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Elenco delle tavole fuori testo

Tra le pp.206-7:

1.Esterno e interni della sede della «Difesa della razza», in piazza Colonna a Roma.

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Da «La Difesa della razza», III, n. 1, 5 novembre 1939, p. 61.

2.Amerigo Bartoli, caricatura di Telesio Interlandi. Frontespizio di T. Interlandi, Pane bigio. Scritti politici, L’Italiano, Bologna 1927.

3.I provvedimenti legislativi persecutori nei confronti degli ebrei, vignette.

Da «La Difesa della razza», II, n. 2, 20 novembre 1938, pp. 24-25.

4.Fips (Philip Ruprecht), caricatura tratta da «Der Stürmer».

Da «La Difesa della razza», III, n. 9, 5 marzo 1940, pp. 26-27.

5.Michael Wolgemüth e Wilhelm Pleydenwurff, Simone da Trento, xilografia, da H. Schedel, Buch der Chroniken, Anton Koberger, Nürnberg, 23 dicembre 1943, foglio CCLIII. Ibidem.

6. Martirio di San Simonino, xilografia, fine del xv secolo. Ibidem.

7-8.Illustrazione dell’Haggadah.

Da «La Difesa della razza», II, n. 20, 20 agosto 1939 (copertina e p. 31).

9.Fotomontaggio.

Da «La Difesa della razza», I, n. 4, 20 settembre 1938, pp. 24-25.

10.Collage di dipinti espressionisti del Novembergruppe.

Da «La Difesa della razza», I, n. 6, 20 ottobre 1938, p. 56.

11.Jacob Epstein, Genesi e Adamo, sculture.

Da «La Difesa della razza», II, n. 17, 5 luglio 1939, p. 16.

12.Fips (Philip Ruprecht), caricatura tratta da «Der Stürmer».

Da «La Difesa della razza», II, n. 22, 20 settembre 1939, p. 11.

13.Id., caricatura tratta da «Der Stürmer».

Da «La Difesa della razza», II, n. 7, 5 febbraio 1939, p. 40.

14.Id., caricatura tratta da «Der Stürmer».

Da «La Difesa della razza», II, n. 9, 5 marzo 1939, p. 34.

Elenco delle tavole fuori testo

15.Caricatura dell’«ebreo-mondo».

Da «La Difesa della razza», II, n. 5, 5 gennaio 1939, p. 41.

16.Caran d’Ache, Pourquoi l’on a fait. 1789, in «Psst!», 15 ottobre 1898.

Da «La Difesa della razza», II, n. 9, 5 marzo 1939, p. 23.

17.Disegno della Venere ottentotta, tratto da G. Cuvier, Extraits d’observations faites sur le cadavre d’une femme connue à Paris et à Londres sous le nom de Vénus Hottentote, in «Mémoires du Museum d’histoire naturelle», 1817, n. 3, pp. 259-74.

Da «La Difesa della razza», I, n. 1, 5 agosto 1938, p. 17.

18.Lidio Cipriani, «tipo negro Scilluk», «tipo Betgiuk (Eritrea)», «tipo migiurtino (Somalia italiana)», fotografie.

Ibidem, p. 13.

19.Reportage sugli ebrei romani soggetti alla precettazione civile a scopo di lavoro, 1942.

Da «La Difesa della razza», V, n. 16, 20 giugno 1942, pp. 6-7.

20.Fotomontaggio.

Da «La Difesa della razza», V, n. 20, 20 agosto 1942, p. 19.

21.Fotomontaggio.

Da «La Difesa della razza», VI, n. 1, 5 novembre 1942, p. 11. 22-23.Vignette che riproducono pedigrees disgenici.

Da «La Difesa della razza», II, n. 6, 20 gennaio 1939, pp. 22-23.

24.Oskar Garvens, vignetta tratta da «Kladderadatsch».

Da «La Difesa della razza», IV, n. 18, 20 luglio 1941, pp. 43-44.

Le Tavole a colori tra le pp. 286-87 sono tratte dalla collezione della «Difesa della razza» in possesso dell’autore.

Introduzione

L’indignazione retrospettiva è un altro modo di giustificare il presente.

Pierre Bourdieu (1977).

È impresa ardua trovare un saggio sul razzismo e sull’antisemitismo fascisti che non mostri in copertina un’immagine della «Difesa della razza», il quindicinale diretto da Telesio Interlandi (Chiaramonte Gulfi, 1894 - Roma, 1965) fra l’agosto 1938 e il giugno 1943. Né è raro che, spesso in modo incoerente, giornali e riviste pubblichino, a corredo di articoli di divulgazione storica su questi temi, i celebri fotomontaggi della rivista.

In Italia «La Difesa della razza» è oggi innanzitutto un’icona. E lo è da parecchio tempo, se si pensa che già nell’aprile 1954 «Il Calendario del Popolo», sorta di almanacco di propaganda del pci, pubblicava le caricature eugenetiche della rivista per criminalizzare Mendel, presentandolo come uno dei precursori del razzismo nazista1 .

In questa stereotipizzazione visiva si può cogliere indubbiamente una conferma del potere delle immagini e una riprova di quella sintesi fra il dato cognitivo e quello emotivo-sensoriale che caratterizza l’esperienza estetica2. Ma vi è forse anche dell’altro.

Trasformare «La Difesa della razza» in icona del razzismo fascista ha permesso, infatti, di considerarla come una sorta di corpo estraneo e decontestualizzato, relegato all’ambito moralistico del «famigerato», oggetto del ripudio di un antirazzismo dogmatico, disposto a privilegiare la stigmatizzazione demonizzante all’argomentazione critica, con l’unico risultato di lasciare intatte le idee che vorrebbe combattere3 .

Non c’è dunque da stupirsi del fatto che all’emorragia iconografica corrisponda in realtà l’assenza di studi approfonditi sulla rivista, pur continuamente sfogliata e citata. Così come manca ad oggi una biografia completa della figura di Interlandi, la quale meriterebbe invece un’attenzione specifica, che riuscisse a soddisfa- re gli auspici espressi da Massimo Bontempelli nel 1926: «quando un erudito del duemila scriverà una tesi su Le polemiche culturali in Roma nei primordi dell’era fascista, potrà intitolare il suo libro “Caro Interlandi”» 4 .

Proprio da Interlandi prende le mosse questa ricerca, nella convinzione che «La Difesa della razza» non possa essere compresa senza far riferimento al giornalista siciliano e alle testate da lui dirette negli anni Venti e Trenta, in particolare il quotidiano «Il Tevere» (1924-43) e il settimanale di cultura «Quadrivio» (1933-43): molti dei temi che compariranno nella «Difesa della razza» maturano, infatti, proprio sulle pagine di questi giornali ed è nelle redazioni del «Tevere» e di «Quadrivio» che viene progressivamente a formarsi un milieu di «antisemiti della penna» che, nel 1938, si troverà già rodato e sarà pronto a confluire, in parte, nella rete di collaboratori del quindicinale razzista.

La ricostruzione delle tappe più significative del razzismo e dell’antisemitismo di Interlandi prima dell’agosto 1938 consente inoltre di precisare due nuclei problematici fondamentali. In primo luogo, l’antisemitismo e il razzismo del giornalista non sono affatto la conseguenza banale di un feroce opportunismo, ma costituiscono piuttosto un dato culturale intrinseco alla sua interpretazione radicale e intransigente del fascismo, nella quale confluiscono la razzizzazione del nemico politico, l’odio antiborghese, la visione cospirazionista del processo storico. In secondo luogo, il ruolo di «portavoce ufficioso» di Mussolini, a partire dal 1924, colloca Interlandi in una posizione del tutto atipica e assolutamente imprescindibile: gli editoriali del giornalista siciliano e le campagne del «Tevere» e di «Quadrivio» svolgono, infatti, in varie occasioni, la funzione di battistrada delle scelte politiche del dittatore in materia di razzismo e antisemitismo, rivelandosi pertanto particolarmente utili nell’analisi della lenta e complessa maturazione di quella opzione biologica che contraddistinguerà l’impianto complessivo del cosiddetto Manifesto della razza, nel luglio 1938, e che terrà a battesimo, con il diretto intervento di Mussolini, la nascita della «Difesa della razza», nell’agosto dello stesso anno.

Nell’indagare la posizione della lobby interlandiana all’interno del quadro più generale dei conflitti fra le diverse correnti in cui si articola il razzismo fascista tra il 1938 e il 1943, la ricerca problematizza la discussa distinzione tra l’orientamento «biologico» e quello «spiritualistico», declinato in chiave nazionalistica o esoterico-tradizionalistica. Quello espresso dalla «Difesa della razza» rappresenta indubbiamente, sul piano politico, un indirizzo biologico, saldamente ancorato ai dieci punti del Manifesto e violentemente in contrapposizione tanto con le correnti nazional-razziste (Pende, Acerbo, Visco) quanto con quelle esoterico-tradizionalistiche (Preziosi, Evola). Se si passa tuttavia dal livello politico a quello più propriamente ideologico, le linee di frattura si attenuano, lasciando spazio ad un sincretismo nel quale, in estrema sintesi, la biologia si culturalizza e la cultura si biologizza. La centralità e l’onnipresenza del concetto di «ebraizzazione», da questo punto di vista, rappresentano forse l’esempio più persuasivo: per Interlandi e per i suoi collaboratori non è sufficiente sconfiggere l’ebreo «visibile», poiché il pericolo maggiore proviene in realtà dall’ebreo «invisibile», dall’ariano «ebraizzato», dalla circoncisione «spirituale» che contamina la cultura, la società, l’economia, i comportamenti individuali.

Pur collocato nell’ambito della fondamentale svolta del luglioagosto 1938, il quindicinale diretto da Interlandi non è stato considerato in queste pagine come il frutto di un’improvvisazione estemporanea, dettata dalle esigenze dell’alleanza con la Germania nazista, bensì come il portato di una logica interna al fascismo e al suo progetto di «rivoluzione antropologica»5. Lo aveva già notato acutamente Philip V. Cannistraro, nel 1975: «Alla luce della politica culturale fascista, la campagna antisemitica non fu che il culmine logico – seppure estremo – degli atteggiamenti culturali del regime. Dal punto di vista della politica culturale, l’antisemitismo fascista rafforzò infatti la ricerca delle radici storiche dell’identità nazionale, puntellò il tema della romanità, rinvigorì la campagna xenofoba e antiborghese, e alimentò la visione di un intatto fervore rivoluzionario»6. Negli anni Ottanta, Enzo Collotti ha particolarmente insistito sulla necessità di interpretare il razzismo e l’antisemitismo a partire da esigenze di carattere interno della politica fascista, impegnata, soprattutto nel decennio 1929-39, a consolidare le proprie aspirazioni totalitarie, adottando – a vari livelli (politico, economico, culturale) – la polarizzazione nemico interno / nemico esterno7. Più recentemente, soprattutto le riflessioni di Emilio Gentile hanno contribuito a inserire l’analisi del razzismo fascista all’interno del più ampio progetto totalitario di costruzione dell’«uomo nuovo»: «Tappe della rivoluzione antropologica fascista – ha scritto infatti lo storico – furono le campagne per la riforma del costume, la polemica antiborghese, e soprattutto l’adozione del razzismo e dell’antisemitismo come ideologia dello Stato. Ciò portò a una sistematica prassi di discriminazione e di selezione, che doveva fissare indelebilmente l’identità nazionale secondo criteri razziali […]. La nazione fu allora formalmente identificata con la razza»8 .

Sulla scia di questa prospettiva storiografica, alcuni capitoli del libro riflettono particolarmente sul modello di «rivoluzione antropologica» proposto dalla «Difesa della razza»: l’antisemitismo di Interlandi e del suo entourage, ad esempio, insiste in modo ossessivo sul concetto di «ebraizzazione» (della nazione, della società, della cultura), facendo della «guerra all’ebreo» – e innanzitutto, come si diceva, all’ebreo «nascosto», all’ebreo «in sé» prima ancora che «fuori di sé» – la chiave di una trasformazione palingenetica non solo dell’assetto politico, economico e sociale, ma anche della cultura, della mentalità, del carattere degli italiani; l’eugenica della «Difesa della razza» fonde, in un unico progetto di purificazione e di potenziamento biologico della nazione, tanto il modello «nordico» (germanico, scandinavo, nordamericano), fatto di sterilizzazioni e di controlli obbligatori prematrimoniali, quanto quello «latino», basato sulla medicina sociale, l’igiene, il natalismo; infine, singole traiettorie culturali – come quella dello scrittore Massimo Lelj, curatore della rubrica dei lettori della rivista – testimoniano di un razzismo e di un antisemitismo, maturati nell’alveo di una più generale riflessione sul Risorgimento e sul «genio della nazione» italiana.

Al problema dell’«italianità» della cultura fascista si ricollega anche la trattazione della campagna interlandiana contro l’arte moderna, oggetto del sesto capitolo. Nell’intento di confutare l’interpretazione diffusa che ritrae Interlandi come il campione del fascismo antimodernista, questa ricerca considera invece il percorso intellettuale del giornalista e i contenuti delle pubblicazioni da lui dirette come uno dei terreni più interessanti per una verifica analitica della nozione di fascismo come modernismo politico, intendendo definire con questo termine «un’ideologia che accetta la modernizzazione e ritiene di possedere la formula capace di dare agli esseri umani, trascinati nel vortice della modernità, “il pote- re di cambiare il mondo che li sta cambiando, di fare la propria strada all’interno di quel vortice e di farlo proprio”»9. In un recente tentativo di fornire una nuova sistematizzazione dei rapporti tra fascismo e modernismo, lo storico inglese Roger Griffin ha individuato proprio nella categoria di modernismo politico – concepita come affermazione di una modernità alternativa all’interno di una temporalità nuova (il «nuovo» ordine, la «nuova» èra), contrapposta alle forze degenerative della modernità borghese e liberale e orientata verso un processo di purificazione, rigenerazione totale e sacralizzazione della comunità nazionale – la chiave per superare le aporie estetiche risultanti dalla contrapposizione tra avanguardia e tradizionalismo10. Alla luce di questa impostazione storiografica, lo scontro tra Interlandi e Marinetti non può essere visto – come sostenne Renzo De Felice nella sua Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo – nei termini di una contrapposizione tra l’Italia antisemita (Interlandi) e quella non antisemita (Marinetti)11. Al contrario, tanto in Interlandi quanto in Marinetti, seppure in forme diverse e antagoniste, l’ebreo si configura come lo stereotipo negativo del mito dell’italianità e della modernità dell’arte fascista. e dell’antisemitismo in Italia dopo il 1945. E niente sembra oggi annunciarne la conclusione.

Lasciando ai singoli capitoli la discussione su questioni storiografiche e metodologiche più puntuali, un’ultima considerazione merita di essere svolta in sede introduttiva. Il libro assume, come termine ad quem, la chiusura della «Difesa della razza», così come del «Tevere» e di «Quadrivio», nel giugno-luglio 1943. Questa data non segna tuttavia la fine delle vicende individuali di Interlandi e dei suoi collaboratori. Molti di loro, a partire dallo stesso Interlandi, manterranno un ruolo non irrilevante sotto la Repubblica sociale, a conferma della sostanziale continuità tra l’esperienza del 1938 e la politica razziale di Salò. E anche il 1945 non rappresenterà, da questo punto di vista, una cesura netta: se Interlandi si limiterà, nel secondo dopoguerra, a poche e marginali collaborazioni giornalistiche sotto falso nome, altri proseguiranno indenni la propria carriera nel campo della politica, dell’università, dell’editoria, del giornalismo, della pubblica istruzione. Spesso non rinunciando a manifestare il proprio perdurante odio antiebraico e antinero.

1 d. carbone, Respinte dai biologi più seri le pretese dei «purificatori della stirpe», in «Il Calendario del Popolo», X, n. 115, aprile 1954, p. 1703. Cfr. anche id., Le aberrazioni dell’eugenetica, ivi, X, n. 114, marzo 1954, p. 1679.

2 Cfr. d. freedberg, Il potere delle immagini. Il mondo delle figure: reazioni e emozioni del pubblico, Einaudi, Torino 1993.

3 Sulle antinomie dell’antirazzismo, cfr. in particolare p.-a. taguieff, La forza del pregiudizio, il Mulino, Bologna 1994, pp. 463-510.

4 m. bontempelli, Rispondo a 20 articoli, in «Il Tevere», 24-25 dicembre 1926, p. 3.

5 Si veda, in particolare, e. gentile, L’«uomo nuovo» del fascismo. Riflessioni su un esperimento totalitario di rivoluzione antropologica, in id., Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 235-64.

6 p. v. cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Laterza, Roma-Bari 1975, p. 147.

7 e. collotti, Fascismo, fascismi, Sansoni, Firenze 1994, pp. 55-56 (1a ed. 1989).

8 e. gentile, La Grande Italia. Il mito della nazione nel xx secolo, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 186.

9 id., La modernità totalitaria, in id., Fascismo. Storia e interpretazione cit., p. 297. La citazione è tratta da m. berman, L’esperienza della modernità, il Mulino, Bologna 1985, p. 26.

10 r. griffin, Modernism and Fascism. The Sense of a Beginning under Mussolini and Hitler, Palgrave Macmillan, Basingstoke (Hampshire) – New York 2007, pp. 180-83.

11 r. de felice, Gli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, Torino 1993 (1a ed. 1961), pp. 313-14. Su questo argomento, la posizione defeliciana è stata criticata in g. fabre, L’elenco. Censura fascista, editoria e autori ebrei, Zamorani, Torino 1998, pp. 184-94.

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