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1.2. Il destino dell’Eritrea. Pag
5.2. Il destino dell’Eritrea.
Escludendo la Libia (non è argomento di studio) e l’Etiopia (già ritornata indipendente) , andremo ad analizzare ora la situazione degli ultimi due ex possedimenti che il Governo italiano tentò invano di conservare pur in forma differente da quella di colonia. Il governo britannico aveva fin dagli inizi idee molto chiare sul futuro delle due ex colonie italiane: l’Eritrea sarebbe dovuta essere smembrata e ritornare una parte all’Etiopia (nel frattempo legatasi a Londra) con il vitale sbocco sul Mar Rosso ed una parte essere inglobata dal Sudan britannico; la ex Somalia italiana sarebbe stata unita all’ex Somalia britannica insieme alla regione etiopica dell’Ogaden (regione dell’Etiopia a maggioranza somala che venne annessa alla Somalia dopo la guerra italo-etiopica del 1935-36), formando così una grande Somalia che sarebbe dovuta diventare una specie di protettorato britannico. A proposito di questo, un dipendente del Foreign Office amico di Sylvia Pankhurst444 , la quale chiedeva spiegazioni in merito al comportamento del Governo di Sua Maestà nel piccolo paese africano, ammetteva candidamente: «Let us remember that what we are doing in Abyssinia is for our own benefit, not for that of the Abyssinians, and it is possible to imagine circumstances in which it might suit us to throw them over»445. D’altronde gli inglesi vedevano ancora tutti i paesi africani con l’occhiale del colonialista, quindi realtà da sfruttare finchè possibile e poi andarsene lasciando più o meno terra bruciata. La stessa Pankhurst fu testimone nel 1952 dello smantellamento del porto di Asmara da parte delle autorità britanniche e dello smantellamento di ogni infrastruttura eritrea che avrebbe potuto essere venduta o riutilizzata da possedimenti britannici in zona e tutto questo prima di cedere il paese all’Etiopia (in realtà inizialmente l’Eritrea venne considerato un paese autonomo federato all’impero Etiope ma venne poco a poco svuotato di ogni prerogativa e nel 1962 annesso definitamente).446 Ma quella che ho raccontato ora è la fine della storia dove l’Italia ormai non aveva più alcuna voce in capitolo; vediamo invece come si svolsero tutte le trattative che precedono questa situazione definitiva.
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Il Governo italiano aveva portato, nelle varie conferenze che si erano tenute dopo il conflitto, delle ragioni secondo le quali l’Eritrea e la Somalia avrebbero dovuto essere restituite all’Italia, se non come colonie almeno come amministrazione in attesa di una prossima indipendenza dei due stati africani: si faceva ancora leva sulla questione migratoria e
444 Pankhurst, Sylvia. –Viene più volte arrestata e imprigionata durante gli scioperi organizzati dalle suffragette. Fervente pacifista, nel 1914 rompe i rapporti con la madre al contrario sostenitrice dello sforzo bellico e subito comincia ad organizzare attività anti-conflitto a Londra. Le sue idee diventano sempre più rivoluzionarie tanto che nel 1919 incontra anche Lenin ed è tra i fondatori del Partito Comunista Britannico 1920 anche se ne viene espulsa l’anno seguente per l’eccessiva libertà di parola e di pensiero che essa pretende. Nel 1917 incontra un esule italiano dalle idee socialiste, Silvio Corio, con il quale lavora da giornalista e condivide il pensiero politico; non solo, nel 1927 da alla luce il suo unico figlio, Richard, naturalmente senza sposarsi con l’amante italiano. Diventa antifascista ed anticolonialista e quando l’Italia invaderà l’Etiopia nel 1935 fonderà un giornale, il New Times and Ethiopian News sostenendo sempre le ragioni di Hailè Seilassiè alla Lega delle Nazioni ed anche in seguito quando rientrerà in Etiopia nel 1941. Sylvia si opporrà fortemente ai piani britannici di protettorato sull’Etiopia e supporterà l’unione tra Etiopia ed Eritrea.
445 «Ricordiamoci che quello che stiamo facendo in Abissinia è per un nostro vantaggio e non per gli abissini, ed è possibile immaginare anche la circostanza in cui ci sarà utile liberarci di loro».
sul lavoro e le opere degli italiani residenti nelle colonie; in maniera decisamente anacronistica si cercava di far valere la missione “civilizzatrice” dell’Italia nel Corno d’Africa ma tutto questo altro non fece che irritare i paesi vincitori che vedevano un paese sconfitto pretendere delle concessioni alle quali, soprattutto i britannici, non avevano nessuna intenzione di consentire. A questo punto è corretto fare una piccola sottolineatura della situazione dell’Italia nel mondo uscito dalla seconda guerra mondiale: si sente dire a tutt’oggi da molti uomini politici nostrani che grazie al periodo di cobelligeranza con gli alleati (dal 13 ottobre 1943 contro la Germania e dal 15 luglio 1945 contro il Giappone, fino alla fine della guerra il 15 agosto 1945) e soprattutto grazie alla resistenza, il paese abbia contribuito alla vittoria contro l’Asse, si sia liberata dalla tirannia e fondamentalmente abbia per così dire “vinto” la guerra (che infatti non viene più chiamato conflitto mondiale bensì guerra di liberazione). Non è così, l’Italia era un paese che aveva cominciato il conflitto al fianco della Germania ed era stato sconfitto sul campo; a ben poco serviva il cambio di campo effettuato l’8 settembre 1943 con la proclamazione dell’armistizio con gli alleati, per altro proposto e sostenuto principalmente dagli Stati Uniti ed accettato mal volentieri dalla Gran Bretagna che per tutta la durata del periodo di cobelligeranza fu sempre molto sospettosa nei confronti dei nuovi “alleati” e tenne quasi sempre nelle retrovie le unità del cosiddetto Regno del Sud, oltre ad avere un sentimento di rivalsa nei confronti dell’Italia (Churchill avrebbe voluto radere al suolo diverse città della penisola come vendetta per la partecipazione italiana, seppur scarsa e per nulla fondamentale, alla battaglia d’Inghilterra dell’estate 1940). Inoltre l’atteggiamento volto a cancellare il ventennio fascista ed a considerare il paese del dopoguerra come un popolo di antifascisti e quindi meritevole di ottenere, se non dei vantaggi, almeno la conservazione dello status quo prebellico, era quantomeno illusorio e non aveva speranze di venire accolto dai vincitori.
Tornando a noi, la situazione dell’Eritrea era particolarmente complicata per una serie di concause che ora andremo ad analizzare. Come abbiamo già evidenziato, i piani britannici per la sistemazione politica dell’Africa orientale erano ben chiari, una Grande Somalia con un protettorato inglese e la sparizione dell’Eritrea suddivisa tra Sudan ed Etiopia. Nel dopoguerra in Eritrea nacquero i primi partiti politici, autorizzati dagli inglesi in modo da approfondire le divisioni tra la popolazione: il Partito unionista con lo scopo di favorire la riunificazione con l’Etiopia e da questa abbondantemente approvvigionato di denaro ed armamenti, la Lega Musulmana che si richiama a quella indiana che porterà alla formazione del Pakistan che è contraria a qualsiasi smembramento del paese o annessione all’Etiopia e persegue l’indipendenza, il Partito liberale progressista, principalmente cristiano che sostiene un’idea politica identica alla Lega. A questi partiti si aggiungono delle associazioni come quella degli italo-eritrei che si propone di raccogliere quella parte di popolazione nativa legata da vincoli di parentela agli italiani e quella dei veterani e delle famiglie dei caduti formata dagli exascari e famiglie, promosse da esponenti della comunità italiana. Queste associazioni, insieme al nuovo partito che nasce il 29 settembre 1947, il Partito Pro-Italia Nuova Eritrea, si danno come programma e fine l’amministrazione fiduciaria italiana, che garantirebbe loro il pagamento delle pensioni di guerra da parte di Roma, fondamentali in un momento in cui, come abbiamo visto, i britannici stanno procedendo a smantellare tutte le infrastrutture eritree causando una drammatica crisi economica. Gli italiani creano anche due organizzazioni, il Comitato rappresentativo degli italiani in Eritrea (che opera alla luce del sole) ed il Comitato di azione segreta (clandestino) oltre a costituire dei partiti che si richiamano a quelli attivi in
patria (comunista, socialista, democristiano, ecc.), tutti ovviamente con l’obiettivo di ripristinare l’ammistrazione italiana nel paese.447
A parte il Partito unionista, tutte le formazioni politiche eritree sono contrarie ad una riunificazione con l’Etiopia e questo non piace ad Addis Abeba, che nel frattempo aveva continuato a rivendicare alle Nazioni Unite e presso gli alleati i suoi diritti storici sull’Eritrea. Vengono quindi formati dei gruppi paramilitari, gli Shiftà448, per intervenire violentemente contro gli indipendentisti e successivamente contro gli italiani, per creare un clima di tensione, in vista della visita della commissione d’inchiesta delle quattro potenze vincitrici.
Tra i principali sostenitori dell’indipendenza eritrea merita di essere citato Woldeab Woldemariam449 che riuscirà a vedere un paese finalmente libero solo al termine della propria esistenza, dopo avere passato più di trent’anni in esilio in Egitto ed aver subito ben sette attentati alla propria vita. Oltre che ad essere sponsorizzate dal Governo etiopico, queste bande di fuorilegge erano tollerate anche dal governo militare britannico in quanto consapevole che più la popolazione eritrea era divisa più era probabile la divisione del paese come era nella speranza inglese. Ufficialmente il Governo di Sua Maestà era disposto a presentare in maniera positiva il punto di vista italiano riguardo alle ex colonie agli incontri dei vari ministri degli esteri chiedendo però di non essere troppo pressanti in merito, come risulta da una lettera inviata al ministro degli esteri Sforza450 dall’ambasciatore inglese a Roma, inviata il 22 giugno 1947.451
Per quanto concerneva la posizione italiana, oltre ai già citati problemi migratori, vi erano anche forti problematiche economiche che spingevano il Governo a pressare il più possibile i vincitori. In un promemoria segreto datato 28 maggio 1947, veniva segnalato che
447 S. Poscia, Eritrea colonia tradita, Edizioni Associate, Roma, 1989, Pag. 36-39.
448 Il termine scifthà o, in senso dispregiativo, t'era scifthà viene usato in diversi paesi dell'Africa orientale, e in particolare Eritrea, Etiopia, Kenya e Somalia, per indicare coloro che si oppongono alle istituzioni ufficiali, sulla base di motivazioni politiche, e che intraprendono di conseguenza una vita da ribelli e fuorilegge. Storicamente, venivano chiamate scifthà anche le milizie che operavano nelle più remote zone rurali e montane del Corno d'Africa, dove le istituzioni sia coloniali che postcoloniali avevano difficoltà a imporre il proprio controllo.
449 Woldemariam, Woldeab. – Politico e giornalista eritreo (Adi Zarna, 1905 – Asmara, 1995). Fu tra i primissimi sostenitori dell'indipendenza eritrea, tanto da essere considerato fra i "padri" dello stesso paese, assieme a figure come I. Sultan Alì(con cui collaborò attivamente).Di religione evangelica, lavorò per conto delle missioni svedesi come insegnante. Dopo l'occupazione britannica nel 1941 si schierò apertamente contro l'ipotesi, poi realizzata, di un'unione politica fra l'Eritrea e l'Etiopia. Mantenne la medesima posizione anche dopo l'istituzione della federazione nel 1951, subendo numerosi tentativi di omicidio, ma continuando a sostenere l'indipendentismo tramite le organizzazioni di massa: fu il fondatore della Confederazione dei lavoratori eritrei, primo sindacato del paese. Sostenne sempre posizioni patriottiche, invitando i connazionali a superare le divisioni etnico-religiose fra cristiani e musulmani, guardando alla comune appartenenza al popolo eritreo.
450 Sforza, Carlo. - Diplomatico e uomo politico italiano (Montignoso, 1872 – Roma, 1952), figlio dello storico Giovanni. Quale ministro degli Esteri stipulò il Trattato di Rapallo con la Jugoslavia (1920). Fervente antifascista, nel 1927 lasciò l'Italia, tornandovi solo nel 1943. Fu poi presidente della Consulta e deputato repubblicano alla Costituente. Di nuovo ministro degli Esteri (1947-51), si impegnò per la ratifica del trattato di pace e per l'ingresso dell'Italia nella NATO.
alcune note ed accreditate ditte industriali e commerciali italiane in Eritrea avevano richiesto al Ministero dell’Africa Italiana di ottenere l’esenzione dai dazi di importazione in Italia di determinati prodotti, ciò a causa delle restrizioni imposte dalle forze di occupazione che avevano creato sofferenza alle imprese italiane. Riuscendo ad evitare questi problemi le aziende avrebbero previsto diversi vantaggi:
• Impulso alle attività che languono; • Riassorbimento di mano d’opera; • Diminuzione dell’esodo di italiani verso la madrepatria che al contrario potessero fornire una solida base per le nostre richieste d’amministrazione territoriale; • Rilevanti disponibilità di fondi sul posto.452
Inoltre, in un altro memoriale diretto al ministero si segnalava come le autorità d’occupazione cercassero di spingere l’Eritrea nel campo dell’organizzazione economica inglese, ostacolando i contatti e gli scambi commerciali con altri paesi e principalmente con l’Italia e le altre ex colonie.453 Dal luglio del 1948 pervengono al Sottosegretario di Stato per gli affari esteri Giuseppe Brusasca454 diversi memorandum con la situazione politica ed economica del paese che tutto era tranne che positiva sia per la popolazione che per l’economia. E’ evidente da queste comunicazioni che l’amministrazione militare britannica non solo non procede a mettere fine agli episodi di violenza ma è anzi complice delle manovre degli shiftà.
“Nel solo mese di agosto e nei primi giorni di settembre, si sono verificate parecchie aggressioni nelle quali tre italiani ci hanno rimesso la vita ed un’altra decina sono stati completamente spogliati di ogni avere e bastonati a sangue, unitamente a qualche commerciante arabo e cioè:
Al km. 30 circa della strada Asmara – Adi Ugrì un uomo ed una donna italiani ed un commerciante arabo rapinati e denudati. (Banda Hagos);
452 ACS AS 001-0000707, b. 2050, f. P1/5 bis. 453 ACS AS 001-0000707, b. 2081, f. P III. 454 Brusasca, Giuseppe. – Avvocato e politico italiano (Gabiano, 1900 – Milano, 1994). Dal 1923 al 1925 guida la minoranza popolare contro i fascisti nel Consiglio comunale. Abilitatosi all'avvocatura, nel 1926 si trasferisce a Milano dove frequenta gli ambienti dell'antifascismo cattolico. Dopo l’8 settembre s'impegna nella Resistenza, fondando la divisione autonoma Patria attiva nel Monferrato. Con l'aiuto di sacerdoti amici (tra cui padre G. Sisto), salva in prima persona tre famiglie ebree (i Foa di Casale Monferrato, i Sacerdote di Milano, e i Donati di Modena) a nascondersi e quindi a espatriare in Svizzera. Per questo sarà riconosciuto come giusto tra le nazioni dall'Istituto Yad Vashem l'8 luglio 1969. Nell'aprile del 1945 fa da mediatore per le trattative poi fallite per la resa di Mussolini. Dopo la Liberazione, sostituisce A. Marazza come vicepresidente del CLN Alta Italia.Membro del consiglio nazionale della Democrazia Cristiana dal 1945 al 1947 e della Consulta Nazionale (1945-1946), nel giugno 1946 viene eletto alla Assemblea Costituente. Dapprima nominato (17 luglio 1946) Sottosegretario all'Industria e commercio nel secondo Governo De Gasperi, il 18 ottobre 1946 viene nominato Sottosegretario agli Affari Esteri nello stesso Governo. Dopo una breve parentesi di tre come sottosegretario alla Difesa nel terzo Governo De Gasperi, torna nel giugno 1947 al ministero degli Esteri sempre come sottosegretario nel quarto Governo De Gasperi. Manterrà questo incarico anche nel quinto e sesto esecutivo diretti dallo statista trentino. Resta Sottosegretario di Stato per gli affari esteri fino al luglio 1951. Intano nell'aprile 1948 è eletto deputato alla Camera nella circoscrizione di Cuneo. Nel 1951 passa a ricoprire la carica di sottosegretario al ministero dell’Africa italiana nel penultimo dicastero De Gasperi, ministero di cui De Gasperi ha l'interim, fino all'aprile 1953.
Al km. 27 della ferrovia Asmara – Cheren, tentato assalto alla littorina andato a vuoto, subito dopo pochi minuti, aggressione nelle vicinanze di due operai italiani che lavoravano sulla ferrovia e loro uccisione. (Banda Hagos);
1. Al km. 58 della strada Asmara – Cheren, aggressione ed uccisione di un autista italiano. (Banda Hagos); 2. La sera stessa, dalle 21 alle 23, aggressioni sulle pendici orientali delle concessioni agricole Alberto Matteola e Giannavola con spoliazione di sette italiani tra uomini, donne ed un bambino. (Banda Hagos); 3. Nei giorni seguenti, aggressioni alle concessioni Matteo Matteola, Prati, Pizzallo,
Abdelcader, Chebiré. (Banda Hagos); 4. Sempre nei seguenti giorni aggressioni isolate nella zona di Merara, contro persone isolate e pastori, con bastonature e spoliazioni. (Banda Hagos).”
“Questi fatti, che si susseguono con regolarità, anzi si intensificano, convivono in una specie di connivenza reciproca di interessi e scopi. Gli shifta hanno grande libertà di azione e possibilità di rapidi spostamenti, sono visti e segnalati da molte persone, ma mai l’autorità, nonostante le numerose gite sportive che fa eseguire alla polizia ed alle truppe in ausilio alla polizia, riesce non dico a prenderli ma neanche a vederli.”455
Questa era una testimonianza dal punto di vista dell’ordine pubblico, ma dal punto di vista economico com’era la situazione? Da un altro memorandum diretto a Brusasca la situazione non era certo rosea dato che gli operai e gli impiegati faticavano ad arrivare alla fine del mese a causa del continuo aumento del costo della vita dovuto alla già citata smobilitazione industriale e non solo, che cominciava a prendere piede nel paese. Per quanto riguardava gli artigiani ed i negozianti, il loro numero continuava a declinare dato che erano stati messi in condizioni di inferiorità rispetto a coloro di altre nazionalità arrivati a seguito degli occupanti inglesi. I permessi di importazione ed esportazione dei prodotti venivano concessi quasi esclusivamente agli stranieri mentre le poche concesse agli italiani erano ostacolate continuamente con mille pretesti. Le attività italiane subivano una tassazione del 25 – 30 % su un reddito considerato da due a quattro volte quello effettivo portando così a numerose chiusure e fallimenti. L’agricoltura che durante la guerra era in grado di fornire più di un milione di persone, tra bianchi e indigeni, di quasi tutti i prodotti ortofrutticoli oltre a tutti i vari allevamenti di bestiame, a causa delle continue aggressioni era ridotta, nel 1948 a servire non più di quarantamila persone nonostante le considerate, dal memorandum, grandi potenzialità di sviluppo. Dal punto di vista industriale, le più importanti erano la carta, la birra, i pastifici, le ceramiche - vetrerie ed i bottonifici di madreperla, tutte (sempre secondo il memorandum) ben avviate e che a causa dei divieti di esportazione (soprattutto nei paesi limitrofi ed in Asia) sono ormai ridotte ai minimi termini.
Politicamente parlando, secondo il memorandum il 60 - 70% circa degli eritrei era favorevole ad una amministrazione italiana fino all’indipendenza del paese. La commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite avrebbe solo ascoltato capi indigeni favorevoli al punto di vista inglese mentre a quelli contrari alla linea britannica sarebbe stato impedito di parlare anche con la forza. Intere popolazioni sarebbero state fatte attendere per giornate intere con la promessa di poter esprimere il loro parere alla commissione ma invano. La politica britannica di divisione della popolazione eritrea non farebbe che aumentare l’irritazione ed il nervosismo in tutti e quella di lento soffocamento economico acuisce tutti i problemi. La disoccupazione indigena sarebbe in continuo aumento anche a causa della partenza degli italiani ai quali erano lavorativamente legati. Una cosa è sicura: il progetto che procede a gonfie vele è quello di fare partire la maggior parte degli italiani dall’Eritrea dato che anche coloro che si erano fatti una posizione e che avevano maggiori possibilità di altri sono ormai arrivati al limite e sono anch’essi costretti a tornare in Italia per poter sopravvivere. Naturalmente i piani degli inglesi e degli etiopi di dividere ed annettersi il paese procede senza particolari intoppi. Il memorandum si conclude con un’esortazione al Governo italiano di cercare di imperdire l’esodo dei connazionali dall’Eritrea in tutti i modi possibili con aiuti economici, anche tramite l’amministrazione britannica per dare un po’ di respiro all’economia del paese nell’attesa della decisione finale a proposito del destino dell’ex colonia.456
Una decisione finale che però tardava ad arrivare e dato che i quattro grandi non erano riusciti a trovare una soluzione accettabile per tutti, la parola passò, come da trattato di pace, alle Nazioni Unite. L’assemblea generale dell’ONU era quindi chiamata a svolgere un ruolo determinante nel processo di decisione della sorte delle ex colonie italiane. Ovviamente il giudizio dell’Assemblea avrebbe avuto carattere vincolante ma sarebbero state le quattro potenze vincitrici a darvi esecuzione. Certamente la soluzione non si profilava comunque molto facile giacché ci sarebbe voluta la maggioranza dei due terzi dell’Assemblea dei cinquantotto stati membri ed oltretutto in discussione vi erano argomenti decisamente più importanti come l’energia atomica, il disarmo, la questione palestinese, la guerra civile in Grecia e la situazione in Corea. Mentre, come vedremo nel prossimo capitolo, inglesi ed americani si impegnarono presso le varie capitali a sostenere il Trusteeship italiano in Somalia, per l’Eritrea le posizioni delle due potenze anglosassoni restavano divergenti. Da parte italiana si mantenne in questo caso un profilo basso con la richiesta dell’amministrazione fiduciaria per la Somalia ed il rinvio del resto per non pregiudicare nulla. I tentativi che la diplomazia italiana compì verso gli Stati Uniti si rivelarono effimeri dato che Truman, anche dopo la sua rielezione (le speranze italiane si erano rovesciate sul candidato repubblicano Dewey457 che aveva dichiarato, attirandosi le simpatie degli italo- americani, di essere favorevole ad un’amministrazione fiduciaria italiana per tutte le ex colonie, ma venne sconfitto alle elezioni), dichiarò che la questione delle colonie italiane non
456 ASCM Fondo Brusasca, b. 20, f. 10.
457 Dewey, Thomas Edmund. - Uomo politico statunitense (Owosso, Michigan, 1902 – Miami Beach, 1971). Magistrato dello stato di New York, divenne celebre per l'implacabile lotta che condusse contro la delinquenza dilagante dopo la crisi economica del 1929. Governatore dello stato di New York (1942-53), avversò il New Deal e fu isolazionista, convertendosi alla politica dell'intervento solo dopo l'aggressione di Pearl Harbour. Presentatosi come candidato repubblicano alle elezioni presidenziali del 1944 e del 1948, fu battuto rispettivamente da Roosevelt e da Truman.
poteva essere inserita nel quadro politico degli Stati Uniti. Inoltre ai primi di novembre del 1948 il Dipartimento di Stato si convinse dell’opportunità di caldeggiare la cessione all’Etiopia di gran parte dell’Eritrea e se gli Stati Uniti avessero potuto motivare tale decisione con la richiesta etiopica di uno sbocco al mare e con i legami economici e razziali che univano i due paesi, non era certo di secondaria importanza la conservazione della stazione radio di Asmara e dell’uso di porti e di aeroporti nell’area compresa tra Asmara e Massaua.
Il 5 ed il 6 maggio 1949, dopo che nel tempo si erano succedute diverse proposte tutte fallite a causa di vari veti incrociati, Sforza si recò a Londra a trattare un compromesso con il ministro degli esteri britannico Bevin458 e dopo molte ore di «drammatiche discussioni» raggiunsero alfine un accordo che si presentava in questo modo:
Libia: a) La Cirenaica sarà posta in regime di trusteeship internazionale e la Gran Bretagna ne sarà la potenza amministratrice; b) il Fezzan sarà posto sotto trusteeship internazionale e la Francia ne sarà la potenza amministratrice; c) la Tripolitania sarà posta sotto trusteeship internazionale alla fine del 1951 e l’Italia ne sarà la potenza amministratrice. Nel periodo interinale continuerà l’amministrazione britannica, ma questa sarà assistita da un Consiglio consultivo composto da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia, Egitto (o altro stato arabo) e da un rappresentante della popolazione locale. La competenza e i doveri del Consiglio consultivo, come pure la sua sede nonché la procedura per il trapasso all’Italia dell’amministrazione, saranno definiti dai membri del consiglio stesso in consultazione con l’autorità amministratrice.
• Eritrea: con l’eccezione delle province occidentali, l’Eritrea sarà ceduta all’Etiopia, ma questa, mediante un trattato con le Nazioni Unite, darà garanzia di uno speciale statuto per le città di Asmara e Massaua. I termini di tale garanzia saranno stabiliti dalle Nazioni Unite in consultazione con l’Italia. Le province occidentali saranno incorporate nel vicino Sudan.
• Somalia: sarà posta sotto trusteeship internazionale e l’Italia ne sarà la potenza amministratrice.459
Quando l’accordo venne pubblicato, in Italia il conte Sforza fu accusato di avere seguito una politica «stolta ed irresponsabile», e di avere accettato un compromesso che
458 Bevin, Ernest. - Sindacalista e uomo politico inglese (Winsford, Someset, 1881 – Londra 1951); di famiglia poverissima, esercitò i più umili mestieri; associato dal 1910 nell'organizzazione sindacale dei portuali, nel febbraio 1920 ne difese le rivendicazioni salariali dinanzi al tribunale arbitrale acquistandosi grande notorietà. Fondò e diresse, quale segretario generale, il potente sindacato degli addetti ai trasporti (1922) e divenne poi presidente dell'esecutivo della Confederazione britannica del lavoro (1936-37). Deputato nel 1940 per il collegio di Wandiswarth (Londra), ministro del Lavoro nel gabinetto di coalizione presieduto da Churchill durante la guerra (1940-45), organizzò la mobilitazione obbligatoria della mano d'opera e l'arruolamento dei giovanissimi (Bevin's boys) per le miniere di carbone. Nel governo laburista Attlee (1945) assunse il ministero degli Esteri. Dopo il convegno di Potsdam, adottò una politica di resistenza nei riguardi dell'URSS. Favorì il superamento dell'impero e dell'imperialismo britannico sostenendo l'autogoverno in Birmania, in India, a Ceylon, a Malta e a Terranova. Con il patto di Bruxelles collaborò all'avviamento verso l'unità dell'Europa occidentale. Si dimise il 13 marzo 1951 per malattia.
soddisfaceva tutte le richieste inglesi. Anche le testate più moderate sostenevano che il compromesso fosse sostanzialmente punitivo e che la collaborazione europea dell’Italia insieme alla firma del Patto Atlantico che avrebbero dovuto portare il paese al di fuori della condizione di “vinto” non fossero servite a nulla. Dal canto suo, Sforza era convinto che l’accordo fosse la migliore transazione che l’Italia potesse augurarsi anche se sia l’opinione pubblica che le forze politiche di sinistra la consideravano troppo gravosa. D’altra parte erano stati gli stessi governanti italiani ad incoraggiare nel paese l’illusione di una diversa sistemazione della questione africana ed anche le stesse forze politiche avevano l’intima convinzione circa la necessità, per l’Italia, di tornare in Africa, necessità economiche, di prestigio e sentimentali. Giulio Andreotti460 raccontò così la dichiarazione di Sforza la Consiglio dei ministri:
“Il 10 maggio Sforza riferì ad uno sbigottito consiglio dei ministri le linee di quello che era stato il compromesso Sforza – Bevin….. Il brusco ed improvviso passaggio della tesi del rinvio a quella ora accennata non era fatto per accendere di entusiasmo i membri del nostro Gabinetto… Sforza aveva compreso negli ultimi colloqui a Washington e a Londra che il rinvio era contro di noi e senza troppo indugiarsi si era buttato a salvare il salvabile. Purtroppo le esigenze psicologiche di un popolo non consentono gesti di obiettiva lungimiranza, e non mancò anche tra le persone più responsabili chi disse che era meglio perdere tutto che accettare una soluzione di compromesso”.461
Lo stesso De Gasperi rimase molto perplesso non solo per dover accettare il fatto compiuto ma anche perché l’accordo dovette sembrargli molto oneroso per l’Italia. Vi era anche un’altra questione che faceva preoccupare il Governo italiano: l’accordo stipulato al di fuori delle Nazioni Unite poteva subire degli emendamenti peggiorativi tali da falsarne la sostanza e ridurne la portata. Erano preoccupazioni fondate poiché non appena si venne a sapere dell’accordo, i paesi che avevano sostenuto l’Italia (principalmente centro e sudamericani) non nascosero il loro disappunto per non essere stati almeno avvertiti e per la procedura adottata. Il compromesso scatenò anche le ire dei paesi del blocco orientale che accusarono la Gran Bretagna di aver addirittura violato il trattato di pace e la carta delle Nazioni Unite. Nella tarda serata del 17 maggio 1949 si svolsero le votazioni ed i paragrafi sulla Tripolitania e sulla Somalia furono bocciati, oltre al passaggio dell’annessione della provincia occidentale dell’Eritrea al Sudan. La bocciatura dei due paragrafi comportò una tale mutilazione dell’accordo da non poter essere più accettato dai paesi latino-americani i quali, infatti, al momento del voto della risoluzione globale votarono contro e questa venne così respinta. L’accordo non aveva retto alla prova dell’ONU ma, col senno di poi, non fu un gran male per l’Italia che, dalla presenza in Tripolitania non aveva che da ricavarne grane e spese sproporzionate ai vantaggi. A questo punto la politica italiana verso l’Eritrea e la Tripolitania cambiò: ci si rese conto, anche con la collaborazione degli italiani residenti nei paesi africani,
460 Andreotti, Giulio. - Uomo politico italiano (Roma 1919 - ivi 2013). Deputato dal 1948, più volte ministro in diversi dicasteri, sette volte presidente del Consiglio, tra il 1972 e il 1992, senatore a vita. Tra i fondatori della DC, fu delegato alla Consulta e deputato all'Assemblea costituente; è stato eletto alla Camera in tutte le consultazioni, dal 1948 al 1987; nel 1991 è stato nominato senatore a vita.
che la sponsorizzazione dell’indipendenza delle due ex colonie avrebbe garantito una maggior simpatia verso l’Italia da parte dei paesi arabi, assicurando così il successo della trusteeship in Somalia; inoltre l’indipendenza dei due paesi grazie all’aiuto italiano sarebbe servito sicuramente per sostenere una favorevole politica commerciale, oltre che dare della nuova Italia del dopoguerra un’immagine di paese anticolonialista ed al passo con i tempi.462
La nuova presa di posizione italiana favorì, in Eritrea, l’unione di tutti i partiti che si battevanono contro l’annessione all’Etiopia ed il 24 luglio 1949 venne ufficialmente annunciata la costituzione del Blocco eritreo per l’indipendenza al quale aderirono la Lega musulmana, il Partito liberale progressista, il Partito Nuova Eritrea, l’Associazione veterani di guerra, l’Associazione italo-eritrei, il Partito nazionalista di Massaua ed il Partito Eritrea indipendente, fondato a Cheren da un gruppo di ex unionisti. Il manifesto politico del Blocco annunciò che «Le aspirazioni politiche del Popolo eritreo mirano all’indipendenza immediata» nonché «il diritto di auto-decisione dei popoli, sancito e proclamato dalla carta delle Nazioni Unite»; si ribadisce inoltre che «tutto il popolo dell’Eritrea, senza distinzione di razza, religione e partito politico si oppone alla spartizione del territorio».
Il programma politico del Blocco venne così esposto:
1. Immediato raggiungimento dell’indipendenza dell’Eritrea; 2. Governo democratico; 3. Integrità territoriale entro i confini geografici esistenti attualmente; 4. Rigetto di ogni progetto di spartizione dell’Eritrea come era stato proposto dal compromesso Bevin-Sforza, od annessione di parte di essa all’Etiopia o al Sudan.
Comunque contro ogni altro progetto di annessione a qualsiasi Paese o Nazione.
Questa situazione cominciò a preoccupare il Governo etiope che osservava un’ondata di defezioni dal partito unionista, nonostante gli shiftà continuassero a terrorizzare ed uccidere. Il 21 novembre 1949 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite decise che la Libia avrebbe dovuto diventare indipendente entro il 1° gennaio 1952 e che la Somalia venisse sottoposta a dieci anni di amministrazione fiduciaria italiana dopodiché diventasse anch’essa indipendente. Sull’Eritrea non si riuscì a trovare un accordo e venne quindi inviata nel paese una commissione d’inchiesta con il compito di esaminare la questione riguardante il futuro dell’Eritrea e preparare un rapporto per l’Assemblea generale e definire proposte che potessero essere utili alla soluzione del problema. Nel frattempo inutilmente il Blocco indipendentista e l’Italia chiesero per l’Eritrea l’indipendenza immediata mentre nel paese si assistette ad una recrudescenza degli attacchi degli shiftà. La campagna portata avanti dai terroristi unionisti spalleggiati dall’Etiopia, che non aveva alcuna intenzione di rinunciare all’ex colonia italiana, avrebbe mietuto nel solo 1950 duecentotrentadue vittime (216 indigene e 16 italiane) nel tentativo di mostrare alla Commissione ONU come il paese fosse diviso e che quindi l’indipendenza si sarebbe risolta in un bagno di sangue.463
462 Ibidem, Pag. 461-70.
Non c’era però solo l’Etiopia ad avere interesse ad indebolire il Blocco indipendentista: anche la Gran Bretagna non aveva rinunciato ad annettere al Sudan la parte occidentale dell’Eritrea e per fare ciò doveva cercare di dividere il partito più grande che faceva parte del Blocco e cioè la Lega musulmana. Ci riuscirono nei primi mesi del 1950 quando alcuni notabili Beni Amer464 diedero vita alla Lega musulmana della provincia occidentale che si caratterizzava per la richiesta di un’amministrazione fiduciaria inglese che avrebbe dovuto preludere ad una successiva indipendenza. Al termine della sua inchiesta, la Commissione delle Nazioni Unite non riuscì a trovare un accordo sulla soluzione da presentare all’Assemblea generale per il futuro assetto del paese. Vennero quindi presentate, il 9 giugno 1950, tre ipotesi: la prima prevedeva un’annessione pura e semplice all’Etiopia, la seconda una federazione tra Eritrea ed Etiopia come soluzione di compromesso, la terza con l’indipendenza dell’Eritrea. Quando il 13 luglio il Comitato interinale dell’Assemblea generale cominciò ad esaminare il rapporto della Commissione d’inchiesta, il dibattito parve subito orientarsi verso la soluzione di compromesso, cioè la federazione tra i due paesi, caldeggiata anche dagli Stati Uniti già dall’ottobre dell’anno precedente. L’Italia inizialmente si oppose alla soluzione di compromesso poiché essa nascondeva in sostanza un’annessione ma dopo che il 18 settembre il Comitato interinale sospese con un nulla di fatto i suoi lavori, l’ipotesi della federazione finì con l’imporsi ed anche l’Italia la considerò alla fine quanto di meglio si poteva ottenere. Quando l’8 novembre 1950 si aprì la quinta sessione dell’Assemblea generale delle nazioni unite, sul tavolo giaceva una questione ben più grave della situazione politica del Corno d’Africa: la guerra di Corea, scoppiata all’inizio dell’anno, minacciava di trasformarsi in un confronto diretto tra gli Stati Uniti, che già combattevano anche contro le truppe della Cina comunista, e l’Unione Sovietica. A questo punto Hailé Selassié giocò il suo jolly: fin dal 1946 l’imperatore aveva fatto sapere a Washington che l’Etiopia per tradizione si opponeva al comunismo e che per fronteggiarlo sul Mar Rosso era necessario che l’Eritrea fosse restituita all’Etiopia, ed a rimarcare questa dichiarazione il Negus decise di mandare a combattere in Corea, a fianco degli americani, il battaglione Kagnew465, l’élite della guardia imperiale, accendendo un credito con gli Stati Uniti che gli sarebbe stato presto rimborsato. La risposta americana arrivò a stretto giro di posta tramite le parole del segretario di Stato Dulles alle Nazioni Unite: “Dal punto di vista della giustizia le opinioni degli eritrei devono essere prese in considerazione. Tuttavia, gli interessi strategici degli Stati Uniti nel bacino del Mar Rosso e considerazioni sulla sicurezza e la pace mondiali rendono necessario che il paese sia legato all’Etiopia”. La soluzione di compromesso
464 Tribù eterogenea occupante la vasta vallata del Barca e dei suoi affluenti, dai contrafforti abissini del Dembelàs fino al mare. Indubbiamente il nucleo fondamentale della tribù è di stirpe begia; molte frazioni parlano tuttora la lingua begia, e il Seligman ravvisa appunto nei Beni Amer il più puro tipo etnico dei Begia. Ma, disseminate nel vasto territorio, si trovano numerose frazioni originarie dell'altipiano stesso, immigrate nella vallata in momenti opportuni, passate poi sotto l'egemonia dei Begia ma conservanti la lingua tigrè. La tribù prende nome da un leggendario ‛Amer ben Qunnù, e da tempo immemorabile è costituita a regime aristocratico: frazioni vassalle e famiglie dominanti. A capo della tribù è un diglal; e molto verosimilmente appunto un capo di Beni Amer era il re dei Begia, che qualche geografo arabo medievale rammenta stabilito in Suachin. A fianco del diglal è un rappresentante dei nobili o nebtàb, chiamato con voce araba sheikh el-mashā'ikh. La massima parte dei Beni Amer è nomade, e vive di pastorizia, vagando in piccoli accampamenti di tende di stuoie coi suoi ricchi armenti di cammelli e di buoi; talune frazioni si sono stabilite definitivamente col diglal nel suo accampamento, che, per opera degl'Italiani, è divenuto stabile presso Agordat, e si vanno volgendo all'agricoltura; alcune altre frazioni hanno parimenti stabile sede alle pendici dell'altipiano, e anche esse coltivano il suolo, al quale proposito merita rilievo il fatto che tra esse vi sono frazioni a stretto tipo begia e a lingua begia, insediatesi nell'estremo sud-est del territorio della tribù. 465 Kagnew: dal nome del cavallo da guerra del padre di Hailé selassié, Ras Makonnen, durante la guerra italo-etiopica del 1896
apparve quindi inevitabile ed al Sottosegretario agli esteri Brusasca non restò altro che cercare di ottenere adeguate garanzie per l’autonomia dell’Eritrea nel quadro della futura federazione con l’Etiopia. La questione era ormai decisa ed a nulla valsero gli interventi dei rappresentanti eritrei in difesa dell’indipendenza; il 2 dicembre 1950 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approvava la Risoluzione 390 A (V) la quale stabiliva che l’Eritrea costituisse un’unità autonoma federata con l’Etiopia, sotto la sovranità della corona d’Etiopia, con un governo eritreo dotato di poteri legislativi, esecutivi e giudiziari sul piano degli affari interni e che venisse elaborata una Costituzione entro il 15 settembre 1952. Fino ad allora il paese sarebbe rimasto sotto il governo degli inglesi.466
La reazione dei partiti eritrei alla pubblicazione della Risoluzione ONU la possiamo giudicare in un ricordo di Woldeab Woldemariam diversi anni dopo: “Noi indipendentisti ci trovavamo in grande difficoltà. Quando l’Italia aveva adottato la tesi federalista, eravamo rimasti senza alcun appoggio. Non avevamo altra scelta che accettare la decisione delle Nazioni Unite. Rifiutarla sarebbe equivalso ad un suicidio: l’Etiopia ci avrebbe attaccato, gli inglesi si sarebbero disinteressati. Eravamo soli, abbandonati da tutti. Non c’era altro da fare che accettare la Risoluzione. Ma noi l’accettammo in buona fede. L’Etiopia, invece, la considerò soltanto come un primo passo verso l’annessione. In attesa dell’arrivo del Commissario delle Nazioni Unite, proponemmo al Partito unionista una riunione di riconciliazione, per portare la pace fra gli eritrei.”467
La “Riunione per la pace” venne convocata il 31 dicembre 1950 ad Asmara. Più di tremila eritrei dei diversi partiti si riunirono al cinema Impero, alla presenza di rappresentanti di Italia, Etiopia, Francia e Stati Uniti, oltre alle autorità delle varie comunità religiose (copta, musulmana, cattolica e protestante). Venne letta una dichiarazione:
“Tutti i partiti dell’Eritrea, considerata la necessità di addivenire ad una grande pacificazione alla luce della decisione dell’ONU sul futuro assetto dell’Eritrea, hanno deciso:
1. Di rispettare la decisione di federare l’Eritrea con l’Etiopia; 2. Di dare la massima collaborazione al Commissario dell’ONU per la formulazione della costituzione dell’Eritrea; 3. Di facilitare il compito dell’amministrazione britannica per il mantenimento dell’ordine pubblico; 4. Di impegnare tutte le forze congiunte per raggiungere rapidamente il progresso e la prosperità.”
Le reazioni italiane furono diverse: se da un lato la diplomazia si rendeva conto che non sarebbe stato possibile ottenere migliori condizioni, i partiti di opposizione, soprattutto le sinistre consideravano la Risoluzione dell’ONU come una gravissima sconfitta del Governo italiano. I giornali legati al Partito comunista accusarono il ministro Sforza e l’intero Governo
466 S. Poscia, Eritrea colonia tradita, Edizioni Associate, Roma, 1989, Pag. 52-54.
di non aver saputo salvaguardare gli interessi italiani in Eritrea e soprattutto di non avere negoziato con l’Etiopia la preferenza per il lavoro italiano nell’area. Per quanto riguarda invece le reazioni degli italiani residenti in Eritrea, invito alla lettura del telespresso giunto da Asmara il 17 dicembre 1950.468
La questione eritrea sembrava dunque finalmente conclusa ma in realtà, purtroppo, le cose sarebbero presto cambiate ed avrebbero portato il paese nell’incubo di una guerra di liberazione, durata circa trent’anni (1962 – 1993), fino a quando l’Eritrea non ebbe riconosciuta la sua totale indipendenza dall’Etiopia.
468 V. Documento n. 25.