare le informazioni commerciali su libri, riviste e video in formato elettronico. Questo set è mantenuto da EDItEUR42, un gruppo internazionale che coordina lo sviluppo e la promozione degli standard per il commercio elettronico nell’ambito dell’editoria libraria e dei periodici. mEDRA ha selezionato, all’interno dell’intera specifica di metadati ONIX, otto differenti sottoinsiemi di metadati per scopi specifici. Infine va osservato che anche mEDRA gestisce un proxy-server per risolvere i DOI (http://dx.medra.org/).

L’identificazione persistente è un problema di Internet Governance In conclusione possiamo dire che la soluzione tecnica più promettente per il problema dell’identificazione persistente degli oggetti digitali sembra viaggiare al di fuori dei binari costituiti dal DNS e dal protocollo HTTP. Ma il mondo degli sviluppatori di Internet è riluttante ad abbandonare questa strada. Una segno di ciò può essere individuato nel fatto che, sebbene lo Handle System sia stato riconosciuto come standard Internet, lo stesso non è ancora avvenuto per il DOI. L’apparente paradossale conservatorismo che, per molti versi, caratterizza la cerchia degli sviluppatori di Internet, è ben espresso dal cosiddetto principio di robustezza, una massima formulata nel 1981 da J. Postel, uno degli sviluppatori storici di Internet: «Le implementazioni del TCP seguiranno un principio generale di robustezza: siate conservativi in ciò che fate, siate liberali in ciò che accettate da altri».43 Forse però, come ha osservato N. Paskin, dietro il conservatorismo in materia tecnologica, possono nascondersi anche interessi di vario genere: «L’attuale prevalenza nell’Internet Governance e, cosa forse ancor più importante, nel finanziamento di Internet, di organizzazioni che fanno affidamento su di un unico sistema di denominazione, il sistema a nomi di dominio (un meccanismo che rende particolarmente difficile identificare i contenuti digitali indipendentemente dalla localizza41

The DOI Handbook cit., Appendice 6, p. 143. Cfr. http://www.editeur.org. 43 Jonathan Bruce Postel, Transmission Control Protocol. Darpa Internet Program. Protocol Specification. RFC 793, Sept. 1981, pag. 13, http://www.ietf.org/rfc/rfc793.txt. J. Postel (6.8.1943 – 16.10.1998) ha contribuito alla redazione di oltre 200 RFC. 42

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zione) può essere all’origine delle difficoltà nell’introdurre meccanismi di denominazione alternativi e complementari”.44 Ma, d’altra parte, è improbabile che il DNS possa durare in eterno. Infatti, come ha sottolineato K. N. Cukier, corrispondente tecnologico dell’Economist, in un convegno sull’Internet Governance nel maggio di quest’anno: «Il sistema di nomi di dominio, numeri IP, root server e identificatori di protocollo non è una tecnologia statica, bensì una capace di evolvere in una forma migliore. Di conseguenza il sistema corrente non deve essere considerato sacrosanto ma suscettibile di innovazioni”.45 A questo punto, quindi, il problema dell’identificazione persistente degli oggetti digitali sfuma nella tematica più generale dell’Internet Governance, intendendo con questo termine, l’insieme delle strutture e delle organizzazioni che, con le loro strategie politiche e le loro reciproche interazioni, di fatto determinano, oggi, l’effettivo concreto sviluppo di Internet.

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Norman Paskin, Two practical examples of issues in internet governance, Internet Governance Forum, Oxford Internet Institute, May 6th 2005, http://www.doi.org/topics/050504OIIDiscussionForum.pdf. Kenneth Neil Cukier, Slouching Towards Geneva: Ten ppreciated Axioms of Internet Governance, Internet Governance Forum, Oxford Internet Institute, May 6th 2005.

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Saggi

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I progetti di digitalizzazione della Biblioteca Digitale Italiana Marco Paoli ICCU

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i fornisce qui una sintetica rassegna dei numerosi progetti di digitalizzazione finanziati dal 2001 al 2004 con i fondi, stanziati dalla Direzione Generale per i Beni Librari e gli Istituti Culturali, della Biblioteca Digitale Italiana (BDI). Vengono consegnati precipuamente dati numerici per suggerire una lettura quantitativa di un’esperienza che ha indubbie e consistenti motivazioni culturali e di promozione dell’informazione. Ne dovrebbe scaturire un quadro esplicito dello stato dell’arte delle varie iniziative di digitalizzazione, estese su una vasta porzione del territorio nazionale e distribuite su differenziate tipologie di documenti, con un’espansione particolare su cataloghi, inventari, manoscritti musicali e periodici, secondo gli indirizzi espressi a suo tempo dal Comitato Guida della BDI. A livello di macrodati risulterà anche evidente l’ingente quantità di immagini che sono visualizzabili su Internet Culturale (NTC), che costituisce lo strumento finale di consultazione dei contenuti digitali oggetto di questa rassegna. Si tratta di quaranta progetti finanziati dal dicembre 2001 al gennaio 2004, per un totale di Euro 5.353.567,00, di cui non ancora erogati 1.043.320,00 quindi erogati euro 4.310.000,00. Dal punto di vista tipologico risultano finanziati i seguenti progetti: – – – – – – – – –

Digitalizzazione schede cataloghi e inventari (3 progetti): euro 1.310.000; Digitalizzazione Manoscritti musicali (8 progetti): euro 1.248.600; Digitalizzazione Periodici (5 progetti): euro 1.002.550; Digitalizzazione Libri a stampa (7 progetti): euro 764.400; Digitalizzazione Fotografie (3 progetti): euro 428.716; Digitalizzazione Manoscritti, palinsesti epistolari (4 progetti): euro 216.320; Adeguamento hw e sw (4 progetti): euro 166.650; Recupero catalografico in SBN (4 progetti): euro 153.280; Partecipazione a progetti internazionali (1 progetto): euro 100.000.

Di questi 40 progetti 8 non risultano ancora avviati, ma per 7 di essi, i finanziamenti non sono stati ancora erogati, anche se per cinque di questi, è prevista a giorni l’ero85


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gazione, essendo già pervenuti alla Direzione Generale i relativi schemi di progetto. Nel caso della Biblioteca Provinciale Claudia Augusta di Bolzano il progetto di digitalizzazione periodici altoatesini è stato realizzato con 4000 immagini e con visibilità via Internet anche in assenza del finanziamento statale con il ricorso a uno sponsor (comunque il finanziamento è in pagamento in questo mese di settembre). Nel caso invece dell’Accademia Filarmonica Romana il finanziamento è stato erogato al 60%, ma il lavoro di scansione delle immagini è iniziato a giugno e il catalogo con SBN Musica risulta già realizzato. Il progetto si concluderà a novembre 2005. Compreso questo progetto dell’Accade-mia filarmonica romana i progetti al momento ancora in corso sono dieci: 1) Biblioteca Digitale Galileiana 2, prosecuzione del progetto concluso di cui si dirà poi a cura dell’Istituto e Museo di Storia della Scienza di Firenze. Finanziamento di 100.000 euro, già acquisite 40.000 immagini visibili su Internet. Le restanti 60.000 immagini saranno disponibili sulla rete tra cinque/sei mesi. 2) Digitalizzazione in formato immagine della collana scrittori d’Italia a cura del CIBIT di Roma. Finanziamento di 110.000 euro, di cui erogati solo 55.000. Immagini digitalizzate 39.000 su Biblioteca Nazionale Centrale, 130.000. Ultimazione prevista per Roma, Mss-Musicali 154, c. 1 fine novembre 2005. 3) Digitalizzazione inventari delle Biblioteche medievali italiane dai secoli IX al XVI a cura della Società Internazionale per lo Studio del Medioevo latino (SISMEL), 200.000 euro stanziati. Su 9.000 immagini progettate ne sono state realizzate 5870, visibili al momento nella rete Intranet del SISMEL. Contemporaneamente sono state prodotte 4000 dettagliate schede descrittive di ciascun inventario. 4) Completamento digitalizzazione manoscritti fondo antico del Sacro Convento di Assisi e Catalogazione in Manus di 700 manoscritti a cura della Società internazionale di Studi 86


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Francescani di Assisi. Finanziamento di 90.000 euro erogato in questi giorni; 60.000 immagini digitalizzate ex novo; avviato l’inserimento dei metadati nelle 200 mila immagini già digitalizzate. 5) Digitalizzazione del Mare Magnum, la bibliografia del Marucelli in 110 volumi, a cura della Biblioteca Marucelliana di Firenze. Finanziamento di 51.000 euro. Digitalizzazione già effettuata per un totale di 32.289 immagini. Si attende per ottobre 2005 la consegna dei relativi DVD per caricamento su specifica teca della Biblioteca. 6) Digitalizzazione fondo musicale (379 autografi) Simone Majer della Biblioteca Civica Angelo Maj di Bergamo. Finanziamento di 70.000 euro. Realizzate le 16.200 immagini programmate. Entro novembre 2005 prevista l’ultimazione dell’inserimento dei metadati. I nastri verranno caricati sulla teca ICCU. Perugia, Biblioteca Comunale Augusta,

7) Digitalizzazione fondi musicali del ms. 2785, c. 1v Conservatorio Cherubini di Firenze. Finanziamento di euro 60.000 (di cui erogati 40.000, cui vanno aggiunti 40.000 euro regionali). Contratto stipulato con la ditta il 1 settembre 2005. Da realizzare 28.000 immagini e 1000 record bibliografici in SBN musica. Per novembre 2005 è prevista la consegna dei primi nastri per caricamento su teca ICCU. Realizzazione dell’intero progetto prevista per febbraio 2006. 8) Digitalizzazione codici liturgici (22 manoscritti) del civico Museo Bibliografico di Bologna. Finanziamento di euro 13.920 (da aggiungere ai 13.920 erogati dal Comune di Bologna). La scansione è stata avviata il 1 settembre 2005. Prevista per fine anno la digitalizzazione, con relativo caricamento delle immagini su teca ICCU (si tratta di 7.500 immagini programmate). 87


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9) Digitalizzazione fondi musicali di Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, Biblioteca Nazionale Marciana, Biblioteca Nazionale Torino, Biblioteca Estense di Modena. Finanziamento di 600.000 euro, più 60.000 euro di adeguamento hw/sw. Il totale delle immagini programmate è di 57.000. Le 14.600 della Biblioteca Marciana sono state da tempo caricate sulla Teca ICCU e visualizzate su NTC. È di questi giorni il caricamento di ulteriori 20.000 immagini delle biblioteche di Torino e Modena e l’effettuazione dell’harvesting per NTC. La consegna del prodotto completo è prevista per il 15 dicembre 2005. Passiamo ora ai progetti conclusi. Essi sono 22, tra piccoli, medi e grandi. Conclusi i quattro progetti di recupero catalografico in SBN di fondi delle biblioteche del Seminario Vescovile di Biella, dei Cappuccini di Trento, del Centro Culturale Diocesano di Susa, del Seminario Vescovile di Asti. Concluso il già menzionato progetto dei periodici Altoatesini della Biblioteca Claudia Augusta di Bolzano con 4.000 immagini e visibilità via Internet. Conclusi anche i tre progetti di adeguamento s/w della Bi blioteca Estense di Modena per la digitalizzazione cataloghi storici, della Medicea Laurenziana per l’adeguamento della scheda Manus al progetto Rinascimento Virtuale, del CIBIT di Roma per l’elaborazione di un sw di codifica in XML di un formato testo e mappatura metadati da METS a MAG; e il progetto di realizzazione di un CD sul fondo incisioni della Biblioteca Marucelliana di Firenze. Risultano completati i seguenti progetti: 1) Partecipazione della BDI al progetto europeo Rinascimento Virtuale con 95.000 euro (il totale della quota di finanziamenti destinati all’Italia è stato 271.796 euro, a cura della Medicea Laurenziana di Firenze. Le immagini digitalizzate fornite dall’Italia sono 193 visibili in Internet (su 1717 immagini di palinsesti bizantini forniti dai diversi partner). 2) Digitalizzazione giornali umbri (1810-1942) della Biblioteca Augusta di Perugia. Finanziamento di 33.116 euro. Le immagini acquisite, visibili sul sito della Biblioteca sono 130.000. 3) Digitalizzazione cataloghi a schede della Biblioteca Augusta di Perugia. Finanziamento di euro 43.884. Le immagini di schede catalografiche acquisite sono 625.000. La visibilità, è attualmente in fase di test, sul sito del Comune di Perugia. 4) Digitalizzazione manoscritti musicali (21 corali dal X al XVIII secolo) della Biblioteca Augusta di Perugia. Finanziamento di euro 65.817. Le immagini acquisite sono 12.000, la consegna dei nastri LTO è avvenuta recentemente; in 88


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Perugia, Biblioteca Comunale Augusta, ms. 2783, c. 3r

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questi giorni la ditta sta effettuando su indicazione dell’ICCU, in sede di validazione del prodotto finale, delle modifiche di piccola entità. Il caricamento sulla teca dell’ICCU potrà avvenire tra breve. 5) Digitalizzazione fondo fotografico della Biblioteca Vallicel-liana. Il finanziamento è stato di euro 73.786; le immagini acquisite 5.083 archiviate su DVD. 6) Digitalizzazione fondo Calogerà, nuova raccolta d’opuscoli scientifici filologici (1755-1787) a cura dell’Istituto e Museo della Scienza di Firenze. Finanziamento di euro 54.400; immagini acquisite 47.000, visibili on line sul sito dell’Istituto. 7) Progetto Biblioteca Digitale Galileiana 1, a cura dello stesso Istituto della Scienza di Firenze. Finanziamento di Roma, Biblioteca Nazionale Centrale, euro 100.000. Le immagini digitali Mss-Musicali 147, c. 6 acquisite 130.000 consultabili on line sul sito dell’Istituto. 8) Digitalizzazione e microfilmatura giornali della Biblioteca Nazionale Braidense, (in sigla GEA). Finanziamento di euro 133.246 Le immagini digitali acquisite 560.000, di cui già 400.000 visibili via internet sul sito della Biblioteca; le altre in via di caricamento. 9) Progetto Emeroteca Virtuale Aperta (in sigla EVA). Periodici milanesi e lombardi otto-novecenteschi della Biblioteca Nazionale Braidense. Finanziamento di euro 315.039. Immagini acquisite 1.110.000, di cui ancora 100.000 da caricare; le altre consultabili via Internet. 10) Digitalizzazione fondo fotografico Sommariva della Biblioteca Nazionale Braidense. Finanziamento di euro 154.937. Dopo la catalogazione e il restauro è stata conclusa la digitalizzazione, con l’acquisizione di 10.016 immagini. Attualmente le imma90


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gini sono consultabili in postazioni informatiche allestite nella Biblioteca e nella Mediateca di Santa Teresa. Entro breve tempo saranno disponibili on line. 11) Digitalizzazione periodici preunitari. Coordinato dall’ICCU, con materiali della BNCR , Biblioteca Universitaria di Pisa, Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di Roma. Finanziamento di 467.280 euro. Immagini digitalizzate 410.000, visualizzabili su Internet Culturale. 12) Completamento digitalizzazione manoscritti musicali, con creazione metadati e realizzazione formato web delle immagini, del Conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli. Finanziamento di 88.000 euro (che vanno ad aggiungersi a 250.000 euro da fondi UMTS). Le immagini rese visualizzabili sono 1.066.000. 13) Digitalizzazione Cataloghi storici a cura dell’ICCU. Finanziamento di euro 1.033.000. Immagini acquisite 5.810.000 (5.700.000 schede, 110.000 pagine). Visibilità in Internet culturale. Da quanto fin qui esposto si evince che, prendendo in considerazione i progetti avviati o conclusi, aventi per obiettivo la realizzazione di immagini digitali che sono 24, cioè il 60% dei progetti, con un investimento di 4.062.025 euro, pari al 75% del finanziamento totale, risultano acquisite ben 10.147.251 immagini, a un costo medio di 52 centesimi l’una. Di queste 2.131.458 non risultano ancora consultabili via Internet. Delle restanti 8.015.793 immagini visibili su web, 7.320.600 sono caricate su NTC, e rappresentano quindi il 91% delle immagini presenti in rete, e il 72% della totalità delle immagini prodotte con finanziamenti BDI.

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Le attività e i progetti di digitalizzazione nell’amministrazione archivistica Daniela Grana Istituto Centrale per gli Archivi

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l processo di informatizzazione delle attività delle pubbliche amministrazioni, avviatosi a partire dagli anni ’80, ha investito in maniera sporadica e parziale, con tempi e modalità diverse, la realtà archivistica italiana. In particolare le leggi speciali emanate a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, attraverso finanziamenti straordinari, hanno consentito ad alcuni istituti archivistici di maturare significative esperienze nella creazione di basi informative e nella riproduzione digitale di documenti. Se questo ha permesso la realizzazione di progetti di eccellenza, la mancanza di ordinarie risorse ha viceversa reso problematica una strategia organica di sviluppo e di pianificazione degli interventi estesa a tutti gli istituti e ha rischiato anche di minacciare la sopravvivenza di quanto era stato realizzato. E tuttavia nell’ultimo decennio le strutture centrali e periferiche dell’Amministrazione degli Archivi di Stato si sono attivamente impegnate nella promozione dell’accesso on line al patrimonio archivistico ampliando la comunicazione e i servizi sul web1 e sviluppando sistemi per la descrizione del patrimonio. La gran parte dei sistemi di descrizione centrali e locali è stata realizzata a naturale conclusione ed evoluzione del progetto Anagrafe informatizzata degli archivi italiani.2 Obiettivo comune è stato quello di una migrazione dei dati in un ambiente software che ne garantisse l’accesso sul web e dell’adeguamento del modello architetturale e concettuale agli standard internazionali nel frattempo emanati, prevedendo la descrizione separata dei complessi documentari e dei soggetti produttori. È stata la Direzione Generale per prima ad avvalersi dell’opera imponente di censimento e schedatura informatica del patrimonio archivistico non statale effettuata dalle Soprintendenze archivistiche con il progetto Anagrafe. Alla fine degli anni ’90 è stato avviato infatti il Sistema informativo unificato per le Soprintendenze archivistiche (SIUSA) con l’obiettivo da una parte di ridisegnare un’architettura di sistema funzio1

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Per la comunicazione e i servizi sul web si veda il portale Archivi (http://archivi.beniculturali.it), che consente l’accesso ai siti degli Istituti archivistici e pubblica banche dati specialistiche, collezioni digitali, edizioni di fonti e strumenti utili al mondo degli archivi. Sull’argomento si veda Pierluigi Feliciati. L’amministrazione archivistica italiana sul web. «Archivi & Computer», 12 (n. 3, 2002) p. 20-33. Il progetto Anagrafe mirava a costituire una banca dati centrale descrittiva e gestionale relativa al censimento degli archivi vigilati dalle Soprintendenze archivistiche e al patrimonio conservato da alcuni Archivi di Stato.

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nale alle esigenze gestionali di tutela e dall’altra di recuperare e adeguare le descrizioni del patrimonio agli standard ISAD (General International Standard Archival Description) e ISAAR (International Standard Archival Authority Record). Il modello concettuale di SIUSA si articola dunque in due ambiti distinti: un ambito gestionale a supporto dell’attività di vigilanza svolta dalle Soprintendenze archivistiche e un ambito descrittivo, rivolto all’utenza esterna, relativo ai complessi archivistici, ai soggetti produttori e ai soggetti conservatori3. Anche alcuni fra i più importanti Archivi di Stato hanno sviluppato propri sistemi informativi secondo logiche analoghe. Tali realizzazioni hanno riguardato gli Archivi di Stato di Firenze col progetto SIASFI4, Milano5, Roma6, Napoli7, Bologna8. Storicamente la diffusione della conoscenza del patrimonio conservato negli Archivi di Stato è stata veicolata da una intensa e proficua attività editoriale svolta dalla Direzione Generale9, che in tale contesto si assumeva anche il compito di studiare e di diffondere la normalizzazione delle descrizioni. È stata infatti per prima la Guida generale degli Archivi di Stato a realizzare l’obiettivo di offrire un panorama non solo della consistenza del patrimonio conservato dagli Archivi di Stato, ma anche e soprattutto quello delle istituzioni e delle magistrature, con le relative funzioni e competenze, che tale patrimonio hanno prodotto. Di questa imponente opera in quattro volumi, editi dal 1981 al 1994, è stata realizzata una versione informatizzata, che consente una consultazione on line attraverso varie modalità di interrogazione dei dati e una fruizione della riproduzione in formato PDF.10. La necessità di disporre da una parte di adeguati strumenti conoscitivi per una omogenea e razionale programmazione degli interventi sia di natura tecnologica che 3

M. G. Pastura – D. Iozzia – D. Spano – M. Taglioli, Il Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze archivistiche. «Archivi & Computer», 14 (2004), n. 2, p.64-77 4 Una illustrazione del progetto e della sua storia è in Descrizioni archivistiche sul web: la guida on-line dell’Archivio di Stato di Firenze - di Daniela Bondielli e Stefano Vitali - ottobre 2001, revisione: dicembre 2002, http://www.archiviodistato.firenze.it/materiali/siasfi.pdf. 5 http://plain.unipv.it. L’Archivio di Stato di Milano partecipa al Progetto Lombardo Archivi in Internet (PLAIN), al cui interno confluisce il lavoro di descrizione informatizzata prodotto sul territorio lombardo, grazie a una convenzione stipulata tra la Regione Lombardia e l’Amministrazione archivistica. 6 http://archivi.beniculturali.it/ASRM/SistemaInfo.html. 7 http://www.archiviodistatonapoli.it/. Sul progetto si veda Paolo Franzese, L’Archivio di Stato di Napoli fra problemi di rappresentazione e strategie di comunicazione. «Scrinia», 2 (2005), n. 2/3, p.35-42. 8 Sul progetto si veda C. Binchi – I. Germani, ASBO 2000: Origine ed evoluzione del sistema informativo dell’Archivio di Stato di Bologna. «Scrinia», 2 (2005), n. 2/3, p. 43-50. 9 Gli indici della produzione editoriale della Direzione Generale sono pubblicati sul sito http://archivi.beniculturali.it/. Nella sezione Biblioteca, collana Atlante Storico degli Archivi Italiani, sono state digitalizzate e rese disponibili una serie di pubblicazioni edite tra il 1861 e il 1966 riguardanti la consistenza e lo stato del patrimonio archivistico (http://archivi.beniculturali.it/Biblioteca/indice/ASAI.html). 10 http://www.maas.ccr.it/cgi-win/h3.exe/aguida/findex_guida. Sul progetto cfr. Paola Carucci. Sistema Guida generale degli Archivi di Stato italiani. «Archivi & Computer», 14 (2004), n. 2, p.52-63.

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descrittivo-inventariale, dall’altra di dotare di propri sistemi informativi anche quegli Archivi di Stato che erano rimasti tagliati fuori dal processo di informatizzazione ha indotto l’Amministrazione ad avviare alla fine del 2003 il progetto Sistema Informativo degli Archivi di Stato (SIAS). Il SIAS11 è una piattaforma software basata su tecnologie avanzate a basso costo di sviluppo e gestione e di facile utilizzo anche da parte di operatori che non hanno particolare dimestichezza con gli strumenti informatici. L’architettura del sistema, basata sul principio della modularità, è funzionale ai processi gestionali centrali e periferici e alla descrizione e fruizione del patrimonio conservato dagli Archivi di Stato. Per quanto riguarda la descrizione del patrimonio, il SIAS prevede percorsi modulari attraverso informazioni strutturalmente collegate che vanno dal generale al particolare: dalla descrizione del complesso documentario nelle sue articolazioni gerarchiche e con i relativi legami col soggetto produttore, fino all’unità minima di descrizione attraverso un ulteriore modulo, che consente la descrizione inventariale e la costruzione di indici; e ancora fino all’immagine del singolo documento, nel caso in cui questo venga sottoposto a procedimento di riproduzione digitale. La descrizione del patrimonio viene effettuata sotto la piena responsabilità scientifica di ciascun Archivio di Stato, che mette a disposizione dell’utenza in sala di studio e sul web le proprie banche dati. Nell’ambito del progetto sono state messe a punto anche schede per la descrizione delle pergamene e dei sigilli; questo ha consentito di programmare numerosi interventi di schedatura di fondi diplomatici e qualche intervento di riproduzione digitale di serie di particolare rilevanza. Fra i progetti più significativi si citano quelli di inventariazione e digitalizzazione dei Tabulari12 dell’Archivio di Stato di Palermo fra breve consultabili sul web, dei Diplomatico del Comune di Ancona (Archivio di Stato di Ancona) e del Comune di Perugia (Archivio di Stato di Perugia), delle pergamene del Capitolo del Duomo di Trento (Archivio di Stato di Trento), dei sigilli della Real Casa dell’Archivio di Stato di Torino. Anche l’attività di riproduzione digitale ha risentito e risente tuttora del carattere di sporadicità per la mancanza di risorse ordinarie. E anche in questo caso gran parte dei progetti è stata realizzata grazie ai finanziamenti derivati da leggi speciali. In particolare il progetto IMAGO2, realizzato presso i più importanti Archivi di Stato, ha portato alla riproduzione di serie archivistiche di particolare pregio, a rischio di deterioramento per la frequente consultazione e/o di supporto e dimensioni tali da renderne particolarmente delicate le operazioni di manipolazione e magazzinaggio. 11

http://www.archivi-sias.it. Sul progetto cfr. Daniela Grana. Il Sistema Informativo degli Archivi di Stato. «Archivi & Computer», 14 (2004), n. 2, p.78-84. 12 I Tabulari aggregano circa 6.000 pergamene dall’XI al XIX secolo provenienti da 14 enti e corporazioni diverse.

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Nell’ambito del progetto sono state create collezioni digitali di fondi diplomatici (Archivi di Stato di Firenze, Lucca, Roma13), di serie catastali e cartografiche (Archivi di Stato di Milano, Torino14, Venezia, Roma15, Cagliari16), di codici (Archivio di Stato di Perugia). Altri progetti hanno realizzato la digitalizzazione di serie di fotografie, di brevetti e marchi (Archivio Centrale dello Stato), o ancora di interi fondi come l’archivio Datini dell’Archivio di Stato di Prato o come l’Archivio Mediceo Avanti il Principato dell’Archivio di Stato di Firenze17. Il recupero agli standard di tali progetti, la pubblicazione sul web di tutte le collezioni realizzate con criteri uniformi di accesso e di consultazione è uno degli obiettivi che l’Amministrazione sta perseguendo nell’ambito della strategia complessiva che sta alla base del Sistema Archivistico Nazionale (SAN), che si prefigge l’obiettivo di garantire l’accesso al patrimonio documentario della nazione a un pubblico il più ampio possibile. Accanto alla varietà dei progetti e delle iniziative messe in campo dall’Amministrazione archivistica esiste infatti una realtà altrettanto ricca e variegata di sistemi informativi che fanno capo alle Regioni, a una pluralità di soggetti conservatori o ancora sono frutto della cooperazione fra istituzioni diverse.18 È alla luce di questa realtà che l’Amministrazione, in accordo con le Regioni e con gli altri enti pubblici territoriali,19 ha ritenuto opportuno valutare, attraverso uno studio di fattibilità, la possibilità di convogliare le molteplici esperienze maturate e le esigenze ancora in essere all’interno di un Sistema Archivistico Nazionale, inteso come insieme coordinato di sistemi, procedure, risorse organizzative e informative finalizzate alle attività di gestione, descrizione, fruizione e valorizzazione del patrimonio. La sua collocazione e il suo ruolo vanno intesi, pertanto, da una parte come elemento di razionalizzazione dei modelli organizzativi e di valorizzazione del patrimonio e dall’altra come elemento strumentale integrativo al lavoro svolto dagli archivisti. Nell’ambito dello studio è stata valutata la “fattibilità” dei seguenti obiettivi: – costituzione di un sistema coordinato di fruizione on-line che consenta all’utenza interna ed esterna l’accesso ai sistemi informativi archivistici e al patrimonio digitalizzato; – formalizzazione delle regole, degli standard, dei contenuti informativi, dei 13

http://www.asrm.archivi.beniculturali.it/. Da questa nota alla nota 17 si forniscono i riferimenti ai siti che hanno provveduto a pubblicare le collezioni digitali. 14 http://ww2.multix.it/asto/ricerca.htm. 15 http://www.asrm.archivi.beniculturali.it/. 16 http://www.archiviodistato.cagliari.it/. 17 http://www.archiviodistato.firenze.it/Map/index.html. 18 Per un panorama delle iniziative e dei progetti in corso si vedano il numero monografico di «Scrinia», 2 (2005), n. 2/3 e http://www2.regione.veneto.it/cultura/archivi-storici/corsi-2005a.htm dove sono riportati gran parte dei testi o delle sintesi degli interventi presentati in occasione degli incontri di studio su Sistemi informativi archivistici. Strategie ed esperienze svoltisi a Padova per iniziativa della Direzione cultura della regione veneto e della Sezione Veneto dell’ANAI.

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protocolli di comunicazione e dei formati di scambio che consentano la riconduzione a “sistema” delle attività sin qui svolte dalle strutture centrali e periferiche dell’Amministrazione; – costituzione di un sistema di scambio di dati e informazioni tra i soggetti che forniscono, gestiscono e accedono ai dati archivistici a diversi livelli, con finalità sia scientifiche sia gestionali; – formalizzazione delle regole e degli standard per la pubblicazione sul web e l’accesso on-line alle collezioni digitali; – costituzione di un sistema di reporting direzionale che consenta all’Amministrazione la conoscenza e la valutazione del patrimonio conservato e del patrimonio digitalizzato, nonché il monitoraggio dei flussi informativi che provengono periodicamente dai sistemi informativi regionali e degli enti territoriali20; – gestione coordinata dei processi di valorizzazione economica dell’attività editoriale, scientifica e di ricerca promossa e realizzata dalle strutture dell’Amministrazione nonché dei prodotti risultanti dall’applicazione delle tecnologie digitali al patrimonio archivistico nazionale; – promozione dell’attività di descrizione sistematica del patrimonio documentario non ancora inventariato per promuoverne la tutela e la fruibilità; – promozione e pianificazione dell’attività di riproduzione digitale della documentazione archivistica ritenuta particolarmente significativa per finalità culturali o per la soddisfazione di esigenze di conservazione e di tutela; – promozione di condivisione e scambio di informazioni descrittive e di record di autorità con i sistemi informativi messi a punto in altri ambiti dei beni culturali, con particolare riferimento ai sistemi bibliotecari. Lo studio è ormai concluso e sulla sua base saranno avviate rapidamente le procedure di gara. Ma la vera sfida per il successo dell’iniziativa non è tanto quella della realizzazione di una piattaforma software o di un sistema informativo complesso, quanto quella di far sì che il SAN diventi uno spazio di confronto che aiuti a promuovere e a sviluppare metodologie di lavoro comuni. Si tratta dunque di creare con il SAN un indispensabile servizio di orientamento per gli utenti e uno strumento di collegamento nel presupposto che ogni descrizione archivistica costituisce un tassello di una struttura complessa, la cui valenza culturale è proporzionale alla molteplicità e alla ricchezza delle sue relazioni e informazioni di contesto. In questa ottica il sistema dovrà contribuire a porre le basi di sistema integrato di conoscenza cooperando con gli altri sistemi dei beni culturali. La messa a punto dunque delle metodologie di lavoro e del modello organizzativo non potrà prescindere non solo dal confronto fra gli operatori del settore archivistico, ma anche dal confronto con gli operatori dei beni culturali in genere e del settore bibliotecario in particolare. 19

In seno alla Commissione paritetica istituita ai sensi dell’accordo Stato-Regioni siglato il 27 marzo 2003 e pubblicato sulla G.U. n.114 del 19 maggio 2003. 20 Ai sensi dell’art. 17 del Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42.

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L’utilizzo della digitalizzazione nell’ICCD: stato dell’arte e prospettive Elena Berardi, Clemente Marsicola ICCD*

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e tecnologie digitali sono entrate a far parte ormai da alcuni anni degli strumenti di lavoro che l’ICCD impiega nelle attività di gestione della conoscenza del patrimonio storico-artistico, archeologico, architettonico e demoantropologico. Il digitale è, infatti, da un lato una tecnica che viene applicata con diverse finalità a seconda del contesto di utilizzazione, dall’altro è un linguaggio di comunicazione e accessibilità che svolge una funzione di eccellente ausilio a un ventaglio di attività potenziandone la portata informativa. Senza volerne esaltare acriticamente l’utilizzo, risulta abbastanza evidente che la digitalizzazione in quanto tale non ha le credenziali per vivere di vita autonoma. Al contrario essa si esalta di luce riflessa se sapientemente affiancata ad attività che presuppongono un lavoro di studio e approfondimento dell’oggetto (entità sulla quale agisce la digitalizzazione). La digitalizzazione, infatti, da sola non “parla”, non ha la facoltà di “tradurre” tout court contenuti, e anzi un abuso indifferenziato può determinare un ritorno di inefficacia rispetto agli obiettivi ipotizzati. ICCD - Fondo Nunes Vais, artista sconosciuta. L’ICCD, se per un verso impiega tale tecnologia soprattutto in riferimento all’oggetto fotografia, trattata nella sua multiforme specificità dai diversi settori dell’istituto (Aerofototeca, Fototeca Nazionale, Museo/Archivio di fotografia storica, Laboratorio fotografico), dall’altro non trascura altri contesti, quale ad esempio quello dell’antico archivio cartaceo delle schede di catalogo, consegnato all’Ufficio Centrale per il Catalogo nel 1969 e costituito dalle schede, circa 200.000, redatte tra il 1892 e il 1969 su vari modelli. Le * supervisione di Maria Rita Sanzi Di Mino

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Progetti

schede più antiche sono seguenti all’emanazione delle leggi di tutela del patrimonio culturale del Regno d’Italia della fine dell’Ottocento e testimoniano i primi tentativi di censimento e divulgazione dei beni storico-artistici nazionali. Questo ricco e interessante patrimonio documentario è composto da inventari degli edifici e dei beni mobili in essi contenuti, con descrizioni abbastanza accurate, arricchite spesso da notizie storico-critiche e talvolta da fotografie. È in atto la digitalizzazione di tale materiale storico che nel corso del 2006 sarà fruibile al pubblico sul sito dell’Istituto. Come è noto, il valore del patrimonio fotografico presente nelle collezioni dell’Istituto è estremamente rilevante in quanto in esso sono rappresentate tutte le tipologie di tecnica fotografica: dai dagherrotipi, ai collodi, alle stereoscopie ecc., nonché fondi significativi per la storia dei fotografi, della fotografia e della stessa società italiana. In particolare, il Museo/Archivio di fotografia storica raccoglie fondi fotografici, dalle origini della fotografia sino alla contemporaneità, opera di importanti autori, tra cui si segnalano: Felice Beato, McPherson, Sommer, Le Lieure, Caneva, Cugnoni, Valenziani, Tuminello, Nunes Vais, Morpurgo ecc. Tale corpus (circa 1.500.000 di immagini) si pone nella sua complessità qualitativa e numerica come un insieme di grande valore storico-artistico e documentario tra i più prestigiosi in Italia. Più in generale, l’attività dell’Istituto centrale per il catalogo e la documentazione è incentrata su due ambiti principali tra loro interconnessi: il Sistema Informativo Generale del Catalogo (SIGEC) e l’Area fotografica. Dei beni trattati nel sistema catalografico, la fotografia è il solo di cui l’ICCD possieda una ricca collezione. Ciò comporta che l’Istituto deve occuparsi oltre che della trattazione catalografica della fotografia, anche della sua conservazione, valorizzazione e fruizione. Accanto alla conservazione e valorizzazione del patrimonio fotografico, che comporta prioritariamente la digitalizzazione delle immagini ad alta risoluzione e il successivo deposito degli originali in magazzini climatizzati, l’ICCD ha anche avviato un servizio di e-commerce relativo a una banca dati di circa 90.000 immagini, in bianco e nero e a colori, relative prevalentemente a località italiane. Tali immagini provengono non solo dall’attività più che centenaria del Gabinetto fotografico nazionale, ma anche da fondi storici donati o acquistati nel corso del tempo, dalle campagne fotografiche realizzate dal Laboratorio fotografico per documentare i beni oggetto di tutela a livello nazionale e dall’Aerofototeca. Essa conserva materiale d’archivio che copre un arco temporale dalla fine dell’800 ai nostri giorni, possiede circa 2.000.000 di fotografie, tra lastre, positivi originali, diapositive b/n e colore, pellicole. È stata effettuata una prima campagna di digitalizzazione di tale materiale, afferente a vari fondi, sulla base di una selezione di immagini significative per la storia e la conoscenza del territorio. 98


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Nella prospettiva di un sistema informativo integrato, quale è il SIGEC (risultano a oggi caricate 513.000 immagini), in cui è possibile trattare e recuperare accanto alla descrizione catalografica, l’immagine relativa all’oggetto e altri possibili allegati multimediali, sono state sviluppate la Normativa per l’acquisizione digitale delle immagini fotografiche, e la Normativa per la realizzazione e il trasferimento degli allegati multimediali. In tale contesto sono stati definiti i metadati catalografici, informativi e tecnici attraverso appositi campi strutturati, in grado di ospitare le informazioni concernenti, ad esempio, il dato multimediale (condizioni di ripresa, obiettivo utilizzato, punto di ripresa, quota di ripresa), il processo di digitalizzazione (autore, data, profilo calibrazione colore, sistema di digitalizzazione/colore), i diritti di riproduzione (titolare, indirizzo, data di scadenza, sistema di protezione utilizzato, codice), i dati tecnici (nome file digitale, nome file originale, formato di memorizzazione, formato di compressione, numero di bit per pixel, risoluzione cromatica…), ecc. ICCD - Loreto, Santa Casa, Profeta Su tali premesse l’ICCD intende promuovere un Geremia di Aurelio Lombardi, marmo impegnativo programma aperto al concorso dei principali soggetti pubblici e privati interessati alla fotografia, articolato sui seguenti obiettivi: – completamento della catalogazione del patrimonio fotografico posseduto; – digitalizzazione delle collezioni più significative; – creazione di una infrastruttura di fruizione e comunicazione incentrata sul Museo/Archivio di fotografia storica e su un portale della fotografia. Il Museo e il portale consentiranno la diffusione e fruizione delle collezioni, la costruzione di percorsi didattici rispetto alle tecniche e alla valenza culturale e artistica della fotografia, l’apertura di momenti di discussione, elaborazione e disseminazione dell’informazione e delle conoscenze rispetto ai principali aspetti della trattazione scientifica della fotografia. In particolare, il portale e l’elaborazione scientifica troveranno il loro inserimento nelle più ampie iniziative promosse dal Dipartimento per la ricerca, l’innovazione e l’organizzazione in merito alla conservazione, all’accessibilità e alla diffusione del patrimonio culturale. 99


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Note tecniche sulla digitalizzazione Dalla fine degli anni novanta il Laboratorio per la Fotografia dell’ICCD provvede alla digitalizzazione dei fondi storici dell’Istituto. Tra questi si segnalano i fondi Ashby, Valenziani, Tuminello e Le Lieure per complessive 10.000 immagini, con affidamento a una ditta specializzata nel settore. Dal 1998 il Laboratorio si è dotato di una propria stazione di digitalizzazione di immagini, con la quale è stato possibile informatizzare una notevole quantità di immagini provenienti dai fondi Nunes Vais, Cisterna Monti, Becchetti, Lattanzi, Casa Savoia. Negli ultimi tre anni il Laboratorio per la Fotografia e il Rilievo ha avviato la digitalizzazione delle immagini relative alle campagne fotografiche effettuate, anche per renderle fruibili dall’utenza attraverso la realizzazione di prodotti multimediali; va inoltre notato che alcune delle ultime recentissime campagne fotografiche sono state eseguite, laddove le specifiche tecniche lo rendevano possibile, direttamente con attrezzatura di ripresa digitale. Oggi il Laboratorio è attrezzato con due scanner piani professionali, Agfa e Creoscitex, per originali opachi e trasparenti fino al formato A3 con risoluzioni rispettivamente di 3.000 e 2.500 dpi, due dorsi digitali Kodak da 16 milioni di pixel montati su fotocamere Hasselblad e una serie di macchine fotografiche digitali per lavori specifici. Le modalità operative di acquisizione sono ovviamente standardizzate e, pur rispettando la normativa ICCD, tengono conto dei miglioramenti che via via i gruppi di lavoro del settore, come quelli dei progetti Sepia e Minerva, introducono e consigliano. Va ricordato infine che ulteriori progetti di digitalizzazione del patrimonio iconoICCD - Fondo Le Lieure, Parigi, rue de Rivoli grafico dell’ICCD sono portati avanti direttamente dal Museo/Archivio di Fotografia Storica attraverso incarichi a ditte specializzate che hanno realizzato la riproduzione digitale dei fondi fotografici Rossi Canosa e IASA. L’apprendimento dell’uso delle tecnologie informatiche da parte dei tecnici dell’ICCD, e in particolare dei fotografi, non è stato sempre semplice e rapido, e ha richiesto un’attività formativa. Resta un punto fermo per l’Istituto continuare a coltivare le tecniche tradizionali di stampa, in special modo da antichi negativi, e di ripresa, nelle quali l’ICCD stesso ritrova la sua specificità e la sua antica tradizione operativa. 100


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Tra ricerca e catalogo: un nuovo software per la descrizione dei manoscritti in Germania Gigliola Barbero Biblioteca Ambrosiana di Milano

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informatica non conosce innovazioni concettuali significative da almeno 30 anni» afferma Gianfranco Prini (Università degli Studi di Milano), mentre in una lezione privata discute con ricercatori umanisti sulle applicazioni delle nuove tecnologie ai loro campi di studio. Anche gli strumenti di archiviazione elettronica utilizzabili da storici, storici dell’arte, studiosi di letteratura e bibliologi sostanzialmente non sono cambiati negli ultimi decenni. Le prime forme di trattamento del testo, non dissimili da quelle attuali, risalgono all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso; i database più antichi (se ormai dobbiamo parlare di storia dell’informatica ci sia consentito questo aggettivo) vennero poco dopo e ancora oggi sono questi i sistemi fondamentali utilizzati nella registrazione di tutta l’informazione pubblicata e fatta circolare in Rete. Persino i linguaggi di marcatura, che pure hanno caratteristiche molto importanti proprio per gli umanisti, dal punto di vista concettuale non si distinguono significativamente dai database, poiché – spiega ancora Gianfranco Prini – «entrambi i formalismi impongono una struttura predefinita alla rappresentazione dei dati, al fine di consentirne un trattamento efficiente con procedure altrettanto predefinite».1 Se quindi gli strumenti concettuali sono già definiti, suddivisi tra word processor e sistemi di database o di marcatura, nei quali al linguaggio naturale si accompagna un’esplicita strutturazione semantica, ciò che resta da fare nel presente è realizzare applicazioni rispettose dei contenuti che devono esservi rappresentati e usabili nei singoli settori specifici; ossia occorre che inizi (o prosegua là dove è già iniziata) una fase interlocutoria costruttiva tra specialisti delle nuove tecnologie e specialisti dei contenuti. Questa necessità è particolarmente viva nell’ambito della catalogazione dei manoscritti, un settore della conoscenza che vede incontrarsi e scontrarsi competenze e interessi assai diversi, poiché si sviluppa a cavallo tra mondo della ricerca e mondo delle biblioteche. I ricercatori studiano i manoscritti per finalità esclusivamente culturali, per fare avanzare la ricerca in campo storico o letterario e possono dedicare tempo e risorse pressoché infinite a ciascun problema che incontrano; le biblioteche, dall’altra parte, hanno il compito di fornire accessi ai loro fondi mano1

Su database e linguaggi di marcatura utilizzati in ambito umanistico si veda l’importante sintesi di Stefano Vitali, Passato digitale, Milano: Bruno Mondadori, 2004.

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scritti in tempi accettabili e per questo scopo le competenze tradizionali di paleografi e studiosi dei testi costituiscono soltanto degli strumenti. I primi di questi attori, gli studiosi, non possono prevedere in anticipo ciò che troveranno al termine delle loro indagini e quindi preferiscono quasi sempre la prosa libera per riassumere e pubblicare i propri risultati. Veronika von Büren (CNRS, Paris), che conserva nel proprio PC privato la più grande biblioteca digitale dedicata ai manoscritti precarolingi, sostiene che non ha più senso costruire database strutturati e che potenti information retrieval potrebbero essere sufficienti per interrogare i testi scientifici; a controprova di ciò dall’archivio di dati conservati nella sua macchina emergono informazioni su tutti i manoscritti dei Codices latini antiquiores utilizzando un semplice sistema di search che permette di interrogare i testi degli articoli e dei cataloghi recuperati dalla studiosa con l’OCR.2 Ma soprattutto dimostra l’importanza dell’archiviazione di testi la versione Beta di Google Print, in cui appaiono già anche riproduzioni di cataloghi di manoscritti originariamente a stampa.3 I bibliotecari invece, insieme a poche persone specializzate nel lavoro di catalogazione, cercano di creare di volta in volta degli schemi più rigidi (indici, schede) entro cui registrare le informazioni necessarie, in base alle caratteristiche dei fondi da trattare e alle esigenze degli utenti. Essi, che devono attrezzarsi prima per registrare e poi per gestire grandi quantità di dati, non trovano ostacoli all’uso dei database, che anzi facilitano la normalizzazione dei nomi e la loro identificazione, il trattamento dei titoli, degli incipit, delle date e via dicendo. In questo senso gli studi sui manoscritti pubblicati dai ricercatori e i cataloghi prodotti all’interno delle biblioteche potrebbero essere interpretati rispettivamente come testi e indici di un unico grande catalogo cumulativo, in grado di valorizzare ogni tipo di documentazione esistente. Il software ManuscriptumXML, prodotto per volontà della Deutsche Forschungsgemeinschaft (DFG) per incrementare la base di dati interrogabile in Manuscripta mediaevalia, pretende di rispondere a questa duplice serie di esigenze.4 Anche in questo caso nessuna nuova invenzione, ma solo la riscoperta di una caratteristica poco sfruttata dei database, che in verità permette sia di registrare informazioni espresse in prosa, sia di accumulare thesauri e dati rigidamente codificati. ManuscriptumXML è un database inizialmente prodotto con il nome di HiDA3 per i musei e per l’archiviazione di immagini. Nel 1996 il database fu adattato alle esigenze dei manoscritti e fu usato dai catalogatori nelle biblioteche di Berlino, Stuttgart 2

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È recente la disponibilità di due software gratuiti in grado di ricercare nei file conservati su un PC: Google desktop (http://desktop.google.it), che cerca nei testi di email, Word, Excel, Power Point, PDF, e Windows Desktop ( http://desktop.msn.it). Su Google Print (http://print.google.it). Sul sito Manuscripta mediaevalia (http://www.manuscripta-mediaevalia.de) si vedano Robert Giel, Manuscripta mediaevalia. Handschriften aus deutschen Bibliotheken im Internet, «Gazette du livre médiéval», 39 (automne 2001), p. 34-40 e Gigliola Barbero, Manoscritti & Computer. Manuscripta mediaevalia, «Biblioteche Oggi», 20/8 (ottobre 2002), p. 100-102.

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e Heidelberg, anche se la maggior parte degli studiosi che si dedicano alla catalogazione dei codici medioevali hanno continuato a scrivere i risultati della loro opera di schedatura con word processor. Racconta Robert Giel, della Staatsbibliothek di Berlino: «Essendo un database strutturato con un altissimo numero di campi, HiDA3 non fu mai accettato dai catalogatori abituati a dedicare ai manoscritti dei veri e propri testi “epici” elaborati in Word. Così alla fine la DFG ha deciso che se il software non era benvoluto e non era diffuso, ciò era da attribuirsi al sistema su cui si basava; allora, in un meeting tra operatori del settore tenutosi a Lipsia del 2003, vennero discusse le linee guida per una nuova applicazione e i risultati di quell’incontro servirono come base per lo sviluppo di ManuscriptumXML, una sorta di HiDA4». ManuscriptumXML ora è quasi al traguardo e in fase di test. Esso è in grado di leggere tutti i documenti prodotti con HiDA3 e funziona online, direttamente su un server ospitato dal Bildarchiv Foto Marburg. In più permette di importare ed esportare i dati in XML, secondo uno schema prodotto appositamente. Le informazioni registrate nel database sono articolate in diverse entità: il manoscritto, in quanto singolo oggetto, le date, i luoghi geografici, i cataloghi, le notizie iconografiche, le schede di bibliografia, i nomi di persona, i nomi di enti e i soggetti. Ciascuna entità costituisce il contenuto di un tipo di documento e le entità sono organizzate tra loro in maniera gerarchica. Ovviamente l’entità che raccoglie il maggior numero di informazioni è quella corrispondente al manoscritto mentre le altre costituiscono liste di autorità di diversa tipologia. Ciascun documento prevede diversi tipi di notizie e termina sempre con il nome dell’ente e del professionista che ne sono responsabili. Per esempio ogni data registrata in relazione alla storia di un codice può essere archiviata in forma normalizzata come elemento a sé e può entrare a fare parte di un indice delle date; ManuscriptumXML comprende in questo caso sia un campo per registrare la forma discorsiva della data (per es. “prima metà del XV sec.”) sia un campo per la forma numerica (per es. “1401-1450”). Invece le informazioni relative a un nome di persona comprendono il nome principale nella sua forma accettata, il numero dell’archivio nazionale Personnennamendatei5 (PND), un secondo nome, il genere, lo stato, la professione, la data e il luogo di nascita e di morte, eventuali indicazioni bibliografiche, note libere e di nuovo i nomi degli autori della notizia biografica. Nel momento in cui si debba registrare una data relativa alla storia di un codice, oppure un nome di persona, è sufficiente richiamarne solo più la forma normalizzata che resterà collegata rispettivamente all’indice delle date e all’indice dei nomi; in più nella scheda del manoscritto alla forma normalizzata della data si accompagna l’informazione relativa al tipo di datazione, così come al nome si affianca la definizione della relazione che intercorre tra il nome e la scheda, per es. nome di autore, nome dell’attuale possessore, nome di un possessore antico. 5

Sull’archivio nazionale PND si veda http://www.ddb.de/standardisierung/normdateien/pnd.htm.

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Ma a parte gli indici, la maggiore novità di ManuscriptumXML, quella che permette a chi lo ha programmato di definirlo un software orientato al testo (documentoriented afferma Robert Giel), è nella duplice modalità di inserimento dei dati relativi a ciascuna descrizione di codice. Infatti oltre a creare le entità manoscritto, nome, data e così via, utilizzando la scheda Tabellenansicht suddivisa in campi, molto simile a quella del vecchio HiDA3, nella nuova versione del software il catalogatore può usare un editor di testo disponibile in una nuova maschera di inserimento Druckansicht. Tale editor permette di creare la descrizione di un manoscritto utilizzando dei paragrafi di testo senza limiti significativi di spazio: un paragrafo dedicato alla segnatura, uno destinato alla descrizione esterna, uno dedicato alla storia, uno dedicato alla legatura, uno per i testi. La descrizione che ne risulta è assolutamente identica a quella che si può elaborare in un qualsiasi word processor, ma ManuscriptumXML è in grado di mettere in relazione tutte le schede così realizzate agli indici del database, ossia agli indici che vengono costruiti utilizzando la Tabellenansicht. La descrizione in prosa e gli indici infatti sono collegati da un sistema di link semiautomatico: all’interno di un qualsiasi paragrafo in prosa si può selezionare con il mouse una porzione di testo e quindi, con il tasto F12, si può aprire un menù che permette di inserire quella stringa in uno degli indici. Per esempio nel paragrafo dedicato alla descrizione dei contenuti si può selezionare un nome espresso in forma diretta (“Francesco Petrarca”) e quindi inserire quella stringa nel campo nomi degli indici indicandovi la forma normalizzata (“Petrarca, Francesco”) ed eventuali altre precisazioni. Ovviamente la tabella degli indici può essere anche usata indipendentemente dall’editor, per esempio nei casi in cui si volessero indicizzare solo pochi accessi e per progetti finalizzati a obiettivi parziali. «Testo e indici: può suonare strano – conclude Robert Giel nel parlarci di ManuscriptumXML – che in Germania si stia cercando di realizzare una struttura così vicina a quella dei vecchi volumi a stampa, dal momento che si intende elaborare un nuovo catalogo elettronico. Ma la verità è che siamo giunti alla conclusione che la maggior parte dei catalogatori non si sarebbero mai convinti a lavorare con un database tradizionale, a meno che non adattassimo il sistema alle loro abitudini e alle loro esigenze». Quindi ancora nessuna nuova scoperta, nessuna nuova invenzione, ma scelte efficaci finalizzate a rispettare i contenuti e chi li produce e soprattutto adatte sia ai progetti di ricerca sia ai lavori di catalogazione. La decisione di accostare agli indici un sistema di scrittura per registrare schede in prosa avvicina molto le funzionalità di ManuscriptumXML a quelle del vero e proprio XML ed evidenzia la somiglianza concettuale tra database e sistemi di marcatura, non rinunciando all’uso di authority list che hanno il pregio di rendere omogenei le forme degli accessi all’informazione. Sarà ora responsabilità della Deutsche Forschungsgemeinschaft la diffusione di questo nuovo software e contemporaneamente saranno i catalogatori e gli studiosi a decidere le sorti di questa applicazione e dell’idea positiva dalla quale si è sviluppata. 104


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Formazione e ricerca per la conservazione digitale: la Scuola estiva di Delos (Antibes, 4-10 giugno 2005) Maria Guercio Università di Urbino

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a Scuola estiva di Delos, di cui nel giugno 2005 si è tenuta a Sophia Antipolis la prima edizione, può essere considerata la più significativa iniziativa europea di alta formazione specialistica nel campo della conservazione digitale, non solo per i contenuti avanzati resi disponibili e la qualità dei docenti, ma anche per le modalità di erogazione che hanno reso possibile l’attivo coinvolgimento di tutti i partecipanti. Obiettivo specifico del corso – destinato a essere riproposto annualmente per tutta la durata del progetto europeo, quindi sia nel 2006 che nel 2007 – è quello di fornire un quadro generale dei metodi finora elaborati e degli strumenti più promettenti tra quelli in fase di sviluppo nel difficile lavoro di indagine che le comunità professionali specifiche (soprattutto i conservatori delle memorie digitali in campo archivistico e biblioteconomico) hanno avviato in questo ambito. In particolare la scuola intende sostenere la comunità dei ricercatori e dei professionisti che operano nel settore con una proposta formativa che includa i temi di maggiore complessità tecnologica e organizzativa, tuttora oggetto di progetti di ricerca ma anche in parte al centro di sperimentazioni e di concrete applicazioni negli ambienti più avanzati della gestione e conservazione documentale in forma elettronica. La difficoltà degli argomenti trattati è mitigata in parte dalle specifiche modalità di erogazione delle lezioni che prevedono per ciascuno dei 10 moduli proposti almeno due occasioni di diretta partecipazione degli studenti alla discussione all’interno di gruppi di lavoro pre-costituiti. La presenza attiva di tutti i docenti per tutta la durata del corso – pianificata come un requisito necessario del corso costituisce un elemento di notevole rilevanza nel garantire la qualità dei processi di apprendimento grazie a un dibattito continuo e vivace che vede coinvolti senza distinzioni di ruoli sia i partner di Delos e i responsabili di tutti i moduli sia gli studenti. La diversa provenienza geografica e professionale nonché il diverso grado di conoscenza delle problematiche inerenti la conservazione digitale sono anch’essi elementi distintivi dell’iniziativa e si sono rivelati già nel corso di questa prima edizione fattori critici di successo. Alla fine della settimana, i progressi in termini di consapevolezza acquisita, di contenuti specifici appresi e di capacità di orienta105


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mento maturata sono stati da tutti riconosciuti, come del resto è chiaramente emerso dai questionari di valutazione proposti a tutti i partecipanti. Nello specifico le competenze che l’iniziativa si è proposta di sviluppare hanno riguardato (e riguarderanno anche in futuro, naturalmente con gli opportuni aggiustamenti): – la capacità di acquisire una generale conoscenza delle criticità degli aspetti conservativi in ambiente digitale sia per chi progetta biblioteche e archivi digitali, sia per chi ha il compito specifico della custodia a lungo termine; – l’approfondimento dei principali interrogativi che sono oggi alla base dei più importanti progetti di ricerca; – la coerente comprensione – non solo teorica – del complesso di attività che costituisce il nucleo centrale della funzione conservativa. Più specificatamente, nell’edizione 20051 i temi trattati si sono concentrati sull’analisi delle tecniche di modelling nel campo specifico della conservazione digitale (Stephan Heuscher, iKeep AG, Digital Archives Services), la definizione e valutazione dei metadati di settore (Michael Day, UKOLN - UK Office for Library Networking - e Digital Curation Centre), i processi concreti di acquisizione e gestione delle risorse digitali nei depositi (Anne Kenney, Cornell University e Birte Christensen-Dalsgaard, Staatsbibliotek Denmark), l’analisi del modello OAIS (Open Archival Information System) e della sua funzione per la creazione di informazioni di rappresentazione delle collezioni e degli archivi informatici (David Giaretta, CCLRC - Central Laboratory of the Research Councils - e Digital Curation Centre), le tecniche di selezione e valutazione nel campo biblioteconomico e archivistico (Ross Harvey, Charles Strutt University), il nodo sempre più centrale dei processi di audit e certificazione dei depositi digitali (Seamus Ross, Università di Glasgow, HATII - Humanities Advanced Technology And Information Institute - e Digital Curation Centre), la creazione di test di sperimentazione e lo sviluppo di procedure di analisi per la progettazione di interventi mirati alla conservazione (Hans Hofman, National Archives of the Netherlands e Andreas Rauber, Vienna University of Technology), la definizione di principi e tecnologie finalizzate a sostenere l’autenticità e l’affidabilità di oggetti digitali persistenti mediante l’utilizzo di formati standard (Manfred Thaller, University of Cologne). Gli argomenti trattati – come emerge chiaramente da questo elenco – sono tutti di grande importanza e altrettanto impegnativi. Impossibile tentarne una sintesi in questa sede. Meritano tuttavia qualche approfondimento il tema trasversale della selezione intrinsecamente connesso ai nodi della conservazione digitale e quello, altrettanto cruciale, dei requisiti per la creazione di un deposito di oggetti persistenti autentici e affidabili. Come ha ricordato Ross Harvey, la valutazione a fini selettivi delle risorse digitali include gran parte delle attività necessarie a sostenere il processo conservativo, a partire dagli strumenti descrittivi, dalla capacità di ana1

I materiali sono disponibili sul sito di DELOS, http://www.dpc.delos.info/registration/.

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lizzare il contesto tecnologico, il ruolo e la natura dei formati dei file e l’impatto sui costi e sulla fattibilità della conservazione medesima. L’imprescindibile necessità di identificare criteri di riferimento e di indirizzo rigorosi e coerenti implica inoltre la capacità precoce di analizzare i contesti e la specifica natura dei materiali digitali trattati sin dalla fase di produzione dei materiali stessi anche al fine di promuovere l’automazione dell’attività selettiva. I rischi della frammentazione dei processi conservativi possono avere in questo settore conseguenze negative incalcolabili e irreparabili rispetto al tradizionale e pur difficile lavoro di recupero e tenuta delle testimonianze storiche tradizionali, come ha concretamente dimostrato Manfred Thaller nella sua relazione finale. La strada difficile da percorrere, soprattutto nella costruzione di sistemi distribuiti di depositi, è quella di promuovere – a integrazione delle necessarie procedure per la costruzione di depositi fidati – lo sviluppo di componenti digitali indipendenti e a minor rischio di perdite irreparabili in quanto “autonomous building blocks”, inclusivi del maggior numero possibile di metadati: una sfida dall’esito ancora incerto per la complessità sia tecnologica che logica di dar vita a file robusti, “self-repairing” (in grado cioè di sopportare un certo livello di distorsione), localizzabili senza la necessità di accedere a un server remoto, autonomi in quanto indipendenti dall’accesso ad altri file, auto-documentati per la presenza interna incapsulata di set completi di metadati, inclusivi di quelli rilevanti a fini conservativi. La numerosità dei problemi emersi e la parzialità delle soluzioni ancora in fase di analisi da parte della comunità scientifica e professionale hanno dimostrato in questa prima esperienza formativa di DELOS - Network of Excellence on Digital Libraries nel campo della conservazione digitale che è necessario allargare la comunità degli addetti ai lavori, accrescere la consapevolezza tecnica, diffondere e condividere i principi di base finora elaborati proprio in considerazione della complessità e instabilità dell’ambiente digitale. L’appuntamento dell’anno prossimo a Cortona (4-10 giugno 2006) potrà fornire nuovi elementi di riflessione e assicurare una continuità dell’attività formativa che riveste in questo campo e in questo momento un’importanza altrettanto significativa dei processi di indagine e sperimentazione in corso.

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Progetti di digitalizzazione nella Regione Veneto: bilancio e prospettive Lorena Dal Poz Regione Veneto - Ufficio Cooperazione Bibliotecaria

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avvio di progetti di digitalizzazione di materiali documentari da parte della Regione del Veneto è stato precoce. Quando infatti nel 1998 venne accolta l’idea di digitalizzare il fondo manoscritto musicale della chiesa veneziana di S. Maria della Consolazione, iniziative di tale genere e impegno non erano frequenti. La difficoltà di accesso all’importante raccolta, in una biblioteca ecclesiastica non attrezzata per la consultazione pubblica, insieme alla necessità di evitarne la dispersione, furono le motivazioni essenziali che spinsero i responsabili delle strutture regionali preposte a dare corso all’iniziativa1. Non molti erano a quella data i parametri tecnici di riferimento, né l’esperienza degli uffici regionali a riguardo; altra difficoltà iniziale era il fatto che la catalogazione informatizzata del fondo era solo agli inizi e non poteva quindi offrire nell’immediato un punto di riferimento per l’archiviazione delle immagini digitali. Essenziale ausilio per l’avvio dell’iniziativa furono i contatti con i colleghi della Biblioteca nazionale centrale di Firenze che, con la digitalizzazione del Fondo manoscritti galileiani ivi conservato, avevano elaborato precocemente modelli di riferimento tecnico e procedurale nella riproduzione digitale integrale di fondi speciali2. Ma le motivazioni all’avvio di questa prima esperienza regionale di digitalizzazione meglio si colgono ripercorrendo brevemente la storia del fondo musicale che ne è oggetto e dell’istituzione che ne ha promosso la produzione e che ancora lo conserva. Nel convento annesso alla chiesa veneziana di S. Maria della Consolazione, detta della Fava, si insediarono nel 1667 i padri Filippini: proprio negli oratori romani fondati da S. Filippo Neri era invalso l’uso di intonare delle laudi a più voci dopo il sermone, che divennero ben presto dei veri e propri drammi sacri in musica. I Filippini perciò furono fin dagli inizi grandi mecenati musicali e particolarmente di oratori, 1

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La riproduzione digitale del fondo era stata suggerita dalla Fondazione Levi, specializzata nella conservazione e ricerca sulle fonti musicali, e in particolare da Franco Rossi. Il progetto fu accolto da Angelo Tabaro e Sonia Barison, rispettivamente Dirigente regionale Cultura e dirigente del Servizio Beni librari e archivistici. Si coglie l’occasione per ringraziare, a questo proposito, Gianna Megli e Antonia Ida Fontana per la disponibilità allora offerta.

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che costituiscono la parte principale delle cospicue raccolte bibliografiche musicali della Fava. Se è inspiegabile la totale assenza di spartiti musicali del tardo Seicento e del primo Settecento, dispersi forse fuori Venezia, è documentata in modo particolarmente completo la produzione musicale di S. Maria della Consolazione a partire dai decenni centrali del XVIII secolo, con un’ampia tipologia di materiali: partiture con relative parti e molti libretti, conservati generalmente in più copie. La presenza di opere di Baldassare Galuppi, Niccolò Jommelli, Johan Adolf Hasse, per citare solo alcuni tra gli autori più noti, testimonia il livello qualitativo che i Filippini riuscivano a mantenere. Fortunatamente quanto inspiegabilmente il fondo bibliografico musicale sopravvisse alle razzie seguite alla soppressione napoleonica della comunità dei Filippini del 1810; forse perché i francesi, attratti dalla più suntuosa raccolta libraria conservata nella vera e propria biblioteca conventuale, lo dimenticarono. I padri poterono tornare alla Fava nel 1821 riprendendo la loro consueta pratica musicale e dedicandosi anche alla ricostituzione della dispersa biblioteca conventuale con acquisti sul fiorente mercato antiquario dell’epoca, pingue proprio per la presenza dei libri provenienti dalle congregazioni religiose soppresse. Probabilmente in questa fase vi confluirono alcuni codici liturgici medievali attualmente in biblioteca, tra i quali si segnala un gruppo omogeneo del primo quarto del Trecento costituito dal graduale cod. 72 e dagli antifonari cod. 73 e 74, che il contenuto liturgico indica prodotti per un monastero femminile di area riminese e la fine decorazione miniata, purtroppo gravemente deturpata dall’asportazione di varie iniziali, suggerisce di attribuire alla bottega di Neri da Rimini3. Ai Filippini subentrarono nel 1908 i Padri Redentoristi, che ancora attualmente conservano la biblioteca e i fondi musicali citati, cui si aggiungono gli archivi propri e dei predecessori. La riproduzione digitale integrale del fondo, costituita da 70.212 immagini in formato HTML visibile nel sito regionale all’indirizzo http://smcfava.regione.veneto.it/, è stata concepita inizialmente come riproduzione visiva delle pagine musicali con finalità di tutela e nell’ottica di miglioramento della fruizione del fondo4. 3

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Si veda Gudrun Dauner, Neri da Rimini und die Rimineser Miniaturmalerei des frühen Trecento, München, 1998, p. 144-157, 240-248. Sul progetto di digitalizzazione del Fondo musicale della Fava si veda: Lia Artico, La digitalizzazione del Fondo musicale manoscritto di S. Maria della Fava a Venezia. Il divenire di un progetto, in: BiliotECONOMIA la frontiera digitale. 14. Seminario Angela Vinay, Venezia, 2004, p. 39 - 47 reperibile anche in rete all’indirizzo: http://www.aib.it/aib/sezioni/veneto/vinay14.htm. Lia Artico, allora responsabile dell’Ufficio regionale Beni Librari, e Paolo Mauro, quest’ultimo il fotografo che ha realizzato tutte le immagini, hanno curato la messa in rete delle immagini digitali. Piace ricordare anche il contributo di Mario Compagno, funzionario dell’ufficio preposto fino al 2001, alla buona riuscita del progetto che, partito da una stima di immagini molto inferiore a quelle effettive, ha richiesto non poca perizia amministrativa per essere portato a compimento.

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Le indicazioni catalografiche che vi sono contenute non hanno perciò precisione e completezza scientifica, ma sono esclusivamente funzionali al reperimento delle riproduzioni. In parallelo infatti all’avvio della digitalizzazione del fondo un giovane musicologo perfezionava e aggiornava il precedente catalogo5, ormai insufficiente. Questa più recente catalogazione a opera di Cristian Bacchi6 veniva pubblicata nel 2002 in coedizione dalla Regione del Veneto e dalla Fondazione Levi di Venezia a coronamento di una iniziativa di tutela attuata grazie al concorso di più soggetti. Insieme a quest’ultimo istituto di ricerca la Regione ha dato vita a una collana dedicata alla edizione delle fonti della storia musicale veneta, che comprende fino a oggi una ventina di importanti cataloghi a stampa elencati nell’indirizzo web: http://www2.regione.veneto.it/cultura/attivita_culturali/ricerche-st-legge-09.htm. Un ulteriore progetto volto alla riscoperta della vita musicale nella società veneta dal XV al XIX secolo era stato avviato anche a seguito della legge regionale n. 9 del 1985 consentendo, sotto la guida di un qualificato comitato scientifico, la pubblicazione dei cataloghi a stampa enumerati all’indirizzo http://web1.regione.veneto.it/ProseditWeb/jsp/index.jsp. Il recupero catalografico in rete di queste ampi lavori catalografici e la loro integrazione con un repertorio di immagini digitali sono ipotesi impegnative ma di grande suggestione e realizzazione relativamente semplice. Nel tracciare un sintetico bilancio di questa prima esperienza regionale di digitalizzazione emergono due considerazioni. Innanzitutto la conferma che, soprattutto imprese di tali dimensioni, dovrebbero essere precedute o perlomeno sistematicamente coordinate con la catalogazione. Questa sfasatura di fondo ha fatto sì che le immagini digitali attualmente visibili nel sito regionale siano indicizzate in modo non del tutto corretto, perché corrispondente ad una fase catalografica ancora incompleta e non perfezionata; in ogni caso esse non sono corredate dalla scheda descrittiva completa7. Come già ricordato, nel 2002 il catalogo del fondo è stato edito a stampa. Fa riflettere il fatto che la pubblicazione cartacea, se non più conveniente in termini economici, sia stata comunque più veloce della messa in linea del lavoro, sia perché il progetto non prevedeva originariamente la consultabilità in rete sia per le difficol5 6

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Paolo Pancino, Venezia, S. Maria della Consolazione detta “della Fava”. Milano, 1969. Christian Bacchi, Il Fondo Musicale della Chiesa di S. Maria della Consolazione di Venezia. Venezia, 2002. La riproduzione del fondo della Fava appartiene infatti nella sua genesi a quella prima generazione di progetti di digitalizzazione in cui l’attenzione era volta alla riproduzione digitale, piuttosto che sull’uso delle basi dati così costituite, verso cui sono evoluti i progetti della seconda generazione. La necessità di far precedere la catalogazione alla digitalizzazione dei materiali sembra nel frattempo orientamento acquisito. Su questi temi si cfr. Maurizio Messina, L’Archivio Digitale della Musica Veneta: note da un percorso. In: BiliotECONOMIA cit., p. 69s.

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tà tecniche e organizzative di coordinare e concordarne tempi e modalità entro organizzazioni complesse come quella regionale: tempi lunghi, quindi, in parte evitabili con l’esperienza tecnica e professionale acquisita, ma che comunque vanno valutati. Si può azzardare la considerazione che il digitale è senza dubbio uno strumento di divulgazione e, forse, di tutela formidabile8, ma non ancora pienamente noto e utilizzato in rapporto alle sue peculiarità e potenzialità. L’esperienza maturata con la digitalizzazione del fondo musicale della Fava, peraltro valutabile in termini positivi per la Regione comparando risultati ed entità dell’investimento, non manca tuttavia di suggerire che iniziative di tale impegno e dimensioni vanno sostenute da una progettualità rigorosa, attenta nel definire gli obiettivi ma anche a valutarne i rapporti costi-benefici, volta a finalità di tutela e/o valorizzazione o comunque compatibili con le peculiarità tecniche di questo supporto9. È infatti ormai chiaro come, oltre ai costi della semplice riproduzione digitale, si aggiungano quelli della loro integrazione con metadati amministrativi e gestionali che ne consentano la fruizione e del costante mantenimento delle basi dati costituite, soggette per loro natura a rapida obsolescenza tecnologica10 e quindi, di fatto, talvolta più fragili dei materiali su supporto cartaceo di cui si vorrebbe garantire la conservazione. A questo primo progetto di digitalizzazione ne sono seguiti altri, talvolta per iniziativa diretta della Regione per perseguire le sue finalità precipue di tutela, in altri casi finanziando proposte di biblioteche di ente o interesse locale: a partire dal 2003 si è comunque condizionato il finanziamento da parte della Regione all’adozione degli standard di riproduzione digitale elaborati nell’ambito del Progetto Archivio Digitale della Musica Veneta e poi adottati dalla Biblioteca Digitale Italiana. Tra i progetti più rilevanti da menzionare, promossi su finanziamento regionale e grazie a un progetto fortemente condiviso con l’ente gestore, è quello complesso di recupero conservativo, catalogazione e digitalizzazione della “Fototeca regionale”, una raccolta di 75.000 negativi di proprietà della Regione del Veneto che riproducono beni culturali di Musei e Biblioteche di competenza regionale, realizzati nel corso di una campagna fotografica degli anni Ottanta. 8

Sulla prevalente funzione di diffusione della cultura scritta e, solo limitatamente ad alcuni materiali quali i periodici, del digitale, si cfr. Carlo Federici, A, B e C. Dialogo sulla conservazione di carte vecchie e nuove, Venezia-Roma, 2005, p. 18-19. 9 Si rileva a questo proposito come il Manuale di buone pratiche per la digitalizzazione del patrimonio culturale a cura del Gruppo di lavoro 6 del Progetto Minerva nel 2004 risponda effettivamente a necessità reali di orientamento e indirizzo nel settore, sottolineando tuttavia la necessità di una più incisiva sensibilizzazione al loro uso, che dovrebbe essere esteso il più possibile in ambito nazionale per garantire standard qualitativi minimi alle numerose iniziative che si stanno attivando. 10 Si vedano a questo proposito le osservazioni contenute nel bel saggio di Maurizio Messina, L’Archivio Digitale della Musica Veneta cit., p. 71.

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Gli importanti materiali sono depositati presso l’Istituto di Storia dell’Arte della Fondazione Giorgio Cini, ma stavano già subendo un evidente deterioramento tale da compromettendone anche la fruizione, che era stata del resto relativamente limitata in rapporto alla rilevanza del fondo11. Il progetto di recupero elaborato dalla Cini, avviato nel 2002 e ormai prossimo alla conclusione (prevista nel 2006), intende pervenire a una vera e propria fototeca in linea di beni culturali, in prevalenza storico-artistici ma anche etnografici, antropologici e librari, in cui ciascuna immagine fotografica, dopo aver subito i trattamenti conservativi idonei, viene digitalizzata, catalogata e messa in rete collegandola nello stesso tempo alla scheda descrittiva del bene riprodotto, anch’essa consultabile in rete12: dovrebbe tra breve porsi come un servizio innovativo sia per l’utenza sia per gli enti proprietari dei beni riprodotti, che potranno così fruire di una banca dati di immagini digitalizzate da utilizzare per finalità molteplici. La prospettiva comunque più feconda tra quelle che la Regione Veneto potrebbe attivare in tempi brevi è l’integrazione della banca dati sui manoscritti del Veneto, denominata Nuova Biblioteca Manoscritta, con immagini digitali, inserendola entro il più vasto contesto nazionale della banca dati sui manoscritti dell’ICCU. Nato nel 2002 con l’intento di promuovere incisivamente la catalogazione in forma sintetica dei manoscritti delle biblioteche della regione13, il progetto veneto ha consentito la realizzazione di una banca dati, che accoglie per ora circa 1.000 schede catalografiche ma entro la fine del 2006 dovrebbe rendere visibili tutti i record relativi alle unità codicologiche fino a oggi prodotte, quantificabili in 2.857 schede catalografiche, 582 inventariali, 250 recuperate da cataloghi cartacei e 9.200 lettere, relative complessivamente a 20 biblioteche. Punto qualificante del progetto è stata la costituzione di un gruppo scientifico attivo presso la Biblioteca del Museo Correr, che ha il compito di selezionare le biblioteche che annualmente vengono coinvolte, assistere nella scelta delle priorità dei materiali da catalogare, fornire supporto tecnico-scientifico nella catalogazione e revisionare le schede prodotte garantendone livello qualitativo e, normalizzando terminologia e metodologie descrittive, una ricerca facilitata. L’acquisizione di immagini di corredo alla descrizione dei manoscritti per ora non ha avuto luogo regolarmente, ma l’intento è di potenziar11

Molte di queste riproduzioni sono le uniche esistenti delle opere riprodotte o talvolta l’unica documentazione di beni che hanno subito successivi interventi di rimaneggiamento o restauro; si tratta in molti casi di materiali di cui l’ente stesso proprietario dei beni ha perso memoria dell’esistenza. 12 Il progetto è stato realizzato da un équipe di lavoro costituitasi presso l’Istituto di Storia dell’Arte della Fondazione Cini, guidata da Giuseppe Pavanello e di cui fanno parte Simone Guerriero e Michela Gobbo. 13 Il progetto è stato presentato in sede nazionale alla IV Conferenza Nazionale delle Biblioteche. Le Biblioteche e la trasmissione della conoscenza in un sistema articolato di competenze, tenutosi a Firenze il 5,6 e 7 novembre 2003. La banca dati veneta è consultabile all’indirizzo: www.nuovabibliotecamanoscritta.it

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la nel corso del 2006. Tra l’altro è prevista la riproduzione integrale dei 7 volumi autografi di Emanuele Antonio Cicogna, contenenti la descrizione dei 4.439 manoscritti della sua biblioteca integrate da notizie suppletive sulla loro provenienza: il fondo, ora conservato presso la Biblioteca del Museo Correr, è di fondamentale importanza per gli studi di storia veneta e veneziana. Le immagini digitali verranno corredate dall’indicizzazione dei nomi di autori e dei titoli, così che la consultazione dei cataloghi autografi sarà possibile via web attraverso la banca dati regionale. Nella direzione di un potenziamento della banca dati di immagini sui manoscritti visibile a partire da Nuova Biblioteca Manoscritta si muove anche il finanziamento di un progetto di catalogazione dei corali conservati nei conventi francescano veneti, che sarà attuata parallelamente a una acquisizione integrale delle immagini. Numerosissime sono poi le iniziative autonome delle biblioteche del territorio, per quanto ancora non compiutamente censite. Un primo lavoro in questo senso è stato svolto nel Veneto da Daria Greco nell’ambito del Progetto Centri E-Learning di aggiornamento e qualificazione professionale per il management della Biblioteca Digitale Italiana - Progetto MICHAEL, finanziato dall’ICCU, per effettuare una ricognizione sui progetti di digitalizzazione realizzati da biblioteche di competenza regionale, locale o privata della Regione Veneto14. Questo pre-censimento, di cui si auspica il proseguimento nella convinzione che sia essenziale la creazione di un “registro delle opere digitalizzate e da digitalizzare” in ambito nazionale15, ha consentito di rilevare che le iniziative di digitalizzazione delle biblioteche prese in esame sono più numerose del previsto e che esse riprendono sostanzialmente i filoni tematici già indicati per le iniziative regionali, con una particolare attenzione alla riproduzione di materiali fotografici e documentari caratterizzanti per il territorio. Tra le digitalizzazioni di fondi fotografici sono stati rilevate quelle dell’Archivio fotografico della Biblioteca Civica di Belluno, della Comunale di Lendinara, del Museo Civico Baruffali di Badia Polesine, dell’Archivio del Centro Studi Silvio Trentin di Jesolo, dell’album di cartoline del comune di Chioggia, del Fondo fotografico Tomaso Filippi della Biblioteca dell’Istituto di ricovero e di educazione I.R.E. di Venezia, della Biblioteca comunale di Marano di Valpolicella (VR), dei Fondi dei negativi su lastre del Museo Civico di Castelvecchio di Verona, dell’Archivio fotografico storico del Museo Civico di Storia Naturale di Verona, dell’ Archivio fotografico del Centro internazionale di fotografia “Scavi Scaligeri” di Verona. 14

Il lavoro è stato svolto presso l’Ufficio Cooperazione Bibliotecaria del Servizio Beni Librari e Archivistici e Musei della Regione del Veneto dalla dottoressa Greco quale stagista del Centro di Ateneo per le Biblioteche dell’Università degli Studi di Padova. Suoi referenti per la Regione sono stati Massimo Canella e Giulio Negretto, Antonella De Robbio ed Elisabetta Agostinis per il Centro Bibliotecario di Ateneo dell’Università di Padova. 15 Antonella De Robbio: Vademecum in-the-fly per progetti di digitalizzazione, in: BiliotECONOMIA cit., p. 111-116-123.

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Frequente anche la riproduzione di manoscritti (Biblioteca civica di Padova, Biblioteca d’Arte del Museo Civico Correr di Venezia, Biblioteca civica e capitolare di Verona), di fonti storiche locali, (Comune di Vittorio Veneto, Centro Studi e Ricerche di Isola della Scala – VR) o di materiali speciali rilevanti per la comunità (carte geografiche Fondazione Angelini di Belluno, mappe catastali del consorzio di bonifica Delta del Po di Taglio al Po, manifesti del Centro Studi Ettore Luccini di Padova). Sono spesso riprodotte anche raccolte documentarie di personalità del luogo, che in esso hanno operato o di cui la biblioteca ha acquisito raccolte (disegni del Fondo Cappellin e Fondo Anfodillo del Museo Civico di Castelvecchio di Verona, documentazione di interventi o progetti architettonici di Carlo Scarpa alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia, Progetti Fogazzaro elettronico della Biblioteca civica Bertoliana di Vicenza, Palladio Digitale del Centro Internazionale di Studi “Andrea Palladio” di Vicenza” e Carlo Scarpa del Museo Civico di Castelvecchio di Verona). Tra le digitalizzazione di fondi musicali sono stati censite quelle del Fondo Marcato della Biblioteca comunale di Fiesso d’Artico, delle schede del Fondo Danielou dell’Istituto Venezia e l’Oriente della Fondazione Cini di Venezia, dei materiali dell’Archivio Capitolare del Duomo di Vicenza curati da DIAMM Digital Image Archive of Medieval Music. Non mancano esempi di digitalizzazione di riviste (Bollettino della Società Letteraria di Verona dal 1994 al 1999 da parte della omonima biblioteca veronese) e di materiali antichi (frontespizi delle cinquecentine della Biblioteca della Fondazione San Servolo IRSESC di Venezia). Da segnalare infine la masterizzazione su CD di 13.000 libri da parte del Centro del Libro parlato di Feltre e i libri Braille della Biblioteca Configliachi di Padova, entrambe biblioteche per ipovedenti o non vedenti. Alcune biblioteche del territorio hanno costituito una vera e propria biblioteca digitale, come l’Accademia dei Concordi di Rovigo che offre un’ampia documentazione in linea: da foto di Rovigo all’archivio elettronico sull’alluvione del Polesine del 1951, alla riproduzione dei libretti d’opera della raccolta Silvestriana, per citare i più considerevoli. Da menzionare anche il Progetto Eidos dell’Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere di Verona, che riproduce collezioni di cartoline e foto di enti pubblici e privati, 2.000 immagini di stampe dal XVI al XIX secolo e altro materiale relativo a Verona e il suo territorio a partire dal secolo XVI. Il panorama pur sommario sopra tracciato evidenzia una grande vivacità, ma anche la presenza di notevoli forze centrifughe che, per pervenire alla realizzazione di un sistema documentario territoriale il più possibile integrato, dovrebbero essere ricondotte ad alcuni principi unitari: l’adozione degli standard della BDI, il censi114


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mento delle iniziative di digitalizzazioni realizzate e in corso di realizzazione su scala regionale e quindi nazionale, un’efficace azione di sensibilizzazione all’uso delle buone pratiche, possono costituire strumenti importanti per la costituzione di collezioni digitali comunicanti, aperte a un’accesso ampio e a un’utenza differenziata. Solo uno sviluppo armonico e condiviso a vari livelli dei progetti di digitalizzazione, che superi la logica delle iniziative fini a se stesse, può consentire una presenza forte nel nostro paese nello sviluppo di biblioteche digitali significative in ambito europeo. In questo quadro complesso le Regioni possono giocare un ruolo essenziale, di saldo ma non coercitivo coordinamento delle iniziative in una dimensione intermedia, che consenta una prima attuazione di sinergie, essenziale anche agli enti nazionali e sopranazionali nella definizione su più ampia scala di politiche di digitalizzazione consapevoli.

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La Dichiarazione sull’avvio e lo sviluppo di procedure di deposito volontario delle pubblicazioni elettroniche Antonia Ida Fontana Biblioteca nazionale centrale di Firenze

Perché una «Dichiarazione» e biblioteche nazionali europee sono state da subito consapevoli dell’ineludibile necessità di estendere alle pubblicazioni elettroniche l’elenco dei documenti soggetti al deposito legale. Per sensibilizzare a livello nazionale i portatori di interesse e fornire gli strumenti terminologici e procedurali ai singoli paesi dell’Unione Europea, un gruppo di lavoro formato da membri della Conferenza delle Biblioteche Nazionali Europee (CENL) e dalla Federazione Editori Europei (FEP), alla fine degli anni novanta, lavorò alla redazione di un Codice di comportamento per il deposito volontario delle pubblicazioni elettroniche. Il Codice approvato nel 2000 ha costituito un utile supporto per i progetti nazionali di sperimentazione delle procedure di deposito, e un vademecum per la successiva codificazione legislativa di quelle stesse procedure. Con riguardo all’Italia, per esempio, il Codice ha fornito nel corso del 2000 le linee guida per la sperimentazione presso la Biblioteca nazionale

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centrale di Firenze (BNCF) del deposito volontario delle pubblicazioni elettroniche nell’ambito del progetto nazionale EdEN (Edizioni Elettroniche Nazionali) voluto dalla Direzione Generale per i Beni Librari e gli Istituti Culturali. Sono state seguite, in particolare, le raccomandazioni contenute nel codice con riguardo alle modalità di accesso alle pubblicazioni elettroniche dalle postazioni della biblioteca1. Punto non a caso tra i più «sensibili» in quanto maggiormente suscettibile di scalfire l’intangibilità dei diritti economici degli editori. Proprio per le modalità di accesso il Codice suddetto ha avuto il merito di fornire soluzioni già passate al vaglio del confronto tra editori e biblioteche promosso dal gruppo di lavoro FEP e CENL, e quindi potenzialmente maggiormente accettabili dalle parti in causa. Il confronto e il dialogo tra editori e biblioteche nazionali, promosso nel gruppo di lavoro FEP/CENL, è proseguito negli anni, con l’intento di aggiornare il codice alle effettive esperienze messe in pratica nelle singole biblioteche nazionali, nonché alle varie normative nazionali ed europee di settore approvate nel frattempo.

Si chiedeva agli editori di scegliere la tipologia di accesso alla loro pubblicazione elettronica su supporto fisico (CD –ROM) che ritenevano più in linea con la loro linea editoriale e la loro politica del copyright. Le possibilità andavano dalla semplice consultazione al down-load parziale, determinato o di libera scelta, di una pubblicazione, da una postazione controllata presso la sede della biblioteca. La partecipazione degli editori e degli utenti non è stata massiccia. Va tenuto conto che in Italia nel 2000 l’editoria elettronica era ancora un fenomeno di nicchia, sia a livello di numero di editori che la praticavano che di interesse condiviso dell’utente medio, spesso poco pratico dello stesso uso del computer. Tuttavia la sperimentazione ha dato l’avvio alla stipula di accordi di deposito volontario con più di venti case editrici, specie afferenti alle Università, accordi tuttora in vigore.

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Da questa costante attività di monitoraggio delle singole realtà normative ed economiche nazionali è dunque scaturita la Dichiarazione del Settembre 2005 che viene qui pubblicata. Innanzitutto noterei che dal termine di Codice di comportamento per il deposito volontario delle pubblicazioni elettroniche 2 si è passati a quello di Dichiarazione sull’avvio e lo sviluppo di procedure di deposito volontario per le pubblicazioni elettroniche 3. Alla luce delle normative adottate da vari paesi il FEP e il CENL hanno inteso mettere a disposizione della comunità europea dei bibliotecari e degli editori una sorta di «dichiarazione di principi» con il proposito di agevolare la cooperazione tra i diversi portatori di interessi sia in quei paesi in cui la legislazione fosse già in vigore, sia in quei paesi che, non disponendo ancora di un piano nazionale per il deposito volontario, mancassero del tutto di esperienze nell’acquisizione e nell’accesso alle pubblicazioni elettroniche e necessitassero di utili precedenti concettuali e pratici. La principale innovazione del nuovo accordo è data dal fatto che, mentre nella versione del 2000 le pubblicazioni elettroniche on-line venivano descritte in un allegato a parte, ora sono comprese nella Dichiarazione, contribuendo a pieno titolo alla definizione tout court di «pubblicazione elettronica». Se infatti in molti paesi europei è ormai considerato pacifico che sia necessario includere nel deposito legale le pubblicazioni elettroniche off-line (ovvero registrate su supporti fisici), l’acquisizione delle pubblicazioni on-line, e in particolare di quelle cosiddette «dinamiche», che è tuttora tecnicamente problematica o troppo complessa da organizzare, raramente è stata oggetto di disciplina legislativa. Solo in Gran Bretagna, in Norvegia e Finlandia, infatti, le legislazioni nazionali hanno esplicitamente incluso le pubblicazioni on-line nel 2 3

deposito legale. In Gran Bretagna tuttavia ancora non si procede all’archiviazione delle pubblicazioni on–line di tipo dinamico per motivi di praticità. In Germania e in Olanda specifici accordi con gli editori per il deposito volontario disciplinano la raccolta delle pubblicazioni on-line. In Francia l’acquisizione delle pubblicazioni elettroniche on-line avviene ancora a livello sperimentale, a cura della biblioteca nazionale. Presto, grazie al regolamento di attuazione della nuova legge sul deposito legale (L. n. 106 del 2004 «Norme relative al deposito legale dei documenti di interesse culturale destinati all’uso pubblico») anche l’Italia, tramite la BNCF, sarà impegnata nell’assicurare, in via sperimentale, anche per le generazioni future il deposito e la conservazione nel lungo periodo dei documenti diffusi tramite rete informatica. A dimostrazione del rapido evolvere della materia, pare opportuno soffermarsi sulle principali innovazioni del nuovo testo di accordo. Rispetto alla versione del 2000 quella attuale tende a risolvere le eventuali controversie, circa l’attribuzione di una pubblicazione a una certa nazione o meno, non sulla sola base della «localizzazione geografica dell’editore». Nei casi in cui le edizioni siano state originariamente pubblicate all’estero, ma rese disponibili nel paese, esse saranno oggetto di deposito se sono «naturalmente riconducibili» al paese in questione e se contribuiscano a conservare il suo patrimonio culturale. Inoltre la presente versione in modo del tutto nuovo, rispetto a quella precedente, indica nella Biblioteca Nazionale del Paese l’arbitro nella valutazione della rilevanza della pubblicazione per la conservazione del patrimonio culturale.

Code of practice for the voluntary deposit of electronic publications. Statement for the development and Establishment of Voluntary Deposit Schemes for Electronic Publications.

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Un’attenzione più puntuale viene poi dedicata a quei paesi che, per gli esiti di un passato coloniale, vantano di fatto un bacino di utenza e di riferimento culturale più vasto di quello per così dire strettamente legato ai propri confini geo-politici. In tali casi l’interesse nazionale dovrà essere gioco-forza inteso in modo più elastico, estendendo le esigenze del deposito oltre che alla categoria degli editori nazionali anche a quella degli importatori.

li degli editori, il testo che oggi esaminiamo afferma che occorre esonerare l’editore dal deposito laddove esso implichi delle «spese irragionevoli». La presente raccomandazione suggerisce di creare, come in Gran Bretagna, a cura della biblioteca depositaria una procedura di valutazione «dell’impatto economico» del deposito digitale4, per garantire che il problema non sia misconosciuto, senza diventare al contempo un facile alibi per gli editori.

Anche il concetto di pubblicazione viene aggiornato. Dalla definizione «neutra» di «atto di rendere pubblica l’informazione o la produzione intellettuale» si passa a quella di «documento capace di contribuire alla tutela e alla conservazione della cultura nazionale». Non potrà definirsi pubblicazione il materiale disponibile su Intranet o su altri canali, privati o non aperti al pubblico. Si prevede tuttavia la possibilità che accordi nazionali contemplino il deposito dei pre-print resi pubblici.

La Dichiarazione non prende in considerazione il deposito legale di film, prodotti audio, e di prodotti di cartografia digitale4, in quanto molti Paesi hanno una legislazione apposita. La nuova legge italiana sul deposito legale, invece, prevede il deposito di tutti i prodotti digitali (sia diffusi su supporto informatico che tramite rete informatica), degli audiovisivi (documenti sonori e video) dei film iscritti nel pubblico registro della cinematografia tenuto dalla Società italiana autori ed editori (SIAE) e dei soggetti, trattamenti e sceneggiature di film italiani ammessi a provvidenze previste dall’art. 20 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 28. Per l’inclusione nel deposito dei prodotti elettronici di intrattenimento la Dichiarazione chiede di contemperare il criterio del luogo di edizione con l’affinità con la cultura nazionale di naturale riferimento.

Senza innovare rispetto al passato anche questa versione raccomanda che gli editori e i bibliotecari siano consapevoli della necessità di assicurare con il deposito la «consultabilità» di una pubblicazione elettronica ben oltre la sua durata di sfruttamento economico. Ciò deve valere altresì per le pubblicazioni elettroniche «dinamiche», quelle cioè soggette a un continuo aggiornamento: è infatti interesse degli studiosi conoscere anche lo sviluppo nel tempo e quindi la cumulazione (ad esempio di leggi, cataloghi ecc…) può non essere sufficiente di per sé se non conserva traccia delle versioni precedenti. Presupposto del deposito è l’instaurazione, tra tutte le parti in causa, di sinergie sulle migliori soluzioni tecniche che rendano possibile tale obiettivo (per es. tecniche di snap shot ecc.). Per un equilibrio fra i diritti degli utenti e quel4

Ai criteri già previsti nella precedente statuizione, ovvero la non inclusione di giochi per computer o software, oppure di pubblicazioni fatte circolare a solo uso privato o nell’ambito ristretto di una organizzazione, si aggiungono in questa versione le pubblicazioni: – che non abbiano origini nazionali identiche a quelle della biblioteca stessa, o che non abbiano un legame naturale con il paese; – che non contribuiscono a conservare il patrimonio culturale del paese;

Il testo anglosassone parla di «digital mapping products», che possono essere definite immagini grafiche bitmap che contengono collegamenti a più URL tramite aree sensibili sulle immagini. È possibile fare clic su diverse aree di una mappa digitale per passare alle diverse risorse di un sito.

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che consistano in duplicazioni di una pubblicazione a stampa dello stesso editore già depositata (salvo se la versione elettronica risulti sostanzialmente diversa e più ricca di contenuti). In eccezionali circostanze si possono prevedere restrizioni al deposito bibliotecario o limitazioni o esclusioni all’accesso per determinati periodi, ove vi fossero esigenze degne di tutela specifica. Le pubblicazioni elettroniche dovrebbero normalmente essere depositate nella forma in cui esse sono rese disponibili al pubblico, accompagnate da qualsiasi software a esse associato, manuale o documentazione che sia stato messo a disposizione del pubblico per consentirgli di poterlo consultare. Tuttavia a scopo di conservazione dovrebbe essere concordata tra biblioteche ed editori la possibilità di depositare le pubblicazioni in formati standard facilmente trasferibili su altri formati. Il testo dà ormai per scontato, contrariamente al passato, che per pubblicazioni elettroniche debbano intendersi sia quelle on-line che quelle off–line, raccomandando per le seconde il deposito del supporto fisico su cui sono registrate, mentre per i documenti on-line, quali siti web o database dinamici, per esempio, potrebbe essere necessario prevedere appositi accordi (per esempio per il deposito annuale delle stesse su CD ROM). Questa versione è più restrittiva della precedente e non dà più conto delle possibilità di accesso meno gradite agli editori, in quanto giudicate passibili di mettere maggiormente a rischio la tutela dei loro interessi economici: se non altrimenti specificato dagli editori, il livello di accesso automaticamente consentito è quello di un solo utente registrato per volta, dalle postazioni apposite della Biblioteca nazionale. 5

La Biblioteca, da parte sua, deve garantire l’utilizzo di postazioni prefissate, la registrazione dell’utente e la sicurezza della rete e deve essere in grado di dimostrare di aver adottato misure idonee a evitare usi impropri. Nel caso di biblioteche con diverse sedi o di paesi in cui esista più di una biblioteca di deposito, l’editore potrà scegliere se consentire l’accesso, con le stesse garanzie di cui sopra, a un solo utente per biblioteca, oppure in ciascuna delle sedi o in ciascuna delle biblioteche della rete. Nel caso italiano, prevedendo la legge il deposito presso le due Biblioteche Nazionali Centrali e presso due biblioteche regionali, l’accesso dovrebbe essere consentito a 4 utenti contemporaneamente, uno per ciascuno dei quattro diversi Istituti. Infine l’uso della pubblicazione per la fornitura di documenti o per il prestito interbibliotecario potrà essere consentito dietro esplicita licenza dell’editore e dietro pagamento di una tariffa e/o di royalties fissate dall’editore stesso.

Conclusioni Poiché è ancora lunga la strada per la soluzione dei problemi tecnici, variegate sono le soluzioni suggerite a livello locale nei vari paesi europei 5 sia per il trattamento sia per l’utilizzo del digitale depositato: la Biblioteca nazionale centrale di Firenze (BNCF), e altre 12 biblioteche nazionali su 25, effettuano una politica di accesso a un solo utente per volta da un terminale dedicato, mentre in Grecia, Norvegia e Russia (State library) il deposito digitale non è ancora aperto agli utenti. Nella maggior parte delle biblioteche la consultazione delle pubblicazioni digitali è gratuita ma occorre pagare in caso di down-loading su un floppy disk o di stampa del testo, anche se solitamente, si veda ad esempio la Gran Bretagna, le copie digitali pervenute per deposito legale non sono utilizzate per il servizio di document delivery. Inoltre rispetto al

Vedere «The European Library Handbook – Digital Depositing for Libraries and Publishers – The European Library office 2005».

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deposito delle pubblicazioni più facilmente assimilabili ai tradizionali libri o seriali, si presenta particolarmente complesso il deposito dei siti web, che la legge n. 106 del 2004 prevede e al quale la BNCF si sta preparando attraverso la partecipazione a progetti europei e al Consorzio internazionale per la conservazione di Internet (IIPC). L’organismo è costituito dalle principali biblioteche nazionali europee e soprattutto da coloro che, da maggior tempo, sperimentano l’harvesting dello spazio web: la fondazione Internet Archive di San Francisco e il gruppo delle cinque biblioteche nazionali dei paesi nordici. Nella maggior parte delle procedure sperimentali di acquisizione del digitale on-line, già attuate in Europa, sono infatti le stesse biblioteche ad effettuare la raccolta con procedura automatica, ma, considerate le difficoltà e i costi per gestire, rendere disponibile e conservare nel tempo, la massa di documenti presenti sul web, spetta al bibliotecario la responsabilità di effettuare la cernita di ciò che possa afferire o meno al patrimonio culturale nazionale. I bibliotecari dovranno saper interpretare e applicare i criteri di selezione idonei e dar conto della temperie culturale di un paese in un determinato momento storico. Gli investimenti governativi dovranno indirizzarsi verso una maggiore qualificazione dei propri bibliotecari, oltre che verso una forte innovazione del concetto di servizio pubblico. Il servizio offerto dalle biblioteche nazionali non potrà limitarsi alla già complessa gestione del deposito, ma dovrà dotarsi di strumenti di monitoraggio delle necessità dei propri utenti e degli stessi editori, e pertanto dovrà anche

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predisporre procedure di deposito semplici ed efficaci, e la messa a disposizione di rapporti statistici sull’esempio di quanto stanno già in parte attuando la British Library e la Biblioteca Reale Olandese.6 Uno dei meriti della Dichiarazione è quello di aver saputo indagare e indicare tutti i vantaggi della collaborazione tra biblioteche ed editori, ovvero tra i portatori dell’interesse culturale e di quello economico. Tuttavia il decollo definitivo dell’acquisizione delle pubblicazioni elettroniche on line dipenderà dalla disponibilità di una infrastruttura tecnologica capace di conservare nel lungo periodo la memoria digitale, mettendo le biblioteche nella effettiva possibilità di offrire agli editori il tangibile vantaggio, senza costi per loro, della diffusione delle loro pubblicazioni digitali e della conservazione nel lungo periodo dei loro archivi. Per favorire la cooperazione tra biblioteche ed editori appare opportuno accogliere il suggerimento del comitato CENL/FEP di costituire gruppi di studio nazionale per la migliore applicazione della Dichiarazione alla realtà dei singoli paesi. A tal fine la BNCF sta promuovendo un gruppo informale, composto da bibliotecari e rappresentanti non solo degli editori, ma anche dei providers e dei webmasters affinché si possa avviare anche nel nostro paese una sperimentazione ampia che predisponga le procedure e le buone pratiche atte a consentire all’Italia di conservare quelle parti della sua cultura che vengono prodotte con il mezzo forse più affascinante, ma anche il più labile, che l’uomo abbia inventato per trasmettere il suo pensiero.

La Nazionale olandese, in particolare, nell’ambito del servizio di document delivery redige un rapporto circa il numero di pagine e dei titoli delle riviste elettroniche depositate. La Gran Bretagna raccoglie dati sui servizi offerti in un formato predisposto dall’editore Elsevier, ma con solo riguardo al materiale coperto da licenza commerciale.

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«Dichiarazione sull’avvio e lo sviluppo di procedure di deposito volontario delle pubblicazioni elettroniche»* a cura della Conferenza dei Bibliotecari delle Biblioteche Nazionali Europee (CENL) e della Federazione degli Editori Europei (FEP) Traduzione a cura di Clara Ronga Biblioteca nazionale centrale di Firenze

Introduzione 1. Questa dichiarazione rappresenta una revisione di quella precedente redatta nel 2000, sullo sviluppo e il consolidamento di un codice di comportamento in materia di deposito volontario delle pubblicazioni elettroniche. La precedente dichiarazione fu opera del Comitato dei rappresentanti del CENL e del FEP. I due organismi si accordarono altresì per aggiornare la dichiarazione non appena le biblioteche nazionali e gli editori avessero acquisito una maggiore esperienza di gestione delle pubblicazioni elettroniche. CENL e FEP misero in pratica l’aggiornamento dando vita ad un Comitato che, negli anni 2003-2005, ha portato avanti un intenso lavoro. 2. La Dichiarazione, oltre a porsi l’obiettivo di migliorare la cooperazione tra le biblioteche nazionali e la comunità degli editori europei in quei paesi in cui la legislazione fosse già in vigore, si proponeva l’obiettivo di assistere quei paesi che ancora non disponevano di un piano nazionale per il deposito volontario e avessero meno esperienza nell’acquisire, nel mettere a disposizione e rendere accessibili le pubblicazioni elettroniche. 3. Lo scopo del deposito in ciascun paese è

quello di conservare e dare accesso nel lungo periodo alla cultura e al patrimonio nazionale prodotto e distribuito nel paese nei differenti formati ed edizioni. La storia del deposito legale ci insegna come ciascuna nuova tecnologia venga assimilata nella legislazione nazionale, dilatando la definizione dell’oggetto. La legislazione invariabilmente non riesce a stare al passo delle innovazioni tecnologiche e le biblioteche nazionali hanno il compito di assicurare che le loro collezioni non presentino lacune. In alcuni paesi la legislazione è del tutto mancante per una varietà di motivi e le biblioteche nazionali lavorano a stretto contatto con la comunità degli editori per garantire che siano attivi e applicati accordi per il deposito volontario. Il Comitato ha continuato a cercare metodi condivisibili di cooperazione tra le parti in causa, per venire incontro alle esigenze sociali in un modo che fosse accettabile sia per gli editori sia per le biblioteche nazionali. 4. La legislazione, o gli accordi volontari in vigore in paesi come l’Olanda, sono la risposta al problema delle lacune negli archivi delle pubblicazioni nazionali. Un piano di azione condiviso e volontario potrebbe essere utilizzato come fase pilota durante la quale concordare e monitorare problemi di definizione, procedure e con-

* Versione approvata il 22 Agosto 2005 dal CENL, durante l’annuale Conferenza svoltasi a Lussemburgo.

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trolli, consentendo la revisione e il perfezionamento alla luce dell’esperienza, al fine di fornire assistenza durante il processo di redazione di una legislazione efficiente ed efficace. Pertanto questa dichiarazione non intende, nè dovrebbe venire percepita dai singoli governi nazionali, come un testo normativo. Il piano di azione ha una valenza di impegno volontario. Ciò non toglie però che gli editori siano pregati e incoraggiati a depositare le loro pubblicazioni non a stampa presso la biblioteca nazionale secondo le linee guida di seguito segnalate. 5. Dalle premesse è emerso che la preoccupazione delle biblioteche nazionali concerne principalmente la completezza delle loro collezioni allo scopo di facilitare nel modo migliore in futuro le ricerche e l’apprendimento. Chiedendo il deposito volontario delle pubblicazioni elettroniche le biblioteche non intendono danneggiare i legittimi interessi degli editori. Gli sforzi del Comitato si sono indirizzati verso la ricerca di soluzioni operative che consentano alle Biblioteche nazionali di entrare in possesso del materiale, attuando al contempo il controllo dell’accesso ai documenti, in modo da tutelare i legittimi interessi degli editori. Gli editori guadagneranno in cambio un’infrastruttura capace di conservare l’archivio di tutto quanto hanno prodotto, e, laddove le pubblicazioni siano comprese nelle bibliografie nazionali e nei cataloghi delle biblioteche nazionali la conoscenza delle pubblicazioni stesse potrà raggiungere un pubblico più ampio. CENL e FEP considerano la presente Dichiarazione una pratica convergenza di interessi messa in atto da biblioteche nazionali ed editori. 6. Le migliori soluzioni tecniche per la conservazione del digitale nel lungo periodo sono oggetto di studio di molte delle attuali ricerche e dibattiti, ed è riconosciuto che a tale questione occorrerà dedicarsi visto che le pubblicazioni elettroniche si avviano a diventare prevalentemente pubblicazioni on line. Si rico-

nosce l’importanza di assicurare che il contenuto delle pubblicazioni elettroniche sia archiviato e conservato nel lungo periodo, oltre la durata commerciale del prodotto, e c’è accordo circa il fatto che le biblioteche nazionali siano i soggetti istituzionali preposti ad assumersi tale ruolo. 7. Sarà importante portare avanti progetti pilota volti alla gestione di problemi e questioni tecniche, sia di tipo semplice sia complesso, relative a pubblicazioni di varie tipologie e formati (quanto sopra dovrebbe distinguersi dalle trattative, tra singole biblioteche di deposito ed editori, riguardanti gli abbonamenti e le licenze per le pubblicazioni on line per le ordinarie esigenze di fornitura di servizi di una biblioteca). 8. La dichiarazione è il risultato di una estesa discussione svoltasi all’interno del Comitato in un periodo di circa due anni. Le formulazioni contenute nella dichiarazione non sono prescrittive. Intendono piuttosto essere un modello che incoraggi e faciliti la stesura di accordi a livello locale. Ciò significa che i paesi che adottassero i principi di questa Dichiarazione sono liberi di emendare il testo laddove le circostanze locali imponessero speciali considerazioni che non possano essere regolate dalle enunciazioni qui contenute. Si attendono variazioni di questa Dichiarazione a livello locale (incluse quelle concernenti un punto fondamentale quale la definizione di cosa sia una pubblicazione e cosa debba intendersi per editore). Il Comitato sarà felice di aiutare e consigliare laddove possibile, e dà il benvenuto a ogni osservazione o suggerimento al testo proposto. In modo particolare la Dichiarazione prenderebbe volentieri conoscenza di eventuali modifiche effettuate a livello locale, al fine, valutatane la congruità, di incorporarle alla Dichiarazione. Questa Dichiarazione attinge alle disposizioni concordate nel Regno Unito, in Olanda, Germania e Francia. Un’apposita normativa o

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accordi volontari sono in vigore in altri paesi. Si raccomanda che questa Dichiarazione sia adottata come modello di utilizzo nei rimanenti paesi aderenti al CENL e al FEP. Per il futuro si raccomanda che ciascuna biblioteca nazionale, con la massima urgenza, istituisca un gruppo di lavoro comprendente i rappresentanti degli editori del loro paese al fine di riesaminare questa Dichiarazione, adottarla nella misura in cui sia confacente alla situazione locale, allestire e monitorare una procedura nazionale, impegnare le due parti congiuntamente a dibattere con il Governo un codice. Si raccomanda altresì che il Comitato continui la sua attività di gruppo direttivo transnazionale, nell’ambito dell’esistente collaborazione tra CENL/ FEP. Sarebbe utile che, qualora un Codice venisse adottato in uno specifico paese, la biblioteca nazionale fosse incaricata di monitorare l’uso delle pubblicazioni elettroniche e facesse rapporto in modo che editori e biblioteche nazionali possano essere messi in condizione di capire come i ricercatori e gli altri utenti della biblioteca stanno facendo uso di questo materiale. 10. Il dovuto riconoscimento viene dato al lavoro precedentemente svolto dal Comitato, così come ai diversi e vari documenti emessi dalla biblioteche nazionali del Regno Unito, Olanda, Germania e Francia.

La Dichiarazione1 1. Luogo di edizione C’è una consolidata tradizione al riguardo della definizione del termine luogo di pubblicazione per la stampa, e questa stessa tradi1

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zione dovrebbe applicarsi alle pubblicazioni elettroniche. Tuttavia è pacifico che ci siano delle implicazioni relative alle pubblicazioni on-line sulle quali non vi è ancora completo accordo o intesa. Il luogo di pubblicazione è scontato per la produzione di un’opera su supporto fisico, accordi speciali potrebbero essere necessari nel caso di pubblicazioni on-line. Tutte le pubblicazioni fatte circolare dagli editori nel paese x (dove per x si intende il nome di un paese) dovrebbero essere depositate presso la biblioteca nazionale del paese (x) poiché la pubblicazione vi ha le origini nazionali, o vi è naturalmente riconducibile. Con il termine “editore” si definisce “colui che pubblica o diffonde le pubblicazioni”. Le edizioni originariamente pubblicate all’estero, ma rese disponibili nel paese (x) possono essere oggetto di deposito presso la biblioteca nazionale, così come quelle che sono state edite per la prima volta nel paese (x), ma solo se ricorrono i suddetti requisiti, e se il deposito concorra a conservare il patrimonio culturale. Laddove insorgessero dispute circa la territorialità della pubblicazione, queste saranno definite sulla base della sede dell’editore, oltre che dei criteri prima citati. Il termine “Paese” nel contesto dell’attività di deposito significa prevalentemente stato nazionale che goda su tutto il suo territorio del diritto di depositoper esempio nel Regno Unito, il Galles e la Scozia non hanno un autonomo diritto al deposito ma sottostanno alla disciplina del Regno Unito. (in paesi come la Francia e la Danimarca il paese del registro del dominio2può essere rilevante). Normalmente dovrebbe spettare alla stessa biblioteca nazionale definire cosa debba con-

Si sono evidenziate con l’uso del corsivo le modifiche apportate in questa versione rispetto a quella precedente approvata nel 2000. Il termine anglosassone “domain register” viene qui tradotto letteralmente “registro dei domini”, volendo italianizzare il nome di una struttura, presente anche in Italia, per garantisce nell’ambito del territorio nazionale le regole univoche per l’assegnazione dei nomi a dominio. Le funzioni di Registro del dominio “.it” sono svolte dall’ Istituto di Informatica e Telematica del Centro Nazionale delle Ricerche (CNR) - Area della Ricerca di Pisa

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siderarsi rilevante per il patrimonio culturale della nazione. I Bibliotecari dovrebbero anche considerare che in alcuni casi (per es. in Francia) le esigenze del deposito dovrebbero estendersi oltre che alla categoria degli editori anche a quella degli importatori (laddove ci fosse più di una sede operativa dovrebbero applicarsi le stesse regole previste per le pubblicazioni a stampa). Con il termine “Pubblicazione” si intende sia (1) l’informazione, il dato, il prodotto intellettuale o qualsiasi altro contenuto prodotto o reso disponibile al pubblico di (x) sia (2) l’atto di produrre o di rendere disponibile tale materiale al pubblico, se tale materiale non sia stato precedentemente pubblicato in (X) con analogo o diverso mezzo. Tutto il materiale pubblicato (es. con la dicitura ISBN/ISSN), che abbia una sostanziale relazione con il paese (x) può essere considerato pertinente per il deposito nazionale presso il paese (x) se tale deposito contribuisce alla conservazione del patrimonio culturale. Il luogo di pubblicazione dei siti web dovrebbe essere considerato il paese in cui il ha sede il provider, a meno che il contenuto sia chiaramente rivolto ad un paese diverso. Pertanto, i risultati delle ricerche e ogni altro dato analogo, diffuso con il consenso dell’interessato, a mezzo Internet o a mezzo di qualsiasi altro medium potranno essere assoggettati al deposito; il materiale disponibile su Intranet o su altri mezzi privati o non aperti al pubblico non può essere ricondotto alla definizione di pubblicazione. Accordi a livello locale potranno essere necessari per decidere se, per esempio, le pre-print fatti circolare con modalità di libero accesso via internet debbano farsi rientrare nel materiale soggetto al deposito. Lo scopo del deposito è quello di tutelare l’integrità dell’archivio della produzione editoriale di un paese.

2. Mezzo di pubblicazione 2.1 La dichiarazione include il deposito delle

pubblicazioni non a stampa in qualsiasi medium elettronico. Le pubblicazioni elettroniche possono includere sia quelle pubblicate nel formato online sia su un supporto digitale separato fisicamente quale i nastri magnetici, i dischi magnetici, o, più comunemente, dischi ottici di alcuni tipi, come CDROM o DVD.

Le pubblicazioni soggette a continuo aggiornamento presentano particolari difficoltà per la loro raccolta e archiviazione su larga scala. Si raccomanda che gli editori e le biblioteche depositarie siano consapevoli dell’importanza di assicurare che i contenuti delle pubblicazioni on-line siano archiviati e conservati per il lungo periodo, oltre il loro tempo di sfruttamento commerciale e che le biblioteche e gli editori lavorino in sinergia per esplorare soluzioni, e per testare tecniche di deposito e di archiviazione. Si riconosce che il deposito di pubblicazioni elettroniche, che richiedano per il loro funzionamento una licenza separata per l’uso del software, possa presentare problemi particolari; si raccomanda che, laddove possibile, l’editore ottenga o provveda alla concessione delle licenze necessarie a favore della biblioteca depositaria. Se il deposito è effettuato su base volontaria l’editore non ha nessun obbligo al deposito se non è in condizione di provvedervi o non intenda effettuare il deposito, in modo particolare se ciò implichi costi e spese irragionevoli. In alcuni paesi la valutazione realistica dei costi effettivi (detta, in Gran Bretagna, Atto di valutazione di impatto) dovrà essere tenuta in debito conto come essenziale elemento in qualsiasi consultazione governativa che precedesse la stesura di leggi in materia di deposito.

3. Contenuto delle pubblicazioni soggette al deposito 3.1 La Dichiarazione non considera i film, i prodotti audio, i prodotti di cartografia digita-

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le3, che in molti paesi già sono soggetti ad apposite norme di deposito legale o volontario. Occorrerebbe dar conto di ciascuna disposizione di archiviazione specifica, e gli accordi locali dovrebbero essere emendati in modo da includere qualunque di questi prodotti elettronici, se non dovessero risultare coperti da altri accordi. 3.2 Tenuto conto delle definizioni e delle esclusioni altrove individuate in questa Dichiarazione, il deposito delle pubblicazioni elettroniche è richiesto in primo luogo sulla base del contenuto o quando i prodotti abbiano la caratteristica di offrire contenuti informativi piuttosto che di intrattenimento. In quei paesi in cui si è convenuto che le biblioteche nazionali possano raccogliere prodotti di intrattenimento (inclusi in alcuni paesi i giochi elettronici) si richiede che tali prodotti pubblicati nel Paese (secondo i criteri prima richiamati nella sezione 1) siano considerati compresi in questa Dichiarazione. 3.3 Questi accordi si applicano a tutte le pubblicazioni sia gratuite sia a pagamento.

4. Esclusioni dal deposito 4.1 Il deposito presso ciascuna biblioteca nazionale (x) non dovrebbe essere effettuato se: – le pubblicazioni non abbiano origini nazionali identiche a quelle della biblioteca stessa, o non abbiano un legame naturale con tale paese (x); – non può contribuire a conservare il patrimonio culturale del paese (x); – la pubblicazione sostanzialmente duplica il contenuto di una pubblicazione a stampa dello stesso editore già depositata (ma vedi le speciali circostanze riguardanti la fruibilità connessa al tipo di supporto depositato - paragrafo sottoelencato 4.2); 3

la pubblicazione è fatta circolare solo per uso interno e privato nell’ambito di una organizzazione se appartiene a una categoria di pubblicazioni che in base alle norme sul diritto di stampa non sono soggette al deposito: per es. programmi per il computer, giochi per computer.

4.2. Le pubblicazioni su supporti diversi che hanno contenuto sostanzialmente uguale possono essere depositate su un solo supporto. Tuttavia, si riconosce che possano esservi circostanze nelle quali l’uso delle pubblicazioni sia sostanzialmente differente a seconda si utilizzi un supporto anziché un altro e in tali casi la biblioteca potrà richiedere il deposito di entrambi, o di tutti i formati della pubblicazione, in particolare se il lavoro è significativamente mutato o ci sono elementi originali nel software. Questa disposizione può mutare tenendo conto di varie speciali circostanze locali.

5. Formati soggetti a deposito Le pubblicazioni elettroniche dovrebbero normalmente essere depositate nella forma in cui esse sono rese disponibili al pubblico, accompagnate da qualsiasi software a essi associato, manuale o documentazione che sia stato messo a disposizione del pubblico per consentirgli di poterlo usare. Accordi separati dovrebbero essere concordati tra biblioteche ed editori laddove vi sia la possibilità di scegliere il formato da depositare (per es. in pdf o xml, etc.), tenendo in considerazione le esigenze di conservazione..

6. Termini temporali per il deposito Si raccomanda di depositare le pubblicazioni elettroniche entro un termine che rispecchi il più possibile quello che si applica localmente

Il testo italiano è la traduzione di digital mapping products. Si definiscono “mappe digitali” le immagini grafiche bitmap che contengono collegamenti a più URL tramite aree sensibili sulle immagini stesse.

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per il deposito legale delle pubblicazioni a stampa. Resta inteso che vi possano essere casi speciali, come ragioni commerciali, economiche o tecniche, che rendano necessario negoziare una data più lontana nel tempo, o termini temporali differenti da quelli impiegati per le pubblicazioni a stampa.

intendono acconsentire per ciascuna delle loro pubblicazioni (vedi il punto 9 per le ulteriori restrizioni che potrebbero essere concordate):

7. Numero di copie che devono essere deposi tate 7.1 Come minimo, una copia di tutte le nuove pubblicazioni elettroniche off-line dovrebbe essere depositata normalmente presso la biblioteca nazionale, purché il concetto di “copia” sia applicabile alla tipologia di materiale elettronico in questione. Per i prodotti on-line, quali siti web o database dinamici, per esempio, potrebbe essere necessario prevedere appositi accordi: per esempio il deposito annuale di una versione su CD ROM del contenuto a una certa data). Qualora vi fossero accordi per ulteriori depositi dovuti all’esistenza di più di una biblioteca depositaria, o accordi speciali per il deposito/archiviazione di una specifica categoria di pubblicazioni a stampa tali accordi dovrebbero essere estesi anche per le pubblicazioni elettroniche, se possibile.

b) nel caso di biblioteche con diverse sedi o di paesi in cui esista più di una biblioteca di deposito, un accesso on line, da determinati terminali dedicati presso ciascuna biblioteca, tramite una rete sicura che colleghi le varie sedi distaccate o le varie biblioteche depositarie, o i) accesso di un singolo utente per volta sull’intera rete o ii) accesso di un singolo utente per volta in ciascuna biblioteca.

8. Modalità di accesso per le pubblicazioni depositate 8.1 Per tutte le pubblicazioni elettroniche il livello minimo di accesso dovrebbe essere consentito a un singolo utente autorizzato per volta all’interno biblioteca depositaria, tramite una rete intranet sicura presso terminali designati, in un’area accessibile esclusivamente agli utenti registrati della biblioteca depositaria interessata. Se non altrimenti specificato dagli editori questo dovrebbe essere il livello di accesso automaticamente consentito. 8.2 Al momento del deposito gli editori dovrebbero specificare, con modalità standardizzate, a quale dei seguenti livelli di accesso

a) accesso del singolo utente autorizzato nei locali della biblioteca depositaria tramite Intranet, accesso consentito – ad un singolo utente registrato alla volta – da terminali designati

8.3 Ogni accesso più ampio alle copie depositate nella – o tra – singole biblioteche, o l’uso della pubblicazione per un servizio analogo alla fornitura di documenti o al prestito interbibliotecario, dovrebbe essere consentito solo dietro esplicita licenza dell’editore e dietro pagamento di una tariffa e/o di royalties fissate dall’editore. 8.4 L’accesso dovrà essere ristretto in modo da non pregiudicare i legittimi interessi dei titolari di diritti. Ciò chiaramente escluderebbe ogni ulteriore collegamento in rete non disciplinato da accordi contrattuali specifici tra le parti. Al fine di assicurare che un solo utente registrato per volta acceda all’opera, verranno attuate misure tecniche. Sarà onere della biblioteca nazionale dimostrare, se richiestole, che tali misure sono state prese e poste in essere.

9. Ulteriori restrizioni all’accesso per le pubbli cazioni depositate 9.1 Per alcune categorie di pubblicazioni, in circostanze eccezionali il deposito bibliotecario può essere orientato a concordare limitazioni o esclusioni all’accesso per determinati periodi. Dovrebbe adottarsi un meccanismo

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per consentire l’attuazione di questi accordi da negoziarsi ove vi fossero esigenze degne di tutela specifica.

10. Produzione di copie su disco rigido da pubblicazioni elettroniche depositate 10.1 La stampa dovrebbe essere consentita solo nel limite massimo già applicato per le fotocopie da pubblicazioni a stampa. 10.2 Nota: per un certo tipo di pubblicazioni quali database il limite massimo concordato potrà apparire eccessivo agli editori. In tale caso occorrerà concordare un limite massimo per la quantità di tali pubblicazioni che può essere stampata. Tali accordi dovrebbero essere soggetti agli stessi principi applicati nella normativa nazionale con riferimento al concetto di ”equità” e “consuetudine bibliotecaria”. Le restrizioni non dovrebbero inasprirsi per le pubblicazioni elettroniche in confronto a quelle previste per le pubblicazioni a stampa.

11. Scaricamento e salvataggio delle pubblicazioni depositate 11.1 Lo scaricamento elettronico, il salvataggio o ogni ulteriore uso delle opere comprese in questa Dichiarazione saranno soggetti a contratti di licenza. Le restrizioni non dovranno essere inasprite per le pubblicazioni elettroniche in confronto a quelle previste per le pubblicazioni a stampa.

12. Copie a fini di tutela 12.1 L’uso e l’accesso nel tempo delle pubblicazioni elettroniche non può essere al momento garantito. Le biblioteche depositarie quindi necessitano di essere in grado di copiare i contenuti delle pubblicazioni elettroniche on e off line e di trasferirli su altri supporti sia a scopi di tutela che di migrazione verso nuove piattaforme tecnologiche. Si può concordare che la biblioteca depositaria possa effettuare la copia

della pubblicazione su altri supporti ogni qualvolta lo richiedano i nuovi sviluppi tecnologici, al solo scopo di preservare l’identità e l’integrità della pubblicazione elettronica. La copia depositata deve essere libera da qualsiasi dispositivo di protezione che ne impedisca la riproduzione.

12.2. La versione duplicata potrebbe essere utilizzata a determinate e concordate condizioni: sul punto la pratica nei paesi Europei potrà variare significativamente ed accordi locali potrebbero essere, o saranno, presi senza per questo costituire dei precedenti per altri paesi. Quando venga permesso l’accesso a una pubblicazione di cui è stata fatta una copia, l’uso della copia dovrebbe essere specificato. 12.3 Nel caso di pubblicazioni che rechino impresso un dispositivo di protezione, come per esempio una data di scadenza dopo la quale la pubblicazione non risulti più leggibile, ogni dispositivo del genere dovrà essere disabilitato nella copia depositata (per la biblioteca nazionale, ma non per l’accesso dell’utente finale) in modo da consentire un accesso permanente e non sottoposto a protezione al documento. In molti casi la versione con “scadenza” viene rimpiazzata da una versione aggiornata, ma in tali casi occorrerà che venga conservato un archivio di tutte le versioni.

13. Data di operatività del deposito 13.1 Questa Dichiarazione si applicherà alle nuove pubblicazioni del paese [x] dal [inserire la data di decorrenza concordata]. Considerato il significativo scarto di completezza esistente nell’archivio nazionale per quanto riguarda le pubblicazioni, a causa della iniziale assenza di accordi in materia di deposito di pubblicazioni non a stampa, cosa che continua a costituire fonte di preoccupazione, gli editori vengono invitati a depositare le pubblicazioni elettroniche anche precedenti a questa data, alle stesse condizioni che sono esposte nella Dichiarazione.

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Convegno su: «Gli attuali supporti di conservazione ottici e magnetici per i documenti digitali» Vittoria Tola ICCU

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ual è l’effettiva durata dei documenti digitali? Intorno a questo quesito fondamentalo l’I.R.TE.M.. – Istituto di Ricerca per il Teatro Musicale e il CFLR – Centro di Fotoriproduzione, Legatoria e Restauro degli Archivi di Stato, sotto l’egida del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e la IASA – International Association of Sound and Audiovisual Archives, hanno organizzato a Roma nei giorni 21/22/23 novembre un’importante iniziativa internazionale dal titolo «Gli attuali supporti di conservazione ottici e magnetici per i documenti digitali» nella sede del CFLR, Roma, in via Costanza Baudana Vaccolini 14. Questo Seminario/Convegno dedicato alla conservazione del documento digitale nasce dall’interesse che l’I.R.TE.M, con i suoi archivi audiovisivi (Archivio Sonoro della Musica Contemporanea e Videoarchivio dell’Opera e del Balletto), ha sempre avuto per l’analisi delle innovazioni tecnologiche in rapporto alla musica interessandosi a tutte le problematiche relative alla conservazione del documento sonoro e audiovisivo sia analogico sia digitale. Il Centro di Fotoriproduzione, Legatoria e Restauro degli Archivi di Stato, facente capo alla Direzione Generale per l’Innovazione Tecnologica del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, è il referente italiano per il Progetto TAPE, progetto promosso dalla Comunità Europea per la conservazione dell’audiovisivo, nel cui ambito il CFLR ha già organizzato nel febbraio 2005 il Seminario «Conservare e tutelare gli audiovisivi». I lavori dell’iniziativa si sono aperti con un

Seminario/Laboratorio lunedì 21 novembre 2005, con lo scopo di presentare a chi più direttamente si occupa di archivistica e conservazione del patrimonio cartaceo e audiovisivo una panoramica delle problematiche concrete inerenti al deterioramento del supporto digitale e all’obsolescenza dei macchinari e dei supporti. Il Seminario/Laboratorio è stato tenuto da George Brock-Nannestad (Patent Tactics, Danimarca) uno dei maggiori esperti sui problemi di conservazione degli archivi sonori, Francesco La Camera (Roma, Università La Sapienza), Maria Teresa Tanasi (CFLR e Università La Sapienza) e Franco Liberati (CFLR e Università La Sapienza) . Il prof. Salvatore Italia, Capo del Dipartimento per i beni archivistici e librari ha inagurato il convegno a cui ha portato i saluti del Dipartimento per la ricerca e l’Innovazione la Dott. Recchia. Gigliola Fioravanti (Direttrice CFLR) e George Brock-Nannestad (Patent Tactics, Danimarca) hanno presieduto le sessioni del 22 novembre a cui hanno preso parte con interessanti relazione sul tema della conservazione: Kevin Bradley (National Library of Australia), Robert Burnett (Università di Karlstad, Svezia), Luciana Duranti (Direttore del Progetto internazionale InterPARES, The University of British Columbia, Vancouver), Pekka Gronow (Yleisradio, Finnish Broadcasting Company, Radio Sound Archives, Finlandia), Albrecht Haefner (Suedwestrundfunk, Baden-Baden, Germania), Giovanni Jacovitti (Laboratorio INFOCOM, Università La Sapienza, Roma), Guido Marinelli (Laboratorio Nestor, Università Tor Vergata,

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Roma), Xavier Sene’(Département de l’audiovisuel de la Bibliothèque nationale de France), Jacqueline Von Arb (IASA-Vice-President; Norwegian Institute of Recorded Sound, Stavanger, Norvegia). I relatori da diversi punti di vista e in base all’esperienza maturata in diversi paesi e istituzioni hanno presentato ai partecipanti lo stato delle ricerche e i risultati raggiunti in ambito internazionale sul tema della scelta dei supporti più duraturi e affidabili che costituisce uno degli snodi più delicati ed essenziali fra i problemi della conservazione. Alla seduta conclusiva, che si è svolta mercoledì 23 novembre con una tavola rotonda coordinata da Massimo Gentili-Tedeschi (Presidente IAML-

International Association of Music Librarians) dal titolo «Conservazione e utenza: gli archivi a servizio del pubblico di oggi e di domani», hanno partecipato: Vincenzo Bartiromo (Media Maters Italy), Paolo Bonora (Archivio di Stato, Roma), Elettra Capadozzi (CNIPA Roma), Gianni Celata (Distretto dell’Audiovisivo e dell’ICT, Roma), Nicola Cona (Rai TRADE), Gigliola Fioravanti (Direttore CFLR degli Archivi di Stato), M. Emanuela Marinelli (Sopraindendenza archivistica per il Lazio), Massimo Pistacchi (Direttore Discoteca di Stato, Roma), Luigi Oggianu (Archio storico «Luce», Roma), Maurizio Lunghi (Fondazione Rinascimento digitale, Firenze).

Convegno su: «New Tools and New Library Practices» Eva Gilmore Redazione

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i terrà a Bucarest, dal 26 al 28 aprile 2006, il 30° Seminario sui Sistemi Bibliotecari dell’European Library Automation Group (Elag). Al centro della discussione di quest’anno saranno i nuovi strumenti e le nuove pratiche in ambito bibliotecario («New Tools and New Library Practices»). I seminar papers attorno a cui saranno costruite le sessioni plenarie copriranno quindi un ampio spettro tematico: dai depositi digitali (con il direttore del Dipartimento informatico della Biblioteca nazionale finlandese, Juha Hakala, che effettuerà una panoramica a livello europeo, seguita da una relazione sul deposito nazionale digitale olandese), all’archiviazione elettronica a lungo termine e ai relativi applicativi informatici; dalla creazione di ambienti internazionali per la ricerca nei materiali delle biblioteche (con la relazione di Adolf

Knoll, vicedirettore della Biblioteca nazionale della Repubblica Ceca ed esperto internazionale in materia), alla costruzione della Biblioteca digitale europea. Si discuterà inoltre del modello Oais (Open Archive Information System), dei modelli concettuali in ambito museale e bibliotecario, dello sviluppo di thesauri, ontologie e tassonomie, dei motori di ricerca. Infine, il tema dell’open access, al centro del seminario 2005 tenutosi lo scorso giugno al Cern (Conseil European pour la Recherche Nucléaire) di Ginevra, sarà ripreso da David Pross, direttore di Sparc (Scholarly Publishing Academic Research Coalition) Europe, una rete internazionale di biblioteche ed enti di ricerca che lavora alla creazione di un modello aperto di editoria accademica. Accanto alle relazioni in seduta plenaria, i seminari Elag prevedono per tradizione una

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serie di workshop dedicati a tematiche più specifiche. Per citarne alcuni, per il 2006 si prevede di approfondire ulteriormente il tema dei depositi digitali attraverso un workshop sugli institutional repositories coordinato da Lucy Tedd, della University of Wales (GB). Si terrà anche quest’anno il workshop sull’e-learning avviato nel 2004 e coordinato da Anna Maria Tammaro, dell’Università di Parma; mentre sul fronte dei progetti di cooperazione internazionale, il workshop «The European library users’ reflections» sarà coordinato da Jill Cousins, capo dell’omonimo progetto. Ricordiamo inoltre che in occasione dei seminari annuali diversi partecipanti presentano un rapporto di avanzamento (progress report) sugli sviluppi tecnologici del proprio ente di appartenenza. I rapporti sono redatti sulla

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base di una schema predefinito, per essere poi discussi in una sessione apposita e pubblicati sul web. Per ciascun incontro annuale, le organizzazioni ospiti si fanno infatti carico di garantire la costruzione di un sito web dedicato alla raccolta e diffusione dei materiali seminariali (il sito 2005, ad esempio, è curato dalla Biblioteca del Cern di Ginevra). L’archivio elettronico completo dei materiali Elag è invece curato dalla Koninklijke Bibliotheek, che si è dotata a tal fine di una breve carta d’intenti e di alcune, semplici, linee guida. Nel loro insieme, queste risorse costitutiscono una preziosa e autorevole fonte di informazioni sulle tendenze e le evoluzioni nel campo dell’automazione bibliotecaria, informazioni che hanno anche il pregio di essere conservate in modo adeguato e rese facilmente reperibili e accessibili.1

Per un indice dei siti dei seminari Elag si veda http://www.elag.org, da cui è anche possibile accedere a un web pointer alle altre risorse Elag in rete (curato dalla Bibliothèque Royale de Belgique). Per l’archivio elettronico completo si veda: http://www.kb.nl/infolev/elag/elag/index.html. Il sito Elag 2006 non è ancora disponibile on line. Per il programma del seminario di Bucarest si veda il sito Elag 2005.

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Segnalazioni



Segnalazioni

La norma ISO per i file PDF Alessandra Ruggiero Università di Teramo

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l 24 ottobre l’Ente nazionale italiano di unificazione (UNI) ha dato notizia sul suo sito web della pubblicazione di una norma ISO (International Organization for Standardization) per i documenti elettronici in formato PDF (Portable Document Format), che dovrebbe assicurare agli utenti di poter archiviare documenti elettronici garantendo tempi lunghi di conservazione sia dei testi sia delle immagini. Il PDF – un formato digitale per presentare i documenti – è ormai diventato il formato standard per lo scambio e la conservazione dei dati, grazie anche alla sua notevole capacità di compressione dei file di dati. Si tratta della norma ISO 19005 Document management - Electronic document file format for long term preservation - Part 1 Use of PDF 1.4 (PDF/A-1), che ha lo scopo di definire un formato di file denominato PDF/A, basato sul PDF, che assicuri l’accessibilità dei documenti nel tempo, indipendentemente dagli strumenti e dai sistemi utilizzati per creare, archiviare e conservare i file. Secondo Stephen Abrams, che gestisce i programmi della Biblioteca dell’Università di Harvard: «La pubblicazione della norma PDF/A avrà un notevole impatto sulla conservazione dei documenti elettronici, in quanto definisce un

formato normalizzato e internazionalmente riconosciuto adatto a garantirne la conservazione nel tempo. Inoltre la norma spingerà le biblioteche, gli archivi e le altre fonti di documentazione elettronica a chiedere ai loro fornitori di produrre e consegnare i documenti in un formato che sia ottimizzato per l’effettiva conservazione nel tempo». È stato valutato che i documenti consultabili sul web ammontino in totale a 167 terabyte, e che il 9,2 % di questi dati sia costituito da documenti in formato PDF. Secondo l’opinione di Susan Sullivan, dei National Archives statunitensi (NARA) «i file in formato PDF/A – elaborati, quindi, tenendo conto della nuova norma – saranno più completi e più svincolati dal mezzo tecnologico di quanto non lo siano i file in formato PDF 1.4, e garantiranno la conservazione delle informazioni per periodi più lunghi». La norma è stata elaborata nell’ambito del comitato tecnico centrale ISO/TC 171, «Document management applications», sottocomitato 2, «Application issues». È attualmente in corso di valutazione la possibilità di adottare la norma anche da parte dell’ente nazionale italiano, facendone quindi una norma UNI/ISO.

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ICCU

Pubblicazioni recenti Catalogo delle biblioteche d’Italia: Lombardia (2004), 4 vol.. Euro 150,00 SBN 88-7107 Futuro delle memorie digitali e patrimonio culturale (2004) Euro 50,00 SBN 88-7107-7 Memorie digitali: rischi ed emergenze (2005) Euro 15,00 SBN 88-7107-111-5 Linee guida per registrazioni d’autorità e di rinvio (2005) Euro 20,00 SBN 88-7107-105-0 Linee guida per la digitalizzazione del materiale fotografico (2005) Euro 15,00 SBN 88-7107-112-3

Per l’acquisto delle edizioni ICCU rivolgersi a:

ICCU Ufficio vendite Viale Castro Pretorio 105 00185 Roma tel: 06 4989468 fax: 06 4959302 e-mail: venditapubbl@iccu.sbn.it Editrice Bibliografica Via Bergonzoli 1/5 20127 Milano Tel: 02 28315996 Fax: 02 28315906 e-mail: bibliografica@bibliografica.it


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