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1.2. Il sogno dell’Impero. Pag
4.2. Il sogno dell’Impero.
Cosa spinse l’Italia a cercare gloria in Africa, in un periodo storico in cui il “dominio dell’uomo bianco” sui continenti più arretrati cominciava ad essere discusso sempre più frequentemente ed ai più svariati livelli? Nonostante la crisi economica del 1929, che travolse diversi paesi europei (in particolare la Germania), non avesse creato in Italia una situazione di emergenza sociale, le problematiche legate alla disoccupazione ed altre difficoltà aumentarono. In politica estera, la consacrazione del paese a grande potenza tardava ad arrivare e le piccole compensazioni coloniali di cui abbiamo parlato precedentemente non avevano certo aumentato il prestigio internazionale né della nazione né tanto meno del fascismo. L’ascesa nazista degli inizi degli anni ’30 preoccupò particolarmente il regime che, fra gli anni 1933 e 1935, tentò in diversi modi di rafforzare la posizione italiana come con la proposta del “Patto a quattro”362 del 1933, dei protocolli di Roma363 del 1934 e del fronte di Stresa364 del 1935 destinati però tutti al fallimento per la scarsa lungimiranza degli alleati occidentali.365
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Come ogni regime dittatoriale che si rispetti, il fascismo non poté certo accettare una serie di smacchi così evidenti, oltretutto la situazione internazionale rischiava di ridurre l’Italia ad un fattore marginale rispetto all’ascesa del nazismo. La soluzione avrebbe dovuto restituire al paese ed al regime il rispetto delle altre potenze europee e questo non sarebbe potuto succedere se non attraverso un rapido successo in politica estera; la conquista dell’Etiopia, da questo punto di vista, dovette sembrare la mossa perfetta per raggiungere questo scopo. Naturalmente una guerra coloniale nel 1935 sarebbe arrivata decisamente fuori tempo per ciò che riguardava le politiche delle grandi potenze coloniali europee, che, al contrario, negli anni tra le due guerre, cominciavano a concedere timide o più decise aperture ai loro domini d’oltremare. Lo sviluppo di movimenti anticolonialisti in molti stati asiatici e africani, oltre ad un cambiamento di modo di pensare che lentamente stava prendendo piede in diversi circoli metropolitani, obbligò Francia e Gran Bretagna a rivedere i loro rapporti con le colonie. Tutto questo era invece difficile da comprendere in Italia anche a causa che, se non consideriamo l’Eritrea (comunque con una bassissima percentuale di abitanti di origine italiana), un vero dominio su Somalia e Libia non si stabilì se non all’inizio degli anni ’30,
362 Patto proposto da Mussolini nel giugno del 1933; prevedeva che Francia, Gran Bretagna, Italia e Germania adottassero una politica comune nelle questioni europee e coloniali e che potessero operare consensualmente una revisione dei trattati di pace nell’ambito della Società delle Nazioni. Accolto favorevolmente da Germania e Gran Bretagna, fu osteggiato dai paesi della Piccola Intesa e dalla Polonia che fecero pressioni sulla Francia per svuotare il progetto del suo reale contenuto politico. Fu così firmato un semplice accordo di collaborazione, mai ratificato.
363 Accordo siglato nel marzo 1934 da Italia, Austria e Ungheria: prevedeva una mutua cooperazione economica e difesa militare in caso di attacco esterno. Trattato firmato principalmente in funzione anti-tedesca ed in difesa dell’ indipendenza dell’Austria contro il previsto tentativo di annessione da parte della Germania.
364 Il fronte di Stresa fu un accordo, in funzione anti-tedesca, siglato tra il ministro degli esteri francese Pierre Laval, il primo ministro britannico Ramsay MacDonald ed il capo del governo italiano Benito Mussolini, a seguito dell'incontro fra i tre nell'omonima località piemontese sul lago Maggiore, fra l'11 e il 14 aprile 1935, presso il Palazzo Borromeo. Lo scopo dell'accordo fu quello di riaffermare i principi degli Accordi di Locarno e di dichiarare che l'indipendenza dell'Austria "avrebbe dovuto continuare ad ispirare la loro politica comune". Le tre parti, inoltre, si dichiararono pronte a reagire ad ogni futuro tentativo da parte della Germania di modificare o violare il Trattato di Versailles.
365 N. Labanca, La guerra d’Etiopia 1935-1941, Il Mulino, Bologna, 2015, Pag. 28-30.
occupazione ancora molto recente quindi e questo non fece comprendere alla più parte degli italiani che le cose stavano cambiando e che ormai le colonie cominciavano a mostrarsi come anacronistici orpelli, come peraltro ancora più anacronistica sarebbe stata una guerra coloniale. Agli occhi degli europei l’occupazione dell’Etiopia sarebbe stata una vera e propria occupazione militare di uno stato sovrano più che una colonizzazione in stile ottocentesco.
Era già dalla fine del 1932 che il regime meditava un’azione militare contro l’Etiopia, ma ciò che aveva frenato le ambizioni italiane in quel momento era stata l’impreparazione militare ed il fresco trattato politico ed economico firmato con Addis Abeba il 2 agosto 1928366. Inoltre la posizione della Società delle Nazioni, e soprattutto quelle di Gran Bretagna e Francia, inquietavano i sonni di Mussolini: una posizione nettamente sfavorevole delle due potenze coloniali avrebbe costretto l’Italia a rivedere le sue iniziative espansionistiche. Per quanto riguarda la Società delle Nazioni e la domanda del paese africano di entrare a farne parte, l’Italia si era sempre espressa negativamente anche con i governi liberali e fu solo ad una settimana dalla decisione definitiva della Lega, nel 1923, che Mussolini, con un gesto apparentemente distensivo, fece esprimere all’Italia un voto favorevole.
Il piano d’invasione preparato dal quadrumviro De Bono367 nel 1932 fu oggetto di aspre critiche da parte del capo di stato maggiore generale dell’esercito Pietro Badoglio368 il quale riteneva che lo spiegamento di forze soddisfacente per una rapida vittoria dovesse essere decisamente più ampio, tanto è vero che Mussolini stesso ritenne opportuno formare un imponente corpo d’armata forte di 135.000 militari nazionali e di circa 80.000 ascari.369
366 V. Documento n. 22.
367 De Bono, Emilio. - Generale italiano (Cassano d'Adda 1866 – Verona 1944). Durante la prima guerra mondiale promosso (1916) maggiore generale per merito di guerra, si distinse nella presa di Gorizia e più tardi nelle azioni di difesa e di offesa (ott. 1918) sul Grappa. Collocato in posizione ausiliaria nel 1920, ebbe gran parte nell'organizzazione del movimento fascista, nell'ottobre 1922 fu uno dei quadrumviri della "marcia su Roma " e successivamente capo della polizia e primo comandante della MVSN. Nel 1925 governatore della Tripolitania e nel 1929 ministro delle colonie, dal gennaio 1935 in Eritrea, tenne il comando delle operazioni nella prima fase della guerra contro l'Etiopia. Votò l'ordine del giorno Grandi (24 luglio 1943), così che, alla ripresa fascista, fu condannato a morte dal tribunale di Verona e fucilato.
368 Badoglio, Pietro. - Generale italiano (Grazzano Monferrato 1871 - ivi 1956). Capitano di S. M. durante la guerra libica, ten. col. all'inizio della guerra italo-austriaca, dopo la ritirata del nov. 1917 fu chiamato dal comando del 27º corpo d'armata alla carica di sottocapo dello Stato Maggiore generale. Capo di S. M. dell'esercito nel 1919, fu poi (1924-25) ambasciatore in Brasile; quindi (1925) capo di S. M. generale e (1926) maresc. d'Italia. Governatore della Libia dal 1929 al 1933, nel 1935-36 condusse rapidamente a termine, in qualità di Alto Commissario per le colonie dell'Africa Orientale, la campagna contro l'Etiopia. Riassunte nel 1936 le funzioni di capo di S. M. generale, che giuridicamente non aveva mai lasciate, si dimise durante la seconda guerra mondiale quando, espresso parere contrario alla guerra contro la Grecia, fu incolpato in seguito dell'insuccesso. Dal 1937 al 1941 fu presidente del Consiglio nazionale delle ricerche. Ritornò sulla scena politica il 25 luglio 1943, allorché venne chiamato dal re a sostituire Mussolini. Costituito un ministero di funzionari, concluse con gli Alleati l'armistizio di Cassibile (3 sett. 1943) e - reso noto questo dagli Alleati l'8 sett. - abbandonò la capitale trasferendosi col re e le più alte autorità militari a Brindisi. Osteggiato per il suo passato e per la sua politica ambigua dalle forze antifasciste non monarchiche, costretto ad accettare il 29 sett. il "lungo armistizio", ostile all'abdicazione del re, il B. dovette proseguire nel sistema di un ministero tecnico (rimaneggiamento del 16 nov. 1943; gabinetto dell'11 febbr. 1944), finché il ritorno di P. Togliatti dalla Russia e l'atteggiamento da questo assunto gli permisero il 22 apr. 1944 di costituire - accordatisi i partiti sulla luogotenenza del principe Umberto - un nuovo gabinetto su più larga base, durato fino alla liberazione di Roma e alla costituzione del ministero Bonomi (10 giugno 1944). Si ritirò allora a vita privata.
Alle 5.50 del 3 ottobre 1935 i primi carri armati italiani entravano in Etiopia dal confine Eritreo e marciarono, senza incontrare difficoltà, verso Adua ed Adigrat che vennero occupate dopo pochi giorni. Il giorno 11 dello stesso mese la Società delle Nazioni condannò l’Italia come stato aggressore e raccomandò ai suoi membri l’adozione di sanzioni economiche al fine di fermare l’avanzata militare. Questa situazione pesava molto sulla direzione delle operazioni belliche: De Bono aveva una visione dell’avanzata ispirata dalla cautela mentre a Mussolini serviva una vittoria rapida per accattivarsi l’opinione pubblica e di veloci conquiste territoriali per poter in seguito intavolare trattative diplomatiche. Inoltre, dal punto di vista del regime, se la mediocre personalità e l’altrettanto scarso prestigio del quadrumviro avevano consentito in un primo tempo che qualsiasi ordine proveniente da Roma venisse eseguito alla lettera, ciò avrebbe si consentito a Mussolini di prendersi tutti gli onori dell’impresa, ma in caso di qualche insuccesso la colpa sarebbe inevitabilmente ricaduta sul regime e non sul generale. Quindi il Duce del fascismo aveva assolutamente bisogno di giocare una carta che potesse evitare le problematiche sopra elencate e questo jolly fu individuato nel nome di Badoglio che venne nominato ispettore della situzione militare in Etiopia. L’eventuale poi sostituzione di De Bono con il massimo esponente della gerarchia militare avrebbe garantito l’appoggio degli ambienti tradizionali ed inoltre, se qualcosa fosse andato storto, la colpa la si sarebbe potuta scaricare senza problemi sull’alto ufficiale senza che il governo ne risentisse.
Il generale Badoglio si fermò in Africa orientale per dieci giorni (dal 17 al 27 ottobre) per poi rientrare in Italia e redigere una relazione a Mussolini (3 novembre) riguardante la situazione militare in Abissinia.370 Considerando che la tattica privilegiata del generale in battaglia era sempre stata quella difensiva, le sue parole riguardo all’atteggiamento prudente di De Bono suonano quanto meno disinvolte:
“ Tutto il Comando superiore AO [Africa Orientale] è saturato della speciale psicologia eritrea […]; in tutti i vecchi eritrei è radicato il convincimento che non occorra la battaglia per liquidare la partita abissina, ma che invece convenga sistemarsi su forti posizioni e lasciare che il nemico, che non ha mai attaccato posizioni fortificate, esaurisca i suoi mezzi logistici sempre limitati e sia poscia costretto ad una ritirata. Questo stato d’animo si compendia nella frase arcinota: «in Eritrea per vincere bisogna stare fermi».
Di fatto, non appena io ho rappresentato a Sua Eccellenza De Bono la necessità assoluta di avanzare sia per avere una più estesa occupazione in caso di accordi internazionali, sia e più specialmente per la speranza di poter agganciare l’esercito abissino e dargli una severa lezione, Sua Eccellenza Gabba [il capo di Stato maggiore di De Bono] mi interruppe dicendo: «la battaglia non è assolutamente necessaria: il nemico non ci attacherà mai. Noi possiamo su queste posizioni, che sono più forti di quelle da cui siamo partiti, attendere che il nemico ci fronteggi e poi si ritiri per mancanza di viveri».
370 G.Rochat, Guerre italiane in Libia e in Etiopia – Studi militari 1921- 1939, Pagus, Padova, 1991, Pag. 100-102.
Sono subito intervenuto dichiarando che se Vostra Eccellenza avesse desiderato tale linea di condotta avrebbe inviato in colonia al più tre divisioni di rinforzo e non l’equivalente di otto, quante ne sono state finora sbarcate. Che l’enorme quantità di mezzi offensivi, l’esercito di lavoratori per le strade, chiaramente indicavano il concetto di Vostra Eccellenza, che era quello di ottenere una completa rivendicazione di Adua con una indiscussa e grossa vittoria sulle forze abissine. Mi parve che Sua Eccellenza De Bono annuisse a questo concetto. Purtroppo mi ero sbagliato.”371 […]
Da questo momento in poi, De Bono fu tempestato da telegrammi di Mussolini che incitavano all’avanzata ed in seguito all’ennesima ingerenza del capo del Governo, la docilità del generale lasciò il posto alla stizza portandolo a rispondere per le rime e chiedendo di lasciarlo operare come meglio credeva e che il tempo avrebbe lavorato per l’Italia. In seguito a questa risposta Mussolini offrì il 15 novembre a Badoglio il comando delle operazioni in Africa Orientale: il maresciallo accettò preoccupandosi solamente di non dover subire le stesse ingerenze che aveva subito De Bono ed il Duce gli garantì che nei limiti delle direttive fissategli egli avrebbe avrebbe avuto la massima libertà d’azione. Questa massa di uomini pesantemente armati e riforniti da circa 14.000 automezzi (per l’epoca una concentrazione eccezionale), suddivisa in un’armata di 111.000 soldati nazionali e 53.000 ascari attaccanti dall’Eritrea e 24.000 nazionali e 29.500 ascari attaccanti dalla Somalia, si scontrarono con un esercito etiope organizzato come ai tempi di Menelik, diretto da capi feudali e armato solo di fucili (solo la guardia imperiale era equipaggiata all’europea ma non contava che poche migliaia di uomini), con poche mitragliatrici e cannoni pressoché inservibili data l’inesistenza di una logistica moderna. I rifornimenti subivano dunque forti ritardi ed in zona d’operazioni ogni soldato etiope poteva contare solo sul vettovagliamento e le munizioni che riusciva a portare sulle spalle. Inoltre, la struttura e le tradizioni dell’impero etiope spinsero l’esercito del Negus ad accettare spesso battaglie in campo aperto e questo accelerò la disfatta degli abissini.372 La guerra non fu comunque una passeggiata per gli italiani, tanto è vero che dovettero usare in maniera massiccia le forze aeree, utilizzando anche bombe con gas asfissianti, ma comunque il 5 maggio del 1936, le truppe italiane con alla testa il maresciallo Badoglio, entravano ad Addis Abeba ponendo termine al conflitto. A Roma, quella stessa sera, Mussolini poteva trionfalmente annunciare: […]
“Non è senza emozione e senza fierezza che, dopo sette mesi di aspre ostilità, pronuncio questa grande parola. Ma è strettamente necessario che io aggiunga che si tratta della nostra pace, della pace romana, che si esprime in questa semplice, irrevocabile, definitiva proposizione: l'Etiopia è italiana!”373 […]
371 G.Rochat, Guerre italiane in Libia e in Etiopia – Studi militari 1921- 1939, Pagus, Padova, 1991, Pag. 102.
372 Ibidem, Pag. 104-108. 373 Corriere della Sera, 6 maggio 1936 Anno XIV, anno 61, n. 108, Milano.
Non mi soffermerò ora ad analizzare il conflitto dal punto di vista bellico, operazione già svolta in maniera estremamente soddisfacente da diversi studiosi di storia militare (come il citato Giorgio Rochat), ma vorrei evidenziare invece quella che fu la rapida esistenza di questa “colonia” italiana e la vita dei suoi principali protagonisti, cioè gli autoctoni abissini e quegli italiani (e non furono pochi) che credettero alla propaganda del regime e si trasferirono in Etiopia pieni di sogni arricchimento e di rivalsa sociale. Non voglio contraddire ciò che ho affermato nell’introduzione di questo lavoro e cioè che ritengo la conquista dell’Etiopia niente di più di un’occupazione militare (a causa della sua brevità e della continua resistenza autoctona che non consentì una completa pacificazione del territorio fino all’arrivo dei britannici nel 1941), ma l’entusiasmo e la speranza con i quali diversi nostri concittadini intrapresero quest’avventura africana, spesso destinata ad un epilogo quanto meno deludente, meritano un’analisi più approfondita. Dobbiamo innanzitutto ricordare che fino a quel momento l’emigrazione italiana, nonostante i vari tentativi elencati precedentemente, si era rivolta prevalentemente verso il nord ed il sud America. Va evidenziato che per quanto riguarda l’Africa e l’Asia, non vi fu mai un’emigrazione europea paragonabile a quella diretta verso il nuovo mondo; anche negli imperi coloniali decisamente più estesi del nostro come l’inglese, il francese ed anche il portoghese, il trasferimento dalla madrepatria alle colonie fu molto relativo, se escludiamo i “dominions” britannici come il Canada, l’Australia e la Nuova Zelanda e solo l’introduzione negli Stati Uniti di restrizioni all’immigrazione alla fine della prima guerra mondiale, convinse i migranti europei a scegliere altre destinazioni. Diamo ora qualche numero per rendere più comprensibile il fenomeno migratorio europeo a partire dal 1815 fino al 1920:
• Gran Bretagna: circa 20 milioni di migranti dei quali solo il 30% diretto nelle colonie e di questi meno dell’8% nelle colonie asiatiche e africane.
• Portogallo: la quasi totalità dei migranti si diresse verso il Brasile mentre solo il 3,5% scelse le colonie africane (Angola, Capo Verde e Mozambico).
• Francia: se escludiamo i paesi del Maghreb, da sempre meta di emigrazione transalpina, le colonie francesi nell’Africa subsahariana ed in Asia (Indocina) rispecchiano più o meno i numeri precedenti.
• Italia: tra il 1861 e la prima guerra mondiale lasciarono il paese circa 9 milioni di persone delle quali solo l’1,7% scelse le colonie come destinazione.374
Se, al momento del suo insediamento, il regime fascista aveva lasciato più o meno le cose inalterate, negli anni trenta la politica sull’emigrazione cambiò, nel tentativo di ridare uno slancio economico e riguadagnare un certo prestigio internazionale. Ciononostante la politica di colonizzazione demografica delle colonie ancora una volta non sortì gli effetti desiderati anche se, come vedremo, in Etiopia furono molti gli italiani che vi migrarono in cerca di fortuna.
La maggior parte dei coloni che si stabilirono in Etiopia scelsero le zone urbane, circa il 50% si trasferì nella capitale, Addis Abeba, rispettando in questo la tendenza comune delle
altre colonie europee in Africa, e nonostante gli sforzi della propaganda che incitavano agli insediamenti demografici principalmente contadini quasi il 90% dei nuovi migranti si trasferirono nei sei più importanti centri urbani. Una caratteristica fino ad allora praticamente quasi sconosciuta del fenomeno migratorio nel continente nero fu la presenza di numerose donne; rispetto agli altri possedimenti italiani in Africa orientale, la presenza femminile italiana in Etiopia non superò mai il 15% del totale dei coloni (contro il 36,9% in Libia, il 24,7% della Somalia, principalmente Mogadiscio ed il 21,5% di Asmara), una minoranza quindi ma è il brevissimo lasso di tempo che passò tra la conquista e la perdita del territorio (5 anni) che lascia spiazzati. Normalmente in tutte le colonie europee di popolamento dovevano passare decine di anni prima che un certo bilanciamento tra i sessi venisse raggiunto e soprattutto nei primissimi anni delle occupazioni la presenza femminile era praticamente inesistente.
Dal punto di vista della provenienza dei coloni non abbiamo statistiche ufficiali che consentano di definire senza alcun dubbio le regioni d’origine, ma attraverso la consultazione dei registri delle cosiddette “navi bianche”, vascelli che rimpatriarono i coloni durante la seconda guerra mondiale, possiamo notare che un buon 50% era di provenienza settentrionale, un 25% dell’Italia centrale ed un 25% dal meridione, più in linea quindi con la migrazione italiana verso l’Europa (il 70% centro-settentrionale, mentre nei trasferimenti oltreoceano la percentuale era la stessa ma di migranti meridionali e solo il 24% settentrionali). Inoltre questa percentuale era in decisa controtendenza con gli abitanti delle colonie fino al 1930, provenienti per più del 50% dalle regioni meridionali. Tornando alla questione femminile possiamo dunque concludere che la quasi totalità delle donne in Etiopia fu di origine settentrionale.375
La conquista dell’impero non si limitò a definire un cambiamento nella composizione dei suoi abitanti ma anche la mentalità coloniale, che fino ad allora aveva permeato i viaggi in Africa di avventura e mistero, sarebbe stata cambiata ideologicamente. Il regime soteneva che un nuovo impero avrebbe dovuto essere popolato da un nuovo tipo di italiano: […]
“La colonia vecchio stile, la colonia di sfruttamento concepita secondo la mentalità demo liberale aveva qualcosa di caotico e di avventuroso che ripugna alla nostra mentalità fascista. La vita coloniale era allora breve parentesi nella vita di un uomo; si afferrava quello che si poteva e quanto più si poteva, per tornare in Patria col proponimento di non ritornare più in Africa […] Ben altra cosa è l’Impero Fascista […] Il “coloniale” di oggi non è più uno spensierato e spavaldo procreatore di una progenie di meticci.”376 […]
La colonia doveva diventare ora una replica del meglio della civiltà della madrepatria, la nuova società coloniale avrebbe dovuto fondarsi su elementi giudicati adatti secondo caratteristiche fisiche, politiche e morali. Vi era un forte controllo burocratico alle domande di partenza ed i nulla osta arrivavano dopo che il richiedente aveva espletato un lungo iter; per
375 E. Ertola, In terra d’Africa – Gli italiani che colonizzarono l’impero, Laterza, Bari, 2017, Pag. 15-19.
376 Ibidem, Pag. 22.
fare un esempio, chi intendeva impiantare un’attività nell’impero doveva fare domanda in carta bollata descrivendo il tipo di attività ed in caso di accoglimento della stessa, una volta giunto sul posto, avrebbe dovuto rivolgersi direttamente al Governo generale dell’A.O.I. il quale gli avrebbe assegnato un posto cercando di venire incontro ai desideri del richiedente. Naturalmente il passato dei futuri abitanti dell’impero doveva essere immacolato sia dal punto di vista politico che da quello penale e la loro situazione finanziaria doveva essere tale da garantirgli una buona autosufficienza economica. Anche i cosiddetti ricongiungimenti familiari dovevano passare attraverso un lungo iter che terminava con il parere favorevole o sfavorevole del Ministero dell’Africa Italiana. I soggetti che in qualche modo riuscivano a raggiungere l’Etiopia senza i necessari requisiti, venivano arrestati in seguito a periodici rastrellamenti della polizia coloniale e rispediti in patria. Comunque le possibilità per trasferirsi nell’impero senza le necessarie qualifiche esistevano ed insieme alla corruzione ed all’inefficienza del personale preposto alle verifiche, un sistema molto in voga era quello di farsi mandare da un italiano compiacente residente in Africa una finta richiesta di assunzione. Parlando ora dell’economia nel nuovo impero, la conquista etiopica portò una grossa dissonanza con le situazioni economiche tipiche di altre strutture coloniali: la novità assoluta fu il massiccio intervento dello stato nella costruzione di infrastrutture, praticamente assenti prima dell’arrivo degli europei, con il quale il regime fascista investì somme considerevoli e decisamente più alte di quanto il povero bilancio statale potesse sopportare. Ciò creò un iniziale periodo di vacche grasse (chiamato da un diplomatico francese nell’Harar “età dell’oro”) dove grazie ai fiumi di denaro provenienti dalla madrepatria diverse imprese private, di costruzioni e soprattutto le grandi banche, si riversarono in Etiopia con l’idea di arricchirsi facilmente ed in modo considerevole. Un’altra categoria di lavoratori che inizialmente intravide nell’impero la possibilità di notevoli guadagni fu quella degli autotrasportatori, grazie all’importanza strategica del loro ruolo. Già nel 1937 però le cose cambiarono: a partire dal rimpatrio dei soldati già a partire dalla metà del 1936 fece seguito un altro rientro, quello degli operai che venivano sostituiti da personale autoctono. L’assoluta mancanza di un substrato economico con buone fondamenta e quindi il carattere di estemporaneità del boom economico venne evidenziato fin dalla fine del 1937 e l’inizio del 1938: il citato rientro di una massa di operai ritenuti però stabili, mandò in crisi il commercio, basato essenzialmente sul vettovagliamento e le forniture, con una situazione che naturalmente con il passare del tempo peggiorò rapidamente. Con il 1938 si passò quindi ad una nuova fase economica per l’Etiopia e cioè ad un’autarchia che puntava all’autosufficienza del territorio, sia per ragioni finanziarie che politiche, cercando di incentivare l’agricoltura e lo sfruttamento delle materie prime, limitando le importazioni e premiando gli esportatori.377 Già nel 1938 i costi dell’impresa africana si stavano mostrando insopportabili e stavano trascinando l’impero sull’orlo del fallimento dopo nemmeno due anni di occupazione. Le infrastrutture cominciavano a mostrare segni di cedimento ed anche il fiore all’occhiello del regime, le famose e costosissime nonché celebratissime strade asfaltate, evidenziava come l’utilizzo di diverse imprese costruttrici, non sempre controllate al meglio, avesse portato a lavori realizzati non certo a regola d’arte ma con costi per lo stato da capolavori rinascimentali.
377 E. Ertola, In terra d’Africa – Gli italiani che colonizzarono l’impero, Laterza, Bari, 2017, Pag. 31-35.
A questo proposito citiamo uno stralcio di una lettera inviata a Mussolini da Roberto Farinacci378 il 25 dicembre 1938:
“Checché ne dica il camerata Cobolli Gigli379, le migliaia e migliaia di chilometri di strade asfaltate rappresentano una tremenda fregatura per l’erario […] Le strade permanenti fatte unicamente perché potessero presentarsi al Duce e far dire all’autore: Ho fatto questo, ho fatto quest’altro, oggi, dopo due anni appena, sono in gran parte in pessime condizioni, non si dia la colpa alle piogge, perché sulla stessa strada che va dall’Asmara ad Addis Abeba, ci sono dei lotti che hanno resistito e dei lotti no, a seconda delle imprese che hanno costruito. Non è stato esercitato un serio controllo tecnico, e si son profusi miliardi con molta facilità. […] troppa gente, troppe ditte succhiano criminalmente alle mammelle della madre patria.”380
Un’altra problematica che i coloni desiderosi di impiantare un’impresa trovavano sulla loro strada era la pesante burocrazia che, se possibile, era ancora più asfissiante che in patria; a questo proposito citiamo una relazione di una fonte dell’OVRA381, che descrive in modo assolutamente realistico la situazione in Africa Orientale:
“Il cittadino che arriva in A.O.I. con sani criteri e con idee buone di svolgere un’attività nella quale è competente si vede preclusa ogni possibilità di lavoro da tutta una impalcatura burocratica che lo tormenta e lo mette nell’impossibilità materiale di lavorare. Esempio: il commerciante XY che desidera mettersi a lavorare seriamente (nella zona di Dessiè supponiamo) per lo sfruttamento di un prodotto qualsiasi, che cosa deve fare? Naturalmente presentare al Commissariato di Governo di Dessiè una domanda che il
378 Farinacci, Roberto. - Giornalista e gerarca fascista (Isernia 1892 – Vimercate 1945). Interventista nel 1914 e fondatore del fascio di combattimento di Cremona (1919), fu tra i più violenti dirigenti dello squadrismo. Sostenitore dell'ala "rivoluzionaria" del movimento, fondò (1922) e diresse il quotidiano Cremona nuova, poi Il Regime fascista e, deputato dal 1924, fu segretario del partito fascista dal febbraio 1925 al marzo 1926. Membro del Gran Consiglio del fascismo dal 1935, il 25 luglio 1943 si schierò contro l'ordine del giorno Grandi e ne patrocinò uno di fedeltà all'alleato tedesco; riparò poi in Germania e militò nella RSI. Fu giustiziato dai partigiani.
379 Cobolli Gigli, Giuseppe. – Uomo politico (Trieste 1892 – Malnate 1987). Ingegnere, dopo aver combattuto da irredentista nella prima guerra mondiale iniziò la carriera politica nel movimento fascista nel 1919, redigendo con lo pseudonimo di Giulio Italico l'opuscolo "Trieste, fedele di Roma". Dal 5 settembre 1935 al 31 ottobre 1939 è stato Ministro dei Lavori Pubblici nel Governo Mussolini, sovrintendendo alle grandi opere svolte nelle colonie italiane, argomento su cui poi scriverà il libro Strade imperiali, pubblicato nel 1938. Si è occupato soprattutto dello sviluppo della rete stradale in Etiopia. Nel territorio nazionale, è stato fra i proponenti del piano regolatore di Catanzaro e di La Spezia (il primo della città), e il primo firmatario del progetto di completamento dell'ex Ospedale Busonera, a Venezia. Come ideologo fascista, Giuseppe Cobol scrisse sulla rivista «Gerarchia»; nel settembre 1927, in un articolo dal titolo “Il fascismo e gli allogeni” in cui, secondo quanto riportato da Giacomo Scotti, Cobolli Gigli teorizzava la Pulizia etnica della Venezia Giulia, attraverso la sostituzione delle popolazioni «allogene» autoctone con coloni italiani provenienti da altre provincie del Regno.
380 E. Ertola, In terra d’Africa – Gli italiani che colonizzarono l’impero, Laterza, Bari, 2017, Pag. 36.
Commissariato trova giusto appoggiare, per cui trasmette la pratica al Comando Gruppo CC.RR. di Dessiè per le informazioni. Il Gruppo CC.RR. trasmette la richiesta di informazioni al paese di nascita del Signor XY e attende che venga la risposta che potrà arrivare, se tutto va bene, in circa due mesi. Avute le informazioni favorevoli, le trasmette al Commissario di Governo, che annota favorevolmente la pratica e la trasmette al Governo di Gondar, dove se tutto va bene e non si perde per strada, arriva in venti giorni. Il Governo di Gondar chiede per conto suo informazioni ai CC.RR. in Italia e dopo altri due mesi ha la risposta. Trasmette allora la domanda favorevolmente annotata al Governo centrale che la trasmette al Ministero, il quale non può fare altro che dare la sua approvazione e mandarla al Viceré che per via Gerarchica la fa arrivare a destinazione. Conclusione la domanda ritorna dopo sei mesi, quando il povero XY, o è morto di travaso di bile, o è tornato in Italia nauseato giurando a se stesso di non tornare più in A.O.I.”382
In un’altra fonte si poteva leggere che se un commissario di qualche governatorato concedeva delle autorizzazioni prima di ricevere i nulla osta dall’Italia, in modo da assicurare una crescita più rapida del tessuto economico della zona, riceveva «dei fulmini tali che egli dovette fare di tutta forza macchina indietro». Le autorità italiane erano informate delle lamentele ma ciononostante il Vicerè Graziani ed il ministro delle colonie Lessona383
382 E. Ertola, In terra d’Africa – Gli italiani che colonizzarono l’impero, Laterza, Bari, 2017, Pag. 44-45.
383 Lessona, Alessandro. – Uomo politico (Roma 1891 – Firenze 1991). Tenente allo scoppio della Grande Guerra e capitano nel 1917, attraversò il conflitto passando su vari fronti, non sempre in prima linea. Si guadagnò comunque una medaglia d'argento al valor militare a Monfalcone (15 maggio 1916). A settembre 1923 scivolò in posizione ausiliaria e poi in aspettativa per riduzione quadri: l'Esercito si disfaceva di lui. Monarchico sempre, si avvicinò al movimento fascista. Fu tutto sommato rapidamente che, fra 1923 e 1924, ottenne la candidatura a deputato nelle elezioni del 6 apr. 1924. Nel luglio 1928 arrivò l'occasione importante: fu nominato sottosegretario all'Economia nazionale dal ministro A. Martelli, che "lo vide ragazzo a Pisa e a Firenze". Vi rimase con compiti vari, ma incerti, sino al settembre 1929, quando passò - sempre come sottosegretario - al ministero delle Colonie, con E. De Bono; vi sarebbe rimasto sino al 1937, divenendone infine ministro e legando il proprio nome all'impresa etiopica. L'ascesa politica del L. non era dovuta a sue specifiche competenze, ma si inquadrava piuttosto nella trama dei legami personali interni alla classe dirigente fascista, nella complessa alchimia della gestione mussoliniana del potere, nei bilanciamenti regionali interni al PNF. Difficile dire dei contenuti dell'attività politica come sottosegretario alle Colonie: il L. non brillava di luce propria, né prese iniziative che caratterizzassero la sua gestione. Al massimo, interpretò in senso radicale alcuni Leitmotive della politica del regime: in campo coloniale, si dichiarò a favore della colonizzazione demografica della Libia e tenne a battesimo la nascita della rivista Azione coloniale di M. Pomilio; in campo diplomatico firmò su Gerarchia articoli duri contro il pacifismo internazionalistico e la Società delle nazioni. Un ruolo più spiccato ed evidente si configurò solo con l'avvio dell'impresa etiopica, in particolare quando (gennaio 1935) De Bono lasciò le Colonie per assumere la carica di alto commissario per l'Africa Orientale e poi comandante in capo delle truppe destinate alla guerra. Fu lo stesso De Bono a chiedere che il L. restasse come sottosegretario, con Mussolini quale ministro. Nel 1935 e 1936 il L. prese in mano la preparazione amministrativa della spedizione in Etiopia. Ebbe contatti frequenti con Mussolini; fu in realtà il ministro di fatto delle Colonie, in un ministero che peraltro conosceva da molti anni. Era pur sempre stretto fra vasi di ferro: il dittatore, De Bono (sino alla sua defenestrazione nell'ottobre 1935), P. Badoglio (sino alla conquista dell'Etiopia, 5-9 maggio 1936), R. Graziani; tuttavia si ricavò propri margini d'azione anche oscillando fra poteri e personalità così spiccate. Al momento della conquista dell'Etiopia il L. non poteva non essere premiato: l'11 giugno 1936 divenne quindi ministro delle Colonie, mentre il suo ministero l'anno successivo veniva ridenominato "dell'Africa Italiana". La guerra era finita ma l'Etiopia non era affatto conquistata, come dimostrato dall'attentato a Graziani del febbraio 1937; finanziariamente l'AOI non solo non aiutava il Paese ma stava dilapidando le risorse del regime; la politica razzista voluta da Mussolini e attuata dal L. metteva in evidenza tutti i suoi problemi; il corporativismo coloniale auspicato dallo stesso L. ristagnava. Il L. fu infine allontanato il 19 nov. 1937 e ciò segnò la sua fine politica; il colpo fu appena attutito dalle 100.000 lire provenienti dai fondi segreti di Mussolini e dalla nomina, richiesta e ottenuta, a professore ordinario di storia e politica coloniale presso la facoltà di scienze politiche di Roma. Dopo il 25 luglio 1943 non lasciò Roma per Salò. Sopravvisse quindi alla guerra e nel dopoguerra scampò ai processi politici dell'epurazione e uscì assolto da quelli per gli illeciti profitti avvenuti durante il regime fascista. In verità l'Etiopia di Hailé Selassié aveva richiesto il giudizio contro il L. per crimini di guerra compiuti nel 1935-36. Ma Addis Abeba fu lasciata sola dalla comunità internazionale e Roma stava facendo di tutto per evitare di essere portata sul banco degli accusati di una possibile "Norimberga italiana": ciò giocò a favore del L., che uscì quasi indenne nel passaggio dal fascismo alla democrazia.
non fecero altro che palleggiarsi le responsabilità. Pare che Graziani, ad una riunione con i federali, abbia risposto in questo modo a chi lo interpellava chiamandolo “Vostra Eccellenza Vicerè”: «Vicerè da operetta, perché se Lei non lo sa il mio potere arriva fino a dare il permesso di aprire un casino, ma indigeno, perché se è bianco ci vuole il permesso del Ministero delle Colonie». A tutto ciò si sommava una corruzione dilagante che certo non favoriva la crescita economica della regione. Naturalmente la crisi degli imprenditori portò anche ad una crisi dei residenti attraverso la cronica difficoltà a trovare un lavoro adeguato o più semplicemente un lavoro.
Per quanto riguarda l’urbanistica, l’impero italiano non si distingueva particolarmente da tutti gli altri imperi coloniali e cioè la distribuzione degli alloggi era severamente legata alla questione razziale. Se in Eritrea ed in Somalia gli occupanti europei dovettero fare i conti con realtà già da tempo cristallizzate e quindi l’adeguarsi fu la parola d’ordine, l’Etiopia venne vista invece come una pagina bianca in cui ridisegnare i quartieri e le stesse città in funzione della parte bianca dei residenti. Senza nessuna vena polemica, vorrei sottolineare che se le leggi razziali in patria (rivolte contro i connazionali ebrei, bianchi) furono al termine del conflitto mondiale (ed ancora ai giorni nostri) tacciate come il punto più basso e riprovevole del regime fascista e di una società cosiddetta civile, ben poche furono le voci che si levarono contro la discriminazione razziale che si attuò in Africa Orientale Italiana. Certo bisogna ragionare con la mentalità dell’epoca e non con quella del nuovo millennio; negli anni degli imperi coloniali la segregazione razziale veniva considerata addirittura fondamentale per la salute pubblica (dei bianchi) ed esempi di apartheid non li troviamo esclusivamente in Sudafrica ma in tutte le realtà extraeuropee dominate dai colonizzatori. Ma di questo argomento tratterò brevemente nella conclusione di questa ricerca dato che, come ho specificato nell’introduzione, vorrei cercare di raccontare la storia del colonialismo italiano nel modo più neutro possibile. Qui mi limiterò semplicemente ad osservare che dopo l’attentato al Viceré Graziani, ad Addis Abeba il 19 febbraio 1937, vennero trucidate migliaia di persone oltre alla spedizione punitiva contro il clero copto etiope (ritenuto responsabile di aver nascosto gli attentatori e di sobillare il popolo contro l’occupazione italiana) ed al successivo massacro a Debrà Lebanòs, dove morirono più di 2500 persone ad opera di ascari somali islamici; nonostante l’Etiopia, al termine del conflitto, abbia cercato di farsi consegnare come criminali di guerra gli artefici di tali efferatezze, né le Nazioni Unite né tantomeno l’Italia hanno mosso dito, neppure creando delle commissioni atte a vagliare eventuali responsabilità. In generale non ci fu mai una “Norimberga italiana” cioè un processo a quegli alti ufficiali italiani che si macchiarono di crimini di guerra su tutti i fronti del conflitto (mi torna alla mente, ad esempio, la circolare 3 C384 che il generale Roatta385 fece distribuire in Yugoslavia, commentando “Qui si ammazza troppo poco”), perlomeno verso le
384 V. Documento n. 23.
385 Roatta, Mario. - Generale italiano (Modena 1887 – Roma 1968). Partecipò alla prima guerra mondiale e fu poi addetto militare a Varsavia, Riga, Tallinn, Helsinki. Comandò il corpo di spedizione italiano in Spagna (1936-39) e nel 1939 fu inviato a Berlino come addetto militare. Capo di S.M. (1941), nel sett. 1943 seguì il re e Badoglio a Brindisi. Arrestato nel 1944 con l'accusa di aver sostenuto il fascismo dopo il 25 luglio 1943 e soprattutto di non aver difeso Roma, riuscì a evadere e a rifugiarsi in Spagna. Fu condannato all'ergastolo in contumacia, ma la sentenza venne annullata nel febbraio 1948. Nel 1949, sottoposto a nuovo processo, fu prosciolto in istruttoria.
due figure che agirono con più virulenza contro i civili etiopici cioè Graziani ed il generale Maletti386 .
Tornando a parlare di edilizia, il piano per le “nuove” città etiopi fu subito chiaro: vennero create delle nuove zone, dei nuovi “centri” abitati esclusivamente da bianchi ed i vecchi abitanti indigeni vennero “invitati” (tramite anche un piccolo risarcimento) a spostare i loro tucul387 nelle zone a loro riservate ma ben distinte e separate da quelle dei coloni europei. Un grosso problema per i coloni fu che l’ordine delle nuove costruzioni privilegiava i palazzi del potere ed all’edilizia abitativa ci si dedicò in ritardo e quasi esclusivamente in favore dei funzionari dell’amministrazione coloniale; queste scelte determinarono conseguenze gravi per i coloni che soffrirono sempre, nei cinque anni dell’impero, di carenza di alloggi. Se consideriamo poi il quadro ideologico ed in seguito legislativo, che prevedeva la rigorosa separazione razziale.388
Dal punto di vista della società civile, le regole non erano così strette come il regime avrebbe voluto; a causa dei problemi definiti precedentemente (difficoltà lavorative e scarsità di alloggi) la separazione tra indigeni e coloni non fu mai così netta come in altre società coloniali (v. Sudafrica). Ci sono svariati esempi di famiglie italiane che vivevano a stretto contatto con famiglie indigene nonostante i consigli prima ed i divieti dopo delle autorità.
386 Maletti, Pietro. – Generale (Castiglione delle Stiviere 1880 – Sidi el Barrani 1940). Dal libretto personale militare risulta che era di altezza media (167 cm) e "ottimo marciatore"; giudicato "poco studioso", avrebbe riportato a lungo giudizi non esaltanti; ma soprattutto, tra le annotazioni relative al periodo della Grande Guerra, si legge: "È ufficiale molto rigido nel mantenimento della disciplina, che ottiene ricorrendo quasi sempre alla coercizione, pochissimo alla persuasione"; giunto in colonia, dunque, ciò che gli era addebitato negativamente in patria diventò un merito: o forse, anche, il M. conobbe una propria evoluzione. Il M. trascorse in colonia, salvo brevissime interruzioni, quasi diciassette anni, partecipando in prima persona alla "riconquista", o più esattamente alla conquista, dell'interno della Libia, prima in Tripolitania e poi soprattutto in Cirenaica, con superiori come R. Graziani, forgiando il proprio profilo di rigido ufficiale coloniale e acquisendo importanti benemerenze presso il regime fascista. Circa dieci anni dopo il suo allontanamento dal Carso e all'epoca delle leggi fascistissime (1925-26), il M. era ormai giudicato in colonia di "cultura generale e professionale notevolmente superiore a quella dei parigrado" e nel 1928 fu definito addirittura "il più completo e il più sicuro dei nostri ufficiali coloniali". Nel 1935 il M. fu chiamato in Somalia ove Graziani, che così tanto lo aveva apprezzato in Libia era stato nominato governatore e comandante in capo delle truppe, per la preparazione e poi per la conduzione della guerra all'Etiopia dal "fronte sud"; qui il M. guidò il raggruppamento arabo-somalo. Anche se la versione ufficiale di alcuni combattimenti in cui furono impegnati il M. e le sue truppe è elogiativa, gli storici sono stati più critici. Alla fine del conflitto il M. assunse il comando del presidio di Dire Daua, quando ormai era in via di approvazione la sua nomina a generale di brigata per meriti di guerra. Con tale grado concorse alla guerra di repressione del "brigantaggio" etiopico, cioè della resistenza anticoloniale e antifascista, nella quale il M. fu, se possibile, ancora più efficiente e duro di quanto fosse stato in Libia: dapprima comandante del settore Giuba in Somalia, partecipò alle operazioni di grande polizia coloniale nella "zona dei laghi"; condusse alcune sanguinose repressioni e fu al comando delle truppe che, nel maggio 1937, perpetrarono le stragi di Dèbra Libanòs e di Engecha. Operazioni volute dal viceré Graziani e condotte "a freddo", a distanza di mesi dall'attentato contro quest'ultimo del febbraio precedente. In ogni caso, è difficile ridimensionare le personali responsabilità del M. in un'azione di sterminio che fece non 450 vittime circa, come riportato dalla documentazione ufficiale, bensì, secondo alcuni recenti studi, fra le 1400 e le 2000 a Dèbra Libanòs e circa 400-500 a Engecha. Non è possibile sapere se tali operazioni di "grande polizia coloniale" furono direttamente la causa, ma certo a seguito di esse il M. ottenne la promozione a generale di divisione "per avanzamento straordinario per meriti eccezionali" (2 giugno 1938). Dopo alcuni mesi di assenza, tornò in Eritrea ma vi rimase poco: forse il suo passato e il suo tratto poco si confacevano al nuovo corso coloniale voluto da Amedeo di Savoia, duca d'Aosta, che aveva sostituito Graziani. Nel maggio del 1940 passò dal comando del XII a quello del XVI corpo d'armata destinato all'Africa settentrionale, ancora con Graziani. La guerra lo vide quindi per qualche mese in prima linea, al comando di uno speciale raggruppamento libico, sino alla sua rapida fine.
387 Nome usato dagli Europei per indicare l’abitazione stabile, di forma cilindrica e con tetto conico di paglia, particolarmente diffusa nell’Africa orientale e spesso riproposta altrove in villaggi di vacanze sul mare.
388 E. Ertola, In terra d’Africa – Gli italiani che colonizzarono l’impero, Laterza, Bari, 2017, Pag. 63-70.
Anche se la cosa che irritava di più era la presenza di nazionali che, per necessità o semplicemente in cerca di migliore sorte, si dedicavano ad attività illecite o tiravano avanti con mezzi di fortuna, nuocendo così all’immagine della società dominatrice portatrice di benessere e di civiltà. A conferma di quanto sopra accennato riportiamo un brano di una relazione della polizia coloniale di Harar del 1° maggio 1939:
“Non può certo tollerarsi nell’Impero la presenza di disoccupati nazionali i quali, senza mezzi e senza proventi, sono indotti per necessità o per indole a commettere azioni criminose o comunque lesive del prestigio e della dignità di razza”389
Abbiamo già visto come il numero delle donne in Etiopia fu da subito percentualmente alto rispetto alle normali colonie di popolamento e questo fu dovuto anche all’incoraggiamento dato dal regime al ricongiungimento familiare nel più breve tempo possibile. Tutto ciò naturalmente non era fatto per fare un piacere ai coloni ma semplicemente per evitare quello che veniva chiamato il “temuto inconveniente” e cioè la nascita di un sempre maggiore meticciato. Di questo si preoccupò persino la Santa Sede dato che il pontefice Pio XI390, in un colloquio con il ministro degli Esteri Ciano391, si premurò di
389 E. Ertola, In terra d’Africa – Gli italiani che colonizzarono l’impero, Laterza, Bari, 2017, Pag. 99.
390 Pio XI papa. - Ambrogio Damiano Achille Ratti (Desio 1857 - Città del Vaticano 1939). Dopo aver studiato a Desio, quindi nei seminari diocesani di Milano e nel Seminario lombardo di Roma, dove fu ordinato prete il 20 dic.1879, si laureò in teologia, in diritto canonico e in filosofia. Prof. per cinque anni di sacra eloquenza a Milano, tenne un corso speciale di teologia nel Seminario maggiore; ammesso fra i dottori della Biblioteca Ambrosiana (1888), compì varî viaggi scientifici, riordinò la biblioteca della Certosa di Pavia (1898), e tra il 1905 e il 1907 la Biblioteca e la Pinacoteca Ambrosiana e il museo Settala. Ebbe l'incarico dal capitolo del duomo di Milano di recuperare e restaurare le pergamene e i codici danneggiati, opera che portò a termine nel 1914. Nel 1918 fu nominato visitatore apostolico in Polonia e Lituania, e come tale, in un periodo difficile, che vedeva il crollo degli Imperi centrali, svolse una proficua attività, ottenendo il riconoscimento della Polonia da parte della Santa Sede (30 marzo 1919). Eletto pontefice, succedendo a Benedetto XV, il 6 febbr. 1922, assunse il nome di Pio XI, e nel giorno dell'elezione al pontificato si affacciò alla loggia esterna di S. Pietro che era rimasta chiusa dal 1870, per impartirvi la benedizione urbi et orbi; ripeté il gesto in occasione dell'incoronazione (12 febbr.). La sua volontà di risolvere la questione romana, dopo lunghe trattative, portò alla stipulazione dei Patti Lateranensi, comprendenti un concordato e un trattato, considerati da P. XI come inscindibilmente uniti. L'atteggiamento neutrale assunto durante il conflitto etiopico (1935-36) fu oggetto di critica fuori d'Italia, ma dopo i provvedimenti razzisti approvati dal Gran Consiglio del fascismo (6 ott. 1938) ci fu una sua ferma protesta. Fu artefice della sistemazione edilizia del nuovo Stato della Città del Vaticano e, sostenitore delle ricerche scientifiche e dei progressi tecnici, affidò a G. Marconi la realizzazione della Radio vaticana (che inaugurò il 12 febbr. 1931 con un solenne radiomessaggio) e ricostituì (28 ott. 1936) la Pontificia accademia delle scienze.
391 Ciano, Galeazzo, conte di Cortellazzo. - Diplomatico e uomo politico italiano (Livorno1903 – Verona 1944); figlio di Costanzo; console generale a Shanghai (1930), poi ministro plenipotenziario in Cina, divenne per il suo matrimonio con Edda Mussolini (1930) uno degli uomini più in vista del regime fascista. Capo dell'ufficio stampa del capo del governo (1933), sottosegretario per la Stampa e propaganda (1934), ministro per la Cultura popolare (1935), assunse (1936) il ministero degli Affari Esteri. Passivo esecutore, di fatto, dei voleri del suocero (la responsabilità dell'invasione dell'Albania nel 1939 ricade peraltro quasi interamente su di lui), ma desideroso di popolarità attraverso la fama di dissidente, C. si distaccò veramente dalla politica di Mussolini solo nell'autunno 1942, di fronte all'aggravarsi della situazione italiana nella seconda guerra mondiale. Dovette abbandonare gli Esteri il 5 febbr. 1943 per l'Ambasciata presso il Vaticano; nella seduta del Gran consiglio del 24 luglio 1943 votò l'ordine del giorno Grandi che suonava sfiducia nei confronti di Mussolini. Rifugiatosi in Germania (con la speranza di passare in Spagna), fu consegnato alla Repubblica Sociale Italiana. Condannato a morte dal tribunale speciale fascista di Verona, fu fucilato.
consigliare al politico italiano di inviare in Africa il maggior numero di famiglie ed evitare per quanto possibile di mandare uomini soli. La donna italiana dell’Impero avrebbe dovuto avere diverse mansioni da soddisfare: doveva essere moglie, madre, custode della moralità e garante della razza, ruoli peraltro ben delineati da un ampia pubblicistica e da veri e propri corsi organizzati dal partito per preparare le italiane alla vita coloniale. Ciononostante il problema del sesso, soprattutto per i giovani soldati che continuavano ad essere la percentuale maggiore di maschi bianchi nell’Impero, rimaneva irrisolto. Le autorità sollecitarono più volte il governo di Roma affinché inviasse in colonia il maggior numero di prostitute bianche possibile in modo che i bordelli indigeni fossero destinati principalmente od esclusivamente a maschi di colore. Il problema era talmente sentito che il fascismo ribaltò il concetto sociale presente in altre esperienze coloniali. Se altrove la prostituta bianca era vista come un segno di degrado della popolazione e quindi come una macchia al prestigio della razza e della supposta superiorità morale della donna bianca, nell’Africa italiana era incentivata dal regime.
Come abbiamo accennato precedentemente, il rapporto tra coloni e colonizzati, nonostante gli sforzi del regime, risultava molto diverso da caso a caso, con un’osservanza delle regole oseremmo dire “all’italiana”; centinaia di segnalazioni mostrano come i nazionali non rispettassero certo alla lettera le direttive imposte e di come la strada verso l’apartheid dovette sembrare ancora molto lunga. Nel 1936 il governatore dell’Eritrea emanò una circolare nella quale si deprecava:
“Lo spettacolo indegno che si verifica giornalmente dinanzi alle case malfamate delle donne indigene, dove molti nazionali fanno ressa e schiamazzi per avere la precedenza nell’ingresso, come son degradanti alcune manifestazioni cui si sono abbandonati taluni giovani cittadini che si sono fatti vedere pubblicamente in pose di ridicola svenevolezza verso donne indigene e, peggio, si sono fatti fotografare”.392
In altre testimonianze veniva osservato come i nazionali frequentassero gli indigeni sia nei locali pubblici che a passeggio oppure andassero con loro su vetture o carrozze e dando, secondo questi testimoni, troppa confidenza agli indigeni stessi. Ma quello che mandava letteralmente in bestia le autorità era la condotta scorretta dei coloni che ledeva il prestigio e risultava indegna per una schiatta di dominatori imperiali. Anche secondo il gerarca Farinacci i modi di molti coloni italiani in Africa sono volgari, disgustosi o offensivi, ed elencava i principali difetti dei connazionali:
“a) assoluta mancanza di comprensione e di rispetto per le consuetudini e i costumi delle popolazioni; b) contegno pessimo da parte dei nazionali civili e militari nei confronti
392 E. Ertola, In terra d’Africa – Gli italiani che colonizzarono l’impero, Laterza, Bari, 2017, Pag. 152.