60 minute read
1.3. La Somalia e l’A.F.I.S. Pag
5.3. La Somalia e l’A.F.I.S.
Se in Eritrea dal punto di vista politico, anche a causa delle rivendicazioni etiopi, l’Italia non si era trovata a scontrarsi più di tanto neppure con i partiti apertamente indipendentisti, in Somalia la situazione si presentò ben diversa. Quando nel 1941 arrivarono gli inglesi, vi furono dei notevoli cambiamenti sia nel campo economico che sociale; venne riconosciuto il diritto di associazione, vennero assunti somali nei ruoli della British Military Administration e nella gendarmeria, oltre ad una maggiore libertà di stampa. Nel 1946 – 1947 venne inoltre abbozzata una riforma del sistema educativo il quale, insieme agli altri cambiamenti, portò ad una maggiore coscienza di nazione e fu senza dubbio l’atto che più rafforzò il nazionalismo somalo. Durante il periodo coloniale era concesso agli indigeni frequentare solo i primi tre anni di scuola elementare (dal 1926 venne introdotto un quarto anno), seguiti eventualmente da un biennio di educazione tecnica, mentre nel dopoguerra vennero create 19 nuove scuole elementari e fu inaugurata a Mogadiscio la prima scuola media aperta ai somali, oltre al Teachers’ Training College per la preparazione dei maestri. Nel 1943 venne fondato il Somali Youth Club469, destinato a diventare il maggior partito politico della Somalia ed a reggere le sorti del paese dall’indipendenza fino al colpo di Stato di Mohamed Siyad Barre470 (1960 – 1969); di spirito socialista, pur all’interno dell’islam che anzi il movimento sfruttò come collante per la realizzazione dell’unità nazionale. Anzi la fede religiosa fu il vero collante per il nazionalismo somalo (la comunità dei credenti, la umma). Il gruppo di persone che fondò la Lega era formato da commercianti, artigiani, impiegati e funzionari specialmente della gendarmeria, quindi una leadership né troppo sofisticata né troppo istruita. Prese il nome di Somali Youth League il 1° aprile 1947 innalzando l’età massima degli iscritti da 32 a 60 anni e dotando il movimento di una struttura istituzionale complessa: l’Assemblea generale si riuniva una volta all’anno per deliberare sull’indirizzo politico organizzativo del partito e per eleggere i tredici componenti del Comitato centrale, il quale era il vero centro decisionale del partito e che a sua volta eleggeva il presidente, il vice presidente, il segretario generale, ecc. La lega aprì un gran numero di sezioni in tutta l’ex Somalia italiana ed in tutti i territori somalofoni del Corno d’Africa ed addirittura una a Manchester evidenziando la vicinanza al governo inglese. Le rivendicazioni della Lega non si limitavano ai territori dell’ex Somalia italiana ma anche a tutte le altre zone somalofone del Corno come la Somalia francese, il Somaliland britannico, l’Ogaden etiopico e la parte più meridionale del paese che era stato inglobato dal Kenya all’interno del Northern Frontier District. Considerando che un vero e proprio stato somalo non era mai esistito, paradossalmente la partizione coloniale aveva si diviso ma anche unito i somali alla ricerca di
Advertisement
469 Lega dei giovani somali (LGS).
470 Siyad Barre, Mohammed. - Politico somalo (Luq Gahane 1919-Lagos 1995). Sotto l’occupazione inglese entrò nella polizia (1941). Viceispettore durante l’amministrazione fiduciaria italiana della Somalia, compì un periodo di addestramento in Italia. Generale nel 1965, prese il potere nel 1969 instaurando un regime socialista scientifico. Introdusse i caratteri latini per la scrittura del somalo (1972), ma aderì alla Lega araba (1974). Sconfitto nella guerra con l’Etiopia (1977-78) e perso l’appoggio sovietico, represse nel sangue il tentato golpe del 1978, ricorrendo sempre più alla mobilitazione clanica per la gestione del potere e dello Stato. Abbandonò il Paese (1991) ormai in preda alla guerra civile, rifugiandosi in Nigeria.
una nazione. La Lega era nata da somali ma godette fin da subito dell’appoggio britannico in quanto progressista, cooperante con la AMB ed anti-italiana; per gli inglesi la Lega era un ottimo referente locale e rispondeva perfettamente ai piani del governo britannico in relazione al processo di riforma del sistema imperiale che il governo laburista a Londra considerava vitale per proteggere gli interessi britannici a livello globale e nella lotta al comunismo. La contropartita per la Lega era il cosiddetto Bevin’s Plan che, come abbiamo più volte ricordato precedentemente, prevedeva la formazione di una Grande Somalia, sotto tutela inglese, comprendente il Somaliland, ex Somalia italiana, l’Ogaden, l’Haud e la parte somale del Kenya, in base ad un principio di omogeneità etnico-linguistica oltre ad un interscambio economico e culturale che rimandava ad una comune identità nazionale. Certo è che la Lega non fu mai completamente appiattita ai voleri britannici poiché i giovani somali vedevano nella fine del colonialismo la liberazione da tutte le ingerenze ed influenze esterne mentre gli inglesi parlavano di liberazione dal fascismo, malcelando l’intenzione di sostituirsi all’Italia come potenza di riferimento nel Corno d’Africa.471
Naturalmente la liberalizzazione politica intrapresa dagli inglesi permise anche la nascita di altri partiti, vicini alle posizioni italiane che entrarono in competizione con la Lega, il maggiore dei quali fu l’Unione patriottica di beneficenza, formatasi nel 1944 a Mogadiscio, e dopo di questo, in ordine di importanza il partito Hizbia digil mirifle somali (Hdms) formatosi nel 1947 che difendeva i diritti della comunita dei rahanweyn472 vale a dire a quelle genti che tradizionalmente sono considerate d'inferiore condizione etnica dai Somali del nord, Darod e Hawiye, formanti il nerbo della Lega dei Giovani Somali. Sul finire del 1947, tutti i partiti legati all’Italia confluirono nella Conferenza di Somalia (o dei partiti verdi) che si opponeva al programma dei giovani somali quanto a modernità e unitarietà e si rifaceva ai valori della tradizione e dei clan e che erano favorevoli ad un ritorno dell’Italia per liquidare le pendenze, una volta ottenuta l’Amministrazione fiduciaria, verso i suoi ex dipendenti somali e rimborsare il paese dei danni subiti dalla guerra.
All’inizio del 1948 era prevista a Mogadiscio la visita della Commissione quadripartita d’inchiesta incaricata di studiare la situazione nelle ex colonie italiane. L’arrivo della Commissione rappresentò per le tre forze contendenti (indipendentisti, filo-italiani ed amministrazione britannica) un momento di vitale importanza: la Lega e gli indipendentisti oltre a voler dimostrare come l’Italia non fosse la scelta più idonea per una amministrazione fiduciaria, aveva assorbito buone dosi della propaganda britannica in riferimento alla costituzione di una grande Somalia (Londra aveva ormai ufficialmente abbandonato l’idea anche se si continuava a discuterne nelle corrispondenze interne) ed era solleticata dall’idea di essere il partito dominante tra tutti i somali; i partiti filo-italiani ricevettero diversi aiuti da parte di agenti del ministero dell’Africa italiana sotto forma di denaro ma anche di regalie, trattamenti di favore e promesse elettorali (questo approccio alla politica fatto di favoritismi e
471 A. Morone, L’ultima Colonia – Come l’Italia è tornata in Africa 1950-1960, Laterza, Bari, 2011, Pag. 10-20.
472 Il Rahanweyn è un clan somalo composto da due maggiori sotto-clan, i Digil ed i Mirifle. E’ uno dei più grandi clan Somali del Corno d’Africa. I Digil siano prettamente contadini e vivono sulle coste mentre i Mirifle sono principalmente pastori nomadi. Linguisticamente parlando i Somali si dividono in due grandi famiglie: quelle che parlano il Mai Terreh e quelle che parlano il Maxaa Tiri. Del primo gruppo fanno parte i Rahanweyn, mentre tra quelli parlanti il Maxaa Tiri troviamo i Darod e gli Hawiye.
privilegi sarebbe rimasto tipico della Somalia sia con l’amministrazione fiduciaria che una volta divenuta indipendente) in modo da mobilitare il maggior numero di persone possibile per le manifestazioni a favore del ritorno dell’amministrazione italiana; l’amministrazione militare britannica voleva utilizzare invece l’arrivo della Commissione come test per per mostrare l’efficacia e la reputazione dell’AMB.473
Non era certo un mistero che l’AMB avesse un occhio di riguardo verso la LGS, diversi elementi della lega facevano parte della polizia dell’AMB, ma ci fu un episodio che creò parecchio malumore tra le fila dei sostenitori dell’Italia e non solo: come interpreti aggregati alla Commissione erano giunti da Aden due avvocati di origine somala ma da anni al servizio degli inglesi Michael Mariano e Louis Salole, aperti sostenitori della LGS. Questa evidente prova di scarsa imparzialità aveva inoltre contribuito ad inasprire le tensioni che derivavano dalla politica discriminatoria del regime italiano, che perdurarono anche nei primi anni del dopoguerra e che l’AMB si guardò bene dal modificare. Le interferenze dell’AMB si mostrarono invece ben evidenti nella scelta dei personaggi che avrebbero dovuto incontrare la Commissione, andando così ad inficiare la spontaneità dei nativi al contrario di quello che la Commissione avrebbe voluto. Inoltre i frequenti legami personali tra i delegati delle quattro potenze e gli appartenenti all’AMB non garantivano di certo una serena ed imparziale discussione anche se l’atto che più portò il malumore tra le fila degli attivisti filo-italiani fu l’arresto di alcuni importanti elementi del movimento, accusati di aver fomentato nell’ottobre del 1947 alcune violenze nei confronti della comunità arabo yemenita di Mogadiscio che avevano causato una ventina di morti e gravi danni alle proprietà, nonostante questi atti fossero stati fin da subito ricondotti ad elementi estremisti della LGS.474
Nei giorni tra il 6 e l’8 di gennaio 1948 vennero organizzate diverse manifestazioni da parte dei movimenti filo-italiani le quali si svolsero, tutto sommato, in maniera pacifica se escludiamo fischi, insulti e sberleffi rivolti alle autorità dell’AMB. Il giorno 10 vi fu un tentativo da parte della Lega di evitare che la manifestazione prevista per il giorno dopo non venisse ostacolata dal fronte filo-italiano ma che, a causa dell’intervento di alcuni agenti del Mai, preoccupati dal fatto che la sola manifestazione leghista il giorno dell’inaugurazione dei lavori della Commissione avrebbe favorevolmente impressionato i membri della stessa portandola a conclusioni contrarie alle aspettative italiane, si rivelò un fallimento. L’eventualità che il giorno seguente potesse vedere lo scontro fisico tra le due fazioni era nell’aria, tanto è vero che la comunità araba, già segnata dalle precedenti violenze, ed anche diversi italiani si ritirarono in un quartiere fuori città per evitare di esserne coivolti. La mattina dell’11 gennaio il vice capo delle forze di polizia dell’AMB tentò il tutto per tutto per evitare che le due manifestazioni si svolgessero simultaneamente convocando i rappresentanti della Conferenza ed anche tre rappresentanti italiani ma non venne raggiunto nessun accordo. Anzi, le rassicurazioni fornite dagli italiani sul fatto che avrebbero convinto la Conferenza a manifestare dopo la LGS senza creare problemi di ordine pubblico, dimostrarono quanto poco inglesi e italiani conoscessero la mentalià somala e di come sopravvalutassero la loro influenza nel paese.475
473 A. Urbano, A. Varsori, Mogadiscio 1948, Il Mulino, Bologna, 2019, Pag. 87-88. 474 Ibidem, Pag. 89-92. 475 Ibidem, Pag. 100-104.
La ricostruzione di quella tragica giornata può essere fatta approssimativamente sulla base delle diverse versioni: la manifestazione della Lega fu incrociata da una manifestazione pro Italia non autorizzata, anzi sconsigliata dalle autorità, e non è chiaro quanti fossero i dimostranti né chi fossero né quali fossero i loro propositi. Di certo ci fu un assalto alla sede della Lega ed uno scontro fisico tra le due opposte fazioni. La reazione dei dimostranti della Lega fu immediata (qualcuno sostenne che non fu l’incidente a scatenare la reazione ma che sarebbe avvenuta comunque) e la loro furia si rivolse contro gli italiani colpendoli singolarmente od attaccando le loro case. Le forze dell’ordine furono praticamente assenti ed anzi tra gli aggressori ci furono anche molti membri della gendarmeria. Alla fine della giornata si contarono tra le vittime italiane 52 morti e 48 feriti, tra i somali 14 morti e 43 feriti e tra le forze dell’ordine solo due feriti leggeri. Restano margini di dubbio su alcuni punti:
1. Chi organizzò effettivamente le due manifestazioni contrapposte e con quali intenzioni; 2. Quale fu la parte della comunità italiana; 3. Quale fu l’atteggiamento degli ufficiali inglesi prima e durante gli incidenti.
La stampa inglese tardò a dare notizia degli incidenti in un misto di censura, di silenzio e di imbarazzo, il “Times” dopo aver riferito di seri incidenti coinvolgenti italiani e somali il giorno 12, tornò sull’argomento solo il giorno 28 attribuendo gli scontri alle preesistenti tensioni tra i due gruppi e che erano in quei giorni arrivati a Mogadiscio alcuni elementi pro italiani ai quali il quotidiano addebitò la scintilla del disastro. In Italia la notizia della strage arrivò via Kenya, trasmessa dal console Della Chiesa anche se c’era molta confusione dato che le comunicazioni con Mogadiscio erano molto difficili; le cifre arrivarono inferiori al vero e gli inglesi sostennero che i tumulti erano stati istigati ma il console respinse le accuse. Il giorno 15 il Sottosegretario Brusasca inviò un messaggio a italiani e somali parlando di “uan prova più dura” e di “ignobili provocazioni”. I rapporti tra Italia e Gran Bretagna diventarono un po’ più tesi anche se gli inglesi declinarono ogni responsabilità sui fatti accaduti. Il 19 gennaio gli inglesi istituirono una Commissione d’inchiesta per fare luce sugli incidenti ma il rapporto conclusivo non fu mai pubblicato (definito “privileged document” per riservarsi una decisione sulla sua utilizzazione) e le copie o i brani che se ne trovano tra i documenti inglesi ed italiani non sono abbastanza ampi da permetterci di riuscire ad ottenere una verità per lo meno un po’ più attendibile. L’unica cosa che si può dire del rapporto, leggendo alcuni memorandum del Foreign Office, è che non fosse lusinghiero per nessuno e cioè che se da parte italiana ci furono le provocazioni e l’inosservanza agli avvertimenti, da parte inglese ci furono le deficienze del dispositivo di sicurezza. Ufficialmente il rapporto non venne mai pubblicato perché non avrebbe migliorato i rapporti tra Regno Unito e Italia anche se la tendenza del War Office fu quella di coprire l’AMB ed il Foreign Office era molto preoccupato di uno scandalo politico dato che la Commissione avrebbe ricavato conclusioni non certo benevole. L’azione dell’Italia in sede diplomatica puntò in quattro direzioni: sostituzione dei funzionari politici e della polizia indipendentemente dal loro comportamento, sostituzione dei tre funzionari italiani già rimpatriati, nomina di un rappresentante italiano a Mogadiscio e indennizzo delle vittime.476
476 G.P. Calchi Novati, Fra Mediterraneo e Mar Rosso. Momenti di politica italiana in Africa attraverso il colonialismo, Istituto italo-africano, Roma, 1992, Pag. 133-155.
Il 21 novembre 1949, con la Risoluzione 289 (IV), all’Italia viene affidata ufficialmente l’Amministrazione fiduciaria del paese. Ma che cos’era l’Amministrazione fiduciaria ed era mai stata utilizzata prima? Una prima risposta è si, era già stata utilizzata in precedenza seppur con un nome diverso, quello di Mandato internazionale. Il regime dei mandati era stato deliberato dal Consiglio delle principali potenze alleate (che avevano vinto la prima guerra mondiale) già il 30 gennaio 1919 e poco dopo sarebbe diventato, dopo lievissime modifiche, l’articolo 22 del Patto della Società delle Nazioni. Il nuovo regime subiva però ancora diversi caratteri tipici delle amministrazioni coloniali e principalmente vedeva ancora l’obiettivo di rendere indipendenti i paesi amministrati attaverso una “sacra missione di civiltà”.477 Oltretutto, nonostante il tentativo della Società delle Nazioni di rendere queste amministrazioni internazionali attive anche per le colonie delle potenze vittoriose il progetto si infranse contro l’opposizione principalmente di Francia e Gran Bretagna, le quali sostennero che i nuovi principi dovessero applicarsi solo ai territori degli stati vinti, e l’amministrazione dei territori finì con l’essere affidata a singoli stati tenuti ad esercitare i poteri di governo in nome della Società delle Nazioni. L’unico obbligo per il paese mandatario era quello di inviare annualmente alla Società una relazione relativa all’adempimento del mandato.478 In seguito alla seconda guerra mondiale, la nascita delle Nazioni Unite e la messa in discussione del sistema coloniale, portarono all’evoluzione di questo principio nazionale verso una nuova idea di responsabilità internazionale verso i popoli che aspiravano all’indipendenza che si concretizzò nel Trusteeship delle Nazioni Unite, come istituzione della società internazionale. Anche l’amministrazione fiduciaria prevedeva l’amministrazione di territori in nome delle Nazioni Unite realizzando vantaggi per le popolazioni locali e per la comunità internazionale e non per la nazione amministrante. L’art. 76 della Carta delle Nazioni Unite prevedeva infatti che gli obiettivi principali delle amministrazioni fiduciarie fossero:
a) Rinsaldare la pace e la sicurezza nazionale; b) Promuovere il progresso politico, economico, sociale ed educativo degli abitanti dei territori in amministrazione fiduciaria ed il loro progressivo avviamento alla autonomia o all’indipendenza, tenendo conto delle particolari condizioni di ciascun territorio e delle sue popolazioni, delle aspirazioni liberamente manifestate dalle popolazioni interessate, e delle disposizioni che potranno essere previste da ciascuna convenzione di amministrazione fiduciaria; c) Incoraggiare il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione, ed incoraggiare il riconoscimento della interdipendenza dei popoli nel mondo; d) Assicurare parità di trattamento in materia sociale, economica e commerciale a tutti i membri delle Nazioni Unite, ed ai loro cittadini e così pure uguaglianza di trattamento
477 A questo proposito citiamo il 1° comma dell’art. 22 del Patto della Società delle Nazioni: “ I seguenti principi si applicano alle colonie ed ai territori che in seguito alla guerra hanno cessato di trovarsi sotto la sovranità degli Stati che prima li governavano e che sono abitati da popoli non ancora in grado di reggersi da sé nelle condizioni particolarmente difficili del mondo moderno. Il benessere e lo sviluppo di questi popoli costituiscono una missione sacra di civiltà e conviene incorporare nel presente Patto delle garanzie perl’adempimento di tale missione”. (Ambrosini, 1953).
a questi ultimi nell’amministrazione della giustizia, senza pregiudizio per il conseguimento dei sopra indicati obiettivi, e subordinatamente alle disposizioni dell’ articolo 80.479
L’ONU fu quindi incaricato di vigilare sull’applicazione del Trusteeship che fu inteso quindi in un rapporto organico e funzionale con gli obiettivi di pace e sicurezza della Carta di San Francisco480. Nella formulazione del Trusteeship prevalsero le linee di continuità con i mandati internazionali anche se il Trusteeship Council ebbe un ruolo più propriamente politico rispetto a quello che aveva la precedente Commissione della Società delle Nazioni, attraverso le missioni di visita che l’organo poteva effettuare nei paesi sotto tutela e le petizioni che le popolazioni locali potevano rivolgergli. La teoria del Trusteeship si poneva quindi la questione in termini nuovi attraverso l’esperimento di un’amministrazione che non si riducesse al dominio di una potenza straniera europea su altri popoli, ma che si proponesse obiettivi di sviluppo, sotto la responsabilità delle Nazioni Unite, nell’interesse dell’ordine internazionale e del popolo amministrato con il fine di prepararlo al conseguimento della piena maturità politica, sociale ed economica entro un certo periodo di tempo. Naturalmente vi erano dei limiti sia teorici che pratici allo sviluppo di questi organismi: dal punto di vista teorico il limite più grande era quello che il Trusteeship non prevedeva per forza l’indipendenza ma parlava, più ambiguamente di self-government or independence. Inoltre l’idea di tutela esprime immediatamente un concetto che si basa sulla presunta incapacità od immaturità del soggetto e quindi rappresentava pur sempre una perdita di libertà pur nella prospettiva di un progresso futuro. Dal punto di vista pratico, scontava il fatto di essere un istituto che rispondeva ad un’esigenza ancora prevalentemente imperiale, nel senso di colmare un vuoto di potere che si era creato in seguito alla sconfitta in guerra di ex potenze coloniali. Naturalmente doveva essere scartata a priori l’ipotesi di un’indipendenza degli ex possedimenti nemici poiché avrebbe potuto alimentare rivendicazioni autonomiste anche da parte di altri paesi colonizzati, quindi restava semplicemente un’alternativa: o l’annessione da parte del vincitore del conflitto o l’internazionalizzazione. Nel 1941, con la Carta atlantica, era stato previsto il principio di autodeterminazione dei popoli (di Wilsoniana memoria) ma Churchill escluse immediatamente che tale diritto potesse essere esteso ai territori dell’impero britannico, limitandone la sua applicazione ai territori soggetti al giogo nazista. La Carta delle Nazioni Unite accolse, in via di principio, un diritto di autodeterminazione per tutti i popoli del pianeta, ma di fatto procrastinò e subordinò l’indipendenza al raggiungimento di obiettivi politici, economici e sociali intermedi sotto la guida dell’autorità amministrativa.
L’amministrazione fiduciaria della Somalia era particolare poiché per la prima volta veniva concessa la tutela all’ex potenza coloniale sconfitta, che nel caso dell’Italia non era nemmeno membro dell’ONU, ed era stata concessa principalmente come premio per la scelta
479 G. Ambrosini, Mandati internazionali e amministrazione fiduciaria, Colombo, Roma, 1953,, Pag. 14-15.
480 La Carta di San Francisco è il manifesto delle Nazioni Unite, firmato dai 51 paesi aderenti il 26 giugno 1945 ed entrata in vigore il 24 ottobre 1945. L’Italia sarebbe entrata nelle Nazioni Unite nel 1955 ratificando la Carta il 17 agosto 1957. Trattandosi di un documento di 23 pagine non l’ho riportato tra i documenti allegati ma invito vivamente, chi ne fosse interessato, a leggerlo attentamente. (http://www.altrenotizie.org/pdf/onucarta.pdf)
atlantica. Trattandosi di un mandato sui generis, all’amministrazione italiana vennero applicate alcune clausole speciali come l’obiettivo unico dell’indipendenza, la scadenza decennale (1° aprile 1950 – 30 giugno 1960), un allegato all’accordo di tutela che conteneva una serie di principi costituzionali i quali avrebbero dovuto guidare l’opera della potenza amministratrice e la costituzione di un organo con funzioni consultive, l’United Nations Advisory Council of Somalia, con sede a Mogadiscio, organo che abbiamo già visto in precedenza. I rapporti dell’Amministrazione italiana con l’Advisory council furono sostanzialmente tranquilli anche se quello che l’Italia non accettò mai fino in fondo non furono i nuovi compiti ed il periodo a termine con cui ritornò in Somalia, assolutamente incontrovertibili, ma di essere soggetta ad una forma di controllo continua del suo operato. Il modo in cui l’Amministrazione italiana risolse questo problema fu per una volta vincente: invece di marginalizzare il Consiglio lo coinvolse attivamente nel processo decisionale del Trusteeship, estendendo le sue competenze formali ed agendo sui suoi rappresentanti (e sui loro contrasti) al fine di condizionare sul piano pratico le loro capacità operative e decisionali. In questo modo si ottennero due vantaggi: l’inibizione dell’azione del Consiglio a livello locale e la garanzia del suo parere conforme e favorevole a livello internazionale sulle decisioni prese dall’amministrazione fiduciaria. La strategia italiana, che come abbiamo visto si dimostrò vincente, portò durante i dieci anni di tutela ad ottenere l’appoggio del Consiglio riguardo alle maggiori realizzazioni dell’amministrazione o quantomeno a sottometterle a negoziazioni non particolamente impegnative. Questo non significò una totale assenza di contrasto, specialmente su alcune questioni (l’irrisolta definizione del confine con l’Etiopia, l’accoglimento e la valutazione delle petizioni, la garanzia dell’indipendenza del potere giudiziario, la discussione relativa al piano di trasferimento dei poteri tra l’amministrazione italiana ed il governo somalo nell’imminenza dell’indipendenza e l’assistenza economica alla Somalia indipendente) le posizioni dell’UNACS furono particolarmente critiche.481
La conclusione dell’esperimento Amministrazione fiduciaria (non solo quella italiana) ebbe un esito molto incerto e terminò più per cause legate a fattori esterni che non in forza degli sviluppi propri del sistema. Se è vero che i territori sotto tutela fecero diversi passi verso quell’obiettivo di preparazione all’indipendenza che sottintendeva il Trusteeship, è anche vero che si riappropriarono definitivamente della loro autonomia solo in forza di un processo che vide il progressivo collegamento della particolare vicenda fiduciaria alla più generale questione dei territori non autonomi. Con la Risoluzione 1514 del 14 dicembre 1960, l’Assemblea generale dell’ONU affermava che era necessario porre fine rapidamente ed incondizionatamente al colonialismo (quindi anche alle amministrazioni fiduciarie), definito come contrario allo statuto delle Nazioni Unite e ai diritti umani fondamentali, nonché di pregiudizio alla pace e alla cooperazione mondiale, sulla base del diritto di autodeterminazione dei popoli. Questo per dire in linea generale cosa fosse un’amministrazione fiduciaria ed ora ci occuperemo nel dettaglio di quella italiana in Somalia.
Bisogna affermare subito che la discussione al parlamento italiano riguardo al nuovo
481 A. Morone, L’ONU e l’Amministrazione fiduciaria italiana in Somalia – Dall’idea all’istituzione del Trusteeship, Italia Contemporanea, n. 242 marzo, Franco Angeli, 2006, Pag. 125-130.
impegno in Africa fu estremamente tesa poiché i partiti legati alle sinistre si opposero alla nuova avventura italiana sia eticamente che dal punto vista economico, oltre ad una lunga discussione (di cui non ci occuperemo) riguardo al fatto che il disegno di legge relativo all’impegno italiano fosse stato presentato con la caratteristica di estrema urgenza quando il nostro ordinamento avrebbe previsto un iter diverso. A parte il fatto che alla presentazione del disegno di legge, il relatore Ambrosini482 affermava che l’Italia sarebbe tornata in Africa per continuare a svolgere una missione di civiltà, dimostrando cioè, al contrario di quanto poi asserito, che la mentalità con cui il paese si accingeva al nuovo ruolo non era poi molto diversa da quella coloniale precedente, le tesi che sostenevano il ritiro totale italiano e quindi la non accettazione della proposta di tutela erano svariate. Troviamo, da parte del deputato di minoranza Dugoni una tesi, sostenuta già all’inizio del ’900 da Gaetano Salvemini483, in occasione della guerra di Libia, riguardo allo spreco di risorse (venne richiesto lo stanziamento di sei miliardi per la nuova logistica) che al contrario sarebbero servite molto più urgentemente in patria, obiezione per altro condivisibile; un'altra tesi portata avanti dai banchi delle sinistre fu quella che il nostro intervento in Somalia avrebbe rovinato i rapporti, in fase di riallacciamento, con l’Etiopia e perso diverse possibilità commerciali con quel paese (ricordiamo che il Negus avrebbe voluto annettersi anche la Somalia oltre all’Eritrea); il deputato Pajetta484 tornò sull’antico discorso dell’emigrazione italiana e sulle possibilità lavorative nel paese africano oltre alla scarsissima presenza di italiani in Somalia.485
Quello che c’è da valutare in maniera più approfondita è il modo in cui l’Italia tornò in Africa attraverso cioè quale mentalità e quali persone l’amministrazione italiana si ripresentò agli ex-sudditi coloniali. Dal punto di vista del personale inviato in Somalia dall’inizio
482 Ambrosini, Gaspare. - Giurista (Favara 1886 – Roma 1985). Già magistrato, fu poi prof. di dir. ecclesiastico nell'univ. di Messina (1911), di dir. costituzionale in quella di Palermo (1919), di dir. coloniale (1937) e quindi di dir. costituzionale (1953) nell'univ. di Roma. Autore di numerose opere di diritto pubblico e di politica sociale. Deputato all'Assemblea Costituente per la Democrazia cristiana, fu uno degli artefici della Costituzione repubblicana di cui elaborò lo schema riguardante le regioni, le province e i comuni. Deputato alla Camera dal 1948 al 1953, nel 1955 fu eletto dal Parlamento giudice della Corte Costituzionale, di cui fu presidente dal 1962 al 1967. Tra le sue opere principali, si segnalano: Partiti politici e gruppi parlamentari dopo la proporzionale (1921), che anticipa la riflessione di Leibholz sullo Stato dei partiti, e Lezioni di diritto costituzionale (1955).
483 Salvèmini, Gaetano. - Storico e uomo politico (Molfetta 1873 – Sorrento 1957). Iscritto al PSI, approfondì le sue riflessioni sul nesso tra socialismo e questione meridionale, criticando la tendenza al protezionismo operaio settentrionale. L'attenzione ai problemi del paese lo condusse a polemizzare con il governo di G. Giolitti. Diresse, con A. De Viti De Marco, il settimanale L'Unità (1911-20), tramite il quale esercitò una profonda influenza sul dibattito politico. Interventista nel 1915, fu deputato nel 1919. Nel 1925 fondò il quotidiano clandestino antifascista Non mollare!: arrestato, espatriò in Francia, dove fu tra i fondatori di Giustizia e libertà, e poi negli Stati Uniti. Oppositore del fascismo, arrestato nel 1925 e processato per aver fondato, con altri, il quotidiano clandestino Non mollare!, riuscì ad espatriare nell'agosto dello stesso anno. Rientrato in patria, nel 1948 fu reintegrato nella cattedra di Firenze. Nel 1955 gli fu conferito il premio internazionale Feltrinelli per la storia. Degli scritti, pubblicati in varie lingue durante l'esilio e negli ultimi anni, si ricordano: The fascist dictatorship in Italy (1928); Mussolini diplomate (1932); Under the axe of fascism (1936) e Prelude to world war II (1953), pubblicati anche in italiano, e La politica estera dell'Italia (1871-1914) (1944).
484 Pajetta, Giancarlo. - Uomo politico (Torino 1911 – Roma 1990). Militante comunista dal 1925, fu a lungo in carcere durante il fascismo. Liberato nell'ag. 1943, partecipò alla lotta partigiana in Piemonte, Liguria e Lombardia; nel 1945 divenne rappresentante del CLNAI presso il governo Bonomi. Membro della direzione del PCI, fu deputato alla Costituente e in tutte le legislature repubblicane. Fu dirigente di primo piano del partito, particolarmente impegnato sul versante della politica internazionale (ha diretto la commissione per gli affari internazionali del PCI dal 1970 al 1983). Tra i suoi scritti Le crisi che ho vissuto (1982) e Il ragazzo rosso (1983).
485 A. Morone, La fine del colonialismo italiano fra storia e memoria, Storicamente – Laboratorio di Storia n. 12, Bologna, 2016. Pag. 21.
dell’amministrazione fiduciaria dobbiamo affermare che la continuità con il passato regime fu abbastanza evidente: la scarsissima conoscenza delle questioni africane da parte della nuova classe dirigente repubblicana, obbligò il governo di Roma a rimandare in Somalia funzionari ex coloniali e spesso legati a doppio filo con il fascismo i quali erano gli unici a dare un minimo di garanzia affinché gli obiettivi dell’amministrazione fiduciaria fossero raggiunti. Di questa situazione si lamentarono con le Nazioni Unite i rappresentanti della Lega dei Giovani Somali i quali facevano notare come, tranne per l’amministratore e pochi altri, i funzionari dell’A.F.I.S. appartenessero tutti al Ministero dell’Africa italiana e di come l’assetto dell’amministrazione in Somalia fosse identico a quello del regime fascista.486
Dal punto di vista della mentalità la continuità fu abbastanza evidente: fino agli inizi degli anni ’50 il lessico utilizzato dai governanti italiani, o politici in generale, continuava ad essere quello del periodo coloniale come possiamo vedere da questo stralcio di discorso di G. Ambrosini « L’Italia ritorna in Africa per continuare a svolgere una missione di civiltà che è consona al suo temperamento e alle sue tradizioni e vi torna a titolo diverso da quello precedente». Quel verbo continuare ed il riferimento alle tradizione mostra senza alcun dubbio che il pensiero del deputato democristiano restava legato al periodo coloniale ed alla missione civilizzatrice dell’Italia in Africa. Ambrosini non era certo l’unico a pensarla in quel modo dato che una vera autocritica del colonialismo non venne mai presa in considerazione da nessun partito politico tranne quello comunista, dopo il 1950, critica comunque utilizzata principalmente per motivi di politica nazionale. La buona amministrazione che ritorna in Africa ricomincia a fare capolino nelle discussioni parlamentari e addirittura il solito Ambrosini arrivò ad affermare che la politica scolastica in Somalia fu almeno allo stesso livello delle colonie degli altri paesi, quando era ben noto che gli indigeni non potevano andare oltre la terza elementare (la quarta dal 1926). Il riferirsi sempre al fascismo come periodo negativo nella storia del paese e quindi anche delle colonie faceva sempre dimenticare che vi era stato un colonialismo italiano precedente al regime di Mussolini il quale, nei suoi caratteri essenziali non fu affatto diverso. In questo periodo si assiste quindi ad un tentativo di rimozione più che di autocritica del periodo coloniale italiano, tentativo peraltro ottimamente riuscito visto che solo dalla fine degli anni’90 è cominciato, perlomeno tra gli storici, un dibattito critico sul periodo coloniale dai suoi esordi alla sua fine. Quindi la vera rottura con l’esperienza coloniale avvenne tramite la perdita della memoria storica del periodo e ciò ha causato il fiorire di leggende o presunte tali sui territori africani ex italiani.487
Tornando ora a parlare della situazione politica poco prima della concessione dell’amministrazione fiduciaria, a livello di curiosità ma anche per far capire come spesso le conoscenze reciproche in diplomazia non vadano oltre quelle personali, citiamo un emendamento488 che un delegato filippino presentò durante la discussione relativa all’accordo di tutela per la Somalia il 16 gennaio 1950: il delegato chiedeva all’Italia di non sottomettere alla tortura o ad altre pene disumane e degradanti i carcerati od i sospettati di qualche misfatto. La risposta italiana fu che la situazione di diritto descritta dal delegato filippino
486 Ibidem, Pag.14-21.
487 Atti parlamentari – Dicussioni – Seduta di venerdì 3 febbraio 1950.
rispecchiava una situazione anteriore all’approvazione delle dodici tavole da parte dei decemviri più di 2000 anni fa. Comunque anche i funzionari italiani non sempre erano perfettamente al corrente di quelle che fossero le loro funzioni; a tal proposito ricordiamo un documento489 del 17 luglio 1950 che cita l’Amministratore della Somalia Fornari, forse desideroso di creare un clima pacifico sul territorio, il quale commise un errore molto grave: concesse una totale amnistia per i reati politici compiuti durante e dopo il passaggio dei poteri dall’amministrazione britannica all’A.F.I.S., ma questi poteri spettavano solo al Presidente del Repubblica Italiana su delega del parlamento, al più l’Amministratore poteva concedere dei singoli provvedimenti di grazia. La Corte di Cassazione annullò quindi il provvedimento.
Poco prima della presa di potere ufficiale dell’Amministrazione fiduciaria italiana, un telespresso arrivato da Mogadiscio il 17 marzo 1950 indirizzato al ministero dell’Africa italiana descriveva l’allora situzione politica nel paese:
“La situazione politica locale, nel suo complesso, può essere considerata buona. I modesti incidenti successi a due notabili della S.Y.L. (Hagi Dirie Herzi e Hagi Mussa Beger) hanno già formato oggetto di precedenti comunicazioni, e sono stati ormai ridotti alle loro vere proporzioni. La S.Y.L., pure essendosi subito interessata per evitare il dilagarsi di azioni di violenza, cerca di attribuire agli avvenimenti un carattere politico, allo scopo di potere poi erigersi a pacere ed assumere quindi una posizione di eminenza, al di sopra di ogni contesa e di ogni fazione. Ciò trova conferma anche nel desiderio espresso dalla S.Y.L., che la Conferenza (la quale non risulta abbia avuto alcuna parte negli accennati incidenti) richieda l’intervento della Lega stessa per un arbitrato ed una composizione. Un tale passo è ovviamente sconsigliabile in quanto nessun partito, e tanto meno la S.Y.L., deve assumere una supremazia nella nostra Amministrazione Fiduciaria, e comunque arrogarsi funzioni che appartengono esclusivamente agli organi dell’amministrazione. La conferenza, secondo il nostro consiglio, non ha ancora dato una risposta precisa alla richiesta della S.Y.L. e cerca di differire ogni decisione e di temporeggiare, in attesa del trapasso dei poteri e dello svolgersi della situazione.” […] “La maggioranza dei somali non nasconde il suo atteggiamento di viva e fiduciosa attesa della nostra Amministrazione: dipende da noi non deluderli. Abbiamo promesso molto ed ora è necessario mantenere, per quanto possibile, le nostre promesse. Fra i provvedimenti più attesi, e quindi più urgenti e necessari, sono quelli per l’incremento ed il miglioramento delle colture agricole, il miglioramento e la protezione del patrimonio zootecnico, l’assistenza sanitaria, l’istruzione scolastica e professionale, la compartecipazione dei somali al governo. Se tali provvedimenti avranno una sollecita, se pur graduale, attuazione, potremo contare sulla generale collaborazione dei somali, non dovremo temere incidenti di qualche gravità e si potranno in conseguenza ridurre notevolmente le attuali ingenti spese militari.
489 ACS AS 001-0000707, b. 2093, f. PIII – 116/13.
Si può oggi valutare che almeno il 95% dei somali è a noi favorevole; ma è nota la mobilità di sentimenti dei nativi e la loro ricettività a voci tendenziose e propagandistiche abilmente diffuse e basate su fatti o su carenza di azione. Se, pertanto, si adotteranno al più presto i necessari provvedimenti, soprattutto nei campi sopraccennati, nulla dobbiamo temere; se, invece nulla verrà fatto e non ci dimostreremo coerenti e pronti nell’azione, è non solo possibile ma anche probabile qualche reazione, e comunque lo slittamento verso altre correnti di idee di larghi strati di popolazione ora a noi favorevole.” […] “Per quanto riguarda l’attività di partiti estremisti, essa è finora praticamente inesistente. Tuttavia si cercherà di meglio chiarire gli scopi di alcuni informatori etiopici, nel senso che oltre dirò. Per quanto riguarda i nazionali si rappresenta l’opportunità che, prima di concedere dei lasciapassare per la Somalia, vengano assunte accurate informazioni, per evitare che giungano qui elementi comunisti, come è di recente avvenuto per Urati e Di Nunzio, i cui lasciapassare erano regolarmente rilasciati da codesto Ministero. E’ evidente che, una volta arrivati in Somalia, la segnalazione della presenza di costoro non può eliminare gli inconvenienti che essa comporta.”490
Il telespresso prosegue con dei consigli dal punto di vista economico:
“Lungi dalla mia mentalità di star sempre “sul chi vive” ma l’atteggiamento dei britannici è, secondo me, quello che più va osservato e meditato. Attraverso la fraternizzazione più assoluta e spinta, prendono forma alcune linee di un piano preordinato. La possibilità di mantenere intanto con ogni mezzo un’influenza soprattutto economica nel paese è certo uno dei loro principali obiettivi. Essi contano per questo sulla naturale gravitazione dei traffici verso il Kenya, verso Aden e l’India e l’area della sterlina in genere. Sanno che queste correnti tradizionali sono altresì i più convenienti, e che i prezzi delle nostre industrie e dei nostri prodotti i più alti. Fanno comunque di tutto per lasciare operatori affermati ed abili o per mimetizzarli o lasciare gestioni di stralcio con scorte imponenti ed agenti italiani. Hanno al riguardo saturato tutti i contingenti export-import con i loro permessi, che avranno quindi, per gli accordi di Londra, validità fino a sei mesi al minimo.”
La situazione nel paese veniva quindi dipinta, se non completamente favorevole, almeno come non ostile, a parte il discorso Lega: l’importante sarebbe stato agire prontamente in modo da non deprimere gli indigeni, i quali, nonostante tutto, nutrivano ancora sentimenti positivi nei confronti degli italiani. Una delle prime creazioni dell’AFIS furono i consigli di residenza, che descriviamo qui nel dettaglio citando una relazione dell’epoca:
“I Consigli di Residenza, creati con circolare n. 22809 del 27 luglio 1950, oltre ad essere il primo istituto democratico del Territorio in ordine di tempo, costituiscono la base per la formazione e lo sviluppo degli altri istituti democratici che sono sorti e vanno sorgendo
ad iniziativa dell’Amministrazione nel quadro delle direttive indicate dalla Convenzione Fiduciaria per il progresso politico dei somali.
Infatti le loro assemblee, benché soltanto consultive e non deliberanti, non limitano la propria attività all’esame dei vari problemi concernenti le rispettive circoscrizioni territoriali, ma sono state dall’Amministrazione investite anche del potere di designazione dei membri tribali del Consiglio Territoriale, organo consultivo superiore entrato in funzione il 29 gennaio u.s., e delle Consulte Municipali, che entreranno in funzione col 1° luglio p.v..
A tali compiti i Consigli di Residenza (in totale 27) sono qualificati dalla loro stessa composizione, che ne fa dei veri e propri organi rappresentativi delle popolazioni locali. Tutti i Capi e i Notabili stipendiati della Residenza, i Capi Paese e i Capi Mercato anche se non stipendiati, i Segretari di sezione dei Partiti Politici, fanno parte di diritto del Consiglio di Residenza; inoltre il Commissario, su proposta del Residente, nomina quali membri del Consiglio le Notabilità eminenti della circoscrizione. Se si considera che i Capi stipendiati, che costituiscono il nucleo essenziale del Consiglio di Residenza, traggono la loro autorità direttamente dalla tribù di cui l’Amministrazione si limita a sanzionare col proprio atto di nomina la libera scelta avvenuta nei tradizionali “Scir”, si deve concludere che i Consigli di Residenza, pur non essendo ancora dal punto di vista formale degli organismi elettivi in senso democratico moderno, sono tuttavia organismi sostanzialmente popolari e rappresentativi. E come tali hanno effettivamente funzionato in questo loro primo anno di vita, perché i problemi più disparati, da quelli delle abbeverate e delle interpretazioni del “Testur” a quelli dei mercati, a quelli assistenziali e commerciali e agricoli, sono stati dibattuti in un clima di perfetta libertà democratica. Certo, in molte zone dell’interno rimane ancora da fare i conti con la naturale diffidenza del nomade o seminomade verso tutto quello che sa di nuovo e con la congenita apatia delle masse e la loro proverbiale ignoranza. Ma va messo in rilievo come in questi ultimi mesi sia andato diventando sempre meno frequente il caso di riunioni concluse con una rinuncia da parte dei Consiglieri a trattare gli argomenti all’ordine del giorno: i Capi vanno realizzando che, per quanto illuminata possa essere l’Amministrazione, i pareri sui singoli problemi debbono essere da loro espressi, e debbono essere espressi non in separata sede ma nell’unica sede idonea ad un proficuo dibattito generale: il Consiglio di Residenza.
Di ogni riunione dei Consigli di Residenza (in media ne sono state tenute tre in questo primo anno) viene redatto regolare verbale. Se gli argomenti trattati rivestono carattere di particolare importanza, detti verbali vengono trasmessi alla Segreteria del Consiglio Territoriale, che ne espone poi il contenuto nel suo Bollettino Mensile. Così gli aspetti essenziali dei problemi delle singole circoscrizioni, la sostanza e la modalità dei dibattiti divengono di dominio pubblico nel Territorio, il che assicura il più efficace esplicarsi di quella funzione di educazione politica che è tra le speranze fondamentali riposte dall’Amministrazione in questi organismi autonomi di governo.”491
491 ASCM Fondo Brusasca, b. 52, f. 12.
L’opera dell’A.F.I.S., che non tratteremo a fondo in questo studio poiché si andrebbe un po’ fuori tema, è stata commentata in Italia, in modi diametralmente opposti, da politici e storici. Angelo del Boca492 definì l’A.F.I.S. «un mediocre esame di riparazione ai mali della politica italiana nei confronti dei paesi del Corno d’Africa», secondo Umberto Triulzi mancò gravemente un’indipendenza economica del paese oltre a quella politica, per Luigi Gasbarri, al contrario, il periodo dell’Amministrazione fiduciaria è da ricordare. Gasbarri ricorda che oltre alle continue manifestazioni di stima e riconoscimenti da parte delle Nazioni Unite ad ogni rapporto annuale che il Consiglio Consultivo stilava per il Consiglio di Tutela. Nell’ultimo rapporto che il Consiglio inviò (gennaio – aprile 1960) all’ONU si leggeva sinteticamente quanto segue:
“L’AFIS, il Governo ed il popolo somalo si sono bene adoperati per gettare le basi politiche di un stato indipendente e per preparare il definitivo trasferimento di sovranità.
E lo hanno fatto in un periodo di tempo relativamente breve e con uno spirito di mutua comprensione e collaborazione.
Il Consiglio Consultivo ci tiene a felicitarsi con l’AFIS e il Governo somalo esprimendo le speranze che un altro problema, quello dei confini con l’Etiopia, possa ugualmente essere risolto con la soddisfazione dei due paesi africani.
Sotto il regime di tutela il territorio ha fatto progressi considerevoli anche in campo economico per cui potrà affrontare la maggior parte dei suoi bisogni essenziali con le proprie risorse.
Per quanto attiene al progresso sociale e culturale il Consiglio Consultivo non esita a prendere nota con soddisfazione che tanto è stato realizzato con tanto poco tempo nei riguardi di un gran numero di persone.
Per il resto numerosi progressi sono stati realizzati con scuole pubbliche soddisfacenti comprendenti l’insegnamento primario, secondario, tecnico professionale e superiore; il tasso di anlfabetismo è stato assai ridotto; il diritto di voto è stato riconosciuto ad uomini e donne; la donna (una volta riconosciuta soltanto come produttrice di figli e destinata a lavori umili) è stata inserita attivamente nella vita professionale, sociale e politica della comunità; le malattie endemiche della malaria e della tubercolosi sono state combattute con successo; i servizi medici ed ospedalieri sono stati assai migliorati; i lavoratori sono protetti da un Codice del Lavoro”493
492 Del Boca, Angelo. – Storico, giornalista e scrittore (Novara, 1925). Considerato il maggiore storico del colonialismo italiano. È stato il primo studioso italiano ad occuparsi della ricostruzione critica e sistematica della storia politico-militare dell'espansione italiana in Africa orientale e in Libia, e primo fra gli storici a denunciare i numerosi crimini di guerra compiuti dalle truppe italiane durante le guerre coloniali fasciste. Vive a Torino e dirige la rivista di storia contemporanea I sentieri della ricerca.
493 L. Gasbarri, L’AFIS (Amministrazione Fiduciaria Italiana della Somalia – 1950-1960): una pagina di storia italiana da ricordare, Africa, 41/1, Roma, 1986, Pag. 80-81.
Dal punto di vista politico l’Amministrazione fiduciaria italiana fu dunque considerata un successo, ma naturalmente non era tutto oro quello che luccicava e diversi problemi non erano stati risolti, anche a causa della brevità del mandato; vi erano problemi più tecnici, come la somalizzazione delle istituzioni che andava a rilento a causa di una carenza di personale adeguatamente preparato ed al forse troppo utilizzo di personale del Ministero dell’Africa Italiana o il decidere con che caratteri la lingua somala, diventata ufficiale, avrebbe dovuto essere scritta. Una delle principali imposizioni dell’Onu nei confronti dell’AFIS fu quella di garantire un sistema educativo che donasse una reale emancipazione alla popolazione somala, presupposto indispensabile per l’indipendenza. Venne studiato un “Piano quinquennale per lo sviluppo dell’istruzione in Somalia” il quale è destinato a fornire un’istruzione primaria alla maggior parte della popolazione, ma dato che l’Italia doveva garantire anche una formazione superiore ai giovani destinati a diventare quadri tecnici e politici della nuova nazione, tra il 1952 ed il 1960 vennero istituite 711 borse di studio che consentiranno a 531 studenti di concludere la loro formazione universitaria in Italia. L’attuazione di questo programma, oltre a rispondere alle esigenze somale, doveva anche creare, secondo le speranze italiane, una classe dirigente amica ed affidabile una volta che la Somalia avesse raggiunto l’indipendenza. Quindi l’italianizzazione e la fidelizzazione saranno i due obiettivi ispiratori del programma di formazione, soprattutto dopo che paesi come l’Egitto, dopo la rivolta di Nasser494 nel 1952, eserciteranno una notevole attrazione nei confronti delle popolazioni impegnate nelle lotte anticoloniali. Per questo motivo l’erogazione delle borse di studio continuò anche nel decennio successivo. La maggior parte degli studenti si laureò in legge e scienze politiche insieme a diverse professionalità come geometri, tecnici agrari, operai specializzati, assistenti sanitari e soprattutto maestri i quali furono reinviati in Somalia non appena ottenuta l’abilitazione. Durante il loro soggiorno in Italia gli studenti vennero presi in carico dal neo costituito Centro di Studi Somalo di Roma, rimasero controllati dalle questure per tutto il periodo di permanenza attraverso segnalazioni al Governo riguardo soprattutto le loro idee politiche, dato che il partito comunista, in virtù della campagna anticolonialista che porta avanti per tutti gli anni ’50, si accredita come il referente politico più naturale per gli studenti somali. Una volta giunti alla fine del percorso di studi vennero rimpatriati ed utilizzati dall’AFIS all’interno della struttura burocratica del paese.495
Gli studenti somali sono i primi ex sudditi coloniali che arrivano in Italia e sono anche i primi a scontrarsi con i pregiudizi e talvolta il razzismo degli italiani. Inizialmente gli episodi sono considerati dagli stessi studenti dettati dalla semplice ignoranza, diversa è invece la loro risposta quando si trovano invischiati in risse con appartenenti alla destra italiana; provocazioni di stile coloniale ed il comportamento non irreprensibile della polizia, che spesso si limita a fermare solo gli studenti di colore, comincia a far dubitare l’assoluta
494 Nàsser. - Nome sotto cui è noto l'uomo politico egiziano Giamāl Ḥusain ῾Abd an-Nāṣir (Beni Mor 1918 – Il Cairo 1970). Guidò il colpo di Stato (1952) contro re Faruq e fu presidente della Repubblica (dopo la destituzione di M. Nagib, 1955). Con la nazionalizzazione del Canale di Suez (1956) N. si affermò come leader dell'anticolonialismo e del panarabismo. Dopo la sconfitta egiziana nella cosiddetta guerra dei sei giorni, si dedicò alla ricerca di una soluzione diplomatica alla crisi mediorientale.
495 V. Deplano, L’Impero colpisce ancora? Gli studenti somali nell’Italia del dopoguerra, Quel che resta dell'impero. La cultura coloniale degli italiani, Milano, Mimesis, 2014, Pag. 331-46.
mancanza di razzismo da parte perlomeno di alcuni italiani. Comunque, l’idea che il “nero” sia facilmente irritabile e sia refrattario alle norme del buon vivere resta ben fissa nel pensiero comune italico. Viene quindi per la prima volta messo in dubbio l’assioma assolutorio del “buon Italiano”, dubbio che verrà poi preso in considerazione dagli storici coloniali solo a partire dalla metà degli anni ’90.496
Economicamente parlando, una delle prime problematiche che l’AFIS dovette risolvere fu la questione del nuovo sistema monetario somalo. Vi erano tre possibili opzioni:
• L’estensione del sistema monetario italiano alla Somalia; • L’introduzione di un sistema indipendente; • L’introduzione di un sistema misto basato sulla creazione di una nuova moneta ma legato a quello italiano.
L’analisi fatta doveva considerare il livello di sviluppo del paese, la produzione locale, il commercio interno, il volume del mercato italo-somalo ed il volume del commercio con l’estero. Lo studio effettuato dalla Banca d’Italia rivelò infine che un sistema indipendente sarebbe stata la scelta migliore. Inoltre dare alla Somalia un proprio regime monetario fin dall’inizio dell’Amministrazione Fiduciaria sarebbe stata la migliore risposta ai reali bisogni economici del paese. La nuova moneta, il Somalo, venne istituita in regime di parità di cambio con lo scellino in uso nell’Africa dell’est britannica. Dato che nel 1950 le condizioni economiche del paese non permettevano la creazione di una banca centrale, venne creata la Cassa per la Circolazione Monetaria della Somalia che si sarebbe dovuta occupare dell’emissione e del controllo della moneta ed avesse anche una funzione di consigliere governativo riguardo alle questioni monetarie. Nel 1959, con il Decreto Presidenziale n. 1131 del 2 dicembre 1958, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale l’8 gennaio dell’anno seguente, la Cassa venne trasformata in Banca Nazionale della Somalia avente tutte le funzioni di una banca centrale (depositi, emissione di assegni, emissione di denaro, investimenti pubblici, operazioni valutarie, ecc.).497
Nel 1956 una missione dell’ONU incaricata di valutare se la Somalia fosse pronta a diventare una nazione indipendente si espresse in questi termini:
• La Somalia ha poche risorse disponibili e nessuna di queste può produrre un rapido sviluppo; • Il settore zootecnico può provvedere a reali possibilità di sviluppo ma solo nel lungo periodo; • L’agricoltura offre poche opportunità ed il suo sfruttamento richiede manodopera qualificata; • L’aiuto portato dall’Italia sotto forma di contributi finanziari annuali ed indiretto tramite l’acquisto della produzione di banane a buon prezzo, contribuisce allo sviluppo dell’educazione, sanitario, del benessere pubblico e dà al paese strade ed altri servizi pubblici che il paese da solo non è in grado di darsi; ______________________________
496 V. Deplano, L’Impero colpisce ancora? Gli studenti somali nell’Italia del dopoguerra, Quel che resta dell'impero. La cultura coloniale degli italiani, Milano, Mimesis, 2014, Pag. 346-51. 497 D. Strangio, The Reasons for Underdevelopment, Phisica-Verlag, Heidelberg, 2012, Pag. 15-22.
• La Somalia da sola non ha la capacità necessaria allo sviluppo di un reddito nazionale in modo che raggiunga l’autonomia nei tempi previsti; • I programmi implementati dall’AFIS erano considerati sufficientemente soddisfacenti ed adeguati per i bisogni reali del paese.
Data la povertà del territorio e la difficoltosa crescita economica del paese un ulteriore rapporto all’inizio del 1960 evidenziava come un’assistenza post indipendenza sarebbe stata comunque necessaria:
• La collaborazione tra il governo italiano e quello somalo deve continuare alla ricerca di una soluzione pratica; • L’aiuto italiano deve continuare anche dopo il 1960; • L’assistenza dalla Banca centrale e dal dipartimento di assistenza dell’ONU deve continuare; • Gli Stati Uniti possono fornire un’assistenza economica e finanziaria dopo il 1960 come parte di uno sforzo contro il comunismo nel mondo ed a favore dell’espansione della democrazia.498
Restavano però problemi più prettamente politici, tra i quali il più grave e che si sarebbe negli anni dimostrato portatore di immani disgrazie, era quello di stabilire una volta per tutte i confini con l’Etiopia. Con l’indipendenza del 1° luglio 1960 la Somalia non era più una colonia, si era tolta dal giogo delle potenze europee, ma pochi anni dopo si ritrovò nelle mani di personaggi che avrebbero di nuovo portato alla fame il paese (Barre) o al centro di guerriglie intestine (signori della guerra) che a tutt’oggi lo devastano riportandolo indietro nel tempo, a epoche che si perdono nella nebbia della storia.
Prima di trattare l’ultimo argomento di questo studio, la questione della Regia Azienda Monopolio Banane, vorrei analizzare un po’ più nel dettaglio quelli che furono gli obiettivi e le proiezioni politiche e culturali dell’Italia nel periodo che coincise con una ormai prossima fase di decolonizzazione nei continenti africano e asiatico. La crisi del sistema coloniale venne avvertita dalla giovane dirigenza democristiana come epocale e irreversibile e, all’interno di un quadro come la guerra fredda, alcuni esponenti di maggior spicco come il sindaco di Firenze Giorgio La Pira499 cominciarono a costruire dei rapporti privilegiati con vari leader dei paesi neoindipendenti del nordafrica e del medio oriente convinti che l’Italia potesse assumere un ruolo di equilibrio e di dialogo tra le rive nord e sud del Mediterraneo. Secondo La Pira, l’Italia avrebbe dovuto assumersi la responsabilità di fare da guida alle giovani nazioni data la scarsa affidabilità (l’ateismo sovietico, la dittatura spagnola, il secolarismo americano ed il compromesso coloniale franco-britannico) degli altri attori presenti nell’area. Il tentativo di La Pira, alquanto utopistico, di mediare una pace tra il governo provvisorio algerino e quello francese del 1958 venne sostenuto anche da un
498 D. Strangio, The Reasons for Underdevelopment, Phisica-Verlag, Heidelberg, 2012, Pag. 46-48. 499 La Pira, Giorgio. - Giurista e uomo politico italiano (Pozzallo 1904 – Firenze 1977), prof. di istituzioni di diritto romano (dal 1933), ha insegnato nell'univ. di Firenze. Deputato democristiano alla Costituente, poi al parlamento; sottosegretario di stato al ministero del Lavoro (1948-49); sindaco di Firenze (1951-57 e 1961-66). È noto in Italia e fuori per le sue tesi sociali di chiara ispirazione evangelica e per iniziative di distensione e di pace, come quella che nel 1965 lo portò nel Vietnam del Nord.
176 personaggio estremamente pragmatico come Enrico Mattei500. La decolonizazione precoce che era stata vissuta con disagio dal paese nei primi anni del dopoguerra viene ora considerata una spinta alla ricerca di un nuovo ruolo dell’Italia in Africa e nel mondo. Il movimento di Bandung501 venne visto con simpatia dal nuovo ministro degli esteri Amintore Fanfani502 percepito come un movimento nuovo e non riducibile agli schemi della guerra fredda; il politico italiano vide in esso un elemento di distensione nel quadro bipolare e nel contenimento dell’espansione comunista. Anche Fanfani era convinto che l’Italia potesse esercitare un nuovo ruolo di mediazione tra i paesi occidentali e le nuove realtà nazionali uscite dal colonialismo. In un appunto del vice presidente della Commissione Esteri della Camera, Giuseppe Vedovato503, al ministro degli Esteri Segni504 nel 1960, si nota il deciso cambio di direzione rispetto al passato anche se sopravvive il tentativo di cancellare le colpe del colonialismo attraverso delle azioni considerate meritorie:
“E’ un dato di fatto che l’Italia, nei cui confronti i molti anni trascorsi dalla fine del periodo coloniale e l’opera particolarmente meritoria compiuta nell’edificazione dell’indipendenza della Somalia, hanno ormai attenuato sino a quasi cancellarle del tutto, le accuse di taccia colonialista anche presso i critici più intransigenti, gode al presente di un sentimento di generale simpatia presso tutti i nuovi Stati africani, dove le nostre comunità hanno generalmente saputo circondarsi di particolare stima e benevolenza, e dove i nostri operai, i nostri artigiani ed i nostri tecnici sono tenuti nella più alta considerazione per le loro riconosciute non comuni qualità e capacità. In questo momento particolarmente sensibile e delicato della storia politica, sociale, economica ed evolutiva in genere
500 Mattèi, Enrico. - Imprenditore e uomo politico italiano (Acqualagna 1906 - Bascapé 1962). Vicepresidente dell'AGIP (1945) e deputato della DC, presidente dell'Eni (1953) promosse l'affrancamento energetico dell'Italia e la lotta allo sfruttamento oligopolistico delle fonti di energia incentivando l'esplorazione del sottosuolo italiano e valorizzandone le risorse.
501 Conferenza di Bandung, Incontro tra i rappresentanti di 29 Stati africani e asiatici tenutosi dal 18 al 24 aprile 1955 nella città indonesiana. La conferenza fu promossa da India, Pakistan, Repubblica popolare cinese, Indonesia, Birmania e Ceylon, al fine di inserire un cuneo nell’assetto rigidamente bipolare del mondo all’epoca della Guerra fredda, restituendo capacità e spazi d’iniziativa ai cosiddetti «paesi terzi». In partic. gli scopi erano quelli di incentivare il processo di decolonizzazione e consolidare il fronte dei Paesi ex-dipendenti, favorendone la cooperazione economica e politica nel quadro di una coesistenza pacifica. Protagonisti della conferenza furono l’indiano Nehru, l’indonesiano Sukarno, il cinese Zhou Enlai, l’egiziano Nasser e lo jugoslavo Tito. Nel documento finale furono enunciati dieci punti, passati alla storia come i «Dieci principi di B.», i più importanti dei quali erano quelli di non ingerenza, autodeterminazione, rispetto dell’indipendenza dei popoli e della sovranità dei Paesi, e neutralismo. Tali principi ispireranno il movimento dei «non allineati», che si costituirà formalmente con la Conferenza di Belgrado (1961). 502 Fanfani, Amintore. - Uomo politico italiano (Pieve Santo Stefano 1908 – Roma 1999). Fu segretario della DC (1954-59 e 1973-75) e più volte presidente del Consiglio (1958-59; 1960-62; 1962-63; 1982-83; 1987). Schierò la DC contro il divorzio. nel referendum abrogativo del 1974. Aderì infine al Partito popolare italiano (1994). 503 Vedovato, Giuseppe. - Studioso italiano di relazioni internazionali e di istituzioni giuridiche, uomo politico (Greci 1912 – Roma 2012); prof. nelle univ. di Perugia (1952) e (dal 1963) di Roma; deputato (1953-72) e senatore (1972-76) per la DC. 504 Segni, Antonio. - Giurista e uomo politico (Sassari 1891 – Roma 1972). Consigliere nazionale del Partito popolare, interruppe l'attività politica durante il fascismo. Tra gli organizzatori della DC in Sardegna dal 1943, nel 1946 fu eletto alla Costituente. Deputato (1948-62), fu più volte ministro e due volte presidente del Consiglio (1955-57; 1959-60). Eletto nel maggio 1962 presidente della Repubblica, fu costretto a dimettersi nel 1964 a causa delle sue condizioni di salute.
dell’Africa, l’Italia e forse quella delle nazioni europee che si trova nelle condizioni più propizie per collaborare alla nuova fase di cooperazione e sviluppo economico di quel Continente; ma per ottenere il possibile maggior vantaggio dalle enunciate favorevoli premesse sembra opportuno ed urgente che il Governo italiano prenda l’iniziativa di attivare maggiori contatti con i nuovi Stati africani, con l’obiettivo di studiarne e riconoscerne le esigenze e le possibilità; di indagare e cercare di ovviare gli eventuali motivi di preoccupazione delle comunità italiane presenti in ciascuno di essi e di sorreggerne edincoraggiarne lo sviluppo e l’attività”505
Venne finalmente riconosciuto anche l’errore fondamentale del colonialismo (perlomeno quello italiano) che era stato quello di credere di dover educare la gente ed organizzare gli stati all’europea, come se l’ideale di tutti fosse quello di vivere e pensare all’europea e non di farlo conforme ad un ambiente e ad una storia ben diversi. E qui ci fermiamo dato che le successive mosse diplomatiche italiane riguardano gli anni ’60 ed oltre ed esulano quindi dal contesto di questo studio.506
L’ultimo argomento del quale volevo trattare in questo studio è quello della questione delle banane, faccenda che stimolò diverse discussioni parlamentari e che si trascinò fino al 1963 quando l’Azienda Monopolio Banane venne ufficialmente soppressa. La Regia Azienda Monopolio Banane venne istituita sotto il controllo del Ministero delle Colonie con R. D. 2 dicembre 1935 n. 2085, pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale n. 291 del 14 dicembre 1935. Venne creata per il trasporto ed il commercio della produzione delle banane coltivate in Somalia nelle concessioni agricole sorte in quegli anni in colonia, produzione che, dopo che la crisi economica del 1929 aveva tagliato il prezzo del cotone del 50%, era diventata la più importante fonte di reddito dell’economia coloniale somala. Dato che comunque il prodotto somalo aveva bisogno di una particolare protezione per poter essere competitivo, il regime fascista creò la succitata azienda in difesa del prodotto “nazionale” e collocandolo sul mercato tramite una fitta rete di concessionari. Per il trasporto dei prodotti vennero persino costruite quattro navi bananiere, più veloci e più capienti di quelle fino ad allora in uso alla marina mercantile, chiamate (certo non con molta fantasia) RAMB I, II, III e IV, che ebbero poi diversi destini. Delle tre unità, sopravvisse alla guerra solo la RAMB III che venne inglobata dalla marina jugoslava come conto riparazioni, venne ribattezzata Galeb e divenne addirittura la nave di rappresentanza del presidente Tito. Al termine della seconda guerra mondiale il nuovo Governo italiano aveva deciso di sopprimere l’Azienda, anche perché in forte perdita507, ma il decreto non venne convertito in legge poiché all’inizio del 1947 il Direttore generale della Direzione Colonizzazione e lavoro del Ministero dell’Africa italiana inviò al ministro questo memorandum:
505 P. Borruso, Le nuove proiezioni verso l’Africa dell’Italia postcoloniale, Studi Storici A. 54 n. 2, Carocci, Roma, 2013, Pag. 454.
506 Ibidem, Pag. 449-59.
“In esecuzione delle direttive impartite dalla Presidenza del Consiglio ed intese alla soppressione dell’Azienda Monopolio Banane col 31 dicembre 1946, questa Direzione Generale ha in corso di elaborazione uno schema di provvedimento relativo alla soppressione, sotto la data di cui sopra, dell’Azienda stessa, con conseguente istituzione di un ufficio stralcio per il necessario adempimento delle operazioni relative.
Senonché il Commissario dell’Azienda, dr. Gianni Brielli, ha fatto ora presente di
avere iniziato con un gruppo finanziario privato trattative per la cessione delle attività e dell’accorsatura dell’Ente, restando la continuazione del Monopolio affidata al gruppo stesso, che si assumerebbe le passività dell’Azienda, valutate in circa 57 milioni contro un attivo di L. 5 milioni. Le trattative in questione avrebbero riportato in linea di massima l’adesione del Ministero del Tesoro.
Indubbiamente la soluzione proposta arrecherebbe al Tesoro l’immediato sollievo di non doversi accollare il carico passivo della liquidazione dell’Azienda.
Questa Direzione Generale non può peraltro esimersi dal prospettare a V. E. i riflessi – oltreché economici – di carattere politico, che deriverebbero dal fatto che la continuazione del monopolio del trasporto e della vendita delle banane verrebbe ad essere esercitata – non più dallo Stato – ma da un privato gruppo finanziario.
Roma, 30 gennaio 1947”508
Naturalmente, venuti a conoscenza delle trattative in corso per la cessione dell’Azienda, i coltivatori italiani della Somalia chiesero al Ministero che potessero essere loro stessi a subentrare allo Stato nella gestione del monopolio. Se il Ministero dell’Africa Italiana ritenne che la domanda potesse essere accolta anche in segno di solidarietà verso i connazionali che erano rimasti in Africa, i ministeri del Bilancio, delle Finanza e del Commercio furono invece del parere che allo Stato non convenisse mantenere in vita sotto nessuna forma il monopolio delle banane. Comunque, per venire incontro alle esigenze dei coltivatori, venne concesso ai due consorzi che rappresentavano i coltivatori in Somalia, S.A.C.A. e S.A.G., una licenza di importazione di 10.000 q.li di banane senza passare tramite l’Azienda Monopolio. Poco dopo i due consorzi domandarono ancora una licenza per altri 60.000 q.li di banane ma a questo punto il Direttore dell’Azienda Monopolio, contattando direttamente il Ministero per il Commercio estero e non il Ministero dell’Africa Italiana da cui dipendeva, chiese che le successive importazioni venissero affidate esclusivamente all’Azienda banane. Il Ministero dell’Africa, tramite il Sottosegretario Brusasca si oppose dato che la situazione internazionale (con la decisione riguardo alle ex colonie italiane ancora da prendere) e la situazione dell’Azienda, priva di capitali, navi e della quasi totalità delle sue precedenti attrezzature, quest’ultima non fosse in grado di assicurare l’importazione e che perciò, la cosa venisse affidata a privati salvo il pagamento di L. 50 per Kg. come contributo
508 ASCM Fondo Brusasca, b. 74, f. 2.
per l’erario. Il ministero del Tesoro a questa proposta chiese al Ministero dell’Africa, che subito accettò, di richiedere il parere del C.I.R. Nella seduta del C.I.R. il Ministero delle finanze si dichiarò disponibile ad assumere insieme agli altri monopoli anche quello delle banane ed il Ministero dell’Africa prese nota. Una licenza per l’importazione di 15.000 q.li di banane fu subito rilasciata all’Azienda banane che riprese così ufficialmente l’attività.509
Quindi si continuava a parlare di soppressione dell’Azienda Monopolio banane ma nulla succedeva, anzi ora sembrava ritornare in auge l’antico ente a scapito dei coltivatori. Persino i due Ministeri, Africa Italiana e Tesoro, discussero sul destino dell’Azienda banane senza trovare poi un accordo che facesse tutti contenti. Per la cronaca l’Azienda Monopolio Banane sarà ufficialmente soppressa solo nel 1964 al termine di un altro scandalo politico.
I coltivatori non si dettero per vinti e nel gennaio del 1948, la Società Anonima Cooperativa Agricola e la Società Agricoltori Giuba inviarono una lettera direttamente al Presidente del Consiglio De Gasperi stimolando il suo intervento:
“Eccellenza,
In seguito ai delittuosi avvenimenti di Mogadiscio, gli agricoltori italiani della Somalia sono stati concentrati con la scusante, da parte delle autorità occupanti, di assicurare la loro incolumità.
Essi hanno pertanto dovuto abbandonare le loro aziende e ciò da modo ai predoni, senza dubbio inviativi appositamente, di saccheggiare tutti i loro averi.
Questa perfida azione, pari a tante altre, non stupisce né gli italiani né gli indigeni della Somalia: essi sanno di quanto siano capaci gli occupanti. Li stupisce invece quanto a danno loro continua a non fare il Governo nostro tentennando su di una decisione circa la cessione A.M.B. (Azienda Monopolio Banane).
Agli agricoltori della Somalia, in un secondo tempo, con lettera 923 del 20 giugno 1947, veniva offerta la gestione A.M.B.
Essi accettarono tutte le condizioni dettate. Essi dimostrarono conla recente importazione di saper fare.
La pratica, che tanto rapidamente si voleva svolgere, si arenò quando si trattò di cedere a coloro che avevano, con sacrifici, lavoro di tanti lustri, capacità costruttiva ed organizzativa, data con la possibilità della creazione della A.M.B.
Pare che il Ministero del Tesoro voglia ora l’abolizione del monopolio. A prescindere dal fatto che parlò sempre di cessione monopolio banane, e senza entrare nel merito della questione, mi permetto far rilevare che in un momento come questo si potrebbe anche approvare un provvedimento di favore, senza esserne ideologicamente convinti, pur di
apportare sollievo a gente che sempre combattette una dura battaglia e che non ha bisogno di sentire che gli animi dei governanti vibrano all’unisono con i loro.
Sua Eccellenza Brusasca – che ci ha seguiti e sorretti – il giorno 15 c.m., davanti ad un numeroso gruppo di africanisti, pregava V. E. di voler portare, appoggiandola, al Consiglio dei Ministri, questa nostra pratica affinché si avesse una decisione e faceva presente a V. E. che da mesi e mesi noi avevamo, con calma, pazienza, dignità e fiducia, atteso una definizione.
Una quantità di gente si è destata a sentire parlare di banane e tutti vedono motivo di
speculazione, il Governo tentenna creando così ingente danno a coloro che oggi hanno – e per la seconda volta in breve tempo – la rovina.
Non si tratta di aiutare una speculazione, si tratta di dare un doveroso semplice aiuto; si tratta di dare la gestione A.M.B. a coloro ai quali il Governo stesso la offerse il 20 giugno scorso; a coloro che la crearono; a quei vecchi pionieri, ormai troppo vecchi di anni d’Africa, che sempre hanno tenuto alto il prestigio della Patria in quella lontanissima terra.
Ancora una volta – e credo sia l’ultima poiché mi vergognerei di insistere oltre – oso chiedere al nostro Governo – e per Esso alla E. V. – che una decisione a noi favorevole sia presa in merito alla cessione della A.M.B.
Le nobilissime parole di plauso, fede, incoraggiamento e solidarietà rivolte in questi giorni agli agricoltori della Somalia dall’On.le Terracini, da S. E. Conte Sforza, da S. E. Saragat, ed altri, nonché da V. E. stessa, siano tradotte in fatti.
Il momento particolarmente delicato e triste per i lutti della Somalia è pure particolarmente adatto per una tempestiva decisione che non mancherà di dare finalmente la sensazione che non si è completamente abbandonati come purtroppo è apparso fino ad ora.
Questa decisione – che va a favore degli italiani e dei somali – avrà sicuramente benefica ripercussione sia nel campo morale che in quello politico.
Con fiducia e deferenza
(G.P. Basiglio)”510
La richiesta degli agricoltori non andò in porto ma la situazione andò migliorando e quando l’Amministrazione fiduciaria italiana fu definita una volta per tutte, tutti i titolari delle aziende agricole, direttamente o indirettamente, ripresero la loro attività ed accanto ad essi si svilupparono e potenziarono diverse tenute agricole con colture di banane di proprietà di somali che si dimostrarono degli ottimi imprenditori. La produzione crebbe nei seguenti dieci anni di Amministrazione fiduciaria: nel 1950 gli ettari coltivati a bananeto erano 2800 in tutto
510 ASCM Fondo Brusasca, b. 74, f. 8.
gradimento CIF. In questo modo l’azienda aveva la possibilità di comprare in base al peso ed il paese con un’esportazione di 176.079 quintali, nel 1960, alla fine dell’Amnministrazione italiana, gli ettari sfruttati erano 7992 con un’esportazione di 769.537 quintali di banane annui. L’A.M.B. acquistava la frutta utilizzando la seguente formula ibrida: acquisto FOB con alle condizioni di arrivo della merce ai porti di sbarco. I prezzi di acquisto della frutta erano superiori di quelli praticati in ambito internazionale dagli altri paesi produttori ma l’azienda ottenne che essi si abbassassero gradualmente da L. 150 al Kg. del 1950 a L. 100/90 al Kg. del 1960. L’aumentata esportazione consentì inoltre l’inserimento di numerosissimi lavoratori agricoli, di dare agli imprenditori discreti profitti, di soddisfare qualificati bisogni civili eumani di tutte le persone dedite direttamente od indirettamente alle attività agricole, di bloccare la tendenza all’emigrazione dei lavoratori del Benadir e del basso Giuba verso le grandi città Somale.511
Ritornando alla fine degli anni ’40, più precisamente al 9 febbraio 1949, quando in seguito ad una furiosa campagna di stampa contro il Sottosegretario del Ministero dell’Africa Italiana Giuseppe Brusasca decise di intervenire il parlamento, tramite una discussione sullo “scandalo delle banane” (il primo poiché il secondo del 1963 porterà alla definitiva soppressione dell’A.M.B.). Il deputato Ariosto512 pose un’interpellanza parlamentare per il Sottosegretario Brusasca: Ariosto dopo aver notato l’enorme differenza dei prezzi delle banane in Italia rispetto a quelli di altri paesi (cita la Francia) si rese conto che non si tratta di tasse sul prodotto bensì di guadagni esorbitanti da parte degli importatori i quali lucravano sul venduto anche venti volte il prezzo d’acquisto. Poiché la vendita delle banane era ancora monopolio di Stato, il deputato si chiese come fosse possibile che una tale speculazione avvenisse sotto gli occhi di chi doveva vigilare. Ricorda inoltre come il monopolo fosse stato istituito negli anni ’30 per limitare proprio queste speculazioni, la vendita delle banane veniva fatta al prezzo di costo ed il guadagno dell’Azienda Monopolio Banane era costituito dai noli d’uscita che comunque avevano permesso la graduale costituzione di una flotta di ben sette bananiere. Ciò che non piaque al deputato fu la citata licenza per l’importazione di 10.000 q.li di banane rilasciata alle società private, dietro le quali si annidavano gli stessi speculatori (secondo lui) che resero necessaria l’istituzione del monopolio banane. Secondo Ariosto, Brusasca era stato ingenuo a credere che i pochi che erano in Italia a fare gli affari rappresentassero gli interessi dei molti che erano in Somalia. Brusasca si difese sostenendo che l’Italia non avesse più la sovranità sulla Somalia, che le cose erano cambiate dal 1935 e che per esportare le banane occorreva anche il benestare delle autorità britanniche. Ricorda che sia il Ministero del Tesoro che quello del Bilancio avrebbero voluto la cessazione immediata dell’Azienda banane e che da quando era stata assegnata l’Amministrazione fiduciaria all’Italia, lui avrebbe avuto il dovere di aiutare e sostenere le attività economiche in Somalia. Afferma che non vedeva alternative dato che non si poteva cedere il monopolio ai privati, qualcosa doveva pur fare per aiutare i coltivatori somali e che quindi sui profitti delle
511 R. Roncati, Aspetti e problemi della bananicoltura somala e del commercio bananiero, Africa, anno 29, Vol. 3, Roma, 1974, Pag. 469-71.
licenze proprio non ci poteva fare nulla. La questione in realtà finì lì, Ariosto si dichiarò più o meno soddisfatto delle risposte del Sottosegretario e non ci furono altre polemiche o contestazioni, perlomeno in aula poiché la stampa tartassò ancora a lungo Brusasca ma sempre in modo che lui non potesse reagire dal punto di vista giuridico e lo scandalo delle banane proseguì per alcuni anni.513
Le cose cambiarono quando nel 1954 il direttore del giornale comunista “Il progresso” attaccò frontalmente Brusasca con due articoli nei quali commise degli specifici reati di diffamazione a mezzo stampa, l’accusato querelò immediatamente il giornalista concedendogli la più ampia facoltà di prova. Comparso in giudizio, il Sig. Polidoro non portò alcuna prova a sostegno delle sue accuse per cui il Pubblico Ministero chiese 13 mesi di reclusione per diffamazione. 514
Nel 1963 si svolse il secondo e decisivo scandalo delle banane: l’Azienda Monopolio Banane aggiudicava le concessioni per la vendita della frutta mediante asta pubblica ed i partecipanti dovevano avanzare un’offerta che fosse più alta del termine fissato in segreto dall’Azienda; chi avesse fatto l’offerta più alta si sarebbe aggiudicato la concessione. L’Assobanane, che riuniva tutti i concessionari storici della Somalia riuscì a corrompere il presidente dell’Azienda il quale rivelò loro in anticipo la quota d’asta fissata. All’apertura delle buste si verificò l’assurda situazione che tutti gli aderenti all’Assobanane avevano proposto un’offerta pari al limite fissato dall’Azienda Monopolio. Vistisi beffati in modo evidentemente truffaldino, gli aspiranti concessionari minori inviarono al capo del Governo italiano, all’epoca Amintore Fanfani, un telegramma di protesta che convinse l’AMB ad annullare l’asta ed a indirne una seconda. Il presidente dell’Azienda, Bartoli Avveduti, fu condannato a tre anni di reclusione ed altri 123 imputati se la cavarono con pene molto lievi. Comunque nel febbraio 1964, a processo non ancora concluso, il nuovo Governo presieduto da Aldo Moro, decretò il definitivo scioglimento dell’Azienda.515
Siamo nel 1964, da quattro anni ha avuto termine l’avventura italiana in terra d’Africa. I due paesi del Corno avrebbero avuto davanti a loro un futuro a tinte spesso molto fosche. A tutt’oggi buona parte dell’emigrazione africana in Europa proviene dall’Eritrea e dalla Somalia. Tutta colpa del colonialismo italiano? Certo le eredità coloniali hanno spesso lasciti tristi strascichi ma nel caso del Corno non bisogna dimenticarsi che Somalia ed Eritrea sono i paesi più poveri di risorse di tutto il continente (il famoso detto dello scatolone di sabbia di Salvemini riguardo alla Libia sarebbe stato decisamente più azzeccato in Africa orientale). I nazionalisti sia eritrei che somali ci ringraziano per aver dato un senso di appartenenenza ai loro concittadini, ma questo, purtroppo, non ha portato a sviluppi particolarmente positivi. Il colonialismo in generale non ha portato benefici ai paesi dominati e se forse il termine usato recentemente dal presidente francese Macron “il colonialismo è stato un crimine contro l’umanità” può essere un po’ eccessivo ed usato, in Algeria, per fini politici, non ci troviamo comunque molto lontano dalla realtà.
513 Atti parlamentari – Dicussioni – Seduta di venerdì 9 febbraio 1949. 514 ASCM Fondo Brusasca, b. 74, f. 15. 512 S. Salvi, Banane fasciste. Breve storia della banana italica ai tempi dell’autarchia, Affinità elettive, Ancona, 2017, Pag. 61-65.