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Capitolo ottavo
L’arte dell’odio
Nell’agosto 1940, Carlo Barduzzi, licenziato dalla redazione della «Difesa della razza», scrive infuriato a Celso Luciano, capogabinetto del ministero della Cultura Popolare:
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Interlandi, pur essendo un polemico brillante, è sprovvisto di qualità organizzative. Sino dai primi giorni della mia assunzione come redattore (gennaio 1939) io gli ho esposto le mie idee circa l’organizzazione dell’Ufficio che dispone di ampi locali. Ma l’Interlandi mi rispose che non ama la burocrazia, così mentre si paga un gravoso affitto mensile, mentre si sono spese forti cifre per l’arredamento con mobili di pregio (due salotti uno in stile Luigi XV e l’altro in stile Impero, foderati di stoffe di valore, poco adatte per il vario pubblico che vi prende posto), mentre si è alimentata sino alla guerra una scritta luminosa esterna che eleva la spesa dell’illuminazione anche a 2000 lire mensili, non si trova ragionevole spendere lire 350 mensili1 .
La lettera, che intende ovviamente mettere in cattiva luce Interlandi denunciandone le scarse capacità organizzative, offre per via indiretta allo storico non pochi indizi sull’importanza attribuita dal direttore della «Difesa della razza» alla dimensione dell’immagine. A partire – come sottolinea Barduzzi – dagli stessi uffici della redazione in piazza Colonna, con quei mobili da salotto napoleonico e con quella insegna luminosa, che riproduce gli stessi caratteri della testata2 .
Del resto, ancor prima di assumere la direzione del periodico razzista, tanto sul «Tevere» quanto su «Quadrivio», Interlandi, forte delle sue giovanili esperienze di disegnatore e vignettista3, ha sempre riservato un ruolo significativo all’illustrazione. Oltre alla matita di Bernardo Leporini (in arte Sem), presente ogni giorno sulla prima pagina del quotidiano tra il 1925 e il 1929, «Il Tevere» si è avvalso, tra il luglio e il settembre 1935, della collaborazione del pittore e caricaturista Amerigo Bartoli4 per accompagnare i feroci articoli di Interlandi contro l’Inghilterra. Nella seconda edizione al volumetto che raccoglie questi editoriali interlandiani, Alfredo Mezio fornisce una colorita descrizione del rapporto fra vignettista e direttore del quotidiano. È sempre Interlandi che «guida la mano» del disegnatore: «Una è la persona che scrive e la stessa è quella che pensa ad illustrarlo. Era Interlandi, in altre parole, che guidava la mano del disegnatore convocandolo ogni sera al suo tavolo nell’ora in cui si preparava il giornale, e dandogli la battuta da illustrare. Spesso la battuta era accompagnata da un piccolo promemoria, sotto forma di schizzo, o da una minuziosa discussione sul modo migliore di rendere in immagini quella battuta».
«In tutte le grandi campagne da lui iniziate, – continua Mezio, – Interlandi ha sempre avuto al suo fianco un disegnatore». Come Sem-Leporini, nel 1925, o come Bartoli, dieci anni dopo. All’epoca della «battaglia contro l’opposizione parlamentare», Interlandi aveva suggerito a Leporini – «e si può dire inventato di sana pianta» –un «tipo di disegno volutamente e apertamente grossolano, che rappresentava i papaveri dell’Aventino coi vestiti coperti di toppe e delle grandi pedate stampate sul fondo dei pantaloni». Le stesse ingerenze non potevano certo verificarsi nel caso del ben più noto Bartoli. Interlandi si era dunque limitato – afferma ancora Mezio – ad ottenerne la collaborazione per «Il Tevere», «strappandolo alla sua ben nota attività di pittore e di architetto e obbligandolo con l’esempio e la suggestione a trasformarsi in vignettista polemico per la prima pagina di un giornale che ha fatto e fa scuola in tale campo»5 .
Ancora più rilevante è la componente figurativa di «Quadrivio», che ospita, dal 1933 al 1937, i collage e i fotomontaggi di Vinicio Paladini, giunto all’estetica immaginista al termine di una parabola iniziata negli ambienti del comunismo futurista6 .
Se si considerano questi precedenti, la retorica visuale della «Difesa della razza», con il suo stile aggressivo e icastico e il suo linguaggio pluridimensionale, non desta stupore: il sistema di stampa rotocalco forniva, infatti, a Interlandi il mezzo tecnico necessario per dare al razzismo fascista un impatto visivo dirompente e moderno7 .
1. Le copertine-manifesto.
I primi tre numeri della «Difesa della razza» presentano la medesima copertina, divenuta ormai tristemente celebre. Opera di
Idalgo Palazzetti, del guf di Perugia, il fotomontaggio intende riassumere simbolicamente la fisionomia dell’ideologia razzista del fascismo. Lungo un’unica diagonale compaiono i profili di tre teste: quella del Doriforo di Policleto, una caricatura «ebraica» in terracotta, il capo di una donna africana di etnia Schilluk, fotografata da Lidio Cipriani. Con una semplice contrapposizione, il montaggio vuole segnalare l’evidenza del contrasto fra i soggetti rappresentati, la cui intrinseca differenza di valore è confermata dalla diversa qualità del supporto (marmo, terracotta, carta fotografica) e dal differente linguaggio artistico adottato (scultura, caricatura, fotografia). Al primo livello interpretativo si somma poi, inequivoco, il valore aggiunto della spada che attraversa il disegno lungo la diagonale opposta: arma che suggerisce implicitamente il rischio della contaminazione razziale e nello stesso tempo afferma l’implacabilità del razzismo fascista, separando sul piano visivo la testa ariana da quelle non ariane.
Se la struttura dell’immagine sintetizza l’ideologia e la politica del razzismo italiano, l’analisi delle fonti rivela tuttavia un’evidente influenza dell’estetica nazionalsocialista. Fatta eccezione per la fotografia tratta dall’archivio Cipriani, la scelta del Doriforo risente, infatti, dell’esaltazione del modello ellenico propria dell’arte hitleriana, così come una storia tutta tedesca si cela dietro la terracotta alessandrina del iii secolo d.C.8, proveniente dal Rheinisches Landesmuseum di Treviri: identificata, nel 1931, come caricatura «ebraica» dallo stesso rabbino capo di Treviri, Adolf Altmann, che intendeva così dimostrare l’antica presenza della comunità ebraica locale, la terracotta era stata successivamente strumentalizzata proprio dalla propaganda nazista e presentata come testimonianza antropologica dell’«eterno Ebreo» e come conferma della contaminazione perpetrata ai danni del suolo e del sangue tedeschi9. La stessa composizione dell’immagine ricorda molto una caricatura, pubblicata da «Der Stürmer» nel luglio 1938 e intitolata Rassenschutz (in italiano, «difesa della razza»), in cui una spada simboleggiante le leggi di Norimberga separa gli ariani tedeschi dagli ebrei10 .
A partire dal quarto numero, il fotomontaggio si trasforma nel logo della rivista, riprodotto su tutti i fascicoli e presente, a colori, sulla carta intestata e sulle buste della redazione. Del resto, che Interlandi punti ad utilizzare le tecniche pubblicitarie per trasfor- mare le copertine in veri e propri «manifesti» del razzismo fascista appare confermato nel settembre 1938, quando «Il Tevere» lancia un «concorso permanente per la copertina della Difesa della razza». Il quotidiano mette in palio mille lire per ogni nuova copertina accettata:
La copertina riprodotta nei primi tre numeri della Difesa della razza – si legge nell’annuncio pubblicato sul «Tevere» – ha avuto un immenso successo per la felicità della trovata e la sobrietà della realizzazione. Il prossimo numero della Difesa della razza uscirà con una nuova copertina, ma fin d’ora la direzione della rivista apre un concorso permanente fra tutti gli artisti italiani per i prossimi fascicoli. Ogni copertina accettata sarà compensata con 1000 lire e riprodotta per tre numeri consecutivi. Essa potrà essere bianco e nero, a colori oppure composta con elementi fotografici. Le sole condizioni poste dal concorso sono: che la composizione sia una efficace rappresentazione delle idee poste nella Difesa della razza e che sia realizzata in modo da rendersi facilmente accessibile alla grande massa dei lettori della rivista11
L’obiettivo è chiaro: trasformare la copertina del quindicinale –riprodotta ad ogni numero, come una sorta di affiche pubblicitario, sulle pagine del «Tevere» e di «Quadrivio» – in uno strumento di mobilitazione di «tutti gli artisti italiani» attorno ai temi del razzismo, e proprio nel momento in cui Interlandi si appresta a lanciare il proprio affondo contro l’arte moderna «ebraizzata». Riproposta ancora sul «Tevere» del 21 settembre, l’iniziativa concorsuale tuttavia fallisce e dei suoi esiti non compare più notizia.
È comunque probabile che al lancio del concorso permanente sia da ricondursi l’inizio della collaborazione alla «Difesa della razza» di Bepi (Giuseppe) Fabiano, l’unico artista a firmare le copertine del quindicinale diretto da Interlandi. Nel 1938-39, Fabiano ha alle spalle una carriera di illustratore, di caricaturista e di pittore d’indubbio rispetto12. Nato nel 1883 a Trani da padre marinaio e madre casalinga, il giovane Bepi è stato ben presto affidato a uno zio di Treviso, a causa delle ristrettezze economiche in cui versa la famiglia. Nel 1900 si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Venezia, dove segue i corsi di Guglielmo Ciardi, ma abbondona gli studi senza conseguire il diploma. Il suo percorso formativo conosce una svolta a Milano, tra il 1905 e il 1906, quando l’amicizia con Ugo Valeri indirizza la sua produzione in direzione grafica e caricaturale. Nel 1907 espone quattro opere alla I Mostra d’Arte Trevigiana, stringendo da quel momento importanti relazioni con Arturo Martini, Gino Rossi, Giovanni Comisso, animatori della cultura cittadina. Dal 1911 al 1914 è a Parigi dove, illustrando libri e collaborando con giornali prestigiosi, affina la sua vocazione umoristica, ed entra a far parte, nel 1913, della Société des dessinateurs-humoristes. Espone nel 1912 alla Mostra Italiana d’Arte Umoristica e di Caricatura, svoltasi nelle sale della Camera di Commercio di Treviso, e alla Mostra d’Arte Trevigiana del 1915. Lo scoppio della guerra lo riporta definitivamente in Italia, dove continua la sua infaticabile produzione di illustratore e caricaturista, collaborando alla «Giberna», giornale destinato alle truppe combattenti, e fondando «Oci e Nasi», con cui inizia anche l’attività di giornalista e critico d’arte. Nel primo dopoguerra, una fortunata mostra alla Galleria d’Arte Bragaglia di Roma (1919) e una profonda frattura con l’ambiente culturale trevigiano, provocata dalla sua feroce recensione sulla «Riscossa» della II Mostra d’Arte trevigiana, inducono Fabiano a trasferirsi a Roma. Qui stringe rapporti con Nino Bertoletti, Carlo Socrate e Francesco Trombadori, partecipando alla prima e alla seconda edizione della Biennale romana nel 1921 e nel 1923. Negli anni Venti Fabiano affina la tecnica del pastello, con i successi milanesi alle Gallerie Bardi ed Esame e al Palazzo della Permanente, per la grande mostra di «Novecento». L’elenco dei periodici con cui collabora come illustratore è ormai corposo: «Noi e il mondo», nel 1922; «Le Scimmie e lo Specchio» e «Index», nel 1923; «Lidel», «Novella», «Comoedia», «Rivista illustrata del Popolo d’Italia» e «Matamoro» nel 1925; «Scena illustrata», nel 1926; «La Donna», nel 1929; «Il Giovedì», nel 1930; «La Lettura», nel 1935. Rientrato a Treviso nel 1927, Fabiano partecipa l’anno successivo alla Biennale di Venezia e alla XIX Esposizione dell’Opera Bevilacqua La Masa. Nel 1932 e nel 1934 è ancora presente nelle edizioni della Biennale veneziana. Nel 1933 gli organizzatori della IX Mostra d’Arte trevigiana dedicano una sala all’artista, riconoscendo così il suo ruolo nella cultura cittadina. Nello stesso anno, con Pizzicaria e Carcavallo, Fabiano fonda a Roma il giornale satirico «Settebello».
È il trasferimento a Padova, nel 1936, a segnare l’inizio del declino. Per quanto l’attività di illustratore di libri continui incessante, Fabiano appare sempre più isolato e la sua partecipazione alle varie manifestazioni artistiche, tanto nazionali quanto trevi-
346Capitolo ottavo giane, si fa sporadica. È dunque in questa fase di sostanziale ritiro dalla scena artistica che il pittore fa il suo ingresso nell’entourage di Interlandi, destinando alla «Difesa della razza» non pochi pastelli e carboncini, con quel suo incisivo tratto di caricaturista formatosi alla scuola di Forain e Léandre.
Autore di sette copertine e di quattro illustrazioni interne, Bepi Fabiano resterà comunque un’eccezione. Se si esclude una riproduzione di Arturo Martini13, le copertine della «Difesa della razza» non riescono, infatti, in alcun modo a calamitare l’attenzione dell’arte contemporanea, come era negli intenti del concorso a premi interlandiano. Quanto poi alle altre «condizioni» fissate nell’annuncio del settembre 1938 – l’«efficace rappresentazione» delle idee razziste e la facile accessibilità per la gran massa dei lettori – soltanto la prima risulterà effettivamente esaudita. Il frequente ricorso ad allegorie e simbolismi non doveva essere, infatti, immediatamente comprensibile al vasto pubblico, e basta leggere alcune lettere pubblicate nella rubrica Questionario della rivista per averne sentore. Come quella di un certo Aldo Parmiggiani di Bologna, che, nel settembre 1939, invoca didascalie e spiegazioni:
Molti lettori della Difesa della Razza, fra i quali il sottoscritto, gradirebbe [sic] una descrizione della figura di copertina, come avviene in altre pubblicazioni del genere. Ciò sarebbe molto utile poiché non tutti sono all’altezza di poter conoscere il significato della figura. A tale proposito, anzi, si gradirebbe conoscere il nome e il significato della stella a sei punte e del candelabro a sette braccia, e se possibile intrattenere il lettore, con una apposita rubrica, sulle usanze e riti ebraici14
Nel novembre 1938, lo stesso Interlandi è intervenuto per chiarire il significato del fotomontaggio in copertina, sintesi della Vittoria alata di Brescia, tratta dal catalogo della Mostra Augustea della Romanità, e di un gruppo di civette. Si tratta – afferma il direttore della «Difesa della razza» – della contrapposizione tra due opposte concezioni della vita, quella guerriera e quella contemplativa:
Le insegne fasciste hanno l’aquila, come già le insegne di Roma. Le nostre Vittorie sono alate, come le Vittorie dei popoli guerrieri. Questa simbologia eroica e solare (l’aquila è l’uccello che vola più vicino al sole) è la testimonianza del persistere, nella nostra razza, dei valori eroici che ci fecero nei millenni protagonisti della storia del mondo. Sono questi valori eroici che bisogna difendere, nel difendere la purezza della razza. Due concezioni della vita si dividono il mondo: la concezione eroica e quella remissiva, la guerriera e la contemplativa, l’attiva e la passiva15 .
Ancora nel marzo 1941 la redazione è costretta a decifrare, su richiesta di una lettrice, il simbolismo di una copertina, che contrappone l’icona di un angelo nero, tratta dal film nazista Verdi praterie, a dei putti rinascimentali16, con l’intento di «stabilire un netto contrasto non solo fra l’aspetto fisico dei negri e dei bianchi, ma anche fra i loro mondi spirituali»17 .
Anche le soluzioni d’impaginazione e di montaggio delle copertine non sembrano, del resto, pensate per soddisfare esclusivamente un gusto popolare. Quella praticata dalla «Difesa della razza» è infatti la visualizzazione di un «modernismo reazionario», che coniuga la lezione grafica sovietica, cara a Interlandi, con l’estetica völkisch nazionalsocialista18: di qui – come giustamente hanno sottolineato Matard-Bonucci e Luzzatto – «il coesistere di soluzioni d’avanguardia e di nostalgie passatiste, per cui spigolosi giochi di diagonali succedevano a composizioni d’etichetta, arditi fotomontaggi rincorrevano banali disegni»19. Non che le copertine della «Difesa della razza» presentino i complessi mosaici d’immagini, che contraddistinguono i fotomontaggi di Paladini pubblicati su «Quadrivio». Tuttavia, le composizioni più semplici o le citazioni più scontate del patrimonio artistico nazionale si accompagnano non di rado a scelte stilistiche più raffinate, che riecheggiano, in alcuni casi, i surrealisti e Man Ray.
Per quanto riguarda, invece, i contenuti, un’analisi statistica delle 117 copertine della «Difesa della razza» fornisce il seguente quadro analitico (si veda anche Tabella 2, p. 396): tematicacopertine
Antisemitismo31
Guerra22
Razzismo antinero19
Eugenica16
«Uomo nuovo»13
Differenza razziale11
Altro10
Il confronto tra l’immagine dell’ebreo e quella del nero – soggetti che da soli occupano, come si deduce dalla tabella, quasi la metà delle copertine – costituisce una sorta di esposizione visiva della distinzione, concettualizzata da Pierre-André Taguieff, fra
348Capitolo ottavo razzismo differenzialista, basato sulla logica autorizzazione / differenza / purificazione-epurazione / esclusione-sterminio, e razzismo inegualitario, basato sulla logica eterorazzizzazione/ineguaglianza/dominio/sfruttamento20 .
L’antisemitismo in copertina evoca, infatti, la dimensione di uno scontro apocalittico, di una contrapposizione frontale fra arianità ed ebraicità. L’allusione a un conflitto indissolubile, insidioso e onnipresente, scaturisce innanzitutto dalla rappresentazione della minaccia ebraica come pericolo incombente sulla romanità fascista. La metafora della «macchia» contaminante è una soluzione grafica frequente nei fotomontaggi della «Difesa della razza»: fin dal quarto numero della rivista, un’impronta digitale nera, con impressa una stella di David, imbratta il volto marmoreo di Antinoo21; nel maggio 1939, una frase in ebraico, con l’invito a distruggere Roma, viene sovraimpressa sul rilievo della cavalcata della Colonna Antonina22; nel febbraio 1943, una goccia d’inchiostro, che svela la caricatura di un ebreo, sporca le pagine della Divina Commedia di Dante23. Altrettanto consueto è il ricorso alla zoomorfizzazione della figura dell’ebreo24, sintesi della pericolosità del suo operato: così un enorme ragno si sovrappone a una statua classica25 e un serpente minaccia una colomba bianca26, o si avvinghia a una colonna romana27. Nella copertina del 5 marzo 1942, basta un pipistrello nero al centro di una diagonale, prodotta dal fascio di luce del razzismo su una campitura gialla, a sintetizzare l’insidia terrorizzante del vampirismo ebraico28 .
La visualizzazione metaforica dell’ebreo, animalizzato o trasformato in macchia, si accompagna paradossalmente alla descrizione della sua invisibilità: il fotomontaggio di una sequenza del film Süss l’Ebreo 29 e di una persiana in primo piano,illustra visivamente la citazione mussoliniana sui borghesi, «che stanno perennemente dietro alla persiana»: implicita è l’allusione agli ebrei «invisibili», da ricercarsi prima di tutto fra i borghesi30. Nel fascicolo del 20 giugno 1939, alcune caricature di ebrei emergono dall’ombra di un arco di trionfo romano che crolla31, mentre nel numero successivo una stella di David proietta la sua ombra sulla Via Lattea: «l’ombra giudaica sulla vita italiana», recita la didascalia32 .
Il tema ritorna nel gennaio 1943, con un disegno caricaturale del «mezzo ebreo», figura inquietante di ibrido, in cui la metà ebraica non solo si cela dietro a quella ariana, ma agisce parassitariamente nei suoi confronti33 .
Alla minaccia giudaica corrisponde, specularmente, la violenza dell’azione antisemita fascista. Anche se un procedimento di ellissi rimuove, nelle copertine della «Difesa della razza», il volto del persecutore, il suo gesto discriminante è sempre drammaticamente reso attraverso l’impiego massiccio del disegno e del fotomontaggio: è il soffio che spegne il candelabro a sette braccia, mentre un libro, dal titolo «Gran Consiglio del Fascismo», viene sovrapposto al Talmud e alla Torà34; è il pugno che stritola quattro serpenti, i quali, nello spasimo, si contorcono a formare una stella di David35; è la mano che imprime il sigillo del fascio littorio sulla lettera indirizzata a un rabbino36; è il piede che calpesta una stella ebraica disegnata sul suolo37 .
Se la dinamicità della dialettica ariano-ebreo caratterizza l’antisemitismo espresso dalle copertine del quindicinale interlandiano, la fissità dell’inferiorità gerarchica del nero rispetto al bianco è invece il tratto dominante delle immagini legate al razzismo coloniale. Il rapporto di subordinazione è espresso nella maggior parte dei casi tramite la contrapposizione fra scultura classica e manufatto indigeno – evocante una dicotomia bello/brutto38 – o tramite il confronto tra la riproduzione artistica, simbolo di «cultura», e le fotografie di indigeni, condannati allo stato di «natura»39. In alcune copertine, la sintesi iconografica si riduce semplicemente al binomio bianco/nero, con soluzioni più o meno raffinate, dai banali accostamenti dell’«uomo nuovo» fascista e dell’indigeno40 alle stampe in negativo della donna ariana e di quella africana41; dalla fotografia di un africano, inquadrata nella casella nera di una scacchiera42, alla trasfigurazione del Laocoonte, simbolo winckelmanniano della compostezza classica, tramutato in una scimmia scomposta e urlante43 .
La rappresentazione del nero è strettamente legata all’incubo del meticciato, elemento dominante delle copertine della «Difesa della razza» con soggetto eugenetico. Se si escludono, infatti, le riproduzioni di pedigrees 44 e di alberi genealogici45, o le fotografie di madri e bambini46, emblema del natalismo fascista, è il pericolo dell’ibridazione a ossessionare l’iconografia eugenetica del periodico. Attorno a questo soggetto gravita, ad esempio, la maggior parte delle copertine disegnate da Bepi Fabiano. Il carattere biologicamente degenerativo dell’incrocio s’incarna qui in una pluralità di simbolismi: è il cactus spinoso nato dal frutto che un’Eva
350Capitolo ottavo africana offre all’uomo bianco47; è l’innesto fra piante di specie diverse48; è il teschio che emerge dall’accostamento di due profili, uno bianco e l’altro nero49. Rispetto ai pastelli di Fabiano, i fotomontaggi e le elaborazioni grafiche consentono indubbiamente soluzioni formali più raffinate: come gli scheletri che nascono dall’unione di una scultura classica con un totem Maori50; o il sangue contaminato che scorre nelle vene di una donna disperata e sofferente51; o ancora quella contrapposizione quasi surrealista che accosta un manichino bianco senza testa a una maschera facciale africana tratta dalla collezione di Lidio Cipriani52. In altri casi, la sintesi è ancora più marcata: un fiore che muore fra due mani (una bianca e l’altra nera, ovviamente)53; o la Torre di Babele, simbolo della confusione fra le razze ingenerata dal meticciato54; o ancora la «mostruosità degli ibridi», resa dalle antropologie fantastiche della Mappa Mundi di Hereford di Richard de Haldingham55 .
Minacciata dal nero e dall’ebreo, al pari della Sibilla cinquecentesca riprodotta nella copertina del 5 aprile 193956, la purezza della razza italiana è raramente raffigurata in modo autonomo. Essa si esprime ovviamente nella citazione artistica – dalle sculture romane agli affreschi di Michelangelo57 – quasi a comporre una sorta di genealogia in immagini della bellezza razziale. Oppure viene tradotta in senso geografico, puntando l’attenzione sui confini di una penisola che s’irradiano verso il resto del Mediterraneo e dell’Europa58 Ma è soprattutto con l’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale che l’«uomo nuovo» fascista sembra trovare una collocazione più incisiva nelle copertine della rivista. Annunciata da un esercito guidato dalla statua di Cesare Augusto, a cui si sovrappone, in primo piano, un braccio muscoloso e armato di gladio, a simboleggiare il nemico da abbattere59, la guerra farà infatti da battistrada all’ingresso in copertina di schiere di soldati-cittadini, di atleti, di ginnasti60. L’esaltazione del corpo dell’«uomo nuovo» è amplificata, come sempre, dal suo rispecchiamento nella classicità romana: la copertina del 5 giugno 1940, ad esempio, ingrandisce un dettaglio della battaglia dei Galati, tratto da un sarcofago del 160-170 d.C. conservato presso il Museo Capitolino, focalizzando l’attenzione sulle braccia dei guerrieri e sulle spade che essi impugnano61; alcuni mesi più tardi, sarà la volta di due soldati romani con i fasci littori, provenienti dal catalogo della Mostra Augustea della Romanità 62. All’idealizzazione della romanità si aggiunge poi il riferimento a una di- mensione antropologica di più ampio raggio: armature, maschere, simboli guerrieri delle più diverse civiltà (Giappone, Africa, America Latina) contribuiscono a inquadrare il conflitto in corso nella cornice di un millenario antagonismo fra razze63. E non mancano nemmeno i riferimenti iconografici alle races monstrueuses, provenienti dalle raffigurazioni medievali dello scontro fra Alessandro Magno e le feroci stirpi di Gog e Magog64 .
In questo paesaggio di riferimenti iconografici, che oscilla fra il mito della romanità e il millenarismo medievale, anche l’odio antiebraico torna prepotentemente sulle copertine del periodico, sospinto dall’immagine di un conflitto definito nei termini di una «guerra giudaica». L’ebreizzazione del nemico ideologico-politico raggiunge la sua massima sintesi visiva in un fotomontaggio dell’agosto 1941, laddove il ritratto di due ebrei che succhiano il sangue dal corpo di Simonino di Trento è chiamato a illustrare il numero speciale dedicato alla lotta del «giudaismo e bolscevismo contro la civiltà»65. L’uso sistematico dell’anacronismo, nella sintesi fra antigiudaismo cattolico e antisemitismo politico cospirazionista, è funzionale alla legittimazione della violenza antiebraica.
L’immagine del martirio di Simonino, tratta dal Buch der Chroniken di Hartmann Schedel del 1493, riappare non a caso in copertina, senza commenti o didascalie, nel gennaio 194266. Nel dicembre 1941, il numero della «Difesa della razza» si è presentato in edicola con la riproduzione della famosa fontana del Kindlifresser, l’Orco mangia-bambini, realizzato dallo scultore Geiler traendo ispirazione dal presunto omicidio rituale commesso, nel 1294, da alcuni ebrei di Berna67. Solo pochi mesi prima, ad ottobre, «La Difesa della razza» ha mostrato nella stessa sede le fotografie naziste dei fanciulli e degli anziani, laceri e denutriti, nei ghetti dell’Europa orientale68. Se gli ebrei sono i nemici e gli assassini, sono gli orchi che divorano i bambini, sono i vampiri che succhiano il sangue, il loro destino non potrà che essere quello delle vittime.
2. Visualizzare l’invisibile: l’immagine dell’ebreo.
Caricatura, pittura e fotografia sono i tre linguaggi visivi che si contendono, nelle pagine della «Difesa della razza», la rappresentazione dell’ebreo69 .
A cliché fotografici di ebrei dell’Europa orientale, di provenienza sostanzialmente nazista, la rivista alterna un repertorio di caricature70, che rivela l’esistenza di una sorta di «internazionale delle immagini»71. A partire dalla celebre antologia del collezionista Eduard Fuchs, Die Juden in der Karikatur 72, «La Difesa della razza» attinge innanzitutto alla produzione caricaturale francese dell’epoca dell’affaire Dreyfus, vero e proprio «momento» di intensa internazionalizzazione delle immagini e di unificazione dei codici e dei linguaggi visivi dell’antisemitismo73. Alle vignette di Forain e Caran d’Ache e ai celebri disegni di Daumier74, si affianca poi il materiale proveniente dalla «Libre Parole»75, «La France enchaînée»76, «Gringoire» (con la matita di Charles Saint-George)77 e dai fogli della Francia collaborazionista, come il settimanale «Au Pilori»78 .
Un secondo bacino di immagini è riconducibile al periodico nazista «Der Stürmer» di Julius Streicher79 e al suo disegnatore Fips80 . Di origine nazionalsocialista sono anche il celebre manifesto dell’Esposizione di Monaco del 1937, Der ewige Jude 81, e l’immagine copertina delle edizioni Bodung (fondate da Ulrich Fleischhauer, direttore del Weltdienst) dei Protocolli del 192582. Altre vignette sono poi fornite dai giornali satirici «Kladderadatsch»83 e «Simplicissimus» e dal viennese «Kikeriki»84 .
Seguono quindi caricature russe85; romene 86; americane, prevalentemente da «Life», «The Christian Free Press» e «The Fascist»87; inglesi, provenienti dal «Punch» e dirette in particolare contro Disraeli88; e, infine, italiane, risalenti agli attacchi del settimanale satirico anticlericale «L’Asino» contro la figura di Luzzatti89 .
All’«internazionale» della caricatura si affianca, nella «Difesa della razza», il riferimento alla stereotipizzazione antiebraica della figura dell’ebreo propria dell’arte cristiana. Tre sono, in quest’ambito, i nuclei figurativi battuti dalla rivista con maggior insistenza: l’iconografia di Giuda, ripresa soprattutto dai celebri affreschi di Giotto e di Andrea del Castagno90; l’infanticidio rituale, e in particolare il martirio di Simonino da Trento, raffigurato dalle xilografie della Historie von Simon di Johannes Mathias Tiberinus (1475), della Biblioteca Classense di Ravenna (fine xv secolo) e del Weltchronic di Schedel di Norimberga (1493)91; infine, la profanazione dell’ostia, con la riproduzione della celebre tavola di Paolo Uccello per la Confraternita del Corpus Domini a Urbino92 .
Questo universo estetico, che si muove disinvoltamente da Fips a Giotto, da Caran d’Ache a Gustave Doré93 fino alle fotografie naziste dei «tipi ebraici» dell’Europa orientale, costituisce il presupposto fondamentale del processo di sistematica decontestualizzazione dell’immagine, operato dalla «Difesa della razza» nella sua rappresentazione dell’ebreo. Un primo elemento in tale direzione è individuabile nel rovesciamento del rapporto fra immagine e didascalia. Si prenda, per citare un esempio, il caso di una caricatura di Caran d’Ache rappresentante una coppia di «ebrei traditori», che saccheggiano le spoglie di un soldato francese. La vignetta viene riprodotta su «Quadrivio», nel giugno 1939, con la didascalia «Gli sciacalli caricatura antisemita polacca»94, e due volte sulla «Difesa della razza», rispettivamente nel marzo e nel settembre 1939, con le didascalie «Gli ebrei saccheggiano il campo di battaglia a Waterloo» e poi, semplicemente, «Sciacalli»95: la fonte da cui proviene l’immagine è stata evidentemente negata e rimossa per privilegiare il suo significato simbolico.
Una seconda dinamica decontestualizzante scaturisce dal dialogo fra l’immagine e il testo di cui essa intende essere commento o illustrazione. Le numerose riproduzioni delle «pasque ebraiche» o della figura iconografica di Giuda rappresentano, da questo punto di vista, un utile strumento di analisi. Concepita per accompagnare articoli incentrati sul tema della natura criminale dell’«ebreo talmudico», un’immagine che veicola un sentimento giudeofobico di matrice religiosa viene ora adottata per dimostrare la «naturale» inclinazione, tanto biologica quanto culturale, dell’ebreo alla violenza e all’omicidio: fra antigiudaismo cattolico e antisemitismo razziologico il confine è così rapidamente infranto, mantenendo un’ambiguità che non indebolisce, ma rafforza il discorso discriminante. Infine, un ultimo fattore di decontestualizzazione è dato dal sincretismo cronologico e iconografico che caratterizza la raffigurazione dell’ebreo. Può capitare, infatti, che – in uno stesso fascicolo o addirittura in una stessa pagina della rivista – miniature medievali, pitture rinascimentali, caricature ottocentesche dell’affaire Dreyfus e vignette di Fips tratte da«Der Stürmer», si affollino ad affermare visivamente l’idea dell’«eternità» dell’ebreo e della «questione ebraica» e l’ineluttabilità della reazione antisemita, in ogni tempo e in ogni luogo.
Ad alimentare ulteriormente l’amalgama iconografico e concettuale si aggiunge poi l’annullamento delle differenze fra i linguag-
354Capitolo ottavo gi rappresentativi impiegati – caricatura, pittura, fotografia – ottenuto grazie all’adozione di un procedimento generale di caricaturalizzazione dell’immagine. Per quanto riguarda le fotografie, l’uso caricaturale è reso quanto mai evidente dalle indicazioni didascaliche. Bastano alcuni esempi, tra i molti possibili: «tipiche maschere di giudei, in cui si disegnano evidentissime le tare fisiche e spirituali della razza»96; «due atteggiamenti di un giudeo polacco»97; «tutto l’odio talmudico è in questa maschera giudaica»98; «e qui v’è tutta la schifosa ipocrisia della razza di Giuda»99; «lo spaventoso ceffo di un giudeo»100; «tipi di giudei catturati in Russia»101; «è un operaio giudeo della Polonia. Ma il volto è d’un propagandista sovietico»102. Il paradosso della caricaturalizzazione dell’immagine fotografica viene tuttavia raggiunto nell’aprile 1942, quando i cliché di ebrei dell’Europa orientale sono chiamati a sostanziare, proprio sul piano visivo, le tesi del razzismo biologico della «Difesa della razza» nella polemica in corso con i razzisti «spiritualisti». Così recita, infatti, una didascalia relativa all’immagine di «quattro giudei» e di un «indigeno del Borneo»: «Non sappiamo cosa pensino gli spiritualisti incorreggibili circa le intime doti di questo indigeno del Borneo e di questi quattro giudei; ma possiamo garantire che le loro caratteristiche biologiche sono assolutamente inassimilabili alle nostre»103 .
Un discorso simile vale anche per i riferimenti pittorici gotici o rinascimentali, rispetto ai quali la stereotipizzazione antigiudaica già presente nell’iconografia di matrice religiosa si traduce tout court in tipologizzazione morfologica e razziologica. Il caso dell’immagine del bacio di Giuda, largamente diffusa nelle pagine del quindicinale interlandiano, è in tal senso emblematico. Nelle caratteristiche iconografiche dell’apostolo, l’antropologo Giovanni Marro non esita a individuare «il tipo squisitamente peculiare della razza». E così il Giuda della Cappella degli Scrovegni diviene lo specchio dell’«inferiorità» biologica dell’ebreo:
Altro famoso Giuda è quello di Giotto, nella scena del bacio, della cappella degli Scrovegni a Padova [...]: dai capelli crespi, dalla barba deficiente, dal colorito della cute scuro; dalla mandibola voluminosa con mento sporgente; dal forte prognatismo globale che maggiormente accentuano le labbra grosse, tumide, arrovesciate; dal naso depresso alla radice; dallo sguardo torvo, crudele e freddo. E le caratteristiche di inferiorità – in parte d’indole prettamente negroide – della testa di Giuda spiccano tanto più per la vicinanza alla testa di Gesù104 .
Nel quarto numero della «Difesa della razza», le pagine centrali del fascicolo istituiscono un simmetrico raccordo visivo tra «l’ebreo nell’arte» e «l’ebreo nella vita»: da un lato, le rappresentazioni di Giuda tratte da Giotto, Leonardo e Andrea del Castagno, e la scultura del «giudeo» della Cappella del Sacro Monte di Varallo; dall’altro, le fotografie dei «giudei» di Campo dei Fiori e del loro «schifoso parassitismo». Al centro, una didascalia, che chiarisce, laddove fosse ancora necessario, il nesso fra riproduzione artistica e fotografia del ghetto: «L’odioso volto d’Israele si distingue ovunque dai lineamenti italiani. Nei quadri dei nostri pittori come nei meandri del ghetto i tratti di Giuda suscitano avversione e disgusto»105. Il medesimo procedimento appare adottato nel marzo 1939, quando ancora il Giuda giottesco viene accostato a un’immagine fotografica di una «vecchia del ghetto di Varsavia» e al fotogramma di un film antisemita nazista106. In una copertina del giugno 1942, la mediazione fra «l’ebreo nell’arte» e «l’ebreo nella vita» non emerge più dalla giustapposizione simmetrica delle immagini, ma dalla visualizzazione del processo genealogico: una rielaborazione grafica individua, infatti, attraverso la successione di sette diversi profili, la continuità dei tratti somatici fra il Giuda giottesco e un cliché fotografico apparso già nel fascicolo del 5 maggio, con la didascalia «Giuda 1942»107: il titolo della copertina – «L’eterno ebreo» – non potrebbe essere più esplicito108. La tendenza alla caricaturalizzazione raggiunge l’estremo limite della falsificazione nella copertina del 20 agosto 1939. Si tratta di un’illustrazione dell’Haggadah che mostra gli ebrei ridotti in schiavitù in Egitto: la stessa immagine, presente a pagina 30 del fascicolo, è riprodotta in copertina, ma in quest’ultimo caso le espressioni del volto e i nasi sono stati chiaramente ritoccati e resi conformi alle versioni caricaturali109 .
Oltre a fornire «una conferma, – per usare le parole di Marro, – alla nostra concezione antropologica sugli ebrei»110, la predominanza del modulo espressivo caricaturale appare del tutto funzionale al processo di destituzione fisica dell’individuo, messo in atto dal discorso antisemita. La zoomorfizzazione e la vegetalizzazione sono i procedimenti maggiormente utilizzati in tal senso: l’ebreo viene disegnato, di volta in volta, come ragno, serpente, ratto, insetto, avvoltoio, a raffigurare in chiave simbolica la sua influenza nociva e infestante; oppure si trasforma in funghi vele- nosi, come quelli disegnati da Fips sulle pagine dello «Stürmer»111 .
L’efficacia simbolica della bestializzazione antisemita è talmente potente da giungere persino ad oltrepassare i limiti del disegno caricaturale: nel giugno 1942, la sola immagine fotografica di un serpente, contrapposto alle aquile fasciste, incarna l’incombente minaccia ebraica112 .
Accanto alla mitologizzazione fantasmagorica113, è paradossalmente il processo opposto, ovvero la visualizzazione dell’invisibile, ad alimentare la fortuna della rappresentazione caricaturale antisemita. Se la giudeofobia della «Difesa della razza» è ossessionata, come si è visto, dalla presenza dell’«ebreo invisibile», allo stesso modo la sua iconografia è interamente pervasa dalla ricerca di segni e indizi, che ne visualizzino il tropismo e l’azione cospirazionista. Le fotografie dei «tipi ebraici» si traducono così in lezioni di fisionomica, finalizzate a leggere il volto come un mosaico di segni razziali. È il caso della copertina interna del numero del 20 agosto 1942, in cui tre «profili ebraici» sono accompagnati dalla seguente didascalia: «Non soltanto i tipici nasi denunciano l’appartenenza alla razza ebraica di questi tre individui, ma anche la forma del labbro inferiore e il taglio dell’orecchio e dell’orbita»114. E quando nasi e labbra non sono sufficienti, le fotografie di ebrei tedeschi marchiati con la stella a sei punte giungono a confermare l’esigenza, ma nello stesso tempo la difficoltà, della visualizzazione: il «distintivo» – afferma una didascalia pubblicata il 20 ottobre 1942 – non è affatto «una forma di vessazione», in quanto «non fa che sottolineare e mettere in luce un dato di fatto incontestabile»115. È come se lo strumento fotografico denunciasse lo scacco subito dallo sguardo antisemita, nella sua incapacità di realizzare uno svelamento immediato dell’«ebreo invisibile». «Senza maschera» è non a caso il titolo delle pagine centrali di un fascicolo della «Difesa della razza», in cui si utilizzano fotografie di ebrei tedeschi e croati per dimostrare l’utilità del «distintivo» obbligatorio, al fine di «mettere in guardia gli ariani, preservandoli dal cadere nelle trappole giudaiche»116 .
In quest’ottica, può essere interessante notare come lo stesso paradigma centrale dell’antisemitismo cospirazionista, ovvero l’esistenza di un complotto ebraico nascosto dietro gli eventi storici, alimenti una paradossale ansia di rappresentazione di ciò che, per definizione, dovrebbe essere invisibile. L’immagine-slogan dell’«ebreo-mondo» ne è la riprova. La simbolizzazione di una potenza assoluta attraverso la figurazione di un controllo sull’intero pianeta aveva un’origine religiosa: in questa chiave era stata esaltata la gloria del Cristo-Re o l’universalità della morte, raffigurata con l’immagine di uno scheletro che incombe sul globo terrestre. Nel xix e xx secolo, il procedimento simbolico aveva conosciuto una tendenza alla secolarizzazione, finendo per rappresentare, da principio, la dominazione napoleonica sull’Europa e, in un secondo tempo, gli imperialismi più diversi: tedesco, britannico, giapponese e, ovviamente, comunista117. L’iconografia antisemita se ne impadronirà sulla scia della progressiva affermazione internazionale del mito del «complotto ebraico». Una delle sue versioni più celebri sarà quella disegnata da Léandre, in pieno affaire Dreyfus, come copertina del giornale satirico «Le Rire»118, ed è proprio quest’ultima a essere riprodotta, nel novembre 1938, sulle pagine della «Difesa della razza»119: il Re-Rotschild, patriarca incoronato dal Vello d’oro, serra il pianeta fra le sue mani ad artiglio, in una sintesi di stereotipi antisemiti razziali (il naso adunco), economici (il potere finanziario rappresentato dai Rothschild), religiosi (il Vello d’oro e la massima que Dieu protège Israël) e nazionalisti (l’Esagono francese, al centro del globo minacciato dal Re-Rotschild)120 .
In altri casi, la visione della storia come cospirazione ebraica viene proposta, in forme ricreative e facilmente accessibili, attraverso strisce disegnate, quasi fumettistiche, le quali illustrano il cambiamento di condizione socio-economica degli ebrei grazie ai profitti ricavati dalle rivoluzioni o dalle guerre da essi stessi provocate. Un celebre esempio è il disegno di Caran d’Ache, pubblicato su «Psst!»il 15 ottobre 1898, dal titolo 1789 Pourquoi l’on a fait: delle due vignette, quella indicata come «prima» mostra un contadino che spinge una carriola, portando sulle spalle un aristocratico; la successiva, intitolata «dopo», presenta lo stesso contadino, sul quale però incombono, questa volta, un ebreo, un rivoluzionario massone e un secondo ebreo banchiere. Quest’ultima scena si ritrova nel primo numero della «Difesa della razza»121 a commento di un articolo di Carlo Magnino, libero docente di etnografia all’Università di Roma, dal titolo Gli ebrei e l’agricoltura, tutto teso a dimostrare il «nomadismo» innato del popolo ebraico. L’intera sequenza è invece riprodotta nel numero del 5 marzo
1939122, insieme a caricature tedesche di ebrei che, liberati dal ghetto, «trafficano in abiti e decorazioni, camuffandosi da buoni borghesi»123. Nel terzo numero del quindicinale, due caricature romene presentano «l’arrivo» dell’ebreo, nelle vesti di un venditore ambulante barbuto, magro e lacero, e, nella vignetta successiva, la «partenza» dello stesso individuo, sbarbato, grasso e con una ricchezza volgarmente esibita (il sigaro, l’anello, ecc.)124. La barba è al centro anche delle immagini pubblicate, sotto il titolo Dal ghetto… alla città,nell’ultimo numero del periodico, quello del 20 giugno 1943: si tratta, in questo caso, di fotogrammi tratti dal film nazista Der ewige Jude (1940), i quali, con il chiaro intento di denunciare il mimetico «parassitismo» ebraico, mostrano l’immagine di un uomo, prima con barba e caftano (l’ebreo del «ghetto») e, successivamente, rasato e vestito elegantemente (l’ebreo della «città»)125 .
A partire dal gennaio 1941, le pagine centrali della «Difesa della razza» ospitano, con una certa continuità, una fotocomposizione che, mescolando caricature, fotografie e miniature medievali, mira a descrivere i differenti aspetti della cospirazione ebraica mondiale. Nel luglio 1941, l’immagine-gioco del «giudeo-bolscevico» al centro di una stella di Davide connette una serie di caricature sovietiche e francesi che illustrano la coincidenza di ebraismo e comunismo126. Nel numero del 5 agosto 1941, un grafico raffigura la «storia massonica dei Protocolli dei Savi di Sion»: Questo specchio dimostra come la storia della Massoneria si intreccia con la storia del moderno giudaismo, fino a confluire nei Protocolli dei Savi di Sion, che sono il documento-base per la conoscenza della internazionale ebraico-massonica e dei suoi veri fini. La legenda chiarisce il significato dei segni convenzionali usati per indicare i congressi massonici e le relazioni dirette o indirette, fra i diversi personaggi127 .
Nel numero successivo, le pagine centrali abbinano fotografie e caricature per mostrare come gli ebrei abbiano provocato, dal 1914 al 1939, due guerre – la prima raffigurata dalle immagini dei Rotschild sovrapposte alla cartina europea e la seconda riprodotta con una caricatura della «congiura anglo-franco-americana» orchestrata da Belisha, Mandel e Morgenthau – e «cinque rivoluzioni», evocate dai ritratti fotografici di Trockij, Kurt Eisner, Béla Kun, Rosenberg e Blum128. Il 20 settembre 1941, l’accostamento di una caricatura di «ebreo-soldato» e una litografia antibritanni- ca di Paul Andreas Weber tratteggiano «i veri fini della giudeoplutocrazia»: «allargare il conflitto e condannare alla fame il resto dell’umanità». I «quattro cavalieri» dell’«apocalisse giudaica» corrispondono, nel fascicolo del 20 novembre 1941, a tre fotografie e una riproduzione: un «angolo del ghetto di Londra» (l’«Inghilterra giudaizzata»), un gruppo di afro-americani (gli «Stati Uniti negrizzati»), il campanile distrutto della chiesa di Karplowak (l’«Urss negatrice di Dio») e un dipinto dell’espressionismo tedesco (l’«internazionalismo ebraico»). Al centro del montaggio di immagine, la foto del Muro del Pianto, con sovraimpressa la domanda «Per chi prega Israele?»129. L’ebreizzazione del nemico ideologico-politico fornisce numerose, possibili varianti raffigurative della logica cospirazionista. Nel caso degli Stati Uniti, ad esempio, al consueto accostamento delle fotografie del «negro» e del «giudeo»130, si aggiunge, nel marzo 1942, un’illustrazione che fonde una caricatura francese sulla ricchezza e la promiscuità sessuale dell’ebreo con due fotografie di Eleonore Roosevelt e di Pierpont Morgan, fornendo in didascalia la seguente, pedagogica interpretazione: «Il giudaismo ha in macchiette come Eleonora Roosevelt il suo aspetto tragico-comico e in figuri come Morgan la sua tragica potenza, negli Stati Uniti: commedia o tragedia, l’importante è che i giudei possono diguazzare nei piaceri e nel lusso, mentre il proletariato americano muore di fame»131
In alcuni casi, è soltanto la nota in didascalia a racchiudere una lettura antisemita di composizioni realizzate utilizzando, per contro, semplici caricature politiche: come nelle pagine centrali del fascicolo del 20 febbraio 1942, laddove caricature bulgare, statunitensi e argentine denuncianti il «matrimonio di convenienza» fra Unione Sovietica, Stati Uniti e Gran Bretagna, vengono riportate dal periodico per indurre il sospetto di un’«affinità di sangue» esistente fra i «nemici del fascismo», in ogni luogo del mondo «giudei o giudaizzati»132; o come la caricatura americana che, nonostante il palese istinto ad azzuffarsi, mostra John Bull (Gran Bretagna) e Uncle Sam (Stati Uniti), strettamente legati da molteplici vincoli politico-economici, ai quali «La Difesa della razza» aggiunge in didascalia il riferimento antisemita alla «coalizione di Giuda»:
Ma fra i tanti legami la rivista americana ha dimenticato (guarda caso!) il più importante: il giudaismo. E siccome il giudaismo è al tempo stesso an-
360Capitolo ottavo che un sottile veleno disgregatore, si spiega come mai un’unione tanto stretta sia anche tanto infelice per entrambi i contraenti e si trasformi in una vicendevole lotta di sopraffazione133 .
Il rapporto fra iconografia e antisemitismo cospirazionista trova espressione anche nel tema dell’«anglo-giudaismo», particolarmente presente nelle fotocomposizioni centrali della «Difesa della razza». Nel gennaio 1942, ad esempio, le stampe del De persecutione anglicana del 1582 vengono riprodotte per stigmatizzare l’Inghilterra «massonica» e «anticattolica»134. Nel fascicolo del 5 novembre 1941, due caricature romene di ebrei mostrano al lettore l’albero genealogico della famiglia reale britannica, da cui risulterebbe l’identificazione fra la monarchia inglese e il trono d’Israele, come si spiega in didascalia:
Si tratta proprio di un documento inglese che fa parte di quel movimento pseudoscientifico, pure inglese, che pretende di identificare nel popolo britannico l’autentico discendente delle tribù di Giuda (i nostri lettori ne sono stati informati da un articolo di Telesio Interlandi). Si tratta evidentemente di una tesi sballata, ma non per questo meno significativa. Il connubio anglo-giudaico è così stretto, da far perdere agli Inglesi persino il loro tradizionale rispetto per il trono!135 .
Lo schema enigmistico bifronte times-semit, ripreso da un disegno di Garvens pubblicato sul berlinese «Kladderadatsch»136, offre, nel luglio 1941, l’occasione per esplorare a fondo le potenzialità della metafora dello specchio: nella donna inglese che scopre, osservando il proprio riflesso, le «ignobili stimmate» del giudaismo, vi è l’annullamento quasi radiografico della forza dell’illusione, ma vi è anche l’orrore della sorpresa, che agisce sull’archetipo inconscio dell’identità nascosta137. La mediazione dello specchio viene definitivamente superata nell’agosto 1942, quando, con l’esplicito intento di «concretare in una immagine la simbiosi anglo-giudaica», la redazione della «Difesa della razza» fonde direttamente la fotografia di Churchill con quella di un «tipico giudeo», giungendo così a visualizzare la mostruosità dell’«anglo-giudaismo»138 .
Oltre a designare i caratteri morfologici dell’ebreo e a descrivere la sua azione cospiratrice, l’immagine è chiamata anche a illustrare e legittimare la discriminazione e la persecuzione in corso. Già nel numero del 20 novembre 1938, una serie di vignette, concentrate nelle pagine centrali del fascicolo, aveva sintetizzato nettamente, con una croce, l’espulsione degli ebrei dalla vita pubbli- ca italiana139. A partire dall’inizio della seconda Guerra mondiale, le pagine della «Difesa della razza» cominciano ad ospitare fotografie che rivelano gli effetti dell’occupazione nazionalsocialista dell’Est europeo: gli ebrei denutriti e laceri dei ghetti di Lublino, di Varsavia, di Cracovia140. In un contesto iconografico in cui le xilografie medioevali, gli affreschi di Giotto e Paolo Uccello, le caricature dell’affaire Dreyfus e i cliché fotografici degli ebrei orientali sono stati totalmente decontestualizzati e amalgamati in un sincretismo razzista, il quale ha sancito l’idea dell’eterna pericolosità dell’ebreo e avvalorato la giustificazione dell’antisemitismo come forma di legittima autodifesa, il passaggio dalla rappresentazione alla realtà diviene ora quasi impercettibile, tanto da rendere visivamente scontata la persecuzione nazista in corso: anche sul piano dell’immagine, oltre che su quello dell’ideologia, quanto accade agli ebrei in Europa orientale assume, pertanto, i contorni della «profezia che si autoadempie».
Non è, tuttavia, nelle fotografie dei ghetti dell’Europa orientale, ma in quelle degli ebrei italiani soggetti alla precettazione civile a scopo di lavoro ordinata dal ministero dell’Interno nel maggio 1942, che il corto circuito fra immagine e realtà operato dalla «Difesa della razza» raggiunge il suo apice. Il numero del 20 giugno 1942 risulta in tal senso fortemente atipico nel quadro d’insieme della rivista, in quanto è l’unico a essere concepito come numeroreportage, «dedicato all’illustrazione fotografica della prima applicazione in Italia dei provvedimenti sul lavoro obbligatorio»141. Fin dai primi di giugno, Interlandi ha chiesto, infatti, al prefetto Luciano, capogabinetto del ministero della Cultura Popolare, l’autorizzazione a raccogliere la documentazione fotografica necessaria:
Caro Prefetto, vorrei occuparmi sulla «Difesa della Razza» del funzionamento del servizio del lavoro per i cittadini italiani di razza ebraica.
Un articolo documentato su tale argomento, possibilmente corredato da fotografie, oltre a interessare molto i lettori, sarebbe assai utile dal lato propagandistico, sia per dimostrare – dentro e fuori i confini – che l’Italia fa energicamente la sua battaglia antigiudaica; sia per precisare che tale battaglia la conduciamo con metodi nostri, rigorosi ma giusti e civili; sia per svincolarci, una volta tanto, dall’umiliante necessità in cui ci troviamo di ricorrere sempre a fonti tedesche, per quel che riguarda la documentazione fotografica della lotta antiebraica condotta dalla Nuova Europa.
Mi occorre dunque l’autorizzazione di inviare un redattore e un fotografo per raccogliere direttamente la documentazione. Vi prego di facilitare la mia iniziativa, se a codesto Ministero essa sembra, come a me, utile e tempestiva dal punto di vista propagandistico142 .
Le fotografie degli ebrei adibiti a lavori di scavo e di pulitura degli argini del Tevere, montate vicino a caricature romene di «ebrei usurai»143 e a riproduzioni dei rilievi dell’arco di Tito, celebranti il «trionfo di Roma sul giudaismo parassita»144, finiscono per produrre, nel panorama della violenza visuale della «Difesa della razza», un ulteriore giro di vite. Nel momento stesso in cui mostrano la realtà della persecuzione, le immagini fotografiche vengono, infatti, private del loro valore documentario e ridotte ancora una volta a mera caricatura, attraverso inquadrature finalizzate a immortalare il corpo stereotipato dell’ebreo: il naso, le orecchie, le labbra. Piegate in funzione del discorso antisemita, le fotografie, da un lato, designano l’ebreo sul piano somatico e, dall’altro, legittimano la violenza attuata nei suoi confronti. Se Guido Landra coglie, ad esempio, l’occasione per scrivere un lungo articolo sull’indice cefalico degli ebrei145, Giovanni Savelli invita i lettori a soffermare lo sguardo sull’eloquenza dei corpi fotografati:
Questi uomini dalle carni di un così flaccido biancastro, alle prese, tra spaesati e stupefatti, con la rena del Tevere, sono le meccaniche esemplificazioni di una razza che, in ogni epoca, e sotto ogni latitudine, ha deviato dalla pienezza costruttiva del lavoro verso i metallici succedanei dei tecnicismi finanziari e commerciali, di grande e minimo stile, cioè verso la prevaricazione sulla fatica umana146 .
Il rovesciamento del rapporto realtà-finzione culmina a questo punto nello stravolgimento totale del significato dell’immagine. Gli ebrei precettati a scopo di lavoro non sono più le vittime dell’antisemitismo fascista, ma l’immagine vivente del progetto di dominio mondiale dell’ebraismo, del suo «incunearsi tra altri popoli», del suo aggrapparsi «a piene mani alla tecnica marginale della finanza, dell’industria, del commercio»147. «Guardiamo ai pallori di queste carni flaccide, – scrive ancora Savelli, – e cerchiamo di ben inquadrare l’immagine nel senso delle vicende e della storia»148 .
3. Un falso che dice la verità: dalla Venere ottentotta alle fotografie di Cipriani.
Nel suo secondo numero, «La Difesa della razza» riprende dalla «Berliner Illustrierte Zeitung» la fotografia di un arruolamento di minatori africani, presentandola tuttavia come una testimonianza visiva del carattere «degenerato» della democrazia francese, disposta ad accogliere i «negri» delle colonie nelle file di un esercito, ormai fortemente intaccato dall’alto tasso di denatalità. Così recita, infatti, la didascalia: «Reclute nere per l’esercito di colore destinato a “salvare la Francia”»149. Di fronte alle accuse dei giornali olandesi e francesi, che denunciano la grossolana strumentalizzazione propagandistica, la rivista risponde, nel marzo 1939, rivendicando il proprio diritto alla falsificazione:
Ma che dire del falso contro la Francia? Forse non è vero che la Francia arruola soldati negri? Che fonda la difesa nazionale sull’armata negra? Forse non è il generale Mangin l’autore dell’Armée Noire? Non è Mangin che ha detto: «siamo un popolo di cento milioni»? E di qual popolo parlava Mangin, se non del popolo negro, se non dei milioni di negri della salvezza francese? Dunque noi abbiamo commesso un falso contro la Francia, dicendo e illustrando che la Francia arruola negri per l’esercito destinato a salvarla. Un falso, dicendo la verità150 .
Del resto, che la redazione della «Difesa della razza» non intendesse arretrare davanti alla falsificazione più smaccata, era ben chiaro fin dall’agosto 1938. Nel primo numero del quindicinale, l’articolo di Guido Landra sui «bastardi di Rehoboth» appare, infatti, corredato da una copia del celebre disegno della Venere ottentotta tratto da un saggio del fisiologo Georges Cuvier, pubblicato nel 1817151. Così era stata ironicamente definita una donna boscimana – Saartjie Baartman, chiamata anche Sarah Bartmann o Saat-Jee – approdata in Europa dal Sudafrica ed esposta (quasi completamente svestita) a Londra e a Parigi alla curiosità del pubblico, fino alla sua scomparsa avvenuta nel 1815 nella capitale francese, all’età di venticinque anni. Nel contesto scientifico italiano, gli studi di Cuvier sulle anomalie fisiche della Venere ottentotta avevano alimentato un intenso dibattito negli ambienti dell’antropologia fisica ottocentesca152. In particolare, lo sviluppo eccessivo delle parti genitali (il cosiddetto «grembiule delle ottentotte») e la
364Capitolo ottavo protuberanza delle natiche (la «steatopagia») erano stati interpretati da Cesare Lombroso e da molti anatomisti europei, da un lato, come una conferma dell’atavismo biologico della prostituzione e, dall’altro, come la scoperta dell’anello mancante nella scala evolutiva delle specie. Nel corso del Novecento, il dibattito si era affievolito di fronte alle crescenti informazioni storiche disponibili sugli Ottentotti: questi ultimi erano ormai considerati, infatti, come il frutto di un incrocio fra Boscimani e popolazioni nere locali e non più come l’anello di congiunzione mancante tra scala animale e scala umana.
Allorché la Venere ottentotta fa la sua comparsa nelle pagine della «Difesa della razza», questo passato di indagini antropologiche lungo più di un secolo viene sostanzialmente cancellato d’un solo colpo. La didascalia che accompagna il disegno veicola la reinterpretazione del soggetto:
Dall’incrocio tra contadini olandesi fissati in Africa e membri della tribù dei Boscimani è nata la famosa «Venere ottentotta», qui fotografata. L’importanza che gli studiosi di antropologia attribuiscono a questo mostro di natura deriva dal fatto che esso rappresenta non un esempio eccezionale dei risultati a cui può condurre la pratica del meticciato, ma il campione più perfetto di un tipo umano, dotato di caratteri ereditari e quindi permanenti, che conta a centinaia i suoi esemplari. Nell’Africa del Sud, dove gli incroci tra Boeri e Boscimani si verificarono, questi esemplari formarono, nel secolo scorso, una minuscola società battezzata pomposamente dai suoi componenti col nome di «Nazione dei bastardi»153 .
La reinvenzione è duplice: in primo luogo, un celebre caso di incrocio tra gruppi africani viene letto come incrocio tra bianchi e neri, e assimilato ai cosiddetti «bastardi di Rehoboth», studiati da Eugen Fischer; in secondo luogo, un disegno risalente agli inizi dell’Ottocento viene spacciato per una fotografia, forma più autorevole di comunicazione visiva. Quando, dunque, nel terzo numero della rivista, la rubrica Chiarimenti ospita la domanda di «alcuni lettori», che scriverebbero per sapere se la Venere ottentotta non possa essere un incrocio di «due Boscimani», la redazione è costretta a proseguire nell’opera di falsificazione e omissione, citando una voce dell’Encyclopédie Française, la quale introduce la vicenda come un celebre «caso di incrocio», ma non traducendo la voce che la stessa Enciclopedia dedica a Boscimani e Ottentotti, dove i bianchi non risultano mai fra i componenti dell’incro- cio154. Ancora nel fascicolo della «Difesa della razza» del 20 marzo 1940, dedicato al meticciato, il disegno in questione viene riproposto per corredare visivamente l’articolo di Fischer sui «bastardi di Rehoboth»155 .
Il caso della Venere ottentotta illustra significativamente le modalità seguite dall’antropologia fisica fascista per trasformare un capitolo rilevante degli studi anatomici ottocenteschi in un’icona di primitivismo e di mostruosità funzionale alla politica coloniale razzista del regime. Esso tuttavia consente anche di indagare sulle differenti logiche di rappresentazione del nero in competizione all’interno del gruppo redazionale della «Difesa della razza». Dai carteggi conservati presso l’Archivio Centrale dello Stato, emerge infatti la netta disapprovazione di Lidio Cipriani nei confronti dell’utilizzo strumentale del disegno della Venere ottentotta: «Quando esce il nuovo numero della “Difesa della Razza”?, – scrive, infatti, Cipriani a Guido Landra. – Cercate che non vi siano altri sfondoni come quello della Venere Ottentotta»156. Il giudizio di Cipriani è probabilmente motivato dal totale stravolgimento subito dal celebre caso antropologico, ma rispecchia anche un contrasto esistente con Landra circa il ruolo della rappresentazione fotografica del nero nelle pagine della rivista. Mentre Landra, infatti, domanda a Cipriani fotografie «orripilanti», quest’ultimo insiste, invece, per riprodurre sulla «Difesa della razza» delle fotografie «scientifiche». Una lettera, inviata da Cipriani a «Landrolino», il 9 agosto 1938, è sufficientemente esplicita in tal senso: «Vorrei […] mandarti articoli e foto per la rivista: foto però scientifiche e non… orripilanti! Come mi chiedi. Ne ho migliaia di ottime»157 . Dieci giorni dopo, il 19 agosto, la corrispondenza ritorna sull’argomento: «Debbo farti stampare cento o duecento foto “orripilanti” come mi chiedete?, – domanda Cipriani a Landra. – Ne potrei fare una scelta nella mia raccolta africana o magari asiatica (senza Ebrei, però!)»158
Nel momento, dunque, in cui l’immenso archivio fotografico di Lidio Cipriani viene messo a disposizione dell’Ufficio Razza, diretto da Landra, e della rivista, non è sul tema della «mostruosità» del nero o del meticcio che l’antropologo toscano vuole insistere, quanto piuttosto sulla «scientificità» della fotografia etnoantropologica. Influenzato dalla scuola fiorentina di Mantegazza e Sommier159, Cipriani attribuisce, infatti, alla fotografia un’im-
366Capitolo ottavo portanza non marginale né complementare, ma essenziale nello studio di ogni aspetto della realtà antropologica160. Per questo motivo, nelle spedizioni compiute a partire dal 1927 in Africa, Europa Centrale e Asia Meridionale, Cipriani ha prodotto più di diecimila scatti161, utilizzando lo strumento fotografico come una tecnica di indagine perfettamente integrata con le altre (rilevamenti antropometrici, archeologici, calcografie, descrizioni etnografiche), abitualmente presenti nella «cassetta degli attrezzi» dell’antropologo. Agli inizi del luglio 1938, Cipriani si dichiara pronto a stampare tutti i negativi del suo corposo fondo fotografico in vista della costituzione di una fototeca dell’Ufficio Razza:
Non avete che a dirmelo o farmelo dire autorevolmente e io attacco subito, qui la stampa di tutta la mia raccolta per voi. Ma occorre un’intesa sul formato, modo di fare la fototeca ecc., che vorrei spiegare a S.E. Alfieri o S.E. Luciano per preliminare approvazione. Dopo, vertiginosamente, vi farei affluire migliaia di foto, fra cui scegliereste liberamente senza bisogno di chiedere a nessuno. E il materiale, credi, è eccellente162
In ottobre, l’accordo è raggiunto e le fotografie vengono acquistate dall’Ufficio Razza, «a gruppi di un migliaio per volta»163. Nel frattempo, sulla «Difesa della razza», Lidio Cipriani ha già iniziato a pubblicare le sue immagini, a partire, come si è visto in precedenza, dalla copertina del primo numero, divenuta successivamente il logo della rivista.
La selezione di fotografie, effettuata dall’antropologo toscano per le pagine del periodico razzista, rispecchia chiaramente la precisa intenzione di offrire dei cataloghi di tipi razziali, ovvero dei «dati empirici che comprovano, e quindi legittimano, una teoria precedentemente formulata, trasmettendo al pubblico una ben definita immagine dell’“altro”, influenzando in misura determinante le modalità di percepirlo»164. Ad essere privilegiati sono infatti i somatotipi, ovvero i classici ritratti di soggetti ripresi di fronte e di profilo, raramente a corpo intero. In alcuni casi, lo sguardo si concentra sugli elementi culturali significativi nell’uso del corpo, come gli eventuali tatuaggi o le cicatrici simbolico-rituali, le acconciature dei capelli, le modificazioni prodotte in particolari parti del corpo per motivi socioculturali. L’intento pedagogico alla base di tale scelta è chiaro: dimostrare visivamente non solo la diversità biologico-antropometrica, dei neri, ma anche la loro profonda distanza culturale.
Oltre che dall’impostazione tecnica della fotografia, l’oggettivazione razzista del soggetto fotografato emerge dal corredo interpretativo che accompagna l’immagine. Il somatotipo fotografico è spesso chiamato, infatti, a raffigurare le tesi di Cipriani sull’inferiorità biologica dei neri e sulla pericolosità del meticciato. Si prendano, ad esempio, i ritratti frontali e di profilo che illustrano l’articolo Gli etiopici secondo il razzismo: qui le didascalie, da un lato, tendono a rimarcare «le caratteristiche non negre ma etiopiche» degli Zulu; dall’altro evidenziano la progressiva scomparsa dell’originaria purezza biologica del «tipo etiopico» in seguito ai ripetuti incroci con le popolazioni nere165. In altri casi, le fotografie dei neri vengano accostate tout court a quelle dei «tipi italiani», disegnando un confine di assoluta alterità. È quanto accade, ad esempio, nel terzo fascicolo della «Difesa della razza», dove alle fotografie di giovani ventenni italiani, quasi tutti con capelli biondi e occhi grigi o celesti, si alternano quelle dei «tipi» boscimani o pigmei, generando così un contrasto visivo che esalta in misura esponenziale i contenuti dell’articolo, dedicato ai «caratteri fisici della razza italiana»166. Ma l’esempio più significativo è forse quello offerto dal fascicolo del 20 maggio 1941. In quest’occasione, la rivista pubblica infatti due fotografie, nelle quali Cipriani ritrae se stesso, con a fianco, nel primo caso, un Pigmeo dell’Ituri, e, nel secondo, un «gigantesco Suasi del Natal»167: anche nel momento in cui si pone dall’altra parte dell’obiettivo, l’antropologo toscano continua a mantenere un distacco per così dire antropometrico dagli indigeni africani, presentando visivamente la propria figura come canone di bellezza, come metro estetico di riferimento, rispetto al quale le sproporzioni e le disarmonie fisiche dei neri dovrebbero apparire ancora più evidenti.
Del resto, la lettura degli articoli di Cipriani aiuta chiaramente a comprendere come dietro la violenza razzista di queste immagini si celi un’analoga violenza connessa alle stesse modalità tecniche di impiego «sul campo» del mezzo fotografico. Con queste parole, ad esempio, Cipriani racconta, sulla «Difesa della razza», gli effetti dei suoi scatti presso la popolazione degli Scillùk:
Per dare un’idea della ingenuità degli indigeni qui considerati, accenno ad un incidente, l’unico del mio girovagare in Uganda e Sudan, occorsomi mentre mi recavo a visitare la capitale degli Scillùk. Strada facendo avevo fotografato vari tipi. In un luogo, dove mi era soffermato più del consueto
368Capitolo ottavo per ottenere veri ritratti con l’apparecchio avvitato sul treppiede e con l’aiuto del panno nero, la cosa insospettì. Non mi si disse nulla da prima; quando però mi accinsi a ripetere l’operazione, una turba scalmanata mi circondò, mentre parecchi spilungoni Scillùk, armati di lancia, afferravano solidamente le gambe del treppiede e mi ingiungevano di andarmene. L’episodio, per la sua forma, mi riusciva insolito. Anzitutto dovetti domandarmi se quei ragazzoni non intendessero scherzare: la causa del subbuglio fu nondimeno chiarita presto dalle domande rivoltemi dai più eccitati: si era interpretato il nascondermi sotto il panno nero come uno stratagemma per prendere appunti sugli indigeni e poi costringerli a pagar tasse! Risolsi l’incidente cominciando col liberare, senza parere, l’apparecchio fotografico dalla vite del treppiede tenuto ancora dagli Scillùk. Quando mi sentii padrone dell’oggetto, con mossa decisa lo trassi a me. L’atto suscitò stupore, sì che un silenzio generale successe alle grida di prima: ognuno parve domandarsi quale mai stregoneria mi aveva permesso di tagliare con le dita un pezzo metallico. Approfittai di quello stupore per ridurre la turba a più miti propositi168 .
Alcuni anni prima, nel 1934, Cipriani aveva tessuto le lodi dell’apparecchio fotografico Leica, ritenuto particolarmente adatto all’indagine etno-antropologica in quanto permetteva di fotografare anche i soggetti più restii ad accettarlo, sia per la sua maneggevolezza sia per la possibilità di dotarlo di un obiettivo «a squadra», che rendeva possibile scattare fotografie senza apparentemente inquadrare il soggetto:
Da notarsi è ancora un particolare dal quale può trarre vantaggio soprattutto l’etnografo. Capita spesso a questi di dovere fare fotografie a gente che non lo desidera affatto. L’inconveniente si supera con l’applicazione di un mirino a squadra che permette di guardare in una direzione, mentre la fotografia è presa in un’altra. La vittima non riesce così ad accorgersi nemmeno dell’attenzione che le viene rivolta169 .
L’azione del fotografare è dunque un’imposizione a cui i soggetti, volenti o nolenti, devono sottostare: l’individuo fotografato è un oggetto, anzi esplicitamente una «vittima». Basta sfogliare le pagine della «Difesa della razza» per rendersi conto dei risultati di questo elogio della Leica del 1934.I volti che ci osservano – con le loro espressioni di smarrimento, rassegnazione, stizza, paura e persino disperazione – sono ciò che resta dell’antropologia visuale di Cipriani e del suo «sguardo da lontano».
1 acs, mcp, Gabinetto, b. 121. fasc. «Barduzzi Carlo»: esposto di C. Barduzzi a C. Luciano (s.d. ma agosto 1940).
2 Notizie su questo arredamento anche in g. mughini, A Via della Mercede cit., p. 147.
3 Il secondo numero del «Tevere» vede non a caso in prima pagina una vignetta disegnata da Interlandi: cfr. ivi, 28 dicembre 1924, p. 1.
4 Sulla figura di Amerigo Bartoli, celebre autore del dipinto Gli amici del Caffè (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna), esposto nel 1930 alla XVII Biennale di Venezia e divenuto l’immagine-simbolo del circolo intellettuale del Caffè Aragno, cfr. s. petrillo, Bartoli Natinguerra, Amerigo, in La Pittura in Italia. Il Novecento, I/2 cit., p. 749, con bibl.
5 a. m. [alfredo mezio], Nota alla seconda edizione, in t. interlandi, I nostri amici inglesi, Cremonese, Roma 1936, con quindici tavole disegnate di Amerigo Bartoli, pp. 4-5.
6 Sul percorso intellettuale di Paladini, cfr. g. lista, Dal Futurismo all’Immaginismo. Vinicio Paladini, Edizioni del Cavaliere azzurro, Salerno 1988; id., Arte e politica. Il futurismo di sinistra in Italia, Multhipla Edizioni, Milano 1980.
7 Sull’uso dell’immagine nella «Difesa della razza», cfr. in particolare m.-a. matardbonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei, il Mulino, Bologna 2008,pp. 217228. Essenzialmente descrittivo e superficiale s. servi, Building a Racial State: Images of the Jew in the Illustrated Fascist Magazine, «La Difesa della Razza», 1938-1943, in j. d. zimmerman (a cura di), Jews in Italy under Fascist and Nazi Rule, 1922-1945, Cambridge University Press, Cambridge 2005, pp. 114-57.
8 L’immagine di copertina è riprodotta all’interno del primo numero, con la didascalia «Caricatura di Ebreo, del iii secolo, esistente nel “Rheinisches Landesmuseum”, di Treviri». La serie di terracotte era già apparsa nell’aprile 1937, a illustrare l’importante articolo di t. interlandi, Parliamo di razzismo, in «Quadrivio», V, n. 23, 4 aprile 1937, p. 1, con didascalia «Caricature del iii secolo». La riproduzione delle terracotte si ritrova anche in «La Difesa della razza», III, n. 1, 5 novembre 1939, pp. 30-31; ivi, VI, n. 12, 20 aprile 1943, pp. 19-20; ivi, n. 15, 5 giugno 1943, pp. 16-17.
9 h.-p. kuhnen, i. bardiès, j.-p. legendre e b. schnitzler, Propaganda. Macht. Geschichte. Archäologie an Rhein und Mosel im Dienst des Nationalsozialismus, Schriftenreihe des Rheinischen Landesmuseums Trier, Trier 2002, pp. 135-36.
10 La caricatura è riprodotta in e. gombrich, A cavallo di un manico di scopa. Saggi di teoria dell’arte, Einaudi, Torino 1971, illustrazione n. 113.
11 Concorso permanente per la copertina della Difesa della razza, in «Il Tevere», 12-13 settembre 1938.
12 Per un profilo biografico di Bepi Fabiano, a. madaro, Una vita per l’arte, in l. menegazzi, a. madaro e f. batacchi jr, Bepi Fabiano, Editori Associati, Treviso 1970, pp. 11-33. Sul suo ruolo di artista, f. batacchi junior, Pittura e grafica d’un tempo preciso, Editori Associati, Treviso 1970, pp. 45-67, e id., Bibliografia cronologica fondamentale, ivi, pp. 69-79. Cfr. anche e. c., Fabiano, Bepi, in La Pittura in Italia. Il Novecento, I/2 cit., p. 878.
13 Cfr. copertina «La Difesa della razza», II, n. 7, 5 febbraio 1939.
14 Questionario – Nessun mistico segreto, ivi, n. 22, 20 settembre 1939, p. 34.
15 t. interlandi, Eroica, ivi, n. 1, 5 novembre 1938, p. 7.
16 Copertina «La Difesa della razza», IV, n. 7, 5 febbraio 1941.
17 Questionario – Una copertina, ivi, n. 9, 5 marzo 1941, p. 31.
18 m.-a. matard-bonucci e s. luzzatto, La vetrina della razza, in s. luzzatto e v. de grazia, Dizionario del fascismo cit., p. 4.
19 Ibid.
20 p.-a. taguieff, La forza del pregiudizio cit., p. 200.