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3.2. Dalla disfatta di Adua alla Grande Guerra.

Riprendiamo ora il filo del discorso che abbiamo abbandonato con Crispi presunto vincitore della battaglia coloniale in Eritrea e Menelik presunto sconfitto. Abbiamo visto che il 1° gennaio 1890 con l’istituzione della Colonia Eritrea, l’Italia otteneva finalmente una colonia e poteva sedersi al tavolo delle potenze colonizzatrici europee. La partita con Menelik sembrava per il momento giunta ad un punto fermo ma il territorio etiopico restava nelle mire dei colonizzatori italiani. Esamineremo ora il periodo ed i fatti che portarono alla battaglia di Adua ed al successivo turbolento periodo che si concluse con l’avvento della prima guerra mondiale.

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Per rifarci alla parte finale del primo paragrafo dove abbiamo visto gli scarsi risultati dell’opera missionaria in Somalia, vogliamo buttare l’occhio alla situazione religiosa in Abissinia; la questione era qui molto diversa dal punto di vista spirituale poiché l’Etiopia era di religione cristiana fin dal IV secolo d.C., e questa situazione era vista positivamente sia dalle gerarchie cattoliche che da quelle protestanti che intravedevano la possibilità di utilizzare l’Abissinia come corridoio preferenziale per la cristianizzazione dell’intera Africa nera. Se da un lato vi era un chiaro conflitto tra le istanze universalistiche del messaggio cristiano e le aspirazioni egemoniche e discriminatorie dei vari colonialismi, oltre alla posizione anticapitalista ed anti industriale della chiesa, dall’altro l’Abissinia diventò una specie di laboratorio sperimentale in cui testare delle inedite relazioni tra Stato e Chiesa. In Eritrea questo laboratorio sperimenterà questi nuovi rapporti nel settore dell’istruzione pubblica.

Il sogno di porta verso l’Africa nera svanirà presto quando i missionari si renderanno conto che il cristianesimo ortodosso etiope, centralissimo come religione e ideologia di stato, si rivelerà ostile alla penetrazione missionaria. A ciò segue quindi un brusco cambiamento di considerazione della popolazione locale che passa dal ricevere commenti entusiastici a subirne di sprezzanti e malevoli. Inoltre a fronte di un invito alla tolleranza ed alla comprensione delle differenze culturali dato dalle autorità missionarie, si ha un arroccamento nelle certezze della superiorità europea. Vi è una totale condanna della religiosità indigena in tutte le sue manifestazioni, e all’Islam viene riservata una condanna violenta e senza appello. Nelle testimonianze missionarie vi è anche una vera e propria ossessione per la sessualità che viene vista solo come sregolatezza e frenesia. La figura della donna viene divisa in due: donna e femmina dove la donna è essere etereo, bianca e cristiana mentre la femmina è primordiale e selvaggia quindi nera. Naturalmente il punto importante di questo discorso è che il ruolo svolto dai missionari nella formazione dell’immaginario europeo relativo all’Africa ed agli africani fu fondamentale.268 Torniamo ora alla parte politica del nostro capitolo.

Una delle problematiche che subito si presentarono fu la scelta dell’amministrazione che si intendeva impiantare in colonia e cioè un modello di governo coloniale che fosse

268 U.Chelati Dirar, Fra Cam e Sem. L’immagine dell’«Africa Italiana» nella letteratura missionaria (1857 – 1895), Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia (1870-1945), Il Mulino, Bologna, 1999, Pag. 183-200.

ottimale per strutture, mentalità e forme economiche e che coinvolgesse sia i territori occupati che la madrepatria. Naturalmente il primo problema politico che si presentò fu quello di garantire lo sfruttamento delle potenzialità economiche dei paesi conquistati ed il mantenimento dell’ordine nelle società indigene. Bisogna tenere presente che il pensiero predominante nella mentalità di tutti i paesi colonizzatori era quello di un’occupazione perpetua dei paesi africani e di una sostanziale indifferenza delle problematiche indigene. Tutto ciò considerando che, qualsiasi ideologia propugnassero in patria i colonizzatori, nelle colonie diedero sempre per assodato il diritto di superiorità della razza bianca su tutte le altre e quindi il diritto di dominare chiunque non fosse civilizzato come loro, almeno fino a quando non avesse raggiunto un grado di civilizzazione ai loro occhi accettabile. Alcuni modelli di amministrazione variavano a seconda della potenza coloniale che li gestiva: la Gran Bretagna, ad esempio, adottò un modello di autonomia nei confronti delle colonie dandole un’organizzazione politico-amministrativa che la rendesse in grado di limitare l’autorità della madrepatria e che costruisse una rete di rapporti politici ed economici che portassero reciproco vantaggio sia alla colonia sia alla metropoli. Questa politica portò verso un più formale riconoscimento di tutti i diritti civili e politici dei sudditi coloniali ed allo sviluppo delle prime forme di autogoverno. Non bisogna tuttavia confondere l’autonomia che il governo britannico concesse alle colonie con una forma di libertà dei popoli: l’autonomia era concessa ai governatori e non ai sudditi amministrati. Le colonie inglesi furono amministrate in modo diverso a seconda fossero domini più antichi o più recenti anche se principalmente la Gran Bretagna privilegiò il sistema del governo indiretto (indirect rule). Inoltre bisogna ricordare che gli inglesi non parificarono mai, dal punto di vista dei diritti civili, i cittadini della metropoli con i sudditi coloniali, e non pensarono nemmeno di imporre il loro stile di vita e le loro istituzioni alle colonie in ragione della naturale superiorità della loro civiltà.269

Un altro modello di amministrazione fu quello dell’assimilazione, adottato principalmente nelle colonie francesi, che prevedeva una società più somigliante possibile a quella metropolitana (lingua, cultura, tradizioni, diritto, istituzioni) e quindi con un’amministrazione locale parificata a quella della madrepatria. Il più importante esempio di assimilazione venne ottenuto nel Senegal, diviso in quattro cantoni, e dove i nativi godettero della piena cittadinanza ed inviarono a Parigi i loro deputati di colore. Anche in questo caso però non era tutto oro quello che luccicava: la strada della naturalizzazione era infatti vincolata ad una serie di condizioni (conoscenza della lingua francese, servizio militare assolto, rinuncia allo statuto personale e sottomissione al diritto francese) e la domanda doveva essere posta dall’amministrazione e non dal singolo. Quindi gli indigeni restarono quasi sempre sudditi (sujets) e non si trasformarono quasi mai in cittadini.270

Passiamo ora al modello italiano applicato all’Eritrea: l’amministrazione italiana fu condizionata oltre che dalla scarsa esperienza anche dalle limitate risorse, sia locali che metropolitane, dall’esigenza quindi di governare con il massimo dell’efficienza e con il minimo di spesa. Il modello italiano può essere identificato come dominio diretto: in questo

269 I. Rosoni, La Colonia Eritrea – La prima amministrazione coloniale italiana (1880-1912), eum, Macerata, 2006, Pag. 4753.

terzo sistema si combinarono elementi diversi, presi dai vari modelli che abbiamo già visto, a volte difficilmente compatibili tra loro ma attuati più in ragioni di emergenze che non di vera e propria programmazione. La macchina amministrativa italiana in colonia cercò, nei primi anni, di studiare i modelli degli altri paesi già da tempo impegnati nella conduzione dei possedimenti d’oltremare anche se, coloro i quali studiarono una via italiana alla colonizzazione, si resero subito conto della necessità di arrivare a disegnare un modello originale, tenuto conto delle varie differenze di tipo economico, tradizionale e di estensione di territori, che esigeva una formula adatta ad una realtà decisamente più modesta. Dopo diversi studi e relazioni, nel 1912 il prof. Angiolo Mori nell’opera “I corpi consultivi dell’amministrazione coloniale negli Stati d’Europa” definì una volta per tutte il sistema italiano come “dominio diretto”. Nello stesso periodo Santi Romano271 poteva descrivere in questo modo l’amministrazione italiana delle colonie: «Le colonie sono paesi che, posti sotto la sovranità dello Stato, a titolo di possedimenti, non costituiscono parti integranti dello Stato medesimo». Quindi, secondo il giurista siciliano, la colonia non è uno stato a sé né parte di un altro stato; non è un territorium nullius, da non confondersi con un protettorato coloniale ma appartiene allo Stato ed è sottoposta alla potestà piena ed esclusiva ed alla sovranità dello Stato medesimo. La colonia, a causa della “civiltà inferiore” costituisce quindi un paese accessorio ed i suoi abitanti ed il suo governo si distinguono da quelli del Regno; l’ordinamento giuridico dello Stato non vale per la colonia, salvo che non risulti il contrario, e viceversa l’ordinamento della colonia non vale per il Regno. Gli abitanti della colonia non partecipano all’esercizio dei poteri dello Stato, non sono garantiti contro di essi e non godono di libertà locali se non nella misura concessa dagli organi statali della metropoli.272

Proprio il problema dell’impossibilità di effettuare azioni giudiziali contro la pubblica amministrazione da parte di privati cittadini coloniali, dato che la legge n. 2248 del 20 marzo 1865 (legge sul contenzioso amministrativo) non era stata pubblicata in Eritrea e quindi non vi aveva effetto, spinse la Corte di Cassazione di Roma nel 1894, tramite una sentenza emessa il 3 marzo e pubblicata il 30 aprile, a “chiedere” una norma che introducesse nel diritto coloniale la possibilità per il privato cittadino in Eritrea di ricorrere in tribunale contro eventuali abusi dell’amministrazione pubblica. Il 22 maggio 1894, con l’art. 48 del R.D. 201, vi fu un riordinamento dell’amministrazione della giustizia nella Colonia Eritrea, nella direzione però opposta a quella auspicata dalla Corte di Cassazione: infatti il suddetto art. 48 stabiliva che i privati non disponevano del diritto di chiamare davanti alle autorità giudiziarie sia il governo che la pubblica amministrazione in quanto per i rapporti giuridici di qualsiasi natura sorti tra i privati e pubblica amministrazione (o governo) era utilizzabile semplicemente una presentazione di reclamo in sede amministrativa. A seguito di numerosi contenziosi ed alle relative sentenze del Tribunale di Massaua il quale aveva affermato che se

271 Romano, Santi. – Giurista (Palermo 1875 – Roma 1947); ha insegnato diritto amministrativo e costituzionale nelle univ. di Camerino, di Modena, di Milano e di Roma. Insegnò anche diritto ecclesiastico e internazionale. Fu presidente del Consiglio di Stato (1928-44) e senatore del regno (dal 1934). Grande innovatore, ha rivolto lo studio a molteplici discipline giuridiche ed ha elaborato una teoria generale del diritto nella quale emergono la concezione del diritto come istituzione e la teoria del pluralismo giuridico. Ha fatto parte della scuola italiana di diritto pubblico. Particolarmente nota la sua costruzione teorica dell’interesse legittimo.

272 I. Rosoni, La Colonia Eritrea – La prima amministrazione coloniale italiana (1880-1912), eum, Macerata, 2006, Pag. 6064.

il R.D. 48 vietava i ricorsi alla giustizia ordinaria della colonia da parte dei privati, così non si poteva dire per eventuali ricorsi presentati presso i tribunali della madrepatria. Queste sentenze scatenarono roventi polemiche in Italia nonostante la presa di posizione della Corte di Appello di Ancona, ente competente per l’esame dei gravami contro le pronunce del Tribunale di Massaua, che affermava la piena costituzionalità del R.D. 48 e ne dichiarava la completa conformità alla Statuto del Regno. Ad ogni modo, il 9 febbraio 1902, con il R.D. 51 vi fu un riordinamento della giustizia nella Colonia Eritrea; venne anche istituito ad Asmara un Tribunale d’Appello e venne creato un procedimento speciale per l’esame delle istanze presentate dai privati nei confronti dell’amministrazione coloniale: prevedeva un doppio grado di giudizio, il primo presentato governatore civile della colonia (tramite un giudice regionale) ed il secondo affidato ad un collegio decidente del Tribunale di Appello di Asmara e la cui decisione poteva essere soggetta unicamente ad un eventuale ricorso al sovrano.273

Una seconda problematica estremamente importante era quella di definire la politica economica della nuova colonia e come sfruttare le non enormi risorse del territorio eritreo. Per capire meglio la situazione, già nella metà del 1889, Leopoldo Franchetti era stato inviato da Crispi per ottenere informazioni valide riguardo ad un possibile sfruttamento agricolo del territorio. Franchetti, come abbiamo già accennato, era un fervido sostenitore del colonialismo agricolo e dello spostamento di contadini dal territorio metropolitano a quello coloniale; consigliava peraltro che i nuovi immigrati fossero scelti tra ex militari e che avessero potuto ottenere del credito una volta arrivati nella nuova colonia. Suggeriva inoltre che ad ogni famiglia di immigrati fossero destinati 30 ettari di terreno e le fossero elargite 2000 lire di credito per la sussistenza e per il materiale necessario all’impresa agricola; questa cifra sarebbe stata sufficiente, secondo Franchetti per mantenere famiglie composte da un massimo di dieci individui. Questa ottimistica previsione non era però condivisa da Rocco De Zerbi, il quale riteneva che, dopo avere appreso che la spartizione delle terre da parte dei nativi veniva effettuata dai capi villaggio con concessioni per famiglia che duravano dai cinque ai sette anni passati i quali le terre venivano re-distribuite, il non comprendere queste usanze avrebbe potuto compromettere tutte le mire del colonialismo italiano. Inoltre De Zerbi sosteneva (non certo a torto, ndr) che i contadini italiani che emigravano all’estero cercassero rendite migliori e non diritti di possesso di terre; gli emigranti partivano nella speranza di fare fortuna ed in seguito al temporaneo esilio ritornare nel loro paese con un capitale che gli permettesse di mantenersi per il resto della loro vita. L’Africa, secondo De Zerbi, non prometteva tutto questo e nella stessa direzione andava anche il pensiero di Plebano274, il quale sosteneva che un emigrante partisse per ottenere un miglioramento della propria esistenza e non per avere una vita identica a quella lasciata in patria. A dispetto di queste ultime due posizioni, il 5

273 M. Mazza, La risoluzione delle controversie fra i privati e la pubblica amministrazione nella Colonia Eritrea, Governare l’Oltremare – Istituzioni, funzionari e società nel colonialismo italiano, Carocci, Roma, 2013, Pag. 31-40.

274 Plebano, Achille. Uomo politico – (Asti 1834 – Roma 1905). La stabilizzazione dei conti e l’armonizzazione della fiscalità all’economia nazionale fu la questione centrale di tutta la sua vicenda scientifica, politica e pubblicistica. Semplici economie di bilancio non l’avrebbero risolta in assenza di riforme miranti al decentramento e alla semplificazione amministrativa. Rielaborando un’idea che fu del relatore della sua tesi di laurea, propose una riforma del pubblico impiego che superasse la legislazione speciale mediante l’adozione dello schema privatistico della locazione d’opera. Nei diciotto anni da deputato, la sua inflessibile aderenza ai principi liberisti e conservatori gli valse l’esclusione da qualsiasi incarico di governo. Di tutte le componenti della grave questione economica che pendeva sull’avvenire del Regno, quella monetaria ripeteva essere la dominante, la causa ultima di ogni principale fattore di arretratezza economica e finanziaria del Regno.

marzo 1890 Crispi annunciò alle Camere che la politica del governo sarebbe stata quella di creare in Eritrea una colonia agricola ed incaricò Franchetti di sviluppare il programma.275 Il programma di colonizzazione agricola fallì dopo pochi anni e fra gli storici vi è un’ampia divergenza di vedute sulle motivazioni che portarono al fallimento dell’impresa. Secondo Richard Pankhurst (Italian settlement policy in Eritrea and its repercussions 18891896, Boston University Papers on African History, vol. I, Benett, 1964) i motivi che portarono al fallimento furono principalmente le difficoltà pratiche incontrate, l’inefficienza dell’ufficio per l’agricoltura oltre alle condizioni climatiche poco idonee; per Romain Rainero (I primi tentativi di colonizzazione agricola e di popolamento dell’Eritrea, Marzorati, 1960) le motivazioni furono complesse ma tra loro emergono lo stesso sistema Franchetti, la politica coloniale di Baratieri e la guerra contro l’Etiopia; l’opera enciclopedica “L’Italia in Africa” vede nella guerra terminata con la battaglia di Adua il fattore determinante del collasso della politica agricola; Tekeste Negash nel suo “Italian colonialism in Eritrea, 1882-1941”(op.cit.) sostiene che oltre alla resistenza da parte della popolazione eritrea (che da sola non avrebbe potuto determinare il fallimento della politica italiana), la politica agricola fallì poiché non fu mai il movente principale dell’espansionismo coloniale italiano; Yemane Mesghenna sostiene invece che la ragione principale che portò alla crisi del sistema rurale fu la mancata comprensione da parte delle autorità italiane della relazione esistente in Eritrea tra uomo e territorio, la stessa questione che aveva sollevato pochi anni prima De Zerbi. Per sviluppare la sua politica, Franchetti dovette emanare dei provvedimenti che vietavano ai nativi di ritornare nei loro precedenti possedimenti poiché, a partire dal 1892, parecchi indigeni eritrei che erano emigrati nei paesi vicini a causa di carestie e di malattie epidemiche, fecero ritorno in patria in seguito al miglioramento della situazione. Naturalmente i divieti imposti dall’autorità coloniale riscaldò gli animi della popolazione locale dato che il possesso delle terre andava ad intaccare il contesto sociale del paese. Il possedimento terriero si divideva in due categorie: il Resti che era il massimo diritto di possesso su un territorio, destinato ad una famiglia e che era di derivazione ereditaria; lo Shehena che era invece del territorio definito di proprietà comune a tutti i membri del villaggio (con il nostro metro la definiremmo zona di pubblica utilità). Nonostante gli avvertimenti di De Zerbi, che ben conosceva le usanze e tradizioni territoriali eritree, Franchetti procedette, come abbiamo visto, all’espropriazione del suolo ai nativi senza pensare che questi avrebbero reagito anche con la forza in difesa dei loro diritti sul territorio. Nel suo tentativo di colonizzazione agricola Franchetti sfruttò il concetto di terre abbandonate (come abbiamo visto erano state abbandonate dagli indigeni per diversi motivi, ciononostante gli emigranti non avevano perso i loro precedenti diritti) fino ad abusarne. Questa situazione portò ad una azione di guerriglia da parte di alcuni capi eritrei che dopo alterne vicende si trascinò oltre le dimissioni di Franchetti nel 1895 per concludersi con la battaglia di Adua del 1896.276

Il progetto di colonizzazione agricola fu peraltro messo in discussione ancora prima del 1890 da altri ministeri del Regno come quello degli esteri, degli interni e quello della

275 Y. Mesghenna, Italian Colonialism: A Case of Study of Eritrea 1869-1934, University of Lund, Lund, 1988, Pag.89-92.

guerra. Se da un lato si incitavano i poveri lavoratori italiani all’emigrazione verso il nuovo territorio africano, tramite una campagna di stampa che mostrava la nuova colonia come una ottima possibilità di riscatto sociale, dall’altra i governanti miravano alla chiusura dell’Africa italiana agli emigranti. Infatti, pur se non con cifre iperboliche, più passava il tempo e maggiori erano le richieste di emigrazione da parte di persone che cominciavano ad intravedere la possibilità tramite il trasferimento, stagionale o stabile, in colonia come un modo per superare le difficoltà economiche che trovavano in patria. A questo punto una domanda sorge spontanea: ma quindi, dato che abbiamo già potuto evidenziare come l’arrivo italiano in Africa sia stato dettato da motivazioni politiche e diplomatiche, per quali motivi si decise di restare nel continente nero visto che gli interessi economici per lo stato erano praticamente inesistenti ma anzi la gestione del paese africano portava unicamente la madrepatria ad accollarsi ingenti spese ed oltretutto l’emigrazione era mal vista da parte di numerosi esponenti governativi oltre che dall’amministrazione militare in colonia? In realtà il famoso “cui prodest”277 latino trova una sua ragione d’essere anche in questa occasione: degli interessi in Eritrea c’erano da parte di svariati soggetti, dalle piccole aziende metropolitane che fornivano alla colonia i piccoli strumenti necessari per la vita quotidiana, ai grossi industriali settentrionali (Breda, Pirelli, etc.) interessati alle forniture all’esercito. Inoltre dobbiamo ricordare anche l’élite mercantile autoctona che lungi dall’opporsi all’occupazione coloniale, aveva al contrario trovato il modo di far fruttare la loro collaborazione con le autorità e l’esercito italiani. Interessate erano inoltre molte compagnie di trasporti (sia navali che ferroviarie) le quali vedevano nel novo possedimento un probabile strumento di guadagno.278 Abbiamo citato la battaglia di Adua, punto di partenza di questo nostro paragrafo ed è giusto che ora si consideri anche cronologicamente, oltre che da un punto di vista politico, tutte quelle situazioni e gli avvenimenti che si verificarono e che portarono al disastro militare. Fin dall’inizio della nostra avventura coloniale ed a maggior ragione dopo la creazione della Colonia Eritrea, fu subito chiaro che per realizzare tutti gli obiettivi, sia diplomatici che politici che territoriali, l’unico strumento che il primo colonialismo italiano possedeva era quello dell’esercito. Furono sempre assenti, o perlomeno insufficienti in colonia, quegli interessi privati che avrebbero potuto dare una spinta autonoma al colonialismo italiano: non ci furono significativi movimenti di commercianti ed industriali verso il nuovo territorio e neppure le pur presenti società geografiche ed esplorative italiane furono mai in grado di suscitare, rappresentare od organizzare iniziative private significative ed autonome senza la presenza dello Stato. Tutto ciò metteva quindi in evidenza che l’esercito italiano era l’unico strumento politico in Africa, oltre che caricarlo di responsabilità che altri eserciti coloniali non avevano come la difesa del prestigio di grande potenza dell’Italia unita. Questa situazione metteva i militari in condizione di poter chiedere sempre maggior autonomia in Africa mettendo quindi le basi per le successive campagne che portarono dritte alla disfatta di Adua.

Procedendo cronologicamente, già nel primo anno di vita la neonata Colonia dovette affrontare due scandali che preoccuparono notevolmente anche la Camera ed il Governo

277 Locuzione latina “a chi giova?” spesso utilizzata per capire da che parte stiano gli interessi in una situazione apparentemente nebulosa.

84 metropolitano, dovuti a due funzionari coloniali, Dario Livraghi ed Eteocle Cagnassi279 , accusati di gravissimi reati tra i quali svariati omicidi di indigeni, compiuti al fine di arricchimento personale.280 Venne coinvolto nello scandalo anche il generale Baldissera, comandante superiore in Africa, il quale alle prime avvisaglie dello scandalo decise di rientrare in Italia per motivi di salute. Anche il suo successore, generale Orero venne coinvolto nello scandalo ma solo di striscio. In patria lo scandalo venne subito percepito come grave, grazie anche alla pubblicazione sulla stampa di un memoriale che riportava, seguendo le parole dello stesso Livraghi, le esecuzioni segrete e le false accuse di tradimento mosse ai capi villaggio da parte delle autorità militari italiane. Intervenne persino il già citato De Zerbi, il quale dichiarò al presidente del Consiglio di voler procedere con una propria indagine autonoma, pur dichiarando la massima fiducia nella commissione d’inchiesta inviata dal Governo a Massaua nel 1891. La sentenza del tribunale di Massaua che fece seguito al rapporto della commissione fu però scandaloso: il tribunale militare presieduto dal generale Baratieri281 condannò i governatori e le alte cariche militari solo per eccesso di potere, dichiarò che i presunti massacri non ebbero luogo o se qualcosa successe furono da ritenersi dei casi isolati dovuti all’indole selvaggia dei soldati indigeni. Questa sentenza produsse stupore e sdegno anche in Italia.282 Nel 1894 l’amministrazione coloniale, dopo quella che era stata considerata la pacificazione della colonia attraverso l’eliminazione di una dozzina di capi e di circa ottocento loro sodali283, si trovò a dover affrontare la più importante ribellione dell’ultimo decennio del XIX sec. e cioè quella del Degiasmacc Bahta Hagos, fiero capo eritreo. Dopo essere stato alleato degli italiani nel 1892 nella speranza di ottenere una certa libertà per il suo paese, nel 1894, vista l’inutilità del suo intento e dopo essersi riappacificato con Menelik dichiarò al suo popolo: “Gli italiani ci portano solo maledizioni e si appropriano delle nostre terre: io voglio liberarvi… cacciamo gli italiani e torniamo padroni di noi stessi”. Reclutò un esercito di 1600 uomini e si scontrò con il Regio esercito ad Halay il 19 dicembre 1894 ma gli insorti vennero sconfitti e Bahta Hagos ucciso in battaglia. Quel rovescio segnò la fine di un’opposizione armata organizzata all’occupazione italiana dell’Eritrea anche se non placò sporadiche ribellioni locali.284

All’inizio del 1894 vi fu un doppio riordinamento nella Colonia Eritrea, quello

279 Dario Livraghi, capo della polizia indigena, ed Eteocle Cagnassi, segretario degli Affari coloniali.

280 G.Perticone, G.Guglielmi, La politica coloniale dell’Italia negli atti, documenti e discussioni parlamentari, L’Italia in Africa, Vol. III, Ist. Polig. Dello Stato, Roma, 1965, Pag. 36.

281 Baratieri, Oreste. - Generale italiano (Condino, 1841 – Vipiteno, 1901). Partecipò alla spedizione dei mille e alla campagna del 1866. Divenuto ufficiale dell'esercito regolare nel 1872, combatté dal 1887 in Africa, dove nel 1891 fu nominato comandante in capo delle truppe e nel 1892 governatore della colonia Eritrea. La sconfitta di Adua (1896) compromise la sua reputazione, anche se il tribunale militare dell'Asmara, cui il governo l'aveva denunciato per "omissioni, negligenze e abbandono di comando in guerra", lo assolse per inesistenza di reato. Nel 1874 aveva partecipato alla spedizione geografica Antinori in Tunisia. Deputato dalla XIII alla XVIII legislatura (1876-1895). Ha lasciato numerosi scritti di storia militare, tattica e geografia e un vol. autobiografico sulla sua permanenza in Africa (Memorie d'Africa 1892-1896, 1898).

282 I. Rosoni, La Colonia Eritrea – La prima amministrazione coloniale italiana (1880-1912), eum, Macerata, 2006, Pag. 150-153.

283 T. Negash, No Medicine for the Bite of a white Snake. Notes on Nationalism and Resistance in Eritrea, 1890 – 1940, University of Uppsala, Uppsala, 1986, Pag. 41. 284 A. Welde Giorgis, Eritrea at a Crossroads, Strategic Book Publishing, Houston, 2014, Pag. 35-36.

amministrativo e quello giudiziario: il giorno 18 febbraio con i Regi decreti n. 67 e 68 ed il 22 maggio con il R.d. n. 201. Il R.d. n. 67 istituiva il corpo degli ufficiali e commessi coloniali, definendo le norme per le nomine e le promozioni, provvedimenti disciplinari e approvava i quadri organici del personale per i singoli servizi ed uffici civili e quello del personale relativo alle truppe coloniali. Il R.d. n. 68 “stabiliva l’ordinamento dei servizi civili e militari nella Colonia Eritrea”: era composto da tre titoli che prevedevano l’organizzazione dei servizi della colonia, il reclutamento e gli obblighi di servizio e competenze del personale e le norme amministrative e contabili riferite ai vari servizi della colonia. Con il R.d. 201 venne istituito nel distretto di Massaua e nel centro abitato di Archico un conciliatore, un giudice unico, un tribunale civile e penale, un tribunale penale funzionante da corte d’Assise, l’ufficio del Pubblico Ministero ed un tribunale militare. Per quanto riguarda le zone di Asmara e Cheren la giustizia veniva amministrata, oltre che dai capi locali, da dei tribunali d’arbitrato e dai tribunali militari, mentre ad Assab era amministrata dal commissario e dipendeva per i procedimenti più importanti dal tribunale di Massaua.

285 Ritornando al racconto principale, nel dicembre 1893 tornò al governo Crispi e ciò è giusto metterlo in relazione con l’accelerazione delle mosse italiane in Eritrea. Abbiamo già definito in precedenza la politica crispina nei riguardi dell’Africa ma è giusto sottolineare come in quel particolare momento storico, periodo che vedeva l’Italia in una gravissima crisi sociale ed economica, le azioni del presidente del Consiglio nei riguardi della Colonia e nei rapporti con Menelik lo portarono a gettarsi, volente o nolente, nelle mani dei militari. Ciò non toglie che la scelta della politica espansionistica fu assolutamente libera e consapevole e quindi nessuna mossa fu “inevitabile” nonostante gli interessi in gioco ed i rapporti tesi con l’amministrazione etiopica.286 Dal punto di vista di chi scrive è giunto il momento di fermarsi un attimo e di considerare gli uomini ed il pensiero di quegli anni. Mario Isnenghi nella sua presentazione agli studenti del convegno sul centenario della battaglia di Adua, svoltosi a Piacenza nel 1996, descrive in maniera estremamente efficace le figure di Baratieri e Crispi, la loro mentalità e le loro azioni tenendo ben presente il modo di pensare dell’epoca. Se un’azione è sbagliata oggi non è detto che lo fosse anche allora (o perlomeno non veniva considerata tale). Per fare un esempio, se non è assolutamente accettabile che nel 1980 una mia conoscente, nata ad Asmara, potesse affermare “quando ero in Eritrea tutti i miei servi erano negri, d’altronde cosa vuoi che facciano i negri se non servirci”, nel 1890 la cosa non avrebbe fatto sicuramente scalpore (salvo per qualche mente illuminata), dato che persino la scienza dell’epoca tendeva a differenziare le varie razze ed a legittimare la superiorità della razza bianca. Tornando ad Isnenghi, giustamente mette in evidenza che, quando alla fine dell’800 si parla di grandezza della Nazione e di onore nazionale, non si può non parlare di guerra. Bene fa inoltre, pur con le dovute cautele, a sottolineare che persino durante il periodo fascista la mentalità e le azioni che portarono alla guerra d’Etiopia non possono essere analizzate con i parametri odierni.287

285 I. Rosoni, La Colonia Eritrea – La prima amministrazione coloniale italiana (1880-1912), eum, Macerata, 2006, Pag. 161-164.

286 N. Labanca, In Marcia verso Adua, Einaudi, Torino, 1993, Pag. 306-307.

287 M. Isnenghi, Il Colonialismo di Crispi, Adua – Le ragioni di una sconfitta, a cura di A. Del Boca, Laterza, Bari, 1997, Pag. 71-78.

A il mio parere, il termine del secondo conflitto mondiale non si è rivelato uno spartiacque solo dal punto di vista storico ma anche da quello per così dire del pensiero; si è passati da un modo di pensare “nazionale” ad uno “globale” con i due blocchi contrapposti, quello comunista e quello cosiddetto libero. Quasi tutte le ideologie precedenti il 1945 sono scomparse e si è assistito ad un rapido cambiamento di usi e costumi, dovuto anche all’avanzare della tecnologia che ci ha portato all’attuale situazione. Peraltro dobbiamo oggi rilevare che molte ideologie nazionaliste, subito dopo la caduta del blocco sovietico, sono tornate prepotentemente alla ribalta, partendo dalla divisione della Yugoslavia ed arrivando agli attuali dissidi interni od esterni alla comunità europea (questione macedone e governi prettamente nazionalisti dei paesi dell’ex blocco orientale detti “Gruppo di Visegrad”) oltre al fiorire di numerosissimi partiti cosiddetti “populisti” nati nei paesi occidentali a causa della sventurata gestione dei flussi migratori e di una comunità europea che non ha saputo rispondere alle richieste più pressanti dei cittadini. Ma qui concludo poiché si rischia di entrare in argomenti che non sono l’obiettivo di questo studio e soprattutto, come ho già affermato nell’introduzione, i commenti personali saranno nella parte conclusiva di quest’opera.

Passiamo ora alle ragioni che portarono al nuovo scontro tra Menelik ed il Regno d’Italia ed alla descrizione di quella che sarebbe stata in assoluto la prima battaglia persa da un esercito europeo contro uno africano e che avrebbe decretato in modo definitivo la caduta del mito dell’invincibilità dell’uomo bianco. Come abbiamo accennato poc’anzi, Crispi si ritrovò tra le mani dei militari poiché il governatorato della colonia rimase fino a lungo in mano a generali del Regio Esercito; dopo Baldissera e Gandolfi288 fu la volta di Oreste Baratieri il quale dal marzo 1892 resse le sorti della colonia fino alla disfatta di Adua. Il nuovo scontro tra l’Italia e l’Etiopia ebbe fondamentalmente inizio con la già citata rivolta di Bahta Hagos: una dissennata politica di indemaniamento delle terre (19.000 ettari nel 1893, 280.000 nel 1894, 113.000 nel 1895) anche se in termini assoluti non si presentava come una gran cosa, fu più che sufficiente per scatenare allarme e scontento tra gli indigeni. L’errore fu dovuto oltre che alla scarsa conoscenza delle caratteristiche della proprietà fondiaria eritrea anche al pensiero che questo genere di attività non avrebbe incontrato alcuna resistenza.

288 Gandolfi, Antonio. – Generale (Carpi 1835 – Bologna 1902). Uomo colto e fra i maggiori esperti di questioni militari, fu per molti anni relatore del bilancio del ministero della Guerra in Parlamento. Non destò quindi alcuna meraviglia quando, nel giugno del 1890, fu nominato governatore militare e civile dell'Eritrea, una colonia fondata da appena sei mesi e dalle frontiere ancora incerte e contestate. Il G. giunse in Eritrea alla fine di giugno del 1890 con il preciso incarico, affidatogli da Crispi, di praticare una politica leale nei confronti di Menelik per cercare di ammansirlo. Con il Rudinì si ritornò a praticare la "politica tigrina". Una politica che il G. condivise subito e che, anzi, auspicò in forma ancora più radicale. Persuaso che questa strategia si sarebbe rivelata vincente, il G. cominciò a preparare il terreno per realizzare con i capi tigrini, ras Mangascià in testa, un solenne incontro al fiume Mareb. Ma questo convegno, tenuto dal 6 all'8 dic. 1891, si concluse non con un trattato di alleanza, come si sperava a Roma, bensì con un semplice scambio di lettere e un generico impegno a contrastare i nemici comuni. Si aggiunga che l'incontro tra il G. e ras Mangascià venne interpretato da Menelik come un indubbio atto di ribellione da parte del suo vassallo e come un'ulteriore prova della malafede degli Italiani. L'incontro del Mareb, quindi, giudicato dal G. un autentico capolavoro di diplomazia, costituì, invece, un grossolano errore. Non era la prima volta, del resto, che il G. commetteva sbagli di enorme portata: nel marzo del 1891 aveva posto a capo delle province di confine con l'Etiopia, occupate abusivamente dall'Italia, Bahta Hagos che, tre anni dopo, avrebbe organizzato un'insurrezione in nome di Menelik, mettendo in pericolo l'esistenza stessa della colonia. Anche nell'amministrazione dell'Eritrea il G. non diede una buona prova, soprattutto a causa del suo spiccato autoritarismo, che gli impediva di collaborare con colleghi e sottoposti. A farne le spese furono soprattutto il colonnello O. Baratieri, che aveva le funzioni di vicegovernatore e di comandante delle truppe, e il barone L. Franchetti, commissario per la colonizzazione, incaricato di effettuare alcuni esperimenti agrari in Eritrea. Il suo sconsiderato comportamento fu aspramente criticato alla Camera anche perché, proprio in quel momento, la colonia si trovava in stato di allarme in seguito alla diserzione di alcuni capi abissini al soldo dell'Italia. Tali critiche, unitamente alle accuse di aver ordinato fucilazioni e incendi di villaggi durante i due anni di governatorato, non arrecarono tuttavia alcun danno alla sua carriera.

Ricordiamo che in quegli anni (1889-1892) una paurosa carestia aveva obbligato i detentori dei diritti sulle terre ad emigrare in Etiopia per sopravvivere; al loro ritorno, quando finalmente cominciò la ripresa si videro privati dei loro diritti da parte dei colonizzatori e questo non poté certo fargli piacere. In questo periodo venne coniata anche la frase che rimase storica tra i nativi eritrei, “non c’è medicina contro il morso del serpente bianco”, frase che non merita ulteriori commenti. Un altro aspetto poco gradito dagli autoctoni, forse poco noto, fu quello della determinazione dei soggetti sui quali imporre un tributo; fino a quel momento le popolazioni delle zone di frontiera tra Etiopia, Sudan ed Egitto erano abituate a miti imposizioni di tributi ed alla non interferenza nelle gerarchie politiche e sociali dei vari gruppi etnici: in sostanza si esigevano dei tributi ma si riconoscevano i capi locali. All’inizio, il rapporto con le autorità coloniali italiane non cambiò ed anzi venne bene interpretato dai capi locali come garanzia di protezione contro richieste altrui; le stesse autorità italiane non mostrarono sulle prime l’intenzione di alzare tasse o tributi ed anche le lievi tasse imposte ai commercianti di Massaua, dopo qualche protesta, vennero facilmente accettate. Tra il 1891-92 si cominciò a pensare seriamente ad una imposizione di tributi a tutta la Colonia Eritrea e per fare ciò vennero stipulati, faticosamente o meno tutta una serie di protettorati con vari capi di diverse etnie, Habab, AzteMariam, Beni Amer. L’errore di valutazione italiano fu quello di sopravvalutare le proprie forze e sottovalutare la volontà da parte delle società tradizionali locali nel voler mantenere una loro autonomia ed una loro dignità.289

Ma arriviamo quindi alle ragioni ultime che hanno portato alla battaglia vera e propria: la conquista di Cassala290 e la rivolta di Bahta Hagos. La rivolta colse completamente di sorpresa le autorità coloniali la cui risposta fu quella di riprendere in mano il piano espansionista che prevedeva l’entrata delle forze militari italiane nella regione del Tigré e l’annessione di Adua, pensando in questo modo di impressionare e spaventare Menelik II. L’entusiasmo ancora vivo per l’annessione di Cassala e gli errori di valutazione che abbiamo citato poc’anzi, portarono in realtà ad una situazione molto diversa da quella immaginata dalle autorità italiane. Infatti la popolazione etiopica fu convinta del reale pericolo dell’espansionismo bianco e lo stesso Negus decise una volta per tutte di eliminare il fastidioso vicino. Nonostante l’ottimismo regnante, a volerle vedere le premesse per gli italiani non erano certamente favorevoli: il 7 dicembre 1895 il presidio italiano dell’Amba Alagi291 fu sopraffatto da soverchianti forze abissine e completamente distrutto; il successivo assedio di Macallé292 costrinse le forze italiane, dopo un’eroica resistenza, ad abbandonare la posizione ed a rientrare entro i confini della colonia. Peraltro il rientro della colonna dei

289 N. Labanca, In Marcia verso Adua, Einaudi, Torino, 1993, Pag. 295-304.

290 Città del Sudan (234.622 ab. circa), capoluogo dello Stato omonimo (36.710 km2 con 1.789.806 ab. nel 2008); sorge a 530 m s.l.m. ai piedi del monte omonimo, sulla destra del fiume Gash (irrigazione). È centro commerciale e agricolo di una regione coltivata intensamente a cotone (grandi piantagioni), cereali e frutta. Fondata dagli Egiziani nel 1834, durante l’insurrezione mahdista fu assediata dai Dervisci (1883-85). In accordo con la convenzione anglo-italiana del 1891, un corpo italiano agli ordini di O. Baratieri attaccò C. nel 1894: i Dervisci furono sconfitti e la città fu annessa al territorio eritreo fino al 1897, quando fu restituita agli Anglo-Egiziani. Durante la Seconda Guerra Mondiale, fu occupata dalle truppe italiane (1940-41), nel corso della campagna intesa a togliere agli Inglesi il possesso del Sudan.

291 Monte dell’Etiopia (3438 m).

superstiti di Macallé fu sfruttato da Menelik utilizzando la fila dei militari italiani come scudo per le sue truppe che arrivarono indisturbate fino agli avamposti italiani ed impedendo così a Baratieri di effettuare quelle mosse strategiche, principalmente l’invio di rinforzi, che avrebbero dato ossigeno alle truppe presenti nella piana di Adua.

Delle truppe di rinforzo erano arrivate a Massaua ma senza quadrupedi e salmerie e ciò le rendeva praticamente inservibili; Baratieri subì all’inizio del 1896 due piccoli scacchi a Seetà e ad Alequà che contribuirono alimentare i suoi dubbi nell’intraprendere una vera e propria guerra contro il Negus. Si cominciava ormai a capire che l’esercito che Menelik aveva messo in campo era tutt’altro che insignificante ed il governatore si rendeva ormai conto che un’azione decisa contro l’avversario africano sarebbe stata quantomeno problematica. Ma le pressioni dall’Italia aumentarono fino all’episodio della destituzione di Baratieri a favore di Baldissera tenuta però rigorosamente segreta. Lo stesso Crispi non comunicò al governatore la nuova situazione ma si limitò a spronarlo con un telegramma che rimane nel mito coloniale nazionale:

“Codesta è una tisi militare, non una guerra: piccole scaramucce, nelle quali ci troviamo sempre inferiori di numero dinanzi al nemico; sciupio di eroismo senza successo. Non ho consigli a dare perché non sono sul luogo, ma constato che la campagna è senza un preconcetto e vorrei fosse stabilito. Siamo pronti a qualunque sacrificio per salvare l’onore dell’esercito ed il prestigio della monarchia.”293

Il 28 ed il 29 febbraio 1896 Baratieri tenne una riunione dei generali che avrebbe dovuto decidere se ritirare le truppe dal fronte (a causa delle difficoltà logistiche che avrebbero assicurato vitto solo per altri tre giorni) o la permanenza sul campo. Nessuno dei generali ritenne opportuno arretrare e la cosa anche se oggi può apparire sorprendente è assolutamente in linea con la mentalità dei militari coloniali dell’epoca.294 Naturalmente non furono soltanto questioni militari a fare pendere la bilancia verso lo scontro ma anche evidenze politiche e non ultime personali dato che l’idea di poter essere sostituito non poté non essere passata dalla testa del generale. D’altronde la stampa nazionale non aveva certo perso tempo nell’auspicare la sostituzione del governatore con il generale Baldissera e di questo Baratieri non poteva non essere informato. Il famigerato “colpo di testa” del governatore, tanto temuto da tenere secretata la sua destituzione, arrivò comunque e l’esercito coloniale si preparò a scontrarsi con l’esercito di Menelik con 20.170 uomini (nazionali e indigeni) oltre a 9215 uomini di stanza nei vari presidi contro più di 100.000 guerrieri abissini. Dal punto di vista prettamente militare si può discutere sulla strategia di dividere il corpo di spedizione italiano in tre colonne per un totale di circa 16.000 uomini più una

293 N. Labanca, In Marcia verso Adua, Einaudi, Torino, 1993, Pag. 352.

retroguardia di circa quattromila o su altre tattiche discutibili attuate dai generali italiani, ma su una cosa non si può che essere tutti d’accordo e cioè sul fatto che una truppa così sparpagliata e stanca al momento dello scontro non possa essere in grado di sostenere la furia di un esercito con un rapporto di 1 a 6. E così fu; con questa situazione (truppa stanca, munizioni scarse) e questi numeri, la battaglia non poteva che finire in un modo, con la completa disfatta del corpo di spedizione italiano e disfatta fu. Dei quattro generali comandanti presenti sul campo, Dabormida295, Arimondi296, Albertone297 ed Ellena298, i primi due morirono sul campo, Albertone venne fatto prigioniero e solo Ellena, comandante della retroguardia, riuscì a rientrare in Eritrea insieme a Baratieri. Non voglio dilungarmi sul racconto militare della battaglia dato che fiumi d’inchiostro sono stati spesi in proposito e mi limiterò a segnalare il numero delle perdite, sul quale peraltro non vi è concordanza di stime tra i vari storici; facendo una media possiamo definire che tra i soldati nazionali ci furono circa 6000 morti, 1500 feriti e 2000 prigionieri, tra gli ascari circa 2000 morti ed un numero non definito di prigionieri che subirono gravi conseguenze, tra gli abissini ci furono tra i 5000 ed i 6000 morti e 9000 feriti. Un certo numero di prigionieri italiani riuscirono a tornare a casa dopo diverse peripezie mentre ai prigionieri ascari fu inflitta una dura condanna: accusati di tradimento, chi non venne giustiziato subì l’amputazione di una mano e di un piede come punizione. In realtà, Menelik si dimostrò ancora una volta molto abile dal punto di vista diplomatico poiché comprese subito che la salvaguardia dei prigionieri gli avrebbe portato sicuramente dei vantaggi e si oppose quindi al vendicativo desiderio della moglie, l’imperatrice Taytù, la quale, al contrario, avrebbe preferito sterminare tutti i sopravvissuti nemici. La cosiddetta “prima guerra d’Africa” terminò ufficialmente il 26 ottobre 1896 con il trattato di pace firmato ad Addis Abeba da Menelik II e dal ministro plenipotenziario Cesare Nerazzini.299

Quali furono le conseguenze della battaglia di Adua? Dal punto di vista militare segnò la prima vera sconfitta di un esercito europeo da parte di uno africano e ruppe una volta per tutte quell’aura di invincibilità dei bianchi rispetto a tutti gli altri popoli. Sembra una cosa da

295 Dabormida, Vittorio. - Generale (Torino 1842 – Adua 1896). Figlio di Giuseppe. Nel 1896 comandava ad Adua una brigata tra quelle che combatterono più ordinatamente; sopraffatto infine dal numero, il D. morì guidando un ultimo disperato assalto. Medaglia d'oro alla memoria.

296 Arimondi, Giuseppe. - Generale (Savigliano 1846 - monte Rajo 1896). Nel dic. 1893, ad Agordat, inflisse una sconfitta ai dervisci; si segnalò ancora ad Adi Ugri, Coatit e Senafè. Urtatosi col gen. Baratieri, chiese invano di essere rimpatriato. Nella giornata di Adua, l'A., dopo aver cercato invano con la sua brigata di sottrarsi alla pressione soverchiante degli Abissini, morì in combattimento. Medaglia d'oro alla memoria.

297 Albertone, Matteo Francesco. – (Alessandria 1840 – Roma 1919). Nel 1888 ebbe il comando del 1° reggimento cacciatori del Corpo speciale d'Africa; poi, fino al 1890, il comando della piazza di Massaua. Rimpatriato, tornò in Africa nel 1895 col grado di maggiore generale, e assunse il comando di una brigata di ascari eritrei, con la quale partecipò alla battaglia di Adua.Nel consiglio di guerra precedente la battaglia, presieduto dal Baratieri, l'A. aveva consigliato l'attacco del campo scioano e prospettato i pericoli di una ritirata. Il 1° marzo, alla testa degli indigeni (costituenti buona parte dell'ala sinistra, con la loro brigata di 4 battaglioni con 14 cannoni), andò oltre gli ordini del comandante in capo e si distanziò troppo dalle meno mobili truppe metropolitane, provocando un'azione tattica intempestiva e slegata, che fu una delle cause dell'esito negativo della giornata. Fatto prigioniero, l'A. fu liberato dopo la firma della pace di Addis Abeba (26 ott. 1896) e decorato con medaglia d'argento (altra aveva ottenuto nel 1864).

298 Ellena, Giuseppe. - Generale di cui non si hanno notizie se non che era artigliere, capitano nel 1874, probabilmente alla scuola d’artiglieria e genio di Torino, avendo lasciato scritti adottati ai corsi. Ferito, ma sopravvissuto ad Adua.

poco ma per l’epoca non lo fu affatto; per la prima volta dopo il cartaginese Annibale (circa 2000 anni prima), gli africani potettero godere di una vittoria che avrebbe cambiato per sempre i rapporti tra paesi colonizzati e colonizzatori; molti circoli anticolonialisti nacquero in diverse città del continente nero dopo la battaglia di Adua.300 In Italia, il governo Crispi cadde non appena giunsero in patria le prime notizie della sconfitta. Data la situazione politica e sociale del paese vi fu il rischio che la disfatta provocasse una crisi anche istituzionale nonché scatenasse una bufera nella fascia più a rischio della popolazione cioè quella più bisognosa. Per questo motivo venne formato un governo con a capo Rudinì con l’obiettivo di evitare qualsiasi forma di agitazione e nel tentativo di riportare la situazione entro binari facilmente controllabili. L’esecutivo messo in campo ebbe infatti un carattere particolarmente autoritario ma anche moderato e mediatore della successione a Crispi che portò il paese, dopo la terribile parentesi del maggio 1898 (i moti milanesi soffocati nel sangue da Bava Beccaris ed altri tristi episodi), alla svolta liberale d’inizio secolo.301

Per circa un anno, dopo la firma del trattato di pace, il destino della giovane colonia italiana rimase in forse, stretto tra coloro in patria che spingevano per un rapido abbandono dei territori africani e chi invece continuava a pensare ad un loro sfruttamento. Il 21 novembre 1897 venne nominato Commissario civile straordinario, ossia governatore dell’Eritrea, il deputato Ferdinando Martini302; questo personaggio, che aveva militato fino a pochi anni prima nelle file degli antiafricanisti e che in seguito si era convertito al colonialismo, era stato inviato in Africa con diversi obiettivi: in primo luogo avrebbe dovuto instaurare per la prima volta in colonia una forte amministrazione civile, poi avrebbe dovuto ristabilire buoni rapporti con Menelik e l’impero etiopico sulla base di una politica di raccoglimento e, certamente non ultimo per importanza, doveva cercare di far pesare il meno possibile la colonia sul bilancio statale attraverso una più intensa vita economica.303 Quando questi giunse in colonia, la sua prima preoccupazione fu quella di creare uno staff di collaboratori da egli ritenuti affidabili e competenti che lo affiancassero nell’amministrazione del paese. Naturalmente, fino a quel momento, coloro i quali si sentivano depositari di una vera conoscenza coloniale erano i militari e ciò bastava loro per sentire legittimato qualsiasi punto di vista sulla questione Eritrea. Martini non era però disposto a farsi scavalcare da questi personaggi dei quali

300 A. Welde Giorgis, Eritrea at a Crossroads, Strategic Book Publishing, Houston, 2014, Pag. 36-37.

301 N. Labanca, In Marcia verso Adua, Einaudi, Torino, 1993, Pag. 360-361.

302 Martini, Ferdinando. - Scrittore e uomo politico italiano (Firenze 1841 - Monsummano, Pistoia, 1928). Giornalista e insegnante, partecipò alla vita politica come militante dei liberali di sinistra: fu deputato, due volte ministro, senatore e commissario civile della Colonia Eritrea. Scrisse, fra le molte cose, testi teatrali, saggi e libri di memorialistica, sempre distinguendosi per finezza letteraria. Attratto quindi dalla vita politica, M. fu deputato al parlamento, sottosegretario (1884) e poi ministro dell'Istruzione pubblica (1892-93), commissario civile della Colonia Eritrea (1897-1900) e più tardi ministro delle Colonie (1915-16); nel 1923 fu nominato senatore. Dalle sue esperienze coloniali nacquero gli scritti: Nell'Africa italiana, 1891; Cose africane, 1896; Relazione sulla colonia Eritrea, 1913. E tante esperienze giovarono largamente allo scrittore, testimone e documentatore acuto e arguto del proprio tempo: si ricordano gli articoli e i saggi compresi in Fra un sigaro e l'altro (1876), Di palo in frasca (1891), Al teatro (1895), Simpatie. Studî e ricordi (1900), Pagine raccolte (1912), ecc., ma soprattutto i due volumi di memorie, Confessioni e ricordi (Firenze granducale) del 1922 e Confessioni e ricordi (1859-1892), pubblicato nel 1928, dopo la sua morte, serie di disegni e di esemplari ricostruzioni della Firenze ottocentesca.

303 A. Aquarone, Dopo Adua: politica e amministrazione coloniale, Ministero per i beni culturali e ambientali, Roma, 1989, Pag. 45.

riconosceva l’esperienza ma notava anche la loro mancanza di equilibrio e di tatto. Perciò la sua politica fu inflessibile e chiunque si dimostrò poco avvezzo a comprendere la portata del cambiamento venne in breve tempo rispedito in patria. Riguardo ai militari annotava infatti nel suo diario:

“Quando la guerra ricomincerà, se vorranno ricominciarla, allora i vecchi d’Affrica sarà utile farli tornare nell’Eritrea; ma in tempo di pace giova rimangano in Italia, perché qui, un po’ per consuetudine tollerata, un po’ per le imprese che hanno compiuto e cui hanno partecipato con maggiore o minore fortuna, si credono liberi di ogni vincolo: e padroni di far ciò che loro meglio talenta. Elementi di dissoluzione dove c’è molto bisogno di ricomporre e di stringere.”304

Inoltre se qualche militare poteva interessare Martini questi era un tenente giovane, motivato, intelligente, ambizioso e che avesse un forte senso della gerarchia. Questi candidati erano incoraggiati dallo stesso Martini a passare nelle fila civili della colonia, così il commissario avrebbe potuto controllarli e plasmarli come avrebbe preferito, al contrario degli ufficiali anziani.305

Una delle primissime problematiche sul campo fu quella della definizione dei confini della colonia: l’Eritrea confinava con la Costa francese dei somali (Côte française des Somalis) a sud, con il Sudan anglo-egiziano a nord e con l’Etiopia ad ovest, tutti confini che creavano apprensione al governo coloniale ma è principalmente dell’ultimo citato, quello con l’Etiopia, che tratteremo brevemente. La situazione politica che Martini trovò riguardo a questo fondamentale argomento era estremamente ambigua: se da una parte il governo lasciava credere all’opposizione parlamentare di volersi ritirare dall’altopiano di Kerbessa, come previsto dalle richieste di Menelik nel 1897 ed accettate dal governo italiano ma non ancora ratificate, dall’altra, spinto dal Re Umberto e dai militari cercava di non mollare la presa sul suddetto altopiano poiché, come molti pensavano, se si fosse abbandonato Kerbessa tanto valeva abbandonare l’intera colonia e ritornarsene in patria. Nonostante l’Italia nicchiasse nel confermare le richieste territoriali di Menelik, non vi fu in questo periodo nessuna pressione da parte etiope a causa di ciò che stava succedendo nella regione del Tigré; il governatore della regione, Ras Mangascià, al termine della guerra vittoriosa contro gli italiani, aveva mostrato una particolare insofferenza nei confronti dell’autorità imperiale nonostante Menelik gli avesse data in moglie una nipote dell’imperatrice Taytù e l’avesse riconfermato governatore. L’effetto collante della guerra contro gli europei era terminato ed il Tigré tornò preda delle rivalità intestine dei suoi ras.306

304 M. Zaccaria, a cura di, Le note del commissario – Teobaldo Folchi e i cenni storico amministrativi sul commissariato di Massaua, 1898, Franco Angeli, Milano, 2009, Pag. 15. 305 Ibidem, Pag. 14-16. 306 F. Guazzini, Le ragioni di un confine coloniale – Eritrea 1898 – 1908, L’Harmattan Italia, Torino, 1999, Pag. 24-26.

Se da parte del governo di Roma il problema principale era quello di non entrare in conflitto con le autorità etiopiche, Martini si dimostrò, al contrario, non disposto a cedere per quanto riguarda le contese territoriali ed a perseverare nel tentativo di non arretrare dall’altopiano di Kerbessa. Quando nel 1898 un delegato di ras Makonnen, che sostituì ras Mangascià come prossimo governatore della zona dell’altipiano, fu inviato a Massaua per definire una volta per tutte la linea confinaria, Martini rispose comunicando le proprie dimissioni. La questione della linea di confine era stata argomento di negoziazione tra il Negus e l’inviato del governo italiano Federico Ciccodicola, diplomatico e militare, il quale aveva ricevuto da Roma l’ordine di acconsentire alle richieste di Menelik e di definire la linea di demarcazione tra Eritrea ed Etiopia al di là dell’altopiano; la mossa del governatore, che avrebbe dovuto ratificare il nuovo assetto territoriale, servì dunque a forzare la mano al governo metropolitano (il suo eventuale successore non sarebbe mai giunto in tempo per incontrare l’inviato etiopico e questo avrebbe fatto crollare tutta l’impalcatura diplomatica costruita fino ad allora) ed infatti il ministro degli Esteri Cappelli307 impartì l’ordine di riferire a Menelik che l’Italia non avrebbe accettato l’intesa a causa delle pericolose conseguenze che avrebbero potuto investire l’Eritrea in seguito al contrasto Mangascià – Makonnen, e soltanto quando la situazione nel Tigré si fosse stabilizzata avrebbe potuto procedere alla delimitazione confinaria. Una visita nel territorio dell’altopiano ed una serie di incontri con i residenti, i militari e le autorità indigene, confermarono peraltro al governatore che effettivamente una cessione del territorio all’Etiopia avrebbe gettato nel caos le popolazione di Kebessa. Per evitare ripensamenti da parte del governo italiano, Martini promulgò un decreto governatoriale che prevedeva la riorganizzazione delle circoscrizioni della colonia, compresa quella del Seraè308 e dell’Achelè Guzai309 facenti parte dell’altopiano in questione che rappresentava un passo significativo verso l’esercizio esclusivo di governo di date zone.310

La posizione di Martini trovò conforto nell’avallo di Re Umberto anch’egli desideroso di conservare i vecchi confini della colonia ed il 3 ottobre 1898 il governo di Roma prese ufficialmente la decisione di recedere dalle intese stipulate con l’Etiopia per ottenere il mantenimento dello statu quo. Nell’ottobre 1898 il Negus lanciò un ultimatum a Mangascià e si mise in marcia alla testa di 30.000 uomini, oltre alle forze di Makonnen, ras Michael e ras

307 Cappelli, Raffaele. - Uomo politico italiano (S. Demetrio ne' Vestini 1848 – Roma 1921); avvocato, fu addetto all'ambasciata di Londra e di Vienna e segretario a Berlino. Deputato dal 1880 al 1919, da C. F. di Robilant gli fu affidata la segreteria generale degli Esteri (1885-87) e nel giugno 1898 fu ministro degli Esteri nel gabinetto Di Rudinì. Nel 1889 ebbe il titolo di marchese, nel 1919 fu nominato senatore.

308 Seraè. - Regione della colonia Eritrea, posta sull'altipiano a occidente dell'Hamasen e dell'Acchelè Guzai, a mezzogiorno dei Beni Amer e dei Baria, limitata a S. dal fiume Mareb. Il capoluogo è Adi Ugri (m. 2022). La regione comprende a S. il Seraè propriamente detto col Decchi Tesfà e il Dembelas che ne sono una naturale dipendenza, e a N. e NE. i due distretti Tzellimà e Seffaà, che rientrerebbero geograficamente nell'Hamasen.

309 Acchelè Guzai. - Circoscrizione amministrativa (commissariato regionale) della Colonia Eritrea, situata nella parte SE. dell'Eritrea propriamente detta (esclusa la Dancalia), confinante a sud con la provincia abissina dell'Agamè, ad occidente col Seraè, a nord con l'Hamasèn e col commissariato di Massaua, a levante per breve tratto con la costa occidentale del golfo di Zula, poi con la Dancalia settentrionale. Il commissariato dell'Acchelè Guzai comprende dunque, oltre la regione omonima, lo Scimezana e la cosiddetta Alta Assaorta. Capoluogo è Adi Caieh. Il territorio dell'Acchelè Guzai abbraccia un notevole tratto dell'altipiano, accidentato e vario, ricco di vallate, fertili e coltivate, le corrispondenti pendici orientali e un settore del bassopiano, arido e riarso dal sole.

310 F. Guazzini, Le ragioni di un confine coloniale – Eritrea 1898 – 1908, L’Harmattan Italia, Torino, 1999, Pag. 31-36.

Oliè, verso il Tigré. Questioni interne, scoraggiare le ribellioni dei ras, ed internazionali, la conquista britannica del Sudan, portarono Menelik alla decisione di ridiscutere i confini etiopici-eritrei con il governo italiano. Inizialmente propose un accordo che avrebbe ratificato sulla carta la linea precedentemente definita ma che, nella realtà, avrebbe riconosciuto all’Italia il possesso sul Seraè e sull’Achelè Guzai a tempo indeterminato con la contropartita di un aiuto indiretto italiano per riportare in maniera indolore il Tigré sotto il proprio controllo. Mentre in Italia si discuteva di questa proposta la situazione nel Tigré arrivò ad una conclusione: ras Mangascià si presentò a metà febbraio del 1899 nel campo imperiale per sottomettersi: ma il confine eritreo-etiopico non era ancora stato definito. La conferma di Makonnen a governatore del Tigré non aveva però placato le turbolenze e le razzie praticate dai capi della zona ed il nuovo ras non era riuscito a conservare il pieno controllo del territorio. I ribelli continuavano a lottare accanitamente contro le autorità scioane al fine di ottenere l’autonomia della regione. Martini pressava Makonnen perché riuscisse a rendere praticabili le rotte commerciali mentre il Ras subordinava il tutto a dopo la ricezione degli aiuti concordati (fucili, munizioni, cereali e denaro), ed allo stesso modo pretendeva solide garanzie di amicizia verso l’Etiopia prima di ricominciare a parlare di linee di confine. Da parte sua Menelik non era così lapidario nel pretendere l’attuazione della sua proposta inizialmente accettata dal governo italiano, ma poiché la Francia e la Gran Bretagna esercitavano pressioni sull’Etiopia affinché fossero rettificate alcune linee di confine che avrebbero strappato territori all’impero, il sovrano non voleva dar vita ad un precedente che lo avrebbe indebolito al cospetto delle altre potenze coloniali. Inoltre non bisogna dimenticare che diversi notabili, tra i quali abbiamo visto lo stesso Makonnen, e soprattutto l’imperatrice Taytù erano assolutamente contrari a qualsiasi cessione territoriale. Martini pretese che il negoziatore italiano inviato alla corte del Negus fosse Ciccodicola e non Nerazzini come invece era propenso a fare il ministero degli Esteri, poiché era convinto che il primo avrebbe seguito una idea di negoziazione più vicina alle idee del governatore. Ciccodicola suggerì infatti alla Consulta di proporre a Menelik una cessione del Kebessa a tempo determinato e limitato con la speranza che riprendendo il negoziato dopo qualche anno l’Etiopia, nel frattempo andata incontro ad un fisiologico declino (così pensava l’inviato italiano), non sarebbe più stata in grado di mettere bastoni fra le ruote alla piena sovranità italiana sull’altipiano. Inoltre questa situazione avrebbe consentito all’amministrazione italiana di attuare la valorizzazione economica del possedimento verificando così, in termini inequivocabili il vero valore dell’Eritrea.311 Dopo una serie di proposte e controproposte, tutte fallite, di arrivare ad una conclusione dell’impasse, fu lo stesso Menelik a prendere in mano la situazione e con un linguaggio estremamente lontano da quello diplomatico spostò i termini ad un mero affare di interessi; offrì all’Italia di stipulare un vero e proprio contratto di vendita, richiedendo una somma di 200.000 talleri, da pagarsi in venti rate annuali, in cambio del Kebessa. Il Negus era perfettamente cosciente che la cifra richiesta era nettamente superiore al valore attuale e futuro del territorio ma giustificò la cifra con l’esigenza di placare le rimostranze dei vari ras in seguito alla rinuncia del territorio con la conseguente accettazione della definitiva spartizione etnica della popolazione tigrina.

A Roma non parve vero di poter finalmente risolvere la questione confinaria della colonia; nonostante cercasse di giocare al ribasso sulla cifra del compenso, il governo centrale era propenso ad accettare in massima la proposta etiopica. All’inizio di dicembre 1899 però, Menelik cambiò le carte in tavola: su pressione di Taytù comunicò che accettare denaro significava vendere il paese e propose di cedere al re Umberto, senza alcun compenso, una linea di frontiera (Mareb-Mai, Marettà-ciglio versante affluenti di sinistra del Mareb fino ad Adì Cajè) che avrebbe tolto al controllo italiano due distretti dell’Achelè Guzai ma che secondo il governatore “non sarebbe stata una gran perdita, sotto l’aspetto morale e politico perlomeno”. Ma il ministro degli Esteri non era disposto a cedere, anche su pressione reale, e respinse l’offerta etiope riproponendo la linea di confine originaria; per vincere le ultime indecisioni della controparte, la diplomazia italiana andò a toccare un tasto particolarmente sensibile di Menelik e cioè quello di non creare dispiacere al re Umberto. L’Italia fornì inoltre rigorose garanzie di neutralità in caso l’Etiopia avesse avuto delle difficoltà con altre potenze, e così, dietro compenso di cinque milioni di lire e l’assicurazione di non cedere territori ad altre nazioni straniere fra l’aprile ed il giugno 1900 fu finalmente possibile accordarsi pe un confine sulla linea idrografica Mereb-Belesa-Muna. Il 10 luglio 1900 fu siglato l’accordo tra le due parti312 ed il confine tra Etiopia ed Eritrea sarebbe rimasto immutato fino alla guerra del 1935-36.313

Il 24 gennaio 1900 l’Italia aveva già raggiunto un accordo con la Francia per quanto riguardava il confine meridionale ed il 13 luglio del 1901 venne firmato un protocollo d’intesa che prevedeva la linea divisoria partire dal promontorio di ras Dumeira, proseguire verso Bissidiro e seguire il fiume Weima fino a Daddato ed al sultanato di Raheita annesso poi dall’Italia nel 1935. La questione dei confini settentrionali con il Sudan anglo-egiziano fu decisamente più travagliata a causa dei frequenti spostamenti delle popolazioni indigene alla ricerca di buoni pascoli per il bestiame. Alla fine la linea confinaria tra i due paesi rimase più o meno quella decisa il 15 aprile 1891 con piccole variazioni in seguito alle già citate migrazioni delle popolazioni dell’area. Se la questione confinaria si rivelò alla fine un successo della politica di Martini non si può certo dire lo stesso per un altro argomento che in quegli anni vedeva principale interprete l’Eritrea e cioè la ricerca dell’oro. Quando nell’aprile del 1897 giunse in Italia la notizia che nei pressi di Asmara era stato rinvenuto un blocco di quarzo con una notevole quantità d’oro, fu considerata la conferma alle voci che già da tempo circolavano riguardo alle ricchezze minerarie del Corno d’Africa. Il primo a volerci vedere chiaro su queste voci fu naturalmente il commissario Martini, il quale trascinato forse dal desiderio di cominciare finalmente ad attirare capitali (“L’Eritrea chiede capitali e non braccia” scriveva un redattore del “Corriere della Sera” nel 1906) per sviluppare l’economia della colonia, arrivò a sostenere fino alla fine quella che si rivelò essere una mezza bufala. In realtà, non è che l’oro in Eritrea non ci fosse, ma la dimensione dei filoni e la loro conformazione rendevano difficoltoso e a volte antieconomico la sua ricerca. Inoltre se sommiamo a questo la cronica incapacità degli imprenditori italiani di investire denaro in affari incerti e che possono non rendere immediatamente, il quadretto è completo. Certo l’Eritrea non era né il Sudafrica né lo Yukon,

312 V. Documento n. 21

313 F. Guazzini, Le ragioni di un confine coloniale – Eritrea 1898 – 1908, L’Harmattan Italia, Torino, 1999, Pag. 40-68.

ma non si sarebbe rivelata quella bufala che si era creduto ad inizio secolo; cercando in un’altra zona più a sud (e non nell’Hamasien dove si sono svolti i fatti che racconteremo in seguito), nel 1937 verrà scoperto un giacimento a Ugarò che produrrà circa 30 kg. d’oro mensili e che verrà sfruttato fino alla sua perdita per cause belliche nel 1941. In breve, cosa successe nell’Hamasien? Da Martini, per la concessione di ricerca, si presentarono due gruppi: uno capitanato dall’amico Beniamino Nathan e dal banchiere londinese Simon Symons, l’altro era la Società italiana per il commercio con le colonie, che faceva riferimento al principe Alfonso Doria Pamphili314, che in seguito si accordarono fondando una società su basi paritetiche con il nome di “Società Eritrea per le miniere d’oro”. Questa società venne agevolata in ogni modo dal governatore anche attraverso informazioni teoricamente riservate tanto da essere considerata un’emanazione stessa del governo e non un’impresa privata. L’8 luglio 1900 la Società si aggiudicò una concessione trentennale per l’utilizzo di 30.000 ettari di territorio ed in cambio il governo si riservava un diritto del 5% sui minerali estratti. Il territorio concesso era suddiviso in due blocchi, in primo nell’Hamasien (circa 20.000 ettari) ed il secondo, nella zona di Maldì, si trovava sulla strada per Cheren. Le zone erano state scelte considerando la presenza di acqua, di combustibile, di manodopera e di vie di comunicazione ma parve chiaro fin da subito che per quanto riguardava il combustibile e le vie di comunicazione, i problemi non avrebbero tardato ad affacciarsi. Ma il grosso problema dei filoni eritrei era che se in superficie erano estremamente visibili ed all’apparenza molto ricchi, appena si cominciava a scavare ed a scendere di qualche metro i filoni si disperdevano fino a sparire rendendo il lavoro di scavo assolutamente antieconomico. Ciononostante Martini continuava ad essere ottimista, anche perché le notizie che gli arrivavano dalla Società e da altri esperti nel frattempo giunti nella colonia comunicavano che “quasi dappertutto fu accertata l’esistenza di formazioni aurifere più o meno promettenti”. Dato che il capitale della Società era insufficiente per procedere allo sfruttamento vero e proprio delle miniere (il capitale sociale versato, due milioni di lire, aveva previsto le semplici esplorazioni), si decise di concentrarsi sul filone di Medrì Zien nella zona di Asmara. Altri personaggi ottennero delle concessioni nella zona di Cheren ed a Barentù (comm. del Gash e Serit), anche se queste piccole imprese, più o meno a conduzione familiare, non erano certo gli investimenti di capitali che Martini si attendeva. D’altronde era vero che l’oro continuava ad essere scoperto, ma mai nelle quantità sufficienti a garantirne lo sfruttamento poiché era ormai chiaro a tutti che la fase ultima e risolutiva dell’impresa era quella di estrarre l’oro dal quarzo. Per quanto riguarda la Società Eritrea per le miniere d’oro, invece che aumentare il capitale sociale venne deciso di diminuirlo e nel 1907 la produzione non aveva ancora raggiunto un livello remunerativo e nonostante nel 1909 furono estratti 50 chili d’oro e

314 Doria Pamphili, Alfonso. – Politico (Roma 1851 – 1914), Dopo l'occupazione di Roma il D. prestò per qualche tempo servizio militare volontario nell'Italia settentrionale. Rientrato nella capitale, svolse, come altri aristocratici romani, una particolare funzione di collegamento e di mediazione fra il principe ereditario Umberto e la sua consorte Margherita con la città sconosciuta. Nel 1906 divenne presidente dell'Opera nazionale a beneficio degli operai italiani morti d'infortunio sul lavoro, che aveva contribuito a costituire nel 1896 in occasione delle nozze d'argento dei sovrani. Nel 1893 era entrato nel Consiglio comunale; membro della Congregazione di carità, si dimise nel 1897: dei problemi della città, soprattutto assistenziali, preferiva occuparsi, come era nella tradizione della aristocrazia romana, e specificatamente della famiglia, con interventi diretti, mantenendo, "con un certo fare romanescamente arguto e popolare" (Mariani), una grande influenza nella plebe. Lunga e vivace fu la sua lotta come presidente della Società italiana per il commercio colle colonie (1899; vicepresidente era F. Scheibler) per ottenere in concessione lo sfruttamento dell'Eritrea: dalla produzione agraria a quella mineraria, soprattutto aurifera, e allo sviluppo commerciale. Lo appoggiavano altri gruppi inglesi e varie banche, specialmente la Hambro, ma in Inghilterra era anche il nucleo principale della concorrenza nella compagnia fondata dall'ing. B. Nathan, fratello di Ernesto, con cui il D. finì per accordarsi, accontentandosi di una partecipazione alla Società eritrea per le miniere d'oro, fondata nel 1900 da Nathan e da E. Talamo.

sembrava che finalmente si fosse trovato il filone giusto seppure a profondità decisamente più importanti (75-100 mt.) nell’agosto del 1914 la Società venne messa in liquidazione. In conclusione, il fallito sfruttamento delle risorse aurifere in Eritrea fu il primo di una serie di fallimenti che nel giro di qualche anno finirono per minare la natura del progetto economico che si voleva realizzare nella colonia primigenia.315 I primi anni del ‘900 furono comunque fondamentali per la colonia dato che Martini ottenne diversi successi dal punto di vista organizzativo, come il nuovo ordinamento organico della Colonia Eritrea (R.d. 11 febbraio 1900, n. 48) che restituiva al potere civile l’amministrazione del territorio coloniale ed il primo segno del nuovo corso fu lo spostamento della capitale ad Asmara, decisamente più salubre di Massaua. Anche con il successivo ordinamento organico (R.d. 30 marzo 1902, n. 168), istituito con lo scopo di ridurre le spese del personale, Martini riuscì ad ottenere che l’ordinamento diminuisse sensibilmente gli organici militari e non quelli civili. A questo punto il governatore si sentì abbastanza forte da poter proporre anche un nuovo ordinamento giudiziario (R.d. 9 febbraio 1902, n. 51) le cui innovazioni potevano essere sintetizzate in quattro punti: l’uniformazione del sistema giudiziario in tutta la colonia con l’istituzione del giudice unico, che risiedeva ad Asmara, Massaua e Cheren; l’istituzione del tribunale di Appello ad Asmara che decideva sulle impugnazioni delle sentenze del giudice unico; L’abolizione della giurisdizione dei tribunali militari per gli speciali reati commessi da indigeni e coloni che sarebbero stati deferiti ai giudici regionali od al tribunale d’Appello; il riconoscimento al governatore della facoltà di rivedere i giudizi penali a carico degli indigeni. Con il R.d. 24 maggio 1903 l’ultimo ordinamento organico proposto da Martini prese forma, andando a correggere quelle imperfezioni che si erano presentate nell’anno precedente; fu ispirato da tre principi: una migliore definizione dei poteri e delle attribuzioni del governatore, la concentrazione in un unico ministero di tutte le facoltà e competenze coloniali e la sostituzione del Consiglio di Stato con un nuovo organo consultivo che fosse più presente alle realtà africane e fosse burocraticamente più snello.316 Il governatorato di Ferdinando Martini terminò nel marzo 1907 ed il suo posto fu preso da Giuseppe Salvago-Raggi317 . Il nuovo governatore si trovò in eredità un paese politicamente pacificato, amministrativamente ordinato, ma dal punto di vista economico lontano da quel pareggio di bilancio che Martini avrebbe voluto raggiungere. Un suo primo intervento importante fu quello di decentrare amministrativamente la colonia attraverso un riordinamento delle circoscrizioni territoriali guidate da dei commissari che dovevano essere dei piccoli governatori nella loro giurisdizione; il nuovo ordinamento prevedeva otto commissariati regionali (Hamasien, Seraè, Achelè Guzai, Gasc e Setit, Barca, Cheren, Massaua e Assab) e ad ognuno di essi venne assegnato un bilancio amministrativo da parte del proprio commissario, seguendo le direttive del governatore della colonia ma senza il suo consulto.

315 M. Zaccaria, L’oro dell’Eritrea, 1897-1914, Africa: Rivista trimestrale di studi e documentazione dell'Istituto italiano per l'Africa e l'Oriente, anno LX, n.1, Roma, 2005, Pag. 65-110.

316 I. Rosoni, La Colonia Eritrea – La prima amministrazione coloniale italiana (1880-1912), eum, Macerata, 2006, Pag. 200-207.

317 Salvago-Raggi, Giuseppe. - Diplomatico (Genova 1866 - ivi 1946). Ministro plenipotenziario a Pechino (1900), difese la legazione italiana durante la rivolta dei Boxers; fu poi ministro al Cairo, governatore dell'Eritrea (1907-15), ambasciatore a Parigi (1916-17), delegato italiano alla conferenza della pace (1919). Nel 1918 fu nominato senatore.

Naturalmente un successivo decreto governatoriale (6 maggio 1908, n. 733) provvide a redistribuire in modo più razionale, rispetto alle esigenze del decentramento, tutti i servizi civili della colonia. Un’altra iniziativa particolarmente meritoria di Salvago-Raggi fu certamente quella di assumere personale indigeno in tutti i settori dell’amministrazione, sia pure nelle mansioni più modeste. A tal proposito riportiamo lo stupore di un inviato del “Corriere della Sera” arrivato in Eritrea nel 1914:

“Il macchinista della locomotiva è un negro; il fuochista, un negro; i bigliettai e il controllore sono pure negri. Non c’è da meravigliarsene. In Eritrea gli indigeni hanno appreso una quantità di mestieri […]. Negli uffici troviamo degli scrivani abilissimi, dei dattilografi veloci e precisi; anche alle poste, anche ai telegrafi vi sono degli impiegati indigeni che disimpegnano con zelo le loro mansioni.”318 […] Con il R.d. 9 aprile 1908, n. 241 Viene creata la Direzione centrale degli Affari coloniali che curerà gli interessi italiani nell’oltremare fino alla nascita del ministero delle Colonie. Nel 1908 apparve anche un nuovo ordinamento giudiziario della colonia (R.d. 2 luglio 1908, n. 325) che ribaltava completamente quello voluto da Martini: la giustizia nei riguardi degli indigeni veniva ora gestita da funzionari amministrativi, eliminava il tribunale d’Appello di Asmara ed il procuratore del re veniva sostituito da un avvocato dello Stato nominato dal governatore. Un deciso ridimensionamento della giustizia quindi, dovuto in massima parte a ragioni di bilancio dell’Eritrea. Si arrivò quindi ad un autorità giudiziaria che gestiva le cause riguardanti i cittadini italiani o gli stranieri ad essi assimilati e ad una autorità amministrativa che gestiva le questioni degli indigeni o loro assimilati. Secondo questa nuova visione, dato che la colonia è un territorio dipendente dallo Stato ma non parte integrante di esso, i cittadini italiani che arrivano in colonia non trasferiscono tutti i diritti a loro riconosciuti in madrepatria, ma sopportano le limitazioni dovute all’ordinamento giuridico della colonia, che prevede che lo ius suffragi, lo ius honorum, lo ius tributi e lo ius militiae sia loro consentito gradualmente, nella misura e nelle forme del regime politico coloniale. Gli indigeni invece sono sudditi e godono solo dei diritti a loro concessi dalle leggi che li riguardano le quali, in linea di massima, riconoscono efficacia alle consuetudini indigene.319 Il problema del regime fondiario fu una delle principali questioni che Salvago-Raggi dovette risolvere una volta per tutte dato che anch’egli era convinto, come il suo predecessore, che l’Eritrea non sarebbe mai diventata una colonia di popolamento. Il suo obiettivo primario fu quello di restituire agli eritrei parte delle terre che le amministrazioni precedenti avevano assegnato, senza successo, ai coloni bianchi. Il nuovo ordinamento prese vita con il R.d. 31 gennaio 1909, n. 378, con l’assunto che il territorio coloniale apparteneva allo Stato italiano (Art.1) ma che sarebbero stati rispettati i diritti delle popolazioni indigene sulle terre da esse godute in ottemperanza delle antiche consuetudini locali (Art.2). Il nuovo ordinamento sottoponeva il territorio eritreo a tre regimi diversi: il demanio pubblico, il demanio disponibile ed il demanio indigeno: del primo facevano parte le strade ferrate e rotabili

318 I. Rosoni, La Colonia Eritrea – La prima amministrazione coloniale italiana (1880-1912), eum, Macerata, 2006, Pag. 240.

319 Ibidem, Pag. 237-250.

costruite dall’amministrazione, le vie carovaniere e quelle necessarie al transito della pastorizia, il lido del mare, i porti, le insenature, le spiagge, le mura, le fortezze, le linee telefoniche e telegrafiche, i beni destinati all’uso pubblico, i corsi d’acqua e le sorgenti naturali; del secondo regime facevano parte quei terreni che, prima dell’occupazione italiana, fossero riconosciuti spettanti a cessati governi, a tribù od a famiglie indigene estinte, terreni dei villaggi abbandonati da più di tre anni (secondo l’uso indigeno), i terreni confiscati, i boschi, le miniere, le saline e i gultì (concessioni feudali date a famiglie, particolari cariche o enti di culto); al demanio indigeno appartenevano quei territori di proprietà privata individuale o familiare (restì) e le proprietà private collettive o di villaggio (dessà). Con i Regi decreti del 19 settembre 1909, n. 838 e 839, venne conferito un assetto definitivo anche al personale civile della colonia. Il primo decreto ribadiva la distinzione in personale civile e militare e prevedeva il reclutamento del personale civile in tre modi: con personale di un nuovo ruolo organico, con personale di altre amministrazioni statali e con impiegati assunti a contratto ed indigeni assunti a contratto mensile. Il secondo decreto istituiva il nuovo ruolo dei funzionari coloniali divisi in due categorie: della prima facevano parte 23 agenti coloniali e 5 aspiranti, tutti nominati per decreto reale; della seconda facevano parte 30 funzionari divisi in due classi: gli ufficiali coloniali, nominati per decreto reale e gli aiutanti, nominati dal governatore. I funzionari di prima categoria erano destinati a ricoprire le cariche di capi ufficio, capi sezione o di commissari o vicecommissari; i funzionari di seconda categoria erano destinati ai vari uffici. Il governatore Salvago-Raggi restò in carica fino al 1915 quando presentò le sue dimissioni in quanto desideroso di partire per il fronte lasciando alla guida della colonia il capitano di vascello Giovanni Cerrina Feroni: un militare tornava quindi alla guida dell’Eritrea.320

Nel 1915 un problema decisamente più grosso stava per travolgere la madrepatria: con lo scoppio della prima guerra mondiale la questione coloniale prese un’altra strada e cioè la possibilità di utilizzare truppe coloniali al fianco dell’esercito metropolitano. Dopo qualche primo successo l’avanzata italiana si incagliò in riva al fiume Isonzo e lì l’esercito tricolore rimase a combattere ben dodici sanguinosissime battaglie fino a quando, al termine della dodicesima, la disfatta di Caporetto non riportò il fronte del conflitto sulle rive di un altro fiume, il Piave. L’idea di impiegare truppe coloniali a sostegno delle forze armate nazionali venne molto presto; il 12 luglio 1915 giungeva al comando supremo di Udine un progetto del generale Tassoni321, governatore della Tripolitania (sostenuto in questa sua idea anche da Ferdinando Martini, divenuto nel frattempo ministro per le colonie), inteso a formare una legione libica di 3-4000 uomini da impiegare in combattimento sul fronte austriaco. Il ministro della guerra, generale Zupelli322 si rivelò subito contrario alla proposta, sia da un punto di vista ideologico (l’Italia stava combattendo una guerra nazionale contro lo straniero) che su quello pratico (l’impiego di truppe coloniali avrebbe potuto essere interpretato come

320 I. Rosoni, La Colonia Eritrea – La prima amministrazione coloniale italiana (1880-1912), eum, Macerata, 2006, Pag. 251-261.

321 Tassoni, Giulio. - Generale (Montecchio 1859 – Roma 1942); durante la guerra italo-turca guidò (1913) la IV divisione nelle operazioni per la conquista dell'altopiano centrale della Cirenaica; fu per qualche tempo governatore della Tripolitania. Durante la prima guerra mondiale comandò successivamente il IV corpo d'armata, le truppe della Carnia, la 5a e la 7a armata; senatore del regno (1919), generale d'armata (1923).

un’incapacità operativa delle truppe metropolitane), ma il comandante supremo, generale Cadorna323, condivise in pieno il progetto di Tassoni, dicendo che, a suo parere, era legittimo qualsiasi mezzo che accelerasse la fine della guerra. In realtà, data la tensione in Libia, lo spostare degli uomini dal paese nordafricano insieme alle loro famiglie avrebbe consentito un maggior controllo del territorio alle scarse truppe italiane rimaste oltremare. Uno studio redatto nel marzo del 1916 faceva notare che l’impiego di truppe di colore sarebbe stato redditizio poiché avrebbe creato una sorpresa nel nemico; la sicurezza delle colonie non ne avrebbe risentito poiché la presenza di truppe nazionali era comunque sufficiente a garantirla; considerata la disponibilità di uomini, si sarebbe potuta creare almeno una divisione di ascari composta da tre brigate (2 eritree e 1 libica) più un gruppo d’artiglieria composto da 4 batterie da montagna (3 eritree e 1 libica). Alcuni reparti libici vennero portati in Sicilia per l’addestramento e quelli eritrei vennero dislocati in Libia in attesa di essere spostati al fronte; a maggio del 1916 dopo un’ispezione delle truppe in Sicilia, il comando supremo pensò che le truppe coloniali avrebbero potuto essere impiegate solo in caso di sfondamento del fronte austriaco, riuscendo in quel modo a sfruttare la loro velocità ed aggressività per scompaginare le retrovie nemiche. Ma l’atteggiamento dei vertici militari, contrari all’utilizzo di truppe di colore (escluso Cadorna) e la momentanea conclusione vittoriosa delle operazioni in trentino, oltre al cambio degli uomini di governo, impose un riesame di tutta la questione. Sta di fatto che da quel momento in avanti non si parlò più, per tutta la durata della guerra, di impiegare truppe coloniali sul fronte italiano.324

322 Zupelli, Vittorio Italico. – Generale (Capodistria 1859 – Roma 1945). Ebbe non pochi incarichi relativi allo studio delle difese austro-ungariche lungo il confine con l’Italia come pure dell’organizzazione dell’esercito imperiale. Nel 1907 fu nominato colonnello e nel 1909 divenne segretario del capo di Stato Maggiore dell’Esercito. Nel 1910 comandava il 22º reggimento di fanteria Pisa, successivamente prese parte alla guerra di Libia e collaborò con il capitano Pietro Badoglio. Nel 1912 fu coinvolto in una missione segreta a Berlino per sondare in quale modo l’Italia, legata alla Triplice Alleanza, avrebbe dovuto contribuire militarmente in caso di un conflitto. In seguito ebbe l’incarico di capo di Stato Maggiore del corpo d’armata di Napoli, passò al comando della brigata Sassari e infine, con il grado di maggiore generale, fu alle dipendenze del duca d’Aosta come capo di Stato Maggiore della IV armata. Nel 1914 il generale Cadorna lo convocò a Roma e fu proposto sottocapo di Stato Maggiore dell’Esercito. Per iniziativa di Antonio Salandra, presidente del Consiglio dei ministri, fu nominato ministro della Guerra; l’11 ottobre 1914 Zupelli prestò il suo giuramento alla presenza di Vittorio Emanuele III. S’impegnò notevolmente dedicando l’attenzione al problema delle scorte di munizioni e viveri, dell’industria bellica e nel gennaio del 1915 mise in moto la mobilitazione generale. Con l’entrata in guerra dell’Italia, ben presto emersero i contrasti con Cadorna, relativi sia alla strategia adottata sul fronte sia all’organizzazione delle retrovie. Quando la situazione divenne insostenibile decise di presentare le dimissioni, che dovette ritirare dopo l’intervento del sovrano, ma le ripresentò alla caduta del Governo Salandra (giugno 1916) e in quell’occasione furono accolte. Fu ministro della Guerra anche nell’ultimo anno del conflitto, carica che ricoperse per meno di un anno (20 marzo 1918-17 gennaio 1919).

323 Cadorna, Luigi. - Maresciallo d'Italia (Pallanza 1850 – Bordighera 1928). Nominato capo di stato maggiore nel luglio 1914, impose all'esercito una dura disciplina militare e fu destituito dopo la disfatta di Caporetto (nov. 1917). Senatore dal 1913, dopo la guerra fu collocato a riposo e nominato maresciallo d'Italia (1924). Nel luglio 1914 fu chiamato a sostituire il gen. A. Pollio come capo di stato maggiore, durante i dieci mesi di neutralità si adoperò a restituire all'esercito l'efficienza necessaria per partecipare, occorrendo, alla guerra. Entrata l'Italia in guerra (1915), C., perseguendo una tattica di logoramento dell'avversario, si pose in difensiva dallo Stelvio al medio-alto Isonzo e passò all'offensiva nella regione isontina. I principali successi ottenuti sotto il suo comando (caratterizzato peraltro da durissima disciplina e da scarsa considerazione delle esigenze umane del soldato) furono: l'arresto dell'offensiva austriaca nel Trentino (primavera 1916), la conquista di Gorizia, dovuta a un'improvvisa azione ad oriente, e la vittoria alla Bansizza (estate 1917). L'offensiva di Caporetto (ott. 1917) costrinse C. a ordinare il ripiegamento dello schieramento orientale dell'esercito dietro il Piave. Lasciato il comando l'8 nov. 1917 in seguito a questi avvenimenti e sostituito dal gen. A. Diaz, fu nominato membro del Consiglio superiore di guerra interalleato di Versailles, ma nel febbr. 1918 fu richiamato in Italia, a disposizione della commissione d'inchiesta sui fatti di Caporetto, e nel 1919 collocato a riposo. Senatore del Regno dal 1913, nel 1924 fu nominato maresciallo d'Italia.

324 N. Della Volpe, Truppe coloniali e prima guerra mondiale: studio di un mancato impiego, Fonti e problemi della politica coloniale italiana, Atti del convegno Taormina-Messina,23-29 ottobre 1989, Vol. II, Minist. per i beni cult. e amb., Roma, 1996, Pag. 1168-1177.

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