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1. Dissenso e protesta popolare
1.
DISSENSO E PROTESTA POPOLARE
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La Grande guerra, come già detto, fu la prima esperienza di conflitto totale, che coinvolse per la prima volta l’intera popolazione civile, irrompendo nei modi più diversi – dai bombardamenti, alla penuria di generi alimentari, alla sorveglianza da parte delle autorità –nella quotidianità di ogni cittadino. La guerra non si combatteva più, infatti, solo nei campi di battaglia, ma anche all’interno di ogni paese.
Proprio per questo «ogni stato si trovò di fronte il compito di evitare un cedimento del “fronte interno”, di contenere con misure adeguate il malcontento popolare, crescente con il procedere del conflitto, e di elaborare contemporaneamente misure capaci di coinvolgere il consenso della popolazione alla scelta bellica»1 . Tuttavia, se in tutti i paesi belligeranti vennero compromessi, attraverso legislazioni eccezionali, i diritti civili, le più gravi limitazioni in questo senso si ebbero in quegli stati dove le autorità militari furono investite di maggiori poteri, ovvero la Germania, l’Austria-Ungheria, la Russia e l’Italia.
Come si vedrà più in dettaglio nel seguente capitolo – dedicato al «regime del sospetto» creatosi proprio a causa di questa legislazione repressiva –, in Italia vennero promulgate norme particolarmente severe per contenere il pericolo rappresentato dallo spionaggio e per soffocare il dissenso e il malcontento popolare espresso nei confronti di una guerra voluta, in realtà, solo da una minoranza della popolazione. Salandra era ben consapevole, infatti, che la maggioranza del Paese e del parlamento era contraria all’intervento nel conflitto europeo e questa consapevolezza lo indusse, già nel marzo del 1915, ad emanare una legislazione che prevedeva la censura
1 Giovanna Procacci, Il fronte interno. Organizzazione del consenso e controllo sociale, in Daniela Menozzi, Giovanna Procacci, Simonetta Soldani (a cura di), Un paese in guerra. La mobilitazione civile in Italia (1914-1918), Milano, UNICOPLI, 2010, pp.15-16.
relativa a notizie militari e, nel caso di un intervento italiano nel conflitto, la delega dei pieni poteri al governo.
Quindi, fin dai primi mesi di guerra, massiccio fu l’intervento statale nell’ambito del controllo e della repressione del dissenso, i quali si inasprirono ulteriormente a partire dalla seconda metà del 1917 – a seguito delle agitazioni torinesi accadute nell’agosto di quell’anno – e, soprattutto, dopo la disfatta di Caporetto. L’azione di propaganda venne invece delegata dal governo alle autorità locali che, a loro volta le demandarono ai privati, ovvero «ai gruppi di pressione e ai comitati patriottici favorevoli all’entrata in guerra, che a centinaia si erano spontaneamente formati nelle varie regioni d’Italia già nel periodo della neutralità»2 .
L’obiettivo era giungere alla mobilitazione totale della società civile che, secondo la classe dirigente, avrebbe contribuito in maniera decisiva a condurre il Paese alla vittoria; si può dunque affermare che «la guerra produsse una “statalizzazione del pensiero”, che prese forma sia nella repressione di tutte le opinioni giudicate contrarie all’interesse nazionale, sia nell’organizzazione dell’entusiasmo»3 . Ogni forma di dissenso o di malcontento espressa nei confronti della guerra – dalle più lievi e, apparentemente, innocue alle più eclatanti, come gli scioperi –, di conseguenza, sarebbe dovuta essere velocemente ed efficacemente eliminata. Dunque «il dissenso fu drasticamente soppresso mediante un’applicazione di carattere “totale” della legislazione eccezionale e [dopo la disfatta di Caporetto] attraverso un’ulteriore estensione del potere militare nella vita civile»4 .
L’intervento statale si rivelò però essere inadeguato, o comunque insufficiente nel campo della mobilitazione civile, almeno fino al 1917; le sue ampie lacune vennero, come detto in precedenza,
2 Ivi, p. 21. 3 Ivi, p. 17. 4 Giovanna Procacci, Dalla rassegnazione alla rivolta. Mentalità e comportamenti popolari nella Grande Guerra, Roma, Bulzoni, 1999, p. 29.