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1.9. Verso la seconda guerra mondiale
1.9. Verso la seconda guerra mondiale
Per una storia più personale di Antonio Rossaro dopo il 1924 può essere ancora d’aiuto il citato “Albo storico della Campana dei Caduti”. Si tratta di pagine meno uficiali rispetto ai discorsi e agli scritti pubblici del sacerdote, capaci quindi di proporci il personaggio negli entusiasmi e nelle dificoltà, di fronte alle quali comunque non si arrende. Come ancora riporta Fabrizio Rasera, nelle annotazioni quotidiane si palesano i contrasti, le incertezze, le pene che si accompagnano a un attivismo che non si lascia mai scoraggiare. Per quanto riguarda i rapporti con le autorità cittadine e con l’opinione pubblica, si mostra spesso insofferente nei confronti della fauna di gerarchetti locali e in particolare degli uomini messi a capo del municipio e di un’opinione pubblica cittadina rappresentata come criticona e supericiale, incapace di essere all’altezza delle idee di grande respiro e le cui critiche gli «appaiono come le fatue e improduttive chiacchiere di quelli che chiama i “menarrosti” da caffè»160. L’immagine dell’autore che i due volumi manoscritti ci trasmettono è piuttosto quella di un cavaliere solitario che procede per la sua via a dispetto delle ostilità e delle insidie, come il Parzifal messo in scena a Rovigo161. Questo anche in relazione al clero tradizionale, anche se via via sostanzialmente orientato o quantomeno assai più tiepido verso il fascismo. Se come egli attesta la sua carriera ecclesiastica fu sbarrata a causa dell’eccessiva laicità delle idee, appare evidente che il rapporto con molte personalità della Chiesa non poteva essere stato idilliaco162. «Forse non era uno di quei sacerdoti che stanno eternamente inginocchiati davanti all’altare, ma partecipava sempre con grande amore alle solennità religiose della città e ricordo di averlo trovato molte volte in Biblioteca con il Rosario in mano e l’ho sentito parlare agli ammalati col cuore ed esortarli a fare della loro sofferenza un atto di offerta a Dio», riporta comunque Chiocchetti163. D’altro verso la sua igura di prete non sembra però ininluente, in quanto gli permette di essere un punto di riferimento, un elemento di mediazione all’interno di una comunità asimmetrica e ricca di tensioni. Il prete roveretano diventa infatti carismatico interlocutore di uomini, donne, bambini, umili e potenti. Non sappiamo in verità molto a questo proposito, ma è lecito pensare che il suo cristianesimo e l’insegnamento del suo maestro Murialdo possa aver fatto da paravento all’espressione di una cultura più alta, anche a proposito di un irredentismo che sappiamo soprattutto patrimonio degli studenti e delle classi sociali borghesi.
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160 rasera, Il prete della campana cit., p. 25. 161 Cfr. Ibidem. 162 Si veda la pagina riportata nell’Albo storico del 28 dicembre 1939, nella quale Rossaro riferisce di essere stato considerato sempre «una pecorella nera, e dato il suo aperto atteggiamento d’italiano, non fece mai carriera nel mondo ecclesiastico». 163 ChioCChetti, Don Antonio Rossaro cit., p. 8.
Per dire di più e meglio servirebbe sicuramente uno studio accurato di questi scritti personali. Già da una prima lettura se ne ricava comunque un quadro abbastanza deinito, dove l’uomo politico e il sacerdote si amalgamano con fare determinato, nelle piccole e grandi cose. Lo avvertiamo ad esempio anche nella tenacia con la quale porta avanti la sua azione anche dopo gli anni caldi dell’irredentismo, adattando le sue convinzioni al nuovo corso della politica del paese, rimodulando, senza tradimenti col passato, la costruzione di un nuovo corso della memoria attraverso una serie di iniziative collegate, fra le quali spicca la Campana dei Caduti. Dopo gli squilli delle diane armate, della guerra redentrice, della religione militante, la Campana diventa infatti lo strumento per rendere meno ruvida questa memoria, per riappaciicarla in un certo senso, pur nello spirito del fascismo e del suo Duce. Se formalmente Antonio Rossaro si impegna a non mescolare la Campana con le manifestazioni del regime, se in diverse occasioni denuncia l’invadenza delle istituzioni fasciste, è innegabile che buona parte della liturgia che accompagna ed esalta questa impresa sia profondamente impregnata dell’idea fascista, poiché queste in fondo sono le radici del sacerdote, perché questi sono in fondo i suoi sentimenti, anche se cercherà poi di attenuarli. A questo proposito si legge nell’Albo storico:
«Cerimonia fascista, Anniversario della Milizia. Banchetto della Milizia all’Hotel Rovereto. Durante il banchetto mi viene consegnata la Medaglia del Decennio. Con me vengono decorati altri militi. Io dico alcune parole in questa falsariga. “Ringrazio a nome dei miei colleghi il signor Comandante (e altri) per aver voluto inventare la consegna della medaglia decennale nel rito dell’odierna celebrazione... La medaglia che ci fu consegnata ricorda che un decennio della nostra vita è piombato nel vuoto del tempo, ma noi siamo lieti ed orgogliosi che questo decennio sia vissuto sotto gli auspici del fascismo... Se questa medaglia è piccola di dimensioni, è però tanto vasta da comprendere nella sua limitata circonferenza la grande epopea che l’Italia maturò in questo decennio; il patto del Laterano, l’alba d’un impero, stupore e invidia del mondo, la guerra in corso, che aprirà nuovi orizzonti di gloria alla Patria nostra... Comandanti, a nome dei miei colleghi prometto solennemente che porteremo questa medaglia non solo con decoro, ma con quell’alta comprensione del dovere che ci porterà dove vuole il duce, dove vuole il re!»164.
Si tratta indubbiamente di un pronunciamento ancora stridente, quantomeno in rapporto all’idea di pace che doveva scaturire dalla campana, tanto da far dire a Rasera che «l’impresa coloniale fece perdere a Rossaro misura e senso delle distinzioni più che altra circostanza storica»165 .
164 Albo storico cit., 1 febbraio 1938. 165 rasera, Il prete della campana cit., p. 26.
D’altra parte in qui l’appoggio alla politica di Mussolini è chiaro, privo di incertezze, conclamato in occasione della proclamazione dell’Impero, che coincide con il 25° anniversario della sua consacrazione sacerdotale166, e perino alla vigilia della seconda guerra. Se Rossaro era stato estremamente fermo a non permettere di suonare la Campana al di fuori di quanto stabilito dallo Statuto, tanto da provocare nel 1928 il gustoso incidente con D’Annunzio e il suo manipolo di seguaci167, altrettanto non avviene il 10 maggio del 1936, quando sempre nell’Albo leggiamo che la Campana si era unita ai festeggiamenti dei cannoni con il suo centunesimo rintocco, simbolicamente più roboante di ogni sparo a salve.
«La Campana dei Caduti celebra la fondazione dell’Impero d’Etiopia: è giusto che prenda parte a questo evento eccezionalissimo della Terra, che eresse e che ospita la sacra Campana. Le grandi città lo celebrano con 101 colpi di cannone. La Campana dei caduti ai 100 rituali rintocchi ne aggiunge uno, e così i 101 rintocchi li suona con un intervallo di 15-20 secondi ad ognuno, estendendone il suono per mezz’ora»168 .
È una posizione che trova vigore nelle pagine più intime, quelle poetiche del suo Canzoniere, dove alle sanzioni delle nazioni europee, nel dicembre del 1935, risponde con le parole del Duce: con la poesia Perida Albione nella fattispecie169, che nella prosa grafiante mostra la dificoltà di far convivere l’idea di una pace universale con l’apologia del fascismo, il messaggio della Campana con il rancore nazionalista e l’avventura coloniale, verso la quale, forte del suo Duce, «l’Italia move».
166 Si veda a questo proposito la dedica al Duce formulata in una pagina a stampa contenuta nell’Albo storico cit. «Duce, oggi celebrazione del mio Primo Giubileo Sacerdotale, elevata la mente alla maestà di Dio, reso il mio omaggio di devozione al Romano Ponteice, innalzo a Voi, o Duce d’Italia, il mio pensiero. Cinque lustri or sono, portavo all’altare il calice ricolmo di sospiri e di preghiere per i destini della Patria nostra; oggi, colmati i voti, lo sollevo traboccante di riconoscente esultanza a Dio Ottimo Massimo, in faccia all’Italia imperiale, quale Voi l’avete voluta...». 167 In una visita alla Campana, D’Annunzio aveva preteso che questa suonasse fuori dalle modalità stabilite dallo
Statuto. Rossaro si era opposto con fermezza, provocando le ire del Comandante e un incidente che lo stesso Rossaro comunicherà con indignazione alla stampa e perino al Duce. Albo storico cit.18 e 20 marzo 1928. Anche rossaro, La campana cit., pp.138-142. 168 Albo storico cit., 10 maggio 1936. L’episodio è tatticamente taciuto da Rossaro nel libro edito nel 1952 da Ciarrocca. 169 Perida Albione in “Poesie di Antonio Rossaro” cit., 14 dicembre 1935. «Perida Albione!... Sotto ciel sinistro /
Privo di Voli e povero di stelle, / Guati, ghignando, tra le sacca d’oro / Grondanti sangue. / Freddo il tuo bieco sguardo onde non vedi, / spento il tuo duro cuore onde non senti, / Parca spettrale vastamente estendi / L’ingorda mano. / Non te l’Italia invidia, che da Roma / Prima ti diè solenni leggi ed are / E innovator di nuovi tempi in Cristo, / Sant’Agostino; [...] Perida Albione, vedi or tu l’Italia? / lieta di sole, tra le sue bandiere, / All’ombra delle spade e tra i suoi canti, /È tutta in piedi! / Romban, ovunque, ignivomi cannoni; / solcan l’azzurro liberi biplani; / dall’ardue torri cantan per galloria / Trombe e campane. / Se tu hai l’oro, noi abbiamo un cuore / spumeggiante di sangue e di canzoni. / Se tu hai ciminiere, noi abbiamo / Potente, un Duce. / Il Duce, che balzato dalle stirpi / Sotto gli archi dei Cesari iorite, / Del... ha in sé la linfa e la vitale / Creta di Roma; / Il Duce, che solenne giganteggia / Fra le legioni dei suoi idi prodi, / E dei Caduti, che con sacro appello / Volle tra i vivi; [...] Plaudon le genti. I secoli futuri / Levan le spade; curvan le bandiere. /Perida Albione, inchinati: al trionfo / l’Italia move».
Impregnato del suo irredentismo, e storicamente vicino alle posizioni della Francia, Rossaro non approva comunque il nuovo quadro di alleanze e non lo apprezzerà mai nemmeno in seguito170, tanto che 3 maggio 1938, al passaggio di Hitler da Rovereto, in viaggio per Roma, pur se invitato, deciderà di non recarsi alla stazione a salutarlo con le autorità e tante persone171. «Non ci vado, né come italiano, né come sacerdote: è una calata di barbari, in stile di lusso; è una presa di possesso, morale, dell’Italia», scrive nel suo Albo storico. «Credo che l’Asse Berlino-Roma sarà fonte di pentimenti e di dolori: omnia mala ab aquilone!»172 Antonio Rossaro vede infatti in questa nuova alleanza il tradimento della sua storia e di quella della Campana. Teme che questo possa preludere a un nuovo conlitto, come scrive alla ine di settembre del 1938, allorché, sulla scorta di quanto sta avvenendo in Germania, lamenta «l’ora fosca, lo spettro della guerra che rattrista tutti»173. Sembra dunque che qualcosa si incrini, che il compromesso che si trova costretto ad accettare sia troppo pesante. E lo dimostra, seppur subdolamente, allorché “dimentica” di fondere nella nuova Campana il cannone della Germania assieme a quello delle altre nazioni, facendo scoppiare un incidente diplomatico che andrà a infastidire non poco le autorità. Lo apprendiamo dalle lettere uficiali che intercorrono fra i protagonisti, in particolare da quelle con il prefetto di Verona, il quale cerca di smorzare le tensioni facendosi da tramite fra il governo italiano e l’ambasciata tedesca. Per questo Antonio Rossaro viene chiamato a rapporto, redarguito aspramente e invitato a giustiicarsi. «Il prefetto balzò su tutte le furie», leggiamo in una pagina dell’Albo storico. «Non si farà nessuna festa [di inaugurazione]... nessuna... e se si continuerà la manderò al conine. [...] Nella campana non si volle gettare il cannone germanico. Oggi siamo legati alla Germania. Bisogna star con la Germania. Occorre stringersi alla Germania. Questa è la via e non si parli della Campana dei Caduti. Basta! Basta!”. Tutti rimasero stupefatti - commenta Rossaro - tanto più che erano tutti i gloriosi veterani della guerra contro la Germania! Le loro ferite e le loro medaglie gridavano ancora contro il “nemico”!»174 .
170 «Visita all’Ambasciata Francese. Ottima accoglienza», scrive infatti Rossaro nell’agosto 1939. «Richiamandosi ai sinistri tempi che corrono e alle tese relazioni della Francia con l’Italia, elogia il contegno nobile e superiore della Campana dei caduti. Deplora l’alleanza con la Germania, l’eterna nemica dell’Italia: “Mussolini ha fatto un rapido voltafaccia con la Francia; se avesse trattato direttamente con l’Ambasciatore, le questioni di Gibuti e di Tunisi sarebbero pienamente risolte». Albo storico cit., 14 agosto 1939. 171 Non così aveva fatto in occasione del passaggio del Duce, che aveva invece salutato con un «Evviva... che Dio lo conservi a lungo nell’amore del suo popolo - Ave Caesar...!» 172 «Mentre scrivo, si sprigiona per l’aria un lungo squillo di sirene: passa Hitler! Ci sono già delle barzellette satiriche. P.e. Hitler assiste alla grande rivista militare di Roma (ed è appena a Rovereto!); al momento del tanto atteso passo di parata (la prima volta che appare in pubblico), Mussolini chiede a Hitler: “Vi piace?” – “Veramente”, egli risponde, “non è questo il passo che desidero: è il Passo del Brennero!”». Albo storico cit., 3 maggio 1938. 173 «Trepidazione; rilassamento d’ogni iniziativa; regna in tutti un fatale scetticismo misto a un senso di terrore. In quest’ora grigia, fremente d’armi e di odi nel mondo, in queste condizioni d’un umanità tormentata ed esasperata, nel cuore della buona terra, madre di tutte le genti, sta formandosi, per nascere fra giorni, la buona, pia, la materna Campana dei Caduti». Albo storico cit., 28 settembre 1938. 174 Cfr. Albo storico cit., 26 ottobre 1938.
In merito all’Italia comunque per ora non abbandona le sue idee, approva l’interevento di Mussolini al Convegno di Monaco175 e gioisce per l’incontro al Quirinale fra il papa e il re che si svolge il 28 dicembre 1939. «Con ciò dopo 10 anni di felice esperienza il Patto del Laterano viene felicemente suggellato. Io esulto nel Signore, perché vedo colmati i miei voti»176, scrive il sacerdote davanti a un traguardo sognato in dagli anni del collegio, ovvero la convergenza fra patria e religione, fra la monarchia e il papato.
«Quanta strada si è fatta su questo campo dalla mia giovinezza, quando il nome d’Italia, di Garibaldi, di Vittorio Emanuele, tanto sul mio collegio di Volvera di Torino, quanto sul mio seminario, a Rovigo, era sinonimo di “massoni”, di anticlericalismo, di eresia! A onor del vero, tanto nei superiori, quanto nei condiscepoli trovai sempre cuori buoni ed aperti; non ebbi mai un nemico; ebbi tutti cari e fui caro a tutti, ma nel campo del patriottismo eravamo sempre agli estremi, ed io ero segnato come un “prete nero”, come un ribelle, perché amavo apertamente, entusiasticamente l’Italia; ammiravo i grandi del Risorgimento; mi gloriavo di aver avuto zii garibaldini; odiavo l’Austria e il suo imperatore. Non sapevano concepire come io potevo essere uno zelante chierico, e poi sacerdote, e nello stesso tempo un ardente italiano... Oggi è la mia grande giornata: Dio sia benedetto!!!»177 .
Il cordone ombelicale dunque resiste, in un’altalenare di posizioni per ora irrisolte. Rossaro ha sicuramente a cuore la sua Campana, che dopo gli anni ardenti delle celebrazioni patriottiche avrebbe dovuto portare un nuovo segno nella ricostruzione memoriale. Superati gli ardori del dopoguerra, avrebbe dovuto onorare non solo il sacriicio dell’Italia, ma di tutta l’Europa; del mondo intero, dei caduti di ogni nazione, senza distinzione di vinti e vincitori. Suonare dunque nel segno della pace: questo era il nuovo obiettivo del sacerdote, anche se con le non poche ombre che abbiamo intravisto. Rossaro si rende però conto che quanto stava accadendo andava contro questi propositi. Tenta per quanto possibile di mantenere la Campana separata dalla politica contingente; almeno lo afferma, ma forse non ne è capace ino in fondo, oppure non riesce ancora a sciogliere quell’ambiguità sottolineata dall’inizio di questo capitolo. Anche di fronte alla guerra che incalza non riesce a togliere di mezzo l’idea della «grande Era fascista».
175 «Oggi alle ore 9.30 è passato il Duce, reduce da Monaco. Vado alla stazione. Lo vedo, lo applaudo. Di ritorno rileggo il mio pensiero latino; lo trovo buono e conciso, e lo isso senz’altro per l’incisione della Campana dei
Caduti. “Ave, cordis mei inclyta ilia! Gentes venturas saluta; hortare ut in Christo mitescant; saecula feliciora tuere”». Albo storico cit., 30 settembre 1938. 176 Cfr. Albo storico cit., 28 dicembre 1939. 177 Ibidem.
«11.3.39. Per me è stato sempre un preoccupante assillo, l’assenza assoluta dalla Campana, di un segno fascista. È vero: la Campana dei Caduti è sopra e fuori di ogni contingenza politica, ma non si può, in un’Italia fascista, ignorare la grande «Era fascista”. In in dai conti la Campana dei Caduti fu ideata, e l’idea crebbe, si maturò, venne realizzata in pieno ambiente fascista; dal Governo fascista ebbe larghi favori: cannoni, metallo, protezione; dal Partito fascista ebbe il più grande dono: “nessuna noia, piena libertà d’azione”, mentre ogni, anche piccola iniziativa è soggetta a limitazioni, controlli, imposizioni. Tutto questo non devo ignorarlo; anzi devo ricordarlo a me e a tutti. Più volte venni amichevolmente consigliato, da intimi, di collocare in qualche onorevole posto della Campana dei Caduti “il fascio”; e ci fu chi consigliò un gruppo di fasci littori al posto delle aquile; altri un motivo di “fasci littori” sulla fascia inferiore della Campana; altri ancora il “Cristo” e la “Madonna” entro un elegante motivo fra due fasci. No. - La Campana dei Caduti, pur perennemente grata al Fascismo, non può, ne deve, né vuol essere fascista. Fu sempre, e sempre sarà sopra e fuori di ogni contingenza politica! Eppure questa storica epoca, creata e dominata dal Fascismo, non può essere ignorata, anzi la ricorderò nella Campana dei Caduti. L’epoca della rifusione, ottobre 1938-aprile 1939 sarà ricordata da tre medaglie che ricorderanno le tre grandi epoche che furono toccate da questo spazio di tempo: il pontiicato di Pio XI (...), l’altra del presente Pio XII. Così la data della fusione della Campana dei Caduti: 10 ottobre 1924, sarà ricordata da una medaglia fascista di quell’anno: piccolo segno d’un immensa epoca. Quella medaglia, pur ricordando una data (1924, l’anno della fusione della Campana dei Caduti), pure essendo di modesta dimensione, per l’altissimo suo signiicato vale più che un abituale motivo di “fasci”; più di una occasionale dicitura. In tal modo la “medaglia fascista” si risolve in un doveroso omaggio al Fascismo, con la nobile funzione d’un documento storico; non in un’antipatica etichetta di monopolio fascista, come potrebbero osservare e deplorare gli stranieri. [...] Con quella medaglia ricorderò come la Campana dei caduti venne fusa nella gloriosa alba del Fascismo, che, auspice il Duce, valorizzò il culto dei Caduti, elevandolo nella mistica luce della Fede»178 .
Rossaro intanto si preoccupa per la sua creatura che ha bisogno di essere rifatta. Gira le stanze delle ambasciate per raccogliere adesioni e offerte. Riempie le pagine di appunti, incontra politici e religiosi, perino il papa, che lo riceve in udienza. Così, nel 1938, la nuova Maria Dolens viene rifusa con una cerimonia che sa d’inferno e d’altare; incensata dalle parole del «Cappellano fascista» fra gli evviva all’Italia179. Nemmeno di fronte al
178 Albo storico cit., 22 marzo 1939. 179 «Con cuore di sacerdote e con sensi di Cappellano fascista, saluto questo rito. Il luogo e l’ora del tempo e la dolce stagione non potevano essere più propizi a questa celebrazione. La terra che calpestiamo reca infatti le stigmate di
Roma, e di sotto il piccone di questi validi maestri del bronzo, dal buio di venti secoli, balzarono, in questi giorni,
fallimento della prova che spacca la creta dell’oficina veronese l’oficiante si arrende. La fusione si deve rifare, come il Perseo del Cellini180. E così si farà, tra altri discorsi. Ma non è questa sagra della retorica che mi interessa, quanto l’atteggiamento di Timo del Leno nei confronti del secondo conlitto che avvampa. Antonio Rossaro a questo proposito avverte l’incongruenza fra la sua missione e la brutalità del conlitto. «Nulla è perduto con la pace; tutto può essere perduto con la guerra», porta inciso il nuovo bronzo che attende di essere benedetto e ricollocato sul torrione del castello. Ma il monito di Pio XII suona nel deserto e al di là della scritta non riusciamo ancora a trovare nel sacerdote una presa di posizione netta, se non qualche parola di biasimo, anche ferma se guardiamo alle note del suo Albo storico, ma mai espressa pubblicamente. Intanto nell’aprile del 1939 l’Italia occupa l’Albania e quattro mesi dopo la Germania invade la Polonia. E mentre la Francia sta per cadere Rossaro è intento a rimuovere gli ostacoli e a organizzare minuziosamente l’arrivo della Campana a Rovereto181 .
«La Guerra continua a menar strage, nei paesi colpiti da tale lagello. Ho un senso di ripugnanza a pensare ad una celebrazione per la Campana dei Caduti; ma il Ministero la desidera, e per questo l’appoggio in pieno», egli scrive, ma poi giustiica. «Del resto il ritmo della vita, in Italia, continua indisturbato; basta leggere le cronache cinematograiche e sportive. Un austero e solenne richiamo ai sacriici degli Eroi non è inopportuno; anzi provvidenziale»182 .
Don Rossaro china dunque la testa, anche se a conoscenza dell’imminente entrata in guerra dell’Italia. Ancora con ambiguità rispetto al suo abito talare, si mostra anzi convinto che il richiamo agli eroi possa servire a preparare il terreno «all’ora segnata dal destino» che batte nel cielo della patria, per dirla con il Duce. Alla ine di maggio del 1940 quella
delle reliquie romane quasi a testimoniare la nobiltà del luogo di questo rude tempio. Mentre parlo, in questo capace forno ribolle il bronzo di 114 nazioni, e a guisa d’un’epica diana annunzia la grande epopea che canterà nei secoli; e come in questi giorni, nei rustici tini si fondono, nella gloria del vendemmiale, i rubicondi ai biondi grappoli delle vostre opime colline, così in un’unica iamma, cannoni di tutte le nazioni, ieri mostri di morte, oggi, auspice la nostra vittoria, araldi di giusta pace, si fondono in un sol canto per la gloria degli Eroi...». Così apre il suo discorso Antonio Rossaro per celebrare la fusione della campana. Cfr. dattiloscritto in Albo storico,12 ottobre 1938. 180 rossaro, La campana cit., pp. 217-223. 181 «Grande crisi nella preparazione: è improvvisamente chiamato sotto le armi il maestro dei Cori, prof. Grotta: con grande fatica riesco a sostituirlo col maestro Delorian; il Segretario Politico riiuta il suo ordine ai giovani componenti il Coro di frequentar le prove e di non mancare all’esecuzione; è richiamato sotto le armi il signor Patelli che ha la direzione degli “araldi d’asta”; la banda cittadina è sciolta, chi detiene gli istrumenti non vuol “mollarli” in che non è sciolta una certa vertenza; la prefettura non si decide a “issare” il programma, che muta ogni momento; non si può pubblicarlo, né si possono diramare gli inviti; l’oratore uficiale, Amilcare Rossi, non vuol mandare in iscritto la sua adesione deinitiva - pur avendola data più volte inequivocabilmente, a voce - per cui non oso lanciare il suo nome; è chiamato sotto le armi Lasta, che era a capo del “reparto lancio colombi”; è chiamato sotto le armi il cav.
De Oliva, che aveva la direzione dei “cortei e delle cerimonie”; il Film luce ritira la sua adesione, così l’Eiar, così il Foto Metvan di Genova. È il caso di dire “Avanti Savoia!». Albo storico cit., 23 maggio 1940. 182 Albo storico cit., 16 maggio 1940.
che doveva essere la Campana della pace compie così il suo cammino trionfante dalla fonderia Cavadini di Verona a Rovereto, mentre l’Europa «vive la grande tragedia»183 .
«Era presente tutta la Nazione nella più bella ed alta espressione: l’Esercito», scriverà convinto una decina di anni più tardi nelle sue pagine postume184. Poi, come sempre, la prosa trasuda ridondanze e rimandi guerrieri, «tra baci e benedizioni», nel solito intruglio di sacro e profano. Una sorta di «tragicommedia degli equivoci», scrive Rasera, «che varrebbe la pena di analizzare in uno studio a parte, come exemplum straordinario di tutta la vicenda della Campana e di tutte le sue contraddizioni»185. Anche del suo arteice a questo punto, visto quanto egli aggiunge a proposito di questa «tragicommedia». Rossaro racconta infatti prolisso e ridondante la festa allestita per l’arrivo in città. Cita l’Ordine di Malta, i mutilati, il gruppo delle medaglie d’oro, gli eroici protagonisti «di epiche gesta, gesta di terra, di cielo e di mare»; nomina le numerose personalità, gli addetti militari e delle ambasciate. E ancora l’esercito, in rappresentanza degli altri eserciti di tutti gli stati che presero parte alla guerra mondiale. Poi descrive la folla inneggiante, prodromo di quella di Piazza Venezia, pronta a gridare al Duce e alla corsa alle armi, due settimane più tardi. Intanto la Campana entra trionfale «da una selva di lucide baionette». Le scolaresche cittadine cantano gli inni predisposti dallo stesso sacerdote. Monsignor Rauzi, vescovo ausiliare di Trento inizia la messa, fra il salmodiare dei fraticelli di San Rocco e il rombo del cannone di Castel Dante. La prolusione è afidata «alla parola appassionata di Amilcare Rossi», combattente decorato della prima guerra, deputato fascista e presidente dell’Associazione Nazionale Combattenti, nella degna continuazione del discorso tenuto dal grande mutilato Delacroix alla inaugurazione della prima Campana, nel 1925: se un giorno la Campana «chiamerà a raccolta il popolo... non inviterà più alla preghiera, ma chiamerà alla guerra», e poi Rossi: «è l’ora di tutti gli italiani fervidamente invocata, l’ora nella quale la voce divina di Maria Dolens chiamerà tutto il popolo in armi attorno al suo condottiero»186 . «Segni del tempo», riporta Rossaro a distanza di due lustri, «voci dell’ora che passa! Gli oratori vorrebbero tirare nell’intricata rete della politica del giorno “Maria Dolens”, ma la Campana tace, essa celebrerà gli eroi di ieri, di oggi, di domani, senza distinzione di campo, di luogo, di fede, e questo è degno di Roma e, avventuratamente per noi, solo di Roma! La Campana non li chiamerà mai alla guerra, ma alla pace! Sì, nell’aria c’è odor
183 Così scrive lo stesso Rossaro introducendo la giornata celebrativa del 26 maggio 1940. «La Campana del dolore e della gloria, delle lagrime e del sangue, della pace e della guerra, sembra che voglia vivere nelle sue epiche fasi i destini dell’umanità. Oggi, giorno di gloria per lei, vive la grande tragedia dell’ora: la tormenta bellica continua furiosa e cruenta. Calais è caduta dopo aspra lotta; l’armi nemiche premono su Dunkerque; i francesi hanno perduto 73 apparecchi. L’ecatombe di ambe le parti continua». Albo storico cit., 26 maggio 1940. 184 Il riferimento è naturalmente ancora a rossaro, La campana cit., p. 234. 185 rasera, Il prete della campana cit., p. 28. 186 rossaro, La campana cit., p. 239.
di polvere..., e questo Maria Dolens lo sa e guarda teneramente a quell’immensa distesa di soldati che le fanno corona, ignari del loro destino ad essa ben noto»187 .
La nota, che trova ulteriore sviluppo nell’Albo storico188, viene probabilmente quasi due lustri dopo, ed è dificile stabilire quanto il tempo e la storia possano avere indotto Rossaro ad aggiustare il suo scritto189. Di fatto questi segni del tempo sembrano ancora rilettere il pensiero del sacerdote, schiacciato fra la fede nel fascismo e il simbolo di fratellanza della Campana, fra le sue idee vicine al regime e la “neutralità” afidata al bronzo rifuso. Fatto è che nel complesso la cronaca è una cronaca militare, che invano tenta di mascherare la guerra con la bimba madrina, con i «gli austeri sai dei monaci», con l’acqua sacra dei iumi delle nazioni insanguinate dal primo conlitto. Mentre i bagliori del secondo dramma bruciano il mondo, il sacerdote non riesce ancora ad allontanarsi dalle pagine retoriche. Parla del Danubio, della Marna, della Sava e della Drina, dei Laghi Masuri e del Baltico, della Vistola e dell’Yser, della Vojnsa e del Giordano, del Tigri e dell’Eufrate, del Tagliamento e del Leno. Del Piave, soprattutto, più sacro di tutti, perché sacro all’Italia190. La piazza peraltro è semivuota, ma per colpa della polizia troppo sospettosa. Ma nonostante la «ripugnanza» tardiva, il rito arriva soprattutto alla ine fra cori festanti delle scolaresche e delle milizie. «Dall’angolo della Piazza, mille colombi viaggiatori vengono lanciati nel cielo e l’arteice della Campana saluta le autorità «col saluto romano», leggiamo nella pagina trionfale dello stesso Rossaro191 .
Si potrebbe essere accusati di troppa severità con queste considerazioni. Le rilessioni del sacerdote in effetti possono lasciare margine a osservazioni di altro tipo, portarci a sottolineare lo scontento di Rossaro per la piega presa da eventi che in parte gli sfuggono. E forse
187 Ibidem. 188 Così la cronaca dell’Albo: «La sua orazione è più intonata al momento politico che si passa, che allo spirito della Campana dei Caduti», commenta Rossaro. «Anzi in certe frasi è discorde con questo. Anche il discorso di Delcroix, tenuto 15 anni prima, in simile occasione, cioè al primo inauguro ella Campana dei Caduti ebbe qualche frase discordante. Fortuna che il tempo è un immenso iume che passa, travolgendo nell’ampio mare dell’oblio ante inanità. Una sola cosa resta, e passa superba nel tempo: l’idea! – Lo squillo della Diana chiude la celebrazione dell’Impero della Campana dei Caduti. La celebrazione fu veramente solenne e pittoresca. Ma ogni medaglia ha il suo rovescio, e anche questa celebrazione ebbe la sua parte negativa: l’assenza di pubblico! Per le vie, durante il Corteo, vuoto!... vuoto all’ingresso in Piazza Rosmini. Vuoto durante la celebrazione. Se non “vuoto” il vero senso della parola, certo non c’era il pubblico che si attendeva». La colpa viene data al segretario politico, che all’ultimo momento non invitò le organizzazioni perché non riteneva la cerimonia «una festa fascista», alla Pubblica Sicurezza che «per una settimana fece prendere rilievi e informazioni». Rossaro salva invece il Governo, il quale «inviò la rappresentanza di tutte le Armi». Albo storico cit., 26 maggio 1940. 189 Cfr. a questo proposito quanto scrivono i curatori del volume A. rossaro, Diario 1943-1945 cit., p. 9. 190 rossaro, La campana cit., pp. 193-206. Per il battesimo della campana con le «acque storiche» dei iumi, il relativo discorso di Rossaro, e la minuziosa cronaca della cerimonia che termina con il volo dei colombi e il suono della «Diana» si veda Albo storico cit., 26 maggio 1940. 191 Albo storico cit., 26 maggio 1940.
è anche così. In effetti non è facile inquadrare la sua igura, soprattutto in questi stridenti frangenti di vita. Bisogna però dire che nei fatti narrati non è soltanto la parola di Amilcare Rossi a chiamare alle armi, lasciando il prete al suo problematico pensare. La stessa pagina dell’Albo storico ci rivela che, non appena conclusa la prima parte della manifestazione in onore della Campana, il sacerdote si fa protagonista dell’inaugurazione del monumento all’Alpino, allineandosi chiaramente al clima di mobilitazione. Queste le sue parole:
«L’Alpino ha una consegna: “sempre ascendere!” E la consegna nostra: “ascendere per le vie aspre e indiscutibili segnate in questa ora suprema dal Duce: “ascendere” all’ombra delle spade al comando del Re: ascendere alla conquista di nuove glorie, verso nuove civiltà»192 .
La stessa decisione di non citare il messaggio del papa è una prova di questo atteggiamento da Giano bifronte, più attento a considerare la convenienza politica che la sostanza religiosa. Di fronte alla categorica proibizione del prefetto di non diffondere pubblicamente le «nobilissime» parole di Pio XII, afinché «quelli che già caddero preghino anch’essi, perché altre tombe non si schiudano ed altri ossari non si erigano, e né lagrime, né sangue bagnino ancora la terra d’Italia», il cappellano della Milizia tace. Tace «perché tra le due autorità: la civile rappresentata dal prefetto, anima squadrista e deciso a tutto, e l’ecclesiastica, rappresentata da S.A. il Principe Arcivescovo», tramite del messaggio papale, la scelta cade sulla prima. Don Rossaro si veste da don Abbondio, accampa una serie di giustiicazioni e tace, «lasciando la soluzione agli eventi»193 .
192 Ibidem. «Ore 14. Inaugurazione del monumento all’Alpino. Presenti i Prefetti e le massime autorità della Provincia...
Lo scrivente consegna il Monumento con queste brevi e quasi precise parole “Sono altamente onorato di consegnare a Voi, Signor Podestà, e per Voi alla Città di Rovereto, questo monumento all’Alpino, opera egregia del concittadino Carlo Fait, dono muniico del Cav. di Gran Croce Angelo Pelloni, qui presenti. Rovereto, città garibaldina, irredentista, fascista e città eminentemente alpina: e qui, tra l’Ossario di Castel Dante, luminosa tappa di luminose imprese e l’avito Castello sacrario di tante memorie, con a ianco il tormentato Zugna, in faccia al glorioso Pasubio, con ai piedi il verde Leno, che canta l’epiche gesta di grandi e di oscuri Eroi, l’Alpino si trova, in pieno a casa sua. Questo monumento però, non è uno aggiunto coreograico a questo splendido teatro di monti: l’Alpino ha una consegna: sempre ascendere! E la consegna nostra: ascendere per le vie aspre e indiscutibili segnate in questa ora suprema dal
Duce: ascendere all’ombra delle spade al comando del Re: ascendere alla conquista di nuove glorie, verso nuove civiltà. Con questi propositi, Signor Podestà, consegno a Voi questo monumento. Voi consegnatelo ai igli di oggi per i igli di domani». Albo storico cit., 26 maggio 1940. Anche in rasera, Il prete della campana cit., p. 29. 193 Ibidem. «Mi trovai veramente tra Scilla e Cariddi. Decisi di tacere, e realmente tacqui - lasciando la soluzione agli eventi». Eppure prosegue Rossaro, erano «Parole nobilissime, degne del Santo Padre e intonatissime allo spirito della Campana dei Caduti, ma non intonatissime al momento politico in cui giunsero. Esse furono scritte in un clima politico affatto diverso, il 3 maggio: i cuori allora erano aperti alla speranza del “non intervento”; si poteva ancora discutere sull’atteggiamento dell’Italia, tra “l’asse e gli alleati”; era ancor consentito invocare la pace. Il messaggio pontiicio giunse invece alla Reggenza il 22 maggio, quando la Germania spingeva la sua cruenta marcia: quando l’Italia aveva ormai deciso la sua entrata in guerra, quando si doveva sostenere l’idea della “guerra”, in un popolo affatto contrario e sul quale la parola “pace” era un criminoso disfattismo. [...] Erano i giorni in cui veniva diffuso il discorso del Duce ai Gerarchi trentini (14.5.1940), in cui bolla quelli che preferiscono non battersi, quelli che pregano e fanno pregare per la pace e dichiara inevitabile che l’Italia intervenga. Questo era il clima del 22 maggio in
Ma come si è detto il tono non è sempre questo. Bastano pochi giorni per una pagina che suona in contrasto alla guerra, anche se ancora non sappiamo se sia stata scritta in presa diretta. C’è poi l’accenno di una civiltà che sembra ancora manifestare il timore del sacerdote di dover assistere al tramonto di un’epoca per la quale aveva lavorato e creduto, nel segno di una rinascita appunto, da lui preparata e più volte benedetta. Siamo alla sera del 10 giugno 1940, e la popolazione di Rovereto si riversa in piazza per ascoltare alla radio il discorso del Duce194 .
«L’apparecchio era collocato in un poggiolo della Cassa di Risparmio. Nella piazza campeggiava solenne la Campana, monumento di guerra e di pace, iancheggiata dalla truppa. Il cielo minaccioso di rossi bagliori e di tuoni. Un triste presagio incombeva sulla folla tacita e pensosa. Sembrava che la Campana palpitasse del palpito della folla e che con essa vivesse la grande ora d’ansia e di tristezza, che in quel momento viveva il mondo. Ad un tratto gli squilli annunciarono la parola del Duce, e la proclamazione della guerra passa attraverso la folla come un gelido fremito di morte. Quanti giovani soldati mormorarono “forse suonerà per me!”. Tutte le campane, per disposizione superiore, salutarono la parola del Duce, ma il loro, più che un suono di festa, era il suono di una triste agonia. Forse sentivano il tramonto di una vecchia civiltà? Quale sarà quella che balzerà dal sangue di questa nuova, immane, orribile guerra»195 .
Sembra che non sia però ancora il tempo di rinnegare il fascismo, e con esso la civiltà latina, se davvero a un anno dall’inizio della guerra lo vediamo marciare da centurione della Milizia per la ricorrenza del 28 ottobre196. Ed altrettanto possiamo dire a proposito della scadente composizione dedicata a Pio XII nel Natale 1941197, dove i trioni della chiesa papale non sono ancora del tutto separati da quelli di Roma. Di fronte agli «ignivomi cannoni» che «romban dovunque», se mai li surrogano in un trionfo della romanità della chiesa e di Pietro, «con risultati atrocemente stridenti»198. Altrettanto si può dire in merito ai versi, ancora nostalgici del tricolore, che Rossaro compone per l’ingresso episcopale di Carlo Ferrari a Trento. Se fuori «la tempesta mugghia», le bianche colombe dei martiri d’Anaunia volano sul Campidoglio per cantare «libero il peana» dell’Italia «eletta fra le genti»199 .
cui giunse il “messaggio pontiicio” scritto il 3 maggio. Ora le parole sottolineate dell’augusto messaggio, se fossero state pubblicate in quei giorni, in cui se non si voleva parlare di guerra e non si poteva parlar di pace, avrebbero suscitato certo una polemica, e Farinacci ne avrebbe certo fatto oggetto di articoli sul suo Regime Fascista contro il Papa, travolgendo nella polemica la Campana dei Caduti». 194 «10 giugno. Lunedì, ore 18. Dichiarazione di guerra dell’Italia alla Francia e all’Inghilterra. La Campana sale al suo glorioso trono attraverso il calvario dell’umanità! Ogni sua tappa coincide con un grande avvenimento storico». Albo storico cit., 10 giugno 1940. 195 Ibidem. 196 Cfr. rossaro, Diario 1943-1945 cit., p. 11. 197 A Pio XII. Nel Natale 1941, in “Poesie di Antonio Rossaro” cit., pp. 676-679. 198 Cfr. in rossaro, Diario 1943-1945 cit., p. 12. 199 S. A. Rev.ma Mons. Carlo Ferrari, Princ. Arciv. di Trento, in “Poesie di Antonio Rossaro” cit., pp. 680-683.
Una pagina dell’Albo storico di Antonio Rossaro. Annotazioni del 4, 15 e 24 febbraio 1943 (BCR).
Antonio Rossaro avvicenda intanto le preoccupazioni per la Campana con quelle della guerra, che sembra ora acuire la sua delusione di un’epoca caratterizzata dalla barbarie. Annota rapidamente la capitolazione della Francia, i primi tracolli della campagna di Russia, la guerra che infuria senza tregua, la precaria situazione di Rovereto. Poi lo sbarco degli alleati in Sicilia e il bombardamento del quartiere di San Lorenzo a Roma. Riafferma con parole forti il topos dello sfregio alla Patria, alla sua superiorità storica, alla sua cultura civile e religiosa, tradita dall’indifferenza di tanti.
«10.VII.1943! Sbarco in Sicilia! Il sacro suolo della Patria è calpestato dallo straniero d’oltre oceano, nonché dallo straniero d’oltralpe. Fortuna che i Mille di Marsala son morti! Gran Dio degli Avi nostri, proteggi la nostra, la tua Italia!», si legge nel solito Albo. «19.VII.1943. Ore 12.30. La radio annuzia la prima incursione aerea sul cielo di Roma. Mi fa spavento la grande indifferenza di tutti, operai, impiegati, industriali. Terribile sintomo!»200 .
Il giorno dopo annota i morti e i feriti, l’idea di inserire negli annali della Campana il 2 novembre in ricordo di tutti i civili periti nel turbinio della guerra.
«Oggi, non è più la cavalleresca battaglia tra eroi» egli aggiunge con una prosa un po’ stentata; «è l’insidiosa e vile barbarie delle belve umane sopra l’innocuo e mite gregge d’una gente inerme e impotente. Vittime d’un suo tradimento, assurte a eroi da loschi criminali, i caduti civili entrano nell’immensa legione dei Caduti di guerra, e quindi è doveroso che entrino nella cerchia della campana sacra, per essere ricordati e celebrati nei secoli»201 .
La sua cultura risorgimentale riemerge dunque anche in questi ultimi eventi in cui afferma di vedere «buio pesto» e, sorprendentemente, lo stesso discorso del Duce gli sembra «quello di un incosciente» che «lascia andare disperatamente l’Italia alla deriva»; quello di un «ubriaco di gloria, che non vede nulla, o peggio, vede altro che se stesso. Un gerarca, ai miei dubbi, mi dissi che il fascismo non è mai stato così forte e “imbattibile” e che “stravinceremo”...!»202. Ma intanto le bombe martellano Torino, Genova, Milano. «La barbarie continua il suo compito lugubre e funesto»203 .
200 Cfr. Albo storico, 10 e 19 luglio 1943. 201 Cfr. Albo storico, 20 luglio 1943. 202 Albo storico, 26 luglio 1943. 203 Albo storico, 27 luglio 1943.
Poi ecco notizia della caduta del fascismo.
«Dies irae!. Ore 23.15. Sono nella mia oficina intento al mio “Dizionario biograico”. Intorno tenebre e profondo silenzio. Ad un tratto sento le ultime parole di una vicina radio. “Mussolini ha dato le dimissioni, il Re ha consegnato il governo d’Italia a Badoglio”. Ecco crollata un’epopea! epopea di gloria e d’infamie. Ai posteri l’ardua sentenza! Nel silenzio della notte riecheggia qualche grido: “Mussolini è caduto! È morto il fascismo...! Viva l’Italia libera! - No so se è sogno o realtà! Questa notte non dormii. La mattina esco alle ore 8. In tutti c’è un immenso e visibile respiro di gioia, contenuta ancora del timore di sognare... Solo un’ora dopo, verso le 9, il sogno è realtà. Tutti sorridono. Commentano. Si scusano, altri negano d’esser stati fascisti. Tutti si sono levati il distintivo... e distintivi si calpestano per la strada ad ogni piè sospinto. Non si trova, nemmeno cercandoli col lanternino, nessuno dei gerarchi o dei troni fascisti di ieri. Come per incanto scompaiono gli emblemi fascisti agli ingressi degli ufici. Scompaiono gli ininiti ritratti del Duce. Dalle vetrine dei negozi si squagliano libri, giornali, cartoline fasciste. Nella fontana di Piazza Rosmini galleggiano molti libri fascisti e ritratti del Duce. È crollata un’epoca! è chiusa una storia: Sic transit gloria mundi! In questo solenne momento della storia ho deciso di chiudermi in riverente silenzio. La Nemesi compirà essa la sua inesorabile missione»204 .
Arriva poi la notazione a chiusura: ancora una giustiicazione non richiesta, come altre dal sapore posticcio. Rossaro scrive che la Campana «pure essendo nata e cresciuta in pieno clima fascista, non solo non ebbe noie o imposizioni da parte del partito, ma godette della più assoluta indulgenza e libertà». Lo stesso Duce «personalmente, diede tangibili segni della sua considerazione e benevolenza». Ribadisce inoltre di avere preservato l’autonomia della Campana, mantenendola «sopra e fuori delle contingenze politiche»205 .
Le ultime citazioni meriterebbero uno studio particolare, sia per quanto concerne i fatti che la loro eventuale ricostruzione postuma. Hanno provato a farlo quanti hanno lavorato alla pubblicazione del Diario, ovvero su alcune pagine manoscritte di Rossaro che vanno dal 1943 al 1945206, cercando fra l’altro di confrontarle con l’Albo storico. Ciò che emerge da queste «scritture parallele», è in primo luogo una divaricazione del secondo testo rispetto al primo, in quanto probabilmente l’Albo è destinato a diventare memoria pubblica, una sorta di apologia dell’autore e delle sua Campana207. Ogni volta che l’autore tratta questioni che
204 Ibidem. 205 Ibidem. 206 rossaro, Diario 1943-1945 cit. 207 Il Diario potrebbe dunque conigurarsi come il segmento di un archetipo più vasto che purtroppo non ci è pervenuto per intero. È infatti possibile ipotizzare che Rossaro, anche per quanto riguarda gli anni precedenti, avesse l’abitudine di appuntare rapidamente gli eventi per trasferirli poi in un testo più articolato.
potrebbero comprometterlo, l’Albo mostra dunque reticenze e giustiicazioni, come nel caso dell’inaugurazione della Campana o nelle pagine che riguardano la guerra e la caduta di Mussolini. Bisognerebbe però considerare anche la diversa natura delle due scritture: strettamente marcato da brevi appunti il Diario; più prolisso e diplomatico l’Albo, dove al di là della cronaca emergono rilessioni e giudizi. In questo caso a fare da ilo conduttore è infatti la storia della Campana, come del resto precisa il sottotitolo, mentre il resto serve praticamente da contesto, talvolta da contorno. In questo esercizio apologetico, oltre a spiegare il suo operato in ragione degli eventi, l’autore si propone in effetti di mantenere formalmente neutra la Campana rispetto al regime e alle sue stesse idee, ma è altrettanto vero che questo equilibrismo richiede sicuramente «silenzi e reticenze», soprattutto nel momento in cui la sua stella politica smette di brillare, o quantomeno appare meno luminosa. Silenzi, reticenze e imbarazzi, già emersi del resto in seguito all’alleanza con la Germania, che signiicava anche con l’Austria, le nazioni che Rossaro aveva combattuto prima, durante e dopo la guerra. Contro le quali aveva cercato di ricostruire la memoria del Trentino redento e latino, dell’Italia che affondava le radici nel Risorgimento e aveva sacriicato i suoi igli per diventare grande e unita. A un certo momento in sacerdote si trova così fuori dal suo tempo, da quella storia, da quella costruzione ideale che egli aveva contribuito a ediicare e che aveva poi condiviso con il fascismo. L’Italia, resa forte dal Duce e dal Re, avrebbe dovuto essere il modello di una nuova era, garante della pace che la Campana aveva iniziato a propagare nel mondo, grazie al lavoro indefesso del suo arteice, ma che ora rimaneva sulla piazza di Rovereto, senza voce, testimone di un’epoca al tramonto, «di un’epopea di gloria e d’infamie» per dirla con le parole dell’autore. Nonostante questo il sacerdote non smette comunque di lottare e di credere. Lo fa anche quando avverte che parlare di pace mentre sta scoppiando la guerra è dificile e soprattutto contraddittorio; potremo forse dire che lo fa trovandosi a disagio anche con il credo politico e religioso che aveva cercato di fondere assieme, magari con altri compromessi, con una retorica forzata che si avverte a-cristiana e fuori luogo, non solo a causa di un’eventuale lettura di parte, ma per la stessa chiesa di oggi. Ad un certo momento, il contenuto dell’Albo storico rivela però la delusione di don Rossaro per ciò che sta avvenendo, il fastidio per i venti mesi in cui Rovereto e il Trentino entrano a far parte dell’Alpenvorland, sottolineando il fare prepotente dei tedeschi, la presa delle caserme, le ruberie, la prigionia inlitta ai soldati e ai civili208, lo stato di sudditanza nel quale si trova la popolazione, le azioni poco cavalleresche, anche nei confronti della Campana, alla quale riserva sempre la parte consistente delle sue annotazioni. Insomma, in queste pagine iltra-
208 Tutto è crollato: anche l’onore! Il tedesco ha preso il sopravvento e tiene già il comando della città. I miei alpini e i miei bersaglieri sono prigionieri al campo sportivo: mi reco subito con pane frutta e riesco a confortarli. Ad alcuni procuro dei vestiti ed riescono a scappare. Ad uno di loro do il mio cappello e il mio soprabito, e vestito da sacerdote si mette in salvo». Albo storico, 9 settembre 1943.
te, Rossaro sente forse vacillare la ricostruzione storica da lui effettuata; è provato dai nuovi eventi che non gli tornano e si lega sempre più alla sua creatura, che cerca di ricollocare quanto prima sul bastione del Castello, quasi a voler trattenere la pace che sfuma, ricorrendo a tutti i santi, perino al Duce, che nel 1944 gli fa inviare da Gargnano 50.000 lire per il sacro bronzo209 . Allo stesso tempo, guardando in particolare alla sua terra e alla sua patria, si mostra pietoso: piange i bombardamenti di Trento e di Rovereto210, depreca la «tormenta bellica» sul fronte russo, la battaglia di Nettuno, «il volo dei barbari su Verona»211, la rovina di Montecassino212 , le città distrutte, la fame, le requisizioni, i continui allarmi, la precarietà della vita e così via. D’altra parte è poco loquace in merito al movimento della Resistenza, anche quando si tratta di episodi eclatanti, che riguardano Rovereto o i centri trentini. L’esecuzione di Angelo Bettini e dei partigiani del Basso Sarca è annotata con le consuete poche parole solo nei fogli più ristretti e personali del Diario213, e altrettanto avviene per l’eccidio di Lizzana214. Avrebbe potuto farlo con accenti anche meno frettolosi nelle pagine dell’Albo storico, ma non è così: tace piuttosto. Non pensa di aggiungere nulla nemmeno alla ine della guerra, quando potrebbe allargare senza timori gli appunti lasciati sui «foglietti volanti» del periodo che va dal 7 dicembre 1944 al 12 ottobre 1945, ovvero nei mesi in cui aveva provveduto a nascondere l’Albo in un locale segreto del Castello con il materiale relativo alla Campana e alla Biblioteca215. Ma nonostante questa relativa libertà le note in proposito risultano pressoché assenti, come se tali fatti fossero ancora lontani dall’autore216, oppure avessero poca attinenza con il suo scopo217 .
209 «Data la dificoltà dei tempi sono consigliato a non parlarne». Albo storico, 3 maggio 1944. 210 Oltre all’Albo storco si vedano anche Pio XII sulle macerie di San Lorenzo, Roma 19 luglio 1943 e Nel trigesimo del bombardamento di Trento, 2 settembre 1943, in Canzoniere cit., pp. 694-698. 211 Albo storico, 20 dicembre 1943, 23 gennaio 1944 e 28 gennaio 1944. 212 «Arde Montecassino! È il caso di dire: quel che non fecero i Barberini fecero i barbari. I barbari di ieri erano meno barbari di quelli di oggi». Albo storico, 15 febbraio 1944. 213 Così nel Diario: «Bettini (eccidio Arco-Riva) - Cattura Palmieri Schettini Santini avv. Ferrandi». rossaro, Diario 1943-1945 cit., 28 giugno 1944, p. 68. 214 «Nella notte sul sei grande rumoreggiante passaggio d’aeroplani - mattina cattura Zanini, Angeli, Bini, Vram, Pellizzari. Allarmi 10.45 - cessato 12 meno 5 minuti. Rombi spaventosi: Lavis Gardolo ecc. Eccidio Lizzana - 4 feriti all’ospedale: donna e tre ragazzi di Marco feriti - Manci». rossaro, Diario 1943-1945 cit., 6 luglio 1944, pp. 69-70. 215 Così scrive Rossaro il 7 dicembre 1944. «Il presente diario, con tutto l’archivio della Campana fu nascosto col materiale della Biblioteca in un locale segreto del Castello, la cui portina venne murata». Il 12 ottobre del 1945 riprende la scrittura con queste parole: «Cessata già da vario tempo la guerra, venne riaperto nel Castello il locale dove furono collocati i libri della Biblioteca, e quindi anche il presente volume, che dopo tante tragiche vicende, e la maturazione d’una storia, che ci fece vivere la storia di un interminabile secolo, venne estratto, per ricevere la continuazione del diario, scritto in appunti a cenni precisi ed esaurienti, su foglietti volanti». Albo storico, pp. 218(?)-219. La nota di Rossaro potrebbe far pensare che questi appunti dovessero servire per essere poi trascritti nell’Albo storico. Se fosse così ci sarebbe una sfasatura di date in quanto il Diario inizia con il 25 luglio 1943. 216 «Silenzi e autocensure non hanno, ci pare, solo una spiegazione tecnica, né possono derivare solo dall’asciuttezza di riferimenti pubblici tipica di queste agende-diario, ma sembrano rimandare ad un disagio più profondo. L’eloquentissimo don Rossaro, nei confronti delle testimonianze di un’opposizione minoritaria ma possibile, non sa trovare nessuna parola». rossaro, Diario 1943-1945 cit., p. 15. 217 Come leggiamo nell’introduzione al Diario si tratta di un nodo dificile da sciogliere, ma che ancora appare opportuno segnalare. Cfr. rossaro, Diario 1943-1945 cit., p. 15.