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Capitolo sesto
Arte e razza: pittura, musica e architettura
Dodici guardie rosse, guidate inconsapevolmente da Cristo, percorrono la Russia predicando la giustizia rivoluzionaria. Nessuna immagine letteraria sembrerebbe più lontana dai percorsi intellettuali di Telesio Interlandi quanto quella espressa da Aleksandr Blok nei versi dei Dodici, pubblicati nel 1918 sul giornale dei socialisti rivoluzionari «Znamja Truda». Eppure è proprio Interlandi, in collaborazione con G. Bomstein1, a fornire nel 1920 quella che Piero Gobetti giudicherà, sulle pagine di «Ordine Nuovo», la traduzione «più bella» e «più seria» dei canti bolscevichi di Blok2 .
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Se l’odio estetico, ma anche etico, metafisico e persino religioso di Blok nei confronti del bourgeois sembra affascinare il ventisettenne redattore della «Nazione» di Firenze, l’Interlandi del 1924, ormai alla direzione romana del «Tevere», presenta un atteggiamento più sfumato, e sicuramente più ambiguo, nei confronti del modernismo artistico. Il quotidiano ospita, infatti, fin dal 1925, le «prediche» – come le definirà Edoardo Persico – di Ardengo Soffici contro le avanguardie3 e le recensioni antimoderniste in campo musicale di Bruno Barilli. Un collaboratore fisso è poi Vincenzo Cardarelli, passato dall’esperienza della «Ronda» al movimento di strapaese e divenuto principale teorico, in quegli anni, del mito dell’«italianità», sostenuto dalle colonne del «Selvaggio» di Maccari e dell’«Italiano» di Longanesi4. Lo stesso Interlandi ha fondato, insieme allo scrittore di Valguarnera Francesco Lanza, la rivista «Lunario siciliano», una sorta – per dirla con le parole di Sciascia – di «affermazione dello “strapaesismo” siculo, eletto Verga a nume tutelare»5 .
Tuttavia, uno sguardo anche solo superficiale alle firme che popolano «Il Tevere» delinea una dimensione culturalmente aperta, che non disdegna affatto il moderno: dalle «polemiche d’arte» e
250Capitolo sesto dai fotodinamismi di Anton Giulio Bragaglia, corrispondente dalle gallerie parigine6, alle riflessioni di Massimo Bontempelli sulla nascita della rivista «900» e sulla «traducibilità» della cultura italiana in francese7; dalla critica d’arte e letteraria di Corrado Pavolini, fra il 1925 e il 1932, agli interventi del «bolscevico immaginista» Vinicio Paladini sull’architettura razionale8. Senza contare gli esordi giornalistico-letterari di Vitaliano Brancati9, Cesare Zavattini10 ed Ennio Flaiano11. Un discorso simile vale anche per «Quadrivio»: sfogliando le pagine del settimanale, almeno fino al 1934, si incontrano le «visite ad artisti» di Roberto Melli12, i fotomontaggi costruttivisti e surrealisti di Paladini, i disegni e i racconti di Lorenzo Viani. E vi si leggono i dibattiti sulla pittura murale, tra Pier Maria Bardi e Marinetti13, e sull’architettura razionalista, tra Mino Maccari e Mario M. Morandi14, senza contare i ritratti di Ridolfi e Libera, scritti ancora da Paladini15, e la lunga intervista di Bardi a Le Corbusier pubblicata nel settembre 193316 .
L’avversione antimodernista non caratterizza, dunque, fin dagli inizi l’orientamento del milieu giornalistico interlandiano. Per individuare e comprendere le origini della campagna antisemita di Interlandi contro l’arte moderna, che raggiungerà il suo culmine nel 1938-39, bisogna piuttosto risalire a un arco cronologico piuttosto delimitato, compreso fra gli ultimi mesi del 1933 e gli inizi del 1934.
Una svolta che indubbiamente risente delle scelte mussoliniane e del mutamento in senso autarchico e tradizionalista della produzione estetica del regime, ma che nondimeno appare coerente con almeno due leitmotive della nozione interlandiana di fascismo. In primo luogo, la visione totalitaria del rapporto tra fascismo e cultura. Per Interlandi, politica e arte devono essere un tutt’uno:
«Noi consideriamo, anzitutto, la politica come un’arte; – si legge sul “Tevere” nel dicembre 1926, – e poi non trascuriamo alcuna delle attività dello spirito e tutte vorremmo convogliarle a un fine ultimo, che è quello della maggior grandezza della Patria italiana»17. Nel campo della pittura e della scultura, fin dal luglio 1927, «Il Tevere» ospita un ampio dibattito, invocando «un ordine artistico» e suggerendo di porre l’intero settore dell’arte contemporanea sotto la direzione di uno speciale organo «non burocratico», alle dipendenze del ministero dell’Interno o degli Esteri e governato dalla figura di un «dittatore»18. Per quanto riguarda il teatro, per Interlandi bisogna prendere esempio dall’Unione Sovietica –dove «gli artisti sono immersi nell’atmosfera rivoluzionaria e in quella creano» – per trasferire l’«elemento drammatico fascista nella creazione di opere del nostro tempo»19. Allo stesso modo, il direttore del «Tevere» sottolinea a più riprese la necessità di «impadronirsi del cinematografo», così da affiancare ai filmati luce quella propaganda «indiretta», che non è «documentaria, ma interpretativa», e che deve ancora una volta ispirarsi al modello sovietico: «Perfino i bolscevichi, – scrive, infatti, il giornalista, –hanno capito questo: ed è venuto fuori quel famoso “Incrociatore Potemkin” che la censura tedesca ed altre censure politiche hanno dovuto vietare, tanto potente era la forza di suggestione di quei quadri»20. La necessità di una «più stretta aderenza dell’artista al tempo fascista»21 non vuol dire, per Interlandi, sposare «il cattivo gusto» alla «piaggeria più odiosa»22, ma significa tradurre in termini estetici lo «stile» rivoluzionario del fascismo. Più che essere subordinata alla politica, l’estetica si risolve, in sostanza,nella politica:
I dotti non hanno ancora deciso se è l’arte che annunzia le epoche politiche, o se è la politica che influenza l’arte. Bisogna intendersi sul valore della parola politica. Se la politica che si fa non è il solito piccolo giuoco parlamentare, come fino a ieri era in Italia e in Russia, è certo che l’arte non può vivere per suo conto, indifferente e immune23
Ma cultura (e arte) fascista vuol dire anche, per Interlandi, «antieuropeismo»: «Chi dà del Fascismo il senso di negazione della odierna società europea – afferma il giornalista nel 1927 –si spiega e spiega il Fascismo nella sua profonda essenza rivoluzionaria»24. La «peggiore internazionale», quella della cultura, accomuna, nell’intransigenza interlandiana, tanto la civitas humani generis di Croce25 quanto l’Enciclopedia di Gentile26. La «nausea della moda forastiera»27 deve, pertanto, caratterizzare l’arte dell’èra fascista.
Alla luce di questi due aspetti – la visione totalitaria del rapporto arte-politica e l’«antieuropeismo» – la campagna di Interlandi contro l’«ebraizzazione» dell’arte moderna appare meno improvvisa e meno eterodiretta. Una volta identificato l’ebreo con l’intellettuale chiuso nella torre d’avorio e con l’«internazionalista» ed «europeista» per eccellenza, la lotta antiebraica si fonde
252Capitolo sesto con l’accettazione dell’identità «positiva» del regime e con la battaglia per la costruzione dell’«uomo nuovo».
Fin dal 1928 Corrado Pavolini, sulla terza pagina del «Tevere», aveva tuonato contro la «Scuola di Parigi» e, in particolare, contro «l’internazionalismo giudaico-parigino dei De Chirico»28 .
Ma è la sostituzione (nel 1932) di Pavolini, pur sensibile all’arte di Amedeo Modigliani, giudicata «bellissima» e «originalissima»29 , con l’architetto trentaquattrenne di Palermo, Giuseppe Pensabene, a porre le premesse della campagna antimodernista. Quella di Pensabene è una parabola culturale ai limiti del paradosso, in cui l’iniziale collaborazione, tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta, con Pier Maria Bardi30 e con il miar (Movimento Italiano Architettura Razionalista)31, cede il passo, a partire dal 1934, alle invettive nei confronti della progressiva «ebraizzazione» delle avanguardie e della stessa architettura razionalista32 .
Dopo aver esordito nel maggio 1932, sulla terza pagina del «Tevere», con una lettera aperta al ministro dell’Educazione Nazionale in cui definiva il Rapporto sull’architettura (per Mussolini) di Bardi come «il principio d’un indirizzo radicalmente nuovo» e invocava l’organizzazione di un concorso nazionale per la cattedra di architettura della Scuola d’Ingegneria di Palermo, Giuseppe Pensabene si afferma, alcuni mesi dopo, come critico di arte e architettura del quotidiano di Interlandi, curando una rassegna intitolata Libro giallo dell’architettura italiana. Gli otto articoli, pubblicati tra il 16 dicembre 1932 e il 9 gennaio 193333, costituiscono un’interessante ricostruzione, dall’interno, del progressivo affermarsi del razionalismo italiano: dalla nascita dei primi gruppi – a Milano e Torino, soprattutto – alla II Esposizione italiana di architettura razionale del 1931. La posizione di Pensabene è ovviamente tutta a favore di Bardi, punto di coesione intellettuale e organizzativa dei «giovani» razionalisti, e contro Piacentini, portavoce del «passatismo» e della «burocrazia». Secondo l’architetto palermitano, la «lotta per il rinnovamento dell’architettura» ha avuto, in primo luogo, un significato politico, in quanto ha posto fine all’«accademismo» e all’«individualismo atomisti- co», imponendo, per contro, una «nuova concezione dell’Architettura, come arte di Stato»:
Bardi parlò, fin da allora, di una architettura del Fascismo; la quale non poteva che essere razionale, in quanto il razionalismo corrisponde ad una fase della civiltà, ed in quanto l’Italia partecipa originalmente a questa fase, colla vittoriosa affermazione di un nuovo tipo di Stato. Per razionalità si intende rispondenza esatta a nuove funzioni: in cui è l’unica possibilità di espressione34 .
In secondo luogo – scrive Pensabene – il razionalismo ha prodotto una svolta di «valore morale», opponendosi alla dittatura piacentiniana:
Vi era, dunque, la grande immoralità della sottomissione di un’attività spirituale, ad interessi in gran parte di una sola persona; il conseguente abbassamento di livello nelle altre manifestazioni estetiche della nazione, cioè la pittura e la scultura; una ingiusta distribuzione del lavoro, in evidente contrasto con le direttive sindacali del Regime. La lotta impegnata da Bardi abbracciava tutti questi obiettivi e si proponeva col risanamento di una delle zone più infette, di risollevare il morale delle classi professionali in Italia 35
A distanza di un mese dal «libro giallo» di Pensabene, Interlandi interviene nella disputa «sulle colonne e gli archi» (ovvero sull’«italianità» e «romanità» dell’architettura) fra Ojetti e Piacentini36, accusando entrambi di perder di vista l’effettivo fulcro del problema: «Non è, ci pare, questione di archi né di cemento: è questione di costruire sul serio, in armonia con le necessità del paese, le quali – a loro volta – comanderanno, come sempre accadde, una necessità estetica che si chiamerà stile. E sarà il nostro stile, fascista»37. È il primo, energico accenno del direttore del «Tevere» a quell’idea di «unità di stile», sintesi di modernità e di romanità, maturata da Mussolini a partire dalla progettazione, nel 1932, della Città universitaria, e che vedrà protagonista proprio
Piacentini38
Non a caso è proprio l’accusa di «anti-italianità» a sostanziare la posizione del «Tevere» nell’ambito di quel dibattito sulla nuova stazione di Firenze, che, nel febbraio-marzo 1933, divide il mondo dell’architettura italiana39. Non è, infatti, l’impostazione razionalista del progetto del cosiddetto Gruppo Toscano40, uscito vincitore grazie all’appoggio di Piacentini, a motivare le critiche di Pensabene, quanto piuttosto il tentativo – come lo definisce –di «rifare una specie di verginità», in chiave razionalista, al «si-
254Capitolo sesto stema piacentiniano»41, favorendo una soluzione architettonica del tutto dipendente da un modello culturale non italiano, ma tedesco. «Famoso rimasticatore di stili», Piacentini, dopo aver copiato Behrens e Kreis, si appresterebbe ora, grazie alla mediazione di Giuseppe Pagano, a iniziare in Italia «lo sfruttamento della corrente razionalista», plagiando questa volta Mendelsohn, Gropius e Mies Van der Rohe. La conclusione di Pensabene non potrebbe essere più netta:
Nel respingere in pieno il tipo di architettura offertoci dal progetto del Gruppo toscano, noi, ben lungi dall’opporci all’affermazione delle tendenze più moderne, desideriamo che tale affermazione, in Italia, avvenga sul serio; non plagiando frettolosamente come purtroppo è usanza generale (e come, nel nostro caso, abbiamo esaurientemente dimostrato) dalle riviste straniere; ma impostando e risolvendo problemi proprii al nostro ambiente e al nostro clima. O, ciò che è lo stesso, considerando essenziale nell’Architettura, non l’affermazione esteriore di una tendenza, ma il lavoro creativo42 .
Proprio per la sua insistenza sul tema dell’«italianità» dell’architettura, la polemica riguardante la nuova stazione di Firenze deve essere probabilmente considerata come il primo seme della campagna antimodernista del «Tevere». Rievocando quei dibattiti, nel giugno 1933, Pensabene sottolinea, infatti, la necessità di «disintossicare l’arte italiana»: «Il problema dell’arte italiana (l’abbiamo detto più volte, anche in occasione della polemica per la Stazione di Firenze), è un problema di indipendenza. La difficoltà sta tutta nel permanere d’una mentalità servile. Così, è nostro destino di accogliere i fondi di magazzino dell’arte straniera»43 .
L’immagine dell’«intossicazione» dell’arte, provocata dall’«ingestione di elementi estranei» alla nazione, viene ripresa dal critico nell’ottobre 1933, sulle pagine di «Quadrivio»44. La percezione del «dissidio con l’arte straniera» implica, secondo Pensabene, il «disgusto» nei confronti delle «ideologie» e delle «tendenze», ovvero «contro tutti i surrealismi, i suprematismi, i razionalismi, i novecentismi; contro tutta questa roba che si stacca dalla coscienza come una corteccia, che sentiamo ormai irrimediabilmente disseccata»45. Accanto all’«internazionalismo» delle avanguardie, è proprio l’architettura razionalista a essere presa di mira. Il «cubismo» di Le Corbusier e il «funzionalismo» di Gropius appaiono ora come «i limiti di ciò che comunemente s’intende per razionale»46, mentre il concetto di standard viene criticato al pari di un ingenuo tentati-
Arte e razza: pittura, musica e architettura255 vo di fondare la bellezza su un «criterio di applicabilità»47. Poco tempo dopo, recensendo il volume di Carlo Belli, KN, manifesto dell’astrattismo italiano, Pensabene parlerà dell’astrattismo come dell’«immobilità definitiva della morte»48 .
Nell’aprile 1934, Pensabene si scaglia nuovamente contro l’«avanguardia», descritta come «uno dei sintomi della decadenza borghese», come «il prodotto d’una mentalità disgregatrice, analoga a certa tattica bolscevica: imporsi con la prontezza; stordire; disorganizzare»49. Il premio assegnato dall’Accademia d’Italia all’architetto Gio Ponti – direttore di «Domus» e importante organizzatore della Triennale di Milano50 – diviene così il simbolo del «dissolvimento» dell’arte contemporanea, ribattezzato dal critico di «Quadrivio» col termine «pontismo»:
Il «pontismo», il «malipierismo», il «campiglismo» o, se si vuole, anche il «savinismo» (parole di questo genere si potrebbero improvvisare a decine), non sono che piccole incarnazioni del dissolvimento cui oggi è giunta la concezione intellettualistica dell’arte. Il contenuto è così indifferente che si può giocare con esso, e fermarsi in una specie di illusione, che tien l’animo sospeso: sempre in attesa di rivelazioni, che non vengono mai51
La Quadriennale del 193552 – vista da Pensabene come «un grande quadro riassuntivo: più interessante forse come indice che per i suoi apporti effettivi» – costituisce un importante momento di svolta nella critica dell’architetto palermitano. I tempi sono, infatti, maturi, secondo Pensabene, per un «radicale rinnovamento della pittura: nascente da motivi profondi, legati al paese e alla razza». Il problema risiede, tuttavia, nell’assenza di artisti adeguati all’impresa, artisti cioè che posseggano quel «senso religioso della vita» necessario per rappresentare «il possente ritmo del popolo che opera, questo universale risorgere della sua energia, così carica di avvenire». Ed è proprio nel momento in cui si appresta a descrivere il paesaggio di un’arte incapace di riflettere il «lato creativo» del fascismo, che esplode per la prima volta l’antisemitismo di Pensabene:
Perché dipingono? Perché scolpiscono? Si può fare sempre loro questa domanda. È inutile che essi ci rispondano in nome di teorie, di correnti, e di simili oggetti dell’intelligenza: si tratta sempre di cose esteriori che non sostituiranno mai l’interesse immediato e irrazionale che deve suscitare in noi una opera. Verrebbe voglia di prendere in fascio, tutta questa attività e metterla in vendita: in vendita, come avrebbe detto Rimbaud, insieme a tutte le altre cose che ancora i Giudei non hanno vendute53 .
256Capitolo sesto
La polemica si approfondisce nel dicembre 1935, in un articolo intitolato significativamente Disintossicare l’arte italiana. Dopo la Quadriennale, il «collasso di alcune cosiddette tendenze quali il Novecento, l’Astrattismo, il Surrealismo, il Realismo magico»54 finisce per coincidere, secondo Pensabene, con la nuova stagione politica segnata dalla campagna d’Etiopia e dall’autarchia. Se, infatti, sul piano politico, il quindicennio 1919-35 ha visto emergere «una nuova generazione» in grado di formare «la coscienza di quel che deve essere d’ora in poi politicamente l’Italia», nell’«ambiente intellettuale», invece, si è mantenuto un «ossequio incondizionato delle ideologie straniere», che ha condannato l’Italia «non solo all’avvilimento ma anche all’inintelligenza di ogni nostra grande opera»55. Ora, se il 1935 rappresenta un «promontorio», raggiunto il quale la «nave» del fascismo si rafforza in vista della «nuova partenza», quale occasione migliore per liberarsi degli «ultimi pesi morti» e per otturare «le ultime fessure attraverso le quali inavvertitamente era filtrata dell’acqua»?
Il mondo artistico, antinazionale e antifascista, ha ormai chiaramente, per Pensabene, i tratti dell’ebreo. Certi pittori – dichiara il critico palermitano – «non sembrano poter avere altra guida per la loro attività, se non i mercanti ebrei di Parigi, i quali la regolano di quinquennio in quinquennio come un giuoco di burattini»56. D’ora in poi, conclude Pensabene, il «primo requisito» che si dovrà richiedere agli artisti sarà quello di «essere apertamente e inequivocabilmente italiani» e a questa responsabilità saranno chiamati anche i dirigenti delle Esposizioni, i quali già da tempo «avrebbero dovuto opporsi decisamente al dilagare di questo internazionalismo corruttore ed ipocrita, là dove invece sarebbe stato loro compito di mettere in luce le forze vere della nazione»57 .
Pochi mesi dopo, nel febbraio 1936, l’equivalenza fra «internazionalismo» (o «europeismo») dell’arte ed «ebraizzazione»58 diviene esplicita e definitiva: «il razionalismo, il surrealismo, l’astrattismo, la cosiddetta metafisica, il realismo magico – dichiara Pensabene – sono creazioni ebraiche»59. Ed è l’«internazionale ebraica» a minacciare, nell’Italia fascista, il «tipo ideale di uomo, che il Regime, sopra ogni altra cosa, mira a costruire», tentando di sostituire al modello del «cittadino e soldato» quello del «puro intelligente, del clerc»60. Di conseguenza, quella che «fin qui» è stata definita come arte «europeistica», si può «oramai chiamare
Arte e razza: pittura, musica e architettura257 apertamente ebraica: essendosi sviluppata per opera di ebrei e in ambienti ebraici, nelle capitali di quelle nazioni dove era più sentita l’influenza di quel popolo e dove, per il venir meno delle energie creative tradizionali, poteva attecchire meglio la nuova pianta»61. In realtà, «l’europeismo» si rivela ben presto «niente affatto europeo», laddove appare come il semplice tentativo di imporre dall’esterno la «mentalità orientale» dei Semiti, «il loro gusto per il ragionamento o l’immaginazione a vuoto; la loro incapacità a concepire la sostanza come dotata di dimensioni; la loro ripugnanza per la scultura, o per la pittura intesa come plastica; la incapacità in genere per le arti del disegno che non siano rivolte alla pura decorazione in piano»62 .
La condanna della «rappresentazione» e dell’«imitazione», l’«indifferenza» e il «dileggio» verso «realtà serie come la nazione la famiglia e simili», il prevalere di un «dissolvente intellettualismo» sono i principali sintomi della contaminazione ebraica dell’arte. La conseguenza immediata è «il mostruoso capovolgersi del bello nel brutto, del sano nell’insano: e l’arte diventa solo il pretesto della libera comunicazione a larghe masse dei più inconfessabili istinti»63 .
Per quanto riguarda il contesto italiano, gli ebrei dànno «segno di volersi impadronire di alcuni importanti posti di comando» della vita artistica, puntando strumentalmente sulla carta dei «giovani»64: «gruppi organizzati da ebrei, – continua Pensabene, – con proprie gallerie d’arte e giornali, non senza l’appoggio di aristocratici corrotti e di qualche santone, già molto navigato e molto compromesso nella formazione di conventicole letterarie, sembra comincino ad agitarsi, a far massa, e a voler anche prendere la mano ai responsabili ufficiali delle cose artistiche»65. Di fronte a questa situazione, il critico di «Quadrivio» guarda con entusiasmo all’azione di Hitler, il quale «ha fatto una questione politica della eliminazione dell’arte ebraica», ed esalta, per l’Italia, la figura di Ardengo Soffici, «uno dei pochissimi punti di riferimento sicuri per la gioventù artistica italiana»66. Il futuro, per Pensabene, riserva un obiettivo preciso: «separare l’“europeismo” dall’arte italiana», difendersi «all’interno» dagli «stessi nemici […] sgominati all’estero nel campo delle diatribe internazionali»67 .
Chiamato in causa dalle invettive di Pensabene, Massimo Bontempelli rigetta l’argomento antisemita contro le stesse colonne di
«Quadrivio», colpevoli di ospitare un’intera pagina di un «critico ebreo» (Roberto Melli) dedicata all’opera di un «pittore ebreo»
(Corrado Cagli)68. La risposta di Telesio Interlandi è immediata: «il critico, Roberto Melli, è cittadino italiano; e cittadino italiano èCorrado Cagli, il pittore»69. Poche righe dopo, tuttavia, il direttore di «Quadrivio» sembra contraddirsi, definendo di fatto «ebrei» Melli e Cagli e individuando i confini del proprio antisemitismo non nell’azione discriminante nei confronti dei singoli, ma nell’intransigente condanna dell’«opera ebraica»:
Del Melli e del Cagli, come di qualunque altro ebreo, si accettano qui –e si possono pregiare – tutte le attività che non varchino certi limiti, ben chiaramente stabiliti nel mio raziocinio di uomo responsabile. Il mio antisemitismo dichiarato – e, disgraziatamente, confortato da fatti noti a chiunque non abbia la memoria corta quanto la fede fascista – non arriva al pogroom; ma va più in là di Weininger70
Quanto all’episodio contestato da Bontempelli, a Cagli non è spiaciuto l’articolo di Pensabene – una «spiegazione appunto sugli ebrei, sull’ebraismo, e sulle influenze ebraiche nella vita d’un paese» –, mentre «l’articolo del Melli è stato convenientemente amputato, con l’assenso dell’autore…»71. Se esiste, dunque, a Roma un «focolaio ebraico» – è la conclusione di Interlandi – questo risiede in via Frattina 48, sede dell’«Italia Letteraria quinta serie» di Bontempelli, ribattezzata per l’occasione «quinta Italia sionistica», «europeista e filosemita», covo di «giudioli veri o onorarii»72 .
Una settimana dopo, è ancora Pensabene a dichiarare l’esistenza, nell’arte italiana, di una «questione semitica»: una mentalità «estranea», quella ebraica, ha invaso «con intensità crescente, libri, riviste, settimanali, pitture, sculture, architetture, come seguendo un’unica ispirazione»73. Ancora una volta è l’accusa di «internazionalismo» a sostanziare il discorso antisemita di Pensabene, il quale individua nella «mentalità ginevrina» l’elemento più grave della «confusione pericolosa» fra arte «ebraica» e arte «moderna italiana»: «in aperto contrasto con lo spirito della nazione», afferma Pensabene, «gli ebrei e gli internazionalisti» vorrebbero imporre il loro modo di sentire e distruggere «quello che in altro terreno andiamo faticosamente costruendo»74. Di fronte allo «spadroneggiare» degli artisti «ebrei» e «internazionalisti» sulle giurie e sulle esposizioni nazionali, di fronte al rischio che le «energie giovanili» espresse dai Littoriali si infrangano «contro l’equi-
Arte e razza: pittura, musica e architettura259 voco europeista», il rimedio è uno solo: «È giunto il momento di distinguere, e nettamente, anche nel campo dell’arte»75 .
Se, nel campo della pittura, l’influenza dell’«europeismo» è dannosa in quanto minaccia quel «senso plastico» che caratterizza la vera arte «italiana» – dagli antichi Romani a Giotto e Cimabue, fino ai più recenti macchiaioli –, è soprattutto contro l’architettura razionalista che si scatena l’antisemitismo di Pensabene. A segnare l’avvio della polemica è l’articolo Distruzione dell’architettura, pubblicato su «Quadrivio» il 22 marzo 1936. Qui Pensabene rinnega, fin dalle prime battute, il proprio iniziale sostegno al razionalismo:
Non senza qualche sgomento, io che pure vi presi parte, ricordo ora ciò che allora effettivamente avvenne. Nuovo dell’ambiente e colla mente piena della aspettazione di un mutamento – che vedevo necessario – ero, come tanti altri, pronto ad accogliere tutto ciò che di tale mutamento avesse sentore. Non tenevo conto della provenienza; firme per esempio come Levi o Rosenthal per me che giungevo allora da una provincia lontana, non avrebbero avuto significato […]76 .
Attratto in un primo tempo dal carattere innovativo del razionalismo e dalla sua «lotta contro il barocchetto, l’eclettismo, l’accademia», Pensabene confessa di aver «abboccato all’amo» e di essersi accorto tardi dei legami fra la cospirazione ebraica e l’architettura razionalista. Ma «il tempo trascorso e il grave disinganno sono serviti se non altro ad aprire a tutti gli occhi»: i nomi degli architetti razionalisti «non sono più un mistero», ma rappresentano ormai «l’indizio» di un vero e proprio programma di «demolizione» e «corruzione» delle basi intellettuali e morali delle classi dirigenti77. L’architettura razionalista non è dunque arte, per Pensabene, ma soltanto distruzione del «senso del solido, del duraturo, del costrutto»78. «Fenomeno tipico delle grandi città internazionali», il razionalismo è la netta antitesi dei «due principii basilari della vita italiana: promuovere l’artigianato e incoraggiare l’agricoltura»79. Manifestando il «completo assoggettamento dell’architettura alla grande industria», il razionalismo e il funzionalismo rappresentano il dominio della «plutocrazia», la sua «espressione allo stato puro»80 .
Se queste sono le premesse del discorso di Pensabene, non stupiscono i suoi assalti alla Biennale veneziana del 1936 e alla Triennale di Milano dello stesso anno, diretta da Giuseppe Pagano81. La
260Capitolo sesto prima sarebbe la riprova dell’assoggettamento degli organizzatori e dei critici al «tentativo politico», organizzato da «ebrei» e «francesi» e volto alla «snazionalizzazione» dell’autentica arte italiana, quella dei Toma e dei Fattori, dei Ferrazzi e dei Soffici82. E «internazionalismo» ed «ebraismo» caratterizzerebbero anche il Padiglione di architettura della Triennale milanese, ben lontano da quella «monumentalità» hitleriana che Pensabene esalta sulle pagine di «Quadrivio»83. Vestendo i panni di colui che svela il «contagio» ebraico in corso nell’ambito dell’arte, Pensabene punta il dito contro l’«ambiguità della critica» e il «cattivo ordinamento delle Esposizioni»: «Gli organizzatori e i critici hanno […], col loro agnosticismo e col loro liberalismo (che si deve più esattamente chiamare opportunismo) ceduto il campo addirittura agli ebrei – dei quali è ormai arcinota la tendenza alla propaganda internazionale per mezzo dell’arte»84 .
Uno «Stato autoritario, – afferma a chiare lettere Pensabene, – non può permettersi di fare, in arte, una politica liberale». E per questo motivo è inammissibile un programma come quello del Convegno Volta sui Rapporti dell’architettura con le arti figurative 85, il quale vede Piacentini, «il fascista e l’italiano», al fianco di Le Corbusier, «l’internazionalista e il ginevrino», o il «gerarca italiano» Antonio Maraini, Segretario Nazionale delle Belle Arti, al fianco del «pittore francese», Maurice Denis86. La «chiarificazione delle idee succeduta alla Guerra d’Abissinia e alla Guerra di Spagna» dovrà, dunque, condurre, nell’ottica di Pensabene, a un parallelo «isolamento» del «contagio ebraico» nel campo dell’arte. Ma ciò avverrà soltanto a condizione che gli organizzatori e i critici «si sveglino; o se non si svegliano, che siano sostituiti da altri più attivi»87 .
Nel 1937 la musica non cambia. Continuano, infatti, le invettive contro il Bauhaus e il funzionalismo, all’interno della rubrica Il razzismo è all’ordine del giorno,curata su «Quadrivio» da Pensabene e Gasteiner. La «Torre di Einstein» di Mendelsohn diviene, in queste pagine, il simbolo di come, dietro le architetture razionali, si celi in realtà «il volto del Baal», il «Moloch», la «sinagoga»:
Tutte quelle brutte e strane curve; le finestre che somigliano a fauci spalancate (donde il gusto poi diffuso, delle finestre orizzontali); quei buchi simili agli occhi di un drago; e quel non so che di magico e di apocalittico che sorge da tutto l’insieme, e sta tra la sinagoga e il tempio di Baal, tra l’architettura supposta dei Cartaginesi e le torri dei Caldei: questo è tenuto uno dei
Arte e razza: pittura, musica e architettura261 capisaldi dell’architettura «moderna». Anche a non sapere la vera nazionalità di Mendelsohn sarebbe bastato per rivelarla88
Nel luglio, è lo stesso Interlandi a scagliarsi contro l’anti-autarchico razionalismo, invocando, al posto del ferro, il ritorno alle «pietre nostre», «per un motivo economico e per un motivo estetico»89. «Quel che c’è sotto» l’architettura razionalista – dichiara Pensabene nel novembre – è il connubio «Industrialismo ed Ebraismo»: «Ogni individualità nazionale è, per entrambi, un ostacolo. Perciò hanno portato la guerra nel campo della cultura. Perciò hanno inventato una parola a doppio taglio, la parola “moderno”: che, se non bene intesa, può far perdere, a poco a poco, la propria coscienza ai popoli, e sbiadirne la fisionomia»90 .
Toni non diversi vengono indirizzati ai danni della «tradizione moderna» in pittura e in scultura. In un articolo corredato da illustrazioni riprese dal celebre Kunst und Rasse di Paul SchultzeNaumburg (1928)91, in cui si affiancano le riproduzioni di Modigliani e Kokoschka alle fotografie di «guerci, storpi, rachitici, minorati d’ogni genere», Pensabene e Gasteiner utilizzano, a proposito dell’arte «moderna» in generale, la categoria interlandiana di «meticciato intellettuale»: se «il popolo non sente più con gli artisti una identità di sangue», ciò conferma l’esistenza di una sorta di «isola etnica», qualcosa «di appiccicato e di estraneo» alla razza92. Sono le stesse argomentazioni adottate, in quei mesi, nella Germania nazionalsocialista93, e non a caso Pensabene è fra i pochi critici italiani a salutare con entusiasmo la mostra di Monaco sull’«arte degenerata» e a indicare come un vero e proprio «simbolo» l’hitleriana Haus der deutschen Kunst 94 .
Se un elemento di novità esiste nella campagna antisemita condotta da Pensabene nel 1937, esso è da ricercarsi nell’individuazione di due precisi bersagli polemici: da un lato, le gallerie La Cometa di Roma, animata dal pittore Corrado Cagli95, esponente di punta della «scuola romana», e Il Milione di Milano già tempio dell’astrattismo di Carlo Belli96; dall’altro, il gruppo di architetti razionalisti milanesi, riuniti attorno alla rivista «Casa Bella»97. Per quanto riguarda La Cometa, il critico di «Quadrivio» vi scorge chiaramente un «centro di snazionalizzazione, nel campo dell’arte», evocando lo spettro della guerra di Spagna per dimostrare il legame necessario esistente fra espressionismo pittorico e rivoluzione comunista:
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Tutto è legato: Picasso con Freud, Freud con Lamarck. Dalle teorie sull’origine della specie e sul plusvalore, dall’ammissione dell’origine bestiale e delle esigenze bestiali alla sfacciata esaltazione odierna della «matta bestialidade», il processo è rapido e conseguente. Niente di strano ch’esso si traduca prima di tutto in pittura. Ciò che ora si vede in immagine, dovrà, prima o poi, trasformarsi in realtà. Quei ceffi mostruosi, quelle braccia deformi, quei torsi contorti, usciranno un giorno dai quadri, cammineranno per le strade. Otto anni fa mandavano in estasi un pubblico d’imbecilli nei saloni d’arte dell’Esposizione di Barcellona; oggi, scesi dalle tele, e diventati bruti in carne ed ossa, fucilano a migliaia quegli stessi imbecilli98 .
Sulle colonne del «Tevere», corredate dalla riproduzione di un dipinto di Guttuso citato come esempio dei «giovani deviati dagli Ebrei», Pensabene torna ad attaccare la «politica internazionale» rappresentata dalle mostre parigine e newyorchesi della Cometa e del Milione, invocando, per l’ennesima volta, «una chiara e netta politica nazionale dell’arte»99. Contro la personale di De Chirico alla Cometa e contro le antologie della pittura italiana curate dalla succursale della galleria a New York, il critico interlandiano ha, nel dicembre 1937, parole di fuoco: dei ventisette artisti in mostra nella metropoli americana, «sette sono di ebrei e di imparentati con ebrei, tre di appartenenti alla Scuola di Parigi, due di persone che hanno diffamato all’Estero gravemente l’Italia, ed uno infine, condannato di recente dal Tribunale Speciale. Il resto, salvo poche eccezioni, di ebraizzanti e di seguaci dell’arte internazionale»100 .
Per descrivere il Padiglione italiano all’Esposizione Universale di Parigi del 1937, Pensabene si spinge fino a scomodare il piano cospiratorio illustrato dai Protocolli dei Savi Anziani di Sion, documento ristampato in quello stesso anno da Giovanni Preziosi, con una nuova introduzione di Julius Evola101. La «grossa infamia di Parigi», per la quale non si risparmia l’accusa di «alto tradimento», è ovviamente dovuta alla presenza del pittore «ebreo» Corrado Cagli e dell’architetto razionalista Giuseppe Pagano102, «propagatore d’architettura internazionalistica» e membro di «un gruppo di architetti notoriamente ebrei»103 .
Come se Parigi non bastasse, l’«ebreo» Cagli e il gruppo della Cometa sono anche invitati alla Biennale veneziana del 1938. Per Pensabene, neanche a dirlo, è «il trionfo, al disopra di ogni criterio di giustizia, di qualità intrinseca, di difesa dei valori nazionali, dell’unico gruppo organizzato elettoralmente che vi sia nella Capitale», un «gruppo ebraizzante, capeggiato da un ebreo»104 .
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Quanto agli architetti razionalisti della rivista «Casa Bella», guidati da Giuseppe Pagano, Pensabene rinnova ovviamente l’accusa di «internazionalismo»: «Le idee dell’ebreo Mendelsohn e dei comunisti May e Gropius, al pari di quelle del ginevrino Le Corbusier, è chiaro che non debbono riguardare l’Italia. Le forme da loro ideate, affinché valgano per tutte le Nazioni, non debbono appunto per questo valere per la nostra». A ciò si aggiunge poi la condotta anti-autarchica, di cui il razionalismo sarebbe colpevole per il suo eccessivo impiego del ferro e del cemento armato: «Avete preso una cotta per le ossature in ferro; basta solo guardare i passati numeri di Casa Bella; ora continuate a prenderla per quelle in cemento armato; come se queste non portassero pure un grande consumo di ferro, che è contro l’interesse della nazione»105
Con il 1938, tali argomentazioni s’innestano, nel discorso di Pensabene, all’interno di un quadro interpretativo più generale, che vede nella «de-ebraizzazione» della cultura una tappa fondamentale della «vittoria» fascista contro i «germi distruttivi» ancora presenti in Italia. In una serie di articoli pubblicati su «Quadrivio», il critico siciliano collega il compimento della «rivoluzione» fascista alla rifondazione dell’intera cultura nazionale sulla «base solida» della «coscienza di razza»: i dirigenti che non rispecchiano il «linguaggio» e il «gusto» del popolo, comportandosi come «una minoranza d’altro sangue», difficilmente potrebbero, infatti, ottenere il consenso necessario per governare106 .
Sulla terza pagina del «Tevere», nello stesso periodo, Pensabene ripercorre i momenti e le modalità con cui la «piovra ebraica» ha allungato i suoi tentacoli sulle arti figurative italiane107. Il «primo colpo» è stato dato nella Quadriennale romana del 1931, «impostata in modo da stabilire ufficialmente due fatti: primo, che l’europeismo internazionalista è l’arte dell’Italia rinnovata. Secondo, che i “giovani” in Italia sono gli Ebrei»108. Con la figura di Carrà, «non ebreo di nazione ma ebraizzante di animo», fa il suo ingresso nell’arte italiana il «partito dei “giovani ebrei”». Segue quindi, sempre nel 1931-32, l’«attacco all’architettura», operato dal «gruppo ebraizzante» dei razionalisti milanesi: la polemica per «l’architettura vivente» apre le porte all’architettura «internazionalistica, cosiddetta “razionale”, inventata dagli israeliti May e Mendelsohn, e dai comunisti Gropius e Le Corbusier»109 .
Il secondo colpo coincide con la Quadriennale del 1935, che celebra Severini e la «Scuola di Parigi», nello stesso momento in cui lancia la figura dell’«ebreo» Cagli e della «Scuola di Roma», sostenuta dal celebre critico d’arte francese, di origine polacca, Waldemar George, definito da Pensabene un «ebreo internazionale». Imposti «da Parigi», Cagli e il «gruppo della Cometa» trasformano ben presto la capitale nel «punto di raccolta di tutti gli artisti ebraizzanti e internazionalisti della penisola»110 .
Nel cospirazionismo antisemita di Pensabene, la Biennale di Venezia del 1938 appare evidentemente come l’ultimo atto della penetrazione ebraica nel sistema dell’arte italiano. Nel maggio 1938, infatti, il critico siciliano polemizza contro gli affreschi del vestibolo, opera di Cagli e di Campigli, «ambedue di razza ebraica»: «qualcosa di troppo visibile per non essere nocivo». Un mese dopo, «Il Tevere» pubblica la fotografia dell’«ebreo» Jacob Epstein accanto a una sua scultura esposta alla Biennale, dileggiandolo e prendendosela al tempo stesso con Cipriano Efisio Oppo, organizzatore della Quadriennale di Roma, colpevole di aver definito quella di Epstein, sulle pagine della «Tribuna», come «una bella mostra di scultura»111. Nel descrivere il Padiglione inglese a Venezia, Pensabene individua nel «sangue» della «razza» di Epstein l’origine della sua tendenza al «mostruoso»: «una piccola testa staccata, sembra infatti un frammento di feto, sul tavolo anatomico. […] Si direbbe che il sangue o l’influsso di questa razza impedisca di accostarsi alla natura, di sentirvi ciò che è vivente»112 .
Ben altra sensazione di «ordine» e di «vita» proviene, invece, da quella «ventata risanatrice del costume» che pervade il Padiglione monumentale nazista alla Biennale veneziana113. Un preciso monito nei confronti della situazione italiana, rispetto alla quale il critico siciliano interviene, su «Quadrivio», denunciando ancora una volta le gallerie «ebraizzate» presenti a Venezia e dipingendo il ritratto di un Maraini del tutto succube dei giudizi dell’«ebreo»
Emilio Zanzi, critico della «Gazzetta del Popolo»:
Comprendo la perplessità di Maraini: bisogna aver frequentato gruppi e galleriette d’arte, bisogna aver conosciuto a fondo la Cometa, il Milione, la Galleria Mediterranea e il gruppo del pittore Levi, a Torino, bisogna essere entrati nei ghetti artistici, aperti o chiusi, sordidi o lussuosi, per capire la suggestione, il terrore, la potenza di quella parola. L’ha lodato Zanzi e allora va bene; l’ha stroncato Zanzi, allora la fine è sicura. Nessuno, in questo campo, può avere
Arte e razza: pittura, musica e architettura265 speranza di avvenire senza il critico ebreo della Gazzetta del Popolo. […] Si comprende dunque la preoccupazione di Maraini. Perciò, con la scelta di Cinquanta ha impostato la pittura quasi interamente alla francese: perciò sopra un numero esiguo di artisti invitati almeno sei sono di razza ebraica (Campigli, Cagli, Innocenti, Rivalta, Carpi, Brass) e altri dieci imparentati con ebrei: perciò all’ingresso della Biennale le due grandi figure della Pittura e della Musica sono state dipinte (nel bel modo che tutti sanno) da ebrei […]114
E alle proteste di Zanzi e Brass, che rivendicano per contro la propria cattolicità, Interlandi risponde precisando che a essere in questione non è il credo religioso, ma «l’incompatibilità di razza», da cui «nascono le necessarie precisazioni che agli ebrei d’Italia spesso dispiacciono, ma che contribuiscono potentemente alla netta impostazione del problema ebraico e alla sua fatale soluzione»115 .
Tra il luglio e il novembre 1938, la campagna di «Quadrivio» e del «Tevere» contro l’arte moderna conosce un’escalation dilagante. A segnare l’intensificazione parossistica della polemica è un editoriale di Interlandi, pubblicato sulla prima pagina del «Tevere» del 21-22 luglio 1938, nel quale la non appartenenza degli ebrei alla «razza italiana», sancita nel Manifesto del 14 luglio, viene esplicitamente interpretata non solo in termini biologici, ma anche dal punto di vista culturale:
Quanto la nostra cultura si sia ebraizzata, per opera del controllo ebraico, sarà studiato altra volta; si può dire senza tema di smentita che il distacco dalle tradizioni del genio particolare dell’Italia, l’adesione a forme e mode di cultura europeistica, l’abbandono d’ogni contatto con le radici popolari dell’arte, le scandalose affermazioni d’un’arte senza caratteri nazionali – musica, pittura, e architettura – sono il velenoso frutto dell’influenza ebraica sulla vita intellettuale italiana. La insurrezione continua, ostinata e violenta di questo giornale contro gli internazionalismi artistici, non rispondeva che alla necessità di contenere prima e distruggere poi l’inquinamento giudaico della nostra intelligenza116
L’analogia fra «internazionalismo» e «inquinamento giudaico» non è certo nuova. Inedita è invece l’insistenza sul concetto di «ebraizzazione»: «la cultura italiana, – afferma perentoriamente Interlandi, – è fortemente ebraizzata; bisogna disintossicarla».
Al di là dei singoli artisti «ebrei»,, è ora l’intera arte moderna ad essere denunciata in quanto arte «ebraizzata». Per Pensabene si tratta, in realtà, di un discorso già colladauto da tempo. L’introduzione del razzismo di stato viene accolta, infatti, dal critico siciliano come la tanto attesa conferma della veridicità delle proprie posi-
266Capitolo sesto zioni. La «questione della razza» – scrive Pensabene – dovrà inevitabilmente condurre ad un riallineamento dell’arte e della cultura nel senso del «realismo»: «Vedendo negli istinti del nostro popolo la sola fonte dalla quale per noi l’arte e la letteratura possono nascere, queste si riconoscono, come un fiume che ritrova il suo corso. Tanto più che i nostri istinti, come il passato dimostra, sono soprattutto improntati ad un realismo, che è la più alta condizione»117 .
La denuncia dell’«imbastardimento dell’arte» non conosce, dunque, soste. Sul «Tevere», in agosto, il critico attacca l’esposizione romana alla Galleria d’Arte Moderna presso Valle Giulia, espressione di «ebraismo, pariginismo, fumismo»:
Chi sarebbero insomma i rappresentanti massimi della pittura «italiana» negli ultimi quindici anni? Nessun altro che quelli della «Scuola di Parigi». I più sfatati e ultragiudicati campioni dell’internazionalismo pittorico, Campigli, De Chirico, Severini, De Pisis; il primo ebreo d’origine tedesca, il secondo levantino e vissuto sempre a Parigi, il terzo vissuto per oltre trent’anni a Parigi e francesizzato fino ai capelli, il quarto… Ma bisogna vedere le opere: tutto meno che il tentativo non dico di ispirarsi, ma neppure di pensare all’Italia118
La «disinfezione ebraica» alimentata dalle leggi razziali non è ancora sufficiente a soddisfare l’antisemitismo di Pensabene. Ciò che conta ora è combattere l’«ebraizzazione», estendendo le misure persecutorie anche alla «cultura borghese» ed «ebraizzata» dei «critici» e degli «organizzatori» delle grandi esposizioni119. Il nuovo bersaglio del critico siciliano diviene ora il «vice-ebreo», l’«ebreo nascosto», l’«ebraizzato». Se l’obiettivo finale, infatti, è «distruggere l’internazionalismo», non basta «eliminare gli ebrei»: occorre «scardinare» la «mentalità ebraica». È questo l’auspicio di Pensabene in vista della Quadriennale del 1939: «A febbraio si inaugurerà la Quadriennale. Ne saranno esclusi, forse, alcuni Ebrei. Ma si può contare che, nel tono della Mostra, qualcosa appaia cambiato? Che al posto di ogni Ebreo non figuri il suo vice? Che l’ebraizzato, anche se ariano, non vi continui le sorti dell’arte ebraica?»120 .
Anche la nuova campagna contro l’architettura razionalista, avviata da «Quadrivio» nell’ottobre 1938, affonda le sue radici nel concetto di «ebraizzazione». Destinataria degli strali di Pensabene è adesso la rivista «Domus», «borghese» e «filoebraica». «Snazionalizzazione», «ebraizzazione nell’ambiente della famiglia» e propaganda anti-autarchica, legata all’uso del ferro e del cemento
Arte e razza: pittura, musica e architettura267 armato, sono i capi d’accusa che giustificano l’aut-aut posto dal critico siciliano alla rivista: «o viene costretta a liberarsi dei suoi collaboratori, ebrei ed ebraizzati, e, soprattutto, a cambiare radicalmente indirizzo, o, se questo non fosse per il momento realizzabile, si crei un’altra rivista»121. Alle proteste di Mazzocchi, direttore di «Domus», intese a precisare che «nessuno dei componenti la sua direzione, amministrazione e redazione è ebreo», Pensabene risponde insistendo sul problema dell’«ebraizzazione» e fornendo un confuso elenco di «ebrei» ed «ebraizzati»:
Le osservazioni che, nel nostro precedente articolo, abbiamo fatte a Domus erano le seguenti:
1)Che, malgrado la posizione presa dal Regime rispetto all’Ebraismo, ha continuato a pubblicare articoli di Ebrei.
2)Che nel numero di settembre, uno di questi articoli, a firma Carlo Levi, messo al posto d’onore della Rivista, si distingueva per le tesi surrealiste tipicamente ebraiche, a proposito della casa.
3)Che questo surrealismo, diffuso dagli Ebrei, e che nasconde tutte le forme peggiori della decadenza borghese, è, da parecchi anni, la nota dominante di Domus
4)Che, da parecchi mesi, anche all’infuori dell’arredamento, Domus pubblica corsivi editoriali e passi di scrittori, soprattutto stranieri, che affermano l’inesistenza d’una questione ebraica.
5)Che dopo i decreti sull’autarchia e la limitazione dell’impiego del ferro Domus non ha esitato, in nome dell’architettura internazionale, ad opporsi con polemiche a tali decreti. […]
Quanto ai redattori, ammesso che non siano Ebrei, sono certamente ebraizzati, come dimostra ad usura il tono della Rivista. Ma vi sono i collaboratori: i quali, non solo sono spesso Ebrei ed ebraizzati italiani, come il Levi sopracitato, Rogers, Banfi, Bertocchi e così via, ma stranieri come Neutra, che è comparso parecchie volte quest’anno, o Rudofsky, uno dei più corrosivi ed esaltati.
Anche nelle rubriche speciali come «Libri da rileggere» si propongono continuamente autori ebrei ed ebraizzati: per esempio, nel solo numero di marzo: Gli indifferenti di Moravia, Nuova York di Dos Passos, Berlin Alexander-Platz di Doeblin, Adesso, pover’uomo di Fallada, Il medico Gion di Carossa. Nelle rubriche di pittura non si parla che di Campigli, di Cagli, di De Chirico, di Severini122
Lo stesso discorso vale ovviamente per l’altra celebre rivista del razionalismo italiano, «Casa Bella», i cui «principii» appaiono a Pensabene «nettamente contrari sia all’autarchia, sia alla razza». E anche in questo caso l’alternativa proposta ha i contorni del ricatto politico: o «si costringe Casa Bella a cambiare redatto-
268Capitolo sesto ri, collaboratori, e soprattutto direttive», o si affida ad «Architettura», rivista del Sindacato Nazionale Architetti diretta da Marcello Piacentini, il compito «di indicare il tipo della casa adatta agli Italiani»123 .
In questo stesso periodo, il razzismo e l’antisemitismo di Pensabene trovano una nuova cassa di risonanza nelle pagine della «Difesa della razza». Nel quindicinale interlandiano, l’argomento dell’«ebraizzazione» dell’arte moderna ha conosciuto un esordio in sordina nel numero del 5 settembre, con un articolo del critico musicale Francesco Scardaoni, corredato da illustrazioni tratte dal catalogo della mostra nazista sull’«arte degenerata» tenutasi a Monaco nel 1937: si tratta, nello specifico, di opere di Klee e Hoffmann, paragonate – come recitano le didascalie – alle produzioni di «uno schizofrenico ricoverato in un manicomio» e di un «pazzo incurabile ricoverato nella clinica psichiatrica di Heidelberg»124. A distanza di un mese, il 5 ottobre, un articolo firmato dal pittore Giuseppe Cesetti affronta di petto il binomio «arte e razza». «Universale» in quanto espressione dei «caratteri perfetti d’una terra e di un popolo», l’arte italiana – quella di Giotto, ma anche quella di Segantini e di Piccio – si contrappone, secondo Cesetti, all’«internazionalismo» francese, sinonimo di «ebraismo»: «Poi il pericolo più serio: l’ebreo. Essa sa ciò che vuole e giuoca col tutto come il gatto col topo, l’ebreo mercante dello spirito allo stesso modo come lo è con l’oro, conosce l’arte e sa a che cosa serve, ed ecco perché ne tenta la distruzione. Esso predilige quella senza patria, cioè quella internazionale»125 .
Pensabene interviene sull’argomento soltanto nel numero successivo, quello del 20 ottobre, in un articolo dal titolo Arte nostra e deformazione ebraica, i cui contenuti sono in realtà già anticipati dalle illustrazioni: la «Genesi» di Epstein, precedentemente pubblicata sul «Tevere»; un dipinto del «giudeo» Otto Dix, campione di «disfattismo»126; un fotomontaggio di «opere di pittori tedeschi ebrei ed ebraizzati», appartenenti al Novembergruppe espressionista. Citando strumentalmente L’arte di edificare di Leon Battista Alberti e i Dialoghi michelangioleschi di Francesco d’Olanda, Pensabene inserisce le sue ben note critiche al Novecento pittorico italiano e al razionalismo architettonico all’interno di un quadro concettuale che risolve la complessità di secoli di storia dell’arte in una rigida dicotomia: da un lato, l’«oggettività plastica», che ca-
Arte e razza: pittura, musica e architettura269 ratterizzerebbe la migliore produzione artistica, da Pompei a Piero della Francesca e Masaccio, a Michelangelo; dall’altro lato, la «soggettività», alla base invece di degenerazioni artistiche, quali l’impressionismo, l’espressionismo, il cubismo, e via discorrendo127 . Alle obiezioni di un «laureando in architettura», che scrive alla redazione della «Difesa della razza» esprimendo le sue perplessità circa l’assimilazione fra razionalismo ed ebraismo, Pensabene reagisce duramente, «facendo i nomi»:
Essi cominciarono ad agire dal basso, alla chetichella, operando sui loro coetanei studenti. Chi ignora, per esempio, il nome di Faludi, d’origine ungherese, divenuto in pochi anni, per mezzo del razionalismo, uno dei più grossi accaparratori di affari architettonici a Milano; di Levi Montalcini a Torino, di Rogers, teorico fanatico, ed uno dei coriferi della rivista «Casa Bella»? Insieme a costoro si unirono altri o che si erano formati all’estero soprattutto negli ambienti della Svizzera o della Germania prehitleriana, come Sartoris, Pagano-Pogatschnig, ecc. o che nella stessa Milano, aveva subito l’influsso dei paesi vicini alla frontiera, soprattutto attraverso le riviste128 .
Sono le solite invettive. Ciò che conta è che vengano pubblicate il 20 novembre 1938, includendo dunque anche «La Difesa della razza» nella campagna per la «bonifica dell’arte» avviata da Interlandi, in quegli stessi giorni, sulle colonne del «Tevere» e di «Quadrivio».
Nel novembre 1933, sulla prima pagina di «Quadrivio», Alfredo Casella liquida come «sciocchezze» le tesi di quanti affermano, polemizzando contro la musica contemporanea, che «la musica melodrammatica dell’Ottocento e persino quella verista ebbero, e tuttora hanno, ben maggiore popolarità ed universale suffragio»129 .
Pochi mesi dopo, nel febbraio 1934, il settimanale interlandiano celebra la figura del compositore, dedicandogli due intere pagine nell’ambito di una rassegna di «ritratti critici dei più rappresentativi scrittori e artisti italiani»130. Nulla fa ancora presagire che, di lì a qualche anno, Interlandi intenda avviare un’offensiva contro la «musica internazionale ebraica».
È nel 1937, infatti, che la campagna131 ha inizio, sulle colonne del «Tevere», con un articolo dal titolo Gli ebrei e la musica in Ita-
270Capitolo sesto lia, firmato dal compositore Francesco Santoliquido132. L’argomentazione principale del discorso di Santoliquido è chiara: esiste in Italia, nel campo del teatro lirico, una tradizione verdiana che incarna gli orientamenti estetici del «sano e autentico popolo italiano» e della sua sensibilità cattolica. Il «mortale bacillo» della «musica internazionale ebraica» ha intossicato e falsificato la musica italiana – identificata nel «bel canto», nell’«ispirazione latina» e nel lirismo dell’«anima mediterranea» – introducendovi una «malsana atmosfera» di «snobismo» e di «vuoto e freddo cerebralismo»133. Facendosi portavoce della massa a cui «piacciono i grandi capolavori immortali» e di un «popolo intelligente e sensibile», accortosi per tempo di esser stato «fuorviato e mistificato», Santoliquido invoca quindi il ritorno al «teatro lirico proletario» contro la «propaganda antinazionale» della «setta musicale internazionalista»:
Prima di concludere non si può fare a meno di formulare alcuni voti:
1)Che la nostra musica e soprattutto il nostro teatro lirico siano salvaguardati e protetti dall’opera snazionalizzatrice e internazionalizzatrice della propaganda ebraica.
2)Che nei posti di comando siano messi soltanto quei musicisti i quali diano sicuro affidamento del più completo eclettismo e della più assoluta imparzialità
3)Che non sia più lecito in Italia far questione d’indirizzo artistico o di stile, ogni compositore ritenendosi libero di seguire il suo temperamento e di dare pieno sfogo al suo estro melodico, senza per questo dover temere di essere escluso o condannato dai partigiani di una qualche fanatica congrega o setta musicale internazionalista134 .
Nel ventaglio delle sue accuse, Santoliquido fa riferimento alla figura di un «falso profeta», venuto a Roma da una «capitale straniera», col «sublime proposito di liberare il popolo italiano dalla tradizione verdiana ed iniziarlo al nuovissimo vangelo della musica internazionale ebraica».
Nell’articolo successivo, pubblicato sempre sul «Tevere» il 14 dicembre 1937, il «falso profeta» ha un nome: si tratta del maestro Alfredo Casella. Non è la prima volta che il celebre compositore si trova costretto a respingere l’accusa di essere «ebreo». Nel 1935, Casella aveva infatti scritto direttamente a Joseph Goebbels per protestare contro il boicottaggio della sua musica in Germania:
Da varie parti ho appreso che parecchi teatri tedeschi hanno rifiutato di prendere in considerazione per la prossima stagione i miei lavori teatra-
Arte e razza: pittura, musica e architettura271 li, pretestando che io sarei ebreo. Debbo dire che questa affermazione contro la mia persona non è nuova: due anni fa, pochi giorni prima dell’andata in scena al «National Theater» della mia opera La donna serpente, venne sparsa da vari giornali la medesima menzogna, in modo da rendere necessaria a mia difesa una energica smentita del nostro Regio Ambasciatore a Berlino S.E. Cerruti. Credevo quindi che quell’intervento del nostro rappresentante diplomatico avrebbe impedito ogni ulteriore tentativo di alterare la verità ai miei danni, ma purtroppo così non è stato. Mi vedo quindi costretto a chiedere al nostro Sottosegretario per la Stampa e la Propaganda di voler prendere le misure che riterrà più opportune a mio favore135 .
Nel chiedere l’intervento ufficiale di Goebbels, Casella aveva rivendicato la sua appartenenza ad «una antichissima famiglia di purissima razza italiana», dove il «cristianesimo fu sempre la unica religione di casa», ricordando la discendenza da un illustre antenato, «amico e maestro di Dante», celebrato nel secondo canto del Purgatorio.
Nel 1937, «Il Tevere» riprende, pertanto, le medesime accuse mosse a Casella nella Germania nazista fin dal 1933. Santoliquido descrive, infatti, il musicista come il capofila in Italia di una cospirazione internazionale organizzata, a Parigi, da Henri Prunières e da Emil Herzcka:
Mi par di vedere, alla stazione di Parigi, l’ultimo commovente abbraccio tra Alfredo Casella e Henri Prunières, il quale, a quei tempi, era il Pontefice Massimo della nuovissima chiesa musicale ebraica internazionale. Egli ha allora certamente raccomandato al Casella di essere inesorabile, di pugnalare senza pietà, l’esecrato Giuseppe Verdi, di distruggere, il romanticismo, il lirismo, il sentimento (tutte orribili prerogative dell’anima cattolica italiana) e inocularvi invece il cerebralismo, il materialismo ed il cinismo, doti queste che fanno la forza e la superiorità dell’anima (?) ebraica136 .
L’immaginario cospirazionista di Santoliquido trova la sua sintesi nella metafora della «piovra musicale ebraica», la quale si impadronirebbe dei «mercati mondiali», mobilitando in tutto il mondo migliaia di ebrei al fine di riempire le sale in occasione dei concerti di musicisti «israeliti». In questo modo, gli ebrei – afferma
Santoliquido – hanno trasformato in «moda» la loro «insensibilità» musicale, «pugnalando» Claude Debussy in Francia, Richard Strauss in Germania e Giuseppe Verdi in Italia.
Si deve dunque condannare in blocco tutto ciò che proviene dai «grandi musicisti israeliti»? In realtà, la soluzione proposta da Santoliquido è un’altra e si può riassumere nel motto: a ciascun
272Capitolo sesto popolo, la sua musica. Gli apprezzamenti nei confronti di Strawinskij, Honegger, Bloch e Schönberg non vanno pertanto intesi come un’apertura ai rispettivi «imitatori» italiani («Alfredo Casella e compagni»), produttori di «una musica senza patria», che attenta al clima nazionale autarchico e alla «fisionomia spirituale» del popolo: «Noi ammiriamo lo Strawinsky di L’Uccello di fuoco e della Petrouska, come ammiriamo l’Honneger del Roi David e il Bloch dello Schelomo nonché lo Schönberg di Gurrelieder. Ma siamo fermamente decisi a combattere gl’imitatori italiani di quest’arte esotica, che non è fatta per il nostro popolo»137 .
Di fronte agli attacchi del «Tevere», il 23 dicembre 1937, Casella si appella direttamente a Mussolini. Il «dramma» che coinvolge la vita artistica italiana – afferma il compositore in una lunga lettera – coincide con la sua scissione in due campi contrapposti: da una parte, coloro – la «maggioranza» – che vorrebbero racchiudere l’arte «in una specie di chimerica, impensabile “autarchia” (confondendo così l’intuizione lirica colle materie prime), la quale perpetuerebbe in certo qual modo non la vera secolare tradizione nazionale, ma soprattutto la mediocrità dell’ultimo Ottocento»; dall’altra, invece, coloro – la «minoranza» – che cercano di creare «un’arte la quale compendi in una nuova sintesi, i caratteri di quella italianissima tradizione e le nuove ricchezze sonore della contemporaneità, mirando così ad inserire questa nuova arte nel vasto quadro generale del movimento artistico europeo attuale […]»138. Richiamando l’«altissimo esempio di rispetto della libertà creatrice» fornito dal fascismo «negli ultimi quindici anni», Casella invoca l’intervento di Mussolini perché cessi la campagna di stampa:
Ella rappresenta per noi tutti il supremo modello dell’intelligenza e della chiarezza mediterranee. Ed un Suo lapidario richiamo all’ordine, una Sua direttiva basterebbe a ridare la «normalità» alla nostra vita musicale oggi così intorbidita ed intossicata e ad evitare forse agli artisti della mia generazione, che tanto duramente hanno combattuto per l’avvenire dell’arte italiana, il supremo dolore di dovere chiudere gli occhi nel pensiero di aver speso invano una intera vita di fede e di azione139 ad arrivare. Nei primi mesi del 1938, le invettive di Santoliquido si ripetono, sempre con il medesimo schema cospirazionista: ebraismo e sovversivismo si identificano e il Sacre du prin-
Arte e razza: pittura, musica e architettura273 temps di Stravinskij è il «poema annunciatore della rivoluzione russa»140; il motto mussoliniano dell’«andare verso il popolo» deve essere applicato contro «le macchinazioni di un gruppo di Ebrei e simpatizzanti del movimento musicale pan-ebraico»141. Le ricette proposte dal compositore di San Giorgio a Cremano sono sempre le stesse: creare «un’invincibile corrente di opinione pubblica in difesa della musica italiana, intesa come espressione di popolo e di razza»; ridestare la «coscienza nazionale» dei musicisti italiani, assopita dalla «propaganda ebraica»; attirare i giovani, «distaccandoli dalla nefasta moda ebraico-internazionale che li allontana fatalmente dal popolo»142. Ad allargarsi è lo spettro dei «musicisti ebrei» sotto accusa, che coinvolge ora, oltre a Casella, anche Malipiero e Petrassi:
Le musiche di Casella, Malipiero, Petrassi, ecc. – scrive Santoliquido –devono essere condannate (e lo sono già dal popolo) non solo perché frutto dello snobismo e del cerebralismo ebraico-internazionale e quindi assolutamente contrarie allo spirito della nostra razza, ma anche perché fondate sopra un sistema di armonizzazione illogico e barbaro, esse distruggono la sensibilità musicale latina del nostro pubblico143
Musica «popolare», «teatri di massa», «melodia, ispirazione, lirismo, emozione»: è quanto invoca Santoliquido contro «gli snob e i cerebrali ebraizzanti». La campagna si chiude, per esplicita ammissione redazionale, soltanto nell’aprile 1938, con un articolo che esalta la figura di Francesco Cilea, «grande musicista inequivocabilmente italiano»144 .
Quando, nel luglio-agosto 1938, la polemica si riaccende, ad ospitarla sono le pagine del «Giornale d’Italia». In un articolo, dal titolo Difendiamo l’anima musicale del popolo italiano, Santoliquido giunge a etichettare come «ebrei» anche Ravel e Honegger, mentre Stravinskij risentirebbe «della educazione e dello spirito ebraico»: il suo Sacre du printemps è, infatti, «lo squillo di tromba che ha annunziato l’ora della resurrezione ebraica»145. A distanza di una settimana, «Il Giornale d’Italia» pubblica una lettera di Alfredo Casella, il quale interviene parlando esplicitamente di «grossolana falsificazione» della storia e rivendicando «la ammirazione dell’intero mondo» nei confronti della musica contemporanea tanto italiana quanto straniera:
[…] Il S. [Santoliquido] scrive nuovamente che Ravel e Honegger sono musicisti ebraici e lo insinua persino per Strawinski. Ora, è bene che si sap- pia una volta per sempre – e senza possibilità di smentita – che nessuno dei tre compositori appartiene alla razza ebraica. La famiglia di Ravel era di discendenza basca e di purissima fede cattolica. Honegger proviene da una vecchia famiglia protestante svizzera. E quanto a Strawinski, che è legato a lui da lunga amicizia personale, può testimoniare tranquillamente che tutti i suoi ascendenti erano della medesima fede sua, vale a dire greca ortodossa (il padre Strawinski cantava all’Opera Imperiale di Pietroburgo, e tutti sanno che nessun israelita poteva entrare in un teatro zarista russo).
È bene approfittare della occasione per dire chiaramente che sono puri ariani e tutti di fede cristiana i seguenti musicisti: Prokofief, Schostakovitch, Markevitch, Bartok, Kodaly, De Falla, Schmitt, Poulenc, Alban Berg, Szymanowski, vale a dire quasi tutti i maggiori nomi che comandano oggi alla musica europea. I soli compositori ebrei di fama universale rimangono quindi Milhaud, Bloch e Schönberg146
Ma l’antisemitismo di Santoliquido non si arrende di fronte alle evidenze apportate da Casella e reagisce, per contro, spostando il fulcro della discussione dall’«ebraicità» dei singoli compositori al carattere «ebraico» e «filo-ebraico» della musica «internazionale» ed «europea», contrapposta all’«anima della Razza italiana»: «Il fatto, – scrive Santoliquido, – che gli Ebrei del gruppo internazionalista siano 3 invece di 5 non muta né può in alcun modo mutare le conclusioni a cui il mio articolo arriva e cioè che questa infiltrazione straniera, sia essa ebraica al 75 per cento e per il resto formata da amici e fiancheggiatori del risveglio odierno della razza ebraica»147 .
Chiusa definitivamente, alla fine di agosto, da un nuovo intervento di Santoliquido tutto incentrato sui musicisti «non-ebrei», ma «filo-ebrei»148, la polemica ospitata dal «Giornale d’Italia» viene assorbita, nell’autunno, all’interno dello scontro fra Interlandi e Marinetti149, pur senza assumere la dimensione che interessa, invece, l’architettura e le arti figurative. Anche «La Difesa della razza» affronterà solo marginalmente l’argomento, dedicandovi, nel dicembre 1939, un intervento piuttosto generico firmato dal compositore cagliaritano Ennio Porrino150, e, tra il gennaio e l’aprile 1942, un ciclo curato da Giulio Cogni, fortemente debitore nei confronti dell’impostazione nazionalsocialista del Musik und Rasse di Richard Eichenhauer151 .
Cronologicamente sono trascorsi alcuni anni dai primi assalti di Santoliquido, ma le argomentazioni non sono affatto mutate: identiche le critiche agli «atteggiamenti snobistici e internazionali», invariata l’esaltazione «della tonalità, della quadratura, della
Arte e razza: pittura, musica e architettura275 chiarezza, della eufonia», espressioni del «genio latino» e della «gloria musicale italiana»152. Sul fronte opposto, nel 1940 Alfredo Casella pubblica la sua autobiografia, I segreti della giara, significativamente dedicata a Giuseppe Bottai – «l’amico carissimo che “volle” questo libro» – in un’epigrafe datata gennaio 1939. Nelle pagine conclusive, il compositore non perde l’occasione per denunciare implicitamente le campagne di stampa interlandiane, ritenute «pure espressioni della mentalità piccolo-borghese e provinciale di coloro che, per timore di essere condotti “troppo in là”, ricorrono al comodo sistema di accusare gli artisti di essersi “venduti” allo straniero»153, e confessa per contro, provocatoriamente, di «tenere assai al suffragio degli stranieri, suffragio il quale corrisponde alquanto nel mio pensiero al consenso anticipato dei posteri»154 .
3. Interlandi contro Marinetti
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Sono gli ultimi giorni dell’ottobre 1938. Nel corso del programma radiofonico di Roma II, Filippo Tommaso Marinetti legge una lapidaria dichiarazione in difesa dell’arte moderna, in cui si definiscono «disfattisti» gli assalti del gruppo interlandiano:
In nome della gloria imperiale nostra considero nettamente disfattisti i tentativi fatti in buona fede per accusare di giudaismo l’arte moderna. Nella mia qualità di uno dei principali responsabili dell’arte moderna, che secondo molte dichiarazioni straniere deriva quasi tutta dal futurismo italiano, mi piace patriotticamente affermare che non vi sono stati, né vi sono ebrei nel movimento futurista italiano, né fra i principali poeti, pittori, scultori, musicisti, architetti e ceramisti avanguardisti italiani.
Quindi insistere contro l’arte moderna con accuse del genere equivale ad offendere il genio creatore italiano, esaltato ogni giorno dal Fascismo autarchicamente.
La risposta di «Quadrivio» non si fa attendere. Dopo aver confermato la «simpatia» nei confronti di Marinetti, il «taccuino» del settimanale interlandiano distingue tra futurismo e «arte moderna internazionalistica, ebraizzante, degenerata»:
Parlando di arte moderna internazionalistica, ebraizzante, degenerata non ci si riferisce al futurismo che, secondo il nostro concetto, è un movimento artistico che appartiene ormai al passato. Comunque, in questa arte, anche se vi sono influenze formali, come nell’architettura e nella pittura, es- se sono del tutto in superficie perché manca quell’ottimismo, quella dinamicità, quella gioia della vita, quel senso eroico che il futurista ha sempre propugnato. La casa di cristallo, dove entrano il cielo e il sole, è divenuta il carcere razionale anonimo e collettivistico. La compenetrazione delle forme si è risolta in un disfacimento delle forme. E così via155 .
Difendere questo tipo di arte facendosi «scudo» del futurismo vuol dire assecondare la strategia autodifensiva degli ebrei, e Marinetti sarebbe, dunque, colpevole di prestarsi «troppo generosamente alla bisogna». Di fronte all’«arte rivoltante, deprimente, disgustosa disfattista che ha le sue radici nell’ebraismo», l’unico rimedio è quello già da tempo prospettato su «Quadrivio»: «liberare il mondo dell’arte, come si è fatto per la scuola, dalle influenze dell’ebraismo».
La vera offensiva viene, tuttavia, lanciata una settimana più tardi, con un lungo editoriale di Interlandi, pubblicato prima sul «Tevere», il 14-15 novembre, e successivamente, su «Quadrivio», il 20 novembre156. Ad essere in discussione – esordisce Interlandi – non è il «moderno» o la «libera espressione del genio creatore», ma l’«ebraizzazione dell’arte italiana, in nome del “moderno”»157. L’esempio, ormai quasi scontato, proviene dall’architettura: «Il Tevere» non ha forse sostenuto all’inizio i giovani razionalisti italiani? La musica ovviamente è cambiata nel momento in cui «l’architettura sedicente giovane» ha cominciato a parlare il «linguaggio comune dell’internazionale ebraica, che ha alzato le stesse fabbriche a Tel-Aviv e a Berlino, a Oslo e a Parigi, a Nuova York e a Mosca, a Tokio e a Barcellona»158. Lo stesso discorso vale per la pittura. Assumere come modelli Picasso o Braque, Kokoschka o Grosz ha significato, infatti, compiere un atto di «adulterazione morale» ai danni delle «gloriose tradizioni artistiche» italiane:
Non discutiamo se gli artisti stranieri imposti all’Italia siano o non siano dei grandi: noi diciamo che non sono Italiani. Parimenti non stabiliamo se un negro sia bello, aitante della persona e sano per poi accoppiarlo con una bianca; il negro resterà un bel negro ma non supererà la barriera di razza. Noi vogliamo ammettere che Grosz sia un artista, che Braque ne sia un altro; non possiamo ammettere che il disfattismo polemico dell’uno e l’anarchismo pittorico dell’altro siano proposti a modello in Italia159 .
Di fronte all’«adulterazione ebraica del gusto italiano», promossa da «ebrei ed ebraizzati», dalla «cricca giudaica» dei critici
Arte e razza: pittura, musica e architettura277 e dagli organizzatori di mostre come Oppo e Maraini, la politica razzista introdotta dal regime non può, secondo Interlandi, restare indifferente. L’editoriale si chiude, non a caso, con un’esortazione agli artisti, affinché si liberino dalla «tirannia delle conventicole ebraizzate», e con l’accusa di disfattismo rivolta a tutti coloro che ancora stentano a riconoscere la centralità del problema razziale nel campo dell’arte: «È una questione di libertà dello spirito, una questione di purezza della Razza, una questione di decoro nazionale. Chi non la sente, è un bastardo»160 .
La bomba lanciata da Interlandi provoca subito reazioni e proteste all’indirizzo del ministero della Cultura Popolare e Dino Alfieri se ne fa prontamente portavoce con Mussolini:
Nel pomeriggio ho avuto occasione di presiedere la riunione della Commissione Coordinatrice dei Premi Letterari – dove erano presenti, fra gli altri, Marinetti, Formichi, Di Marzio, Bontempelli ed altri autorevoli esponenti dell’ambiente letterario e artistico – vi è stata una vera e propria sollevazione, l’inizio della quale è stato segnato da Marinetti che, seguito da tutti gli altri, ha chiesto a nome del mondo artistico una pronta riparazione.
Riassumendo, dalle varie proteste giunte al Ministero si desumono le seguenti precise accuse:
1)il giorno seguente a quello in cui il Duce ricevendo a Palazzo Venezia gli artisti alto-atesini ha tenuto loro un discorso rievocatore dell’arte antica e, insieme, celebratore dell’arte moderna – discorso che era stato accolto con particolare soddisfazione in tutti gli ambienti artistici – il «Tevere» fa una sommaria stroncatura dell’arte contemporanea, accusando tutti gli artisti di filogiudaismo;
2)attaccando violentemente e nominativamente Piacentini, Maraini e Oppo, il «Tevere» attacca ostentatamente l’Esposizione del ’42, la Quadriennale di Roma e la Biennale di Venezia, che costituiscono le tre maggiori manifestazioni artistiche del Regime, e i loro dirigenti ai quali – come risulta da recenti comunicati – il Duce dà precise direttive;
3)tutti si chiedono per quali ragioni il «Tevere» possa godere di questa assoluta impunità e perché egli possa attaccare e offendere liberamente istituzioni e gerarchie del Regime;
4)questa sua assoluta libertà di polemica e di attacco avvalora la favola, che lo stesso Interlandi crea con le sue affermazioni, che egli, in tutte le manifestazioni della sua attività giornalistica, si sente preventivamente sicuro dell’approvazione del Duce e che quindi non c’è nessuno che possa stabilirgli dei limiti;
5)si sostiene da autorevoli e seri gerarchi che Interlandi (il quale prudentemente ieri non si è presentato al rapporto dei Direttori di giornali) faccia tutto questo allo scopo di facilitare ai rappresentanti del suo giornale l’accaparramento di vasti contratti di pubblicità.
Devo dichiarare al riguardo che l’opinione pubblica, soprattutto nei settori bancario, industriale e commerciale, è molto intimidita nei confronti del «Tevere».
Durante la vivace discussione di cui sopra è stato osservato che Interlandi, che vanta purezza di ideali, sa fare molto bene i suoi interessi di carattere pratico; e per quanto riguarda la parte morale ha trovato il modo di non partecipare né alla Grande Guerra, né all’Impresa Etiopica, né alla guerra di Spagna161
Se l’obiettivo di Interlandi è evidentemente quello di separare l’arte «moderna ebraizzata» dall’arte «italiana», il titolo dell’elzeviro pubblicato da Marinetti sul «Giornale d’Italia» del 24 novembre – Italianità dell’arte moderna – è già di per sé una risposta: «È lecito valutare l’arte moderna, – scrive Marinetti, – disapprovandone una parte per esaltarne un’altra scegliendo o scartando. Non è lecito fare ciò che ha tentato “Il Tevere” cioè ammettere l’esistenza di un’arte moderna italiana vantarsi di conoscerla profondamente e poi dichiararla erroneamente straniera bolscevizzante e giudaica»162. Oltre a essere figlia del futurismo, tutta l’arte moderna italiana, secondo Marinetti, rispecchia «la sintesi la chiarezza e l’armonia nemiche delle nordiche pesanti monotone nebulosità e sproporzioni» ed esprime «la variata eleganza del Mediterraneo splendido e armonioso nel legare in turchino verde oro e argento promontori golfi ed isole varie di forme e ben proporzionate»163. Se un «dinamismo vario palpitante antimonotono» e «tipicamente italiano» caratterizza, dunque, i dipinti di Carrà, Russolo, Severini, Sironi, «figli originalissimi di Sant’Elia» sono anche gli architetti razionalisti Libera, De Renzi, Terragni, Pagano, Sartoris. Un’invenzione italiana è la «Plastica murale polimaterica» e «italianissima astrazione» è quella che contraddistingue «i pittori e scultori futuristi italiani non bolscevici né ebrei Boccioni Balla Carrà Severini Funi Russolo Soffici Prampolini Depero Fillia Benedetta Oriani Rosso Tato Di Bosso Ambrosi ecc.»164 .
La rivendicazione dell’italianità dell’arte moderna appare tanto più incisiva, nella prosa di Marinetti, quanto più si fonda sull’attivazione di un luogo comune dell’antisemitismo, assai frequente, ad esempio, negli scritti di Taine, Renan, Drumont, Vacher de Lapouge, Gustave Le Bon o Charles Maurras: l’assenza, nell’ebreo, di qualsiasi capacità creativa. Secondo Marinetti, le caratteristiche razziali degli ebrei, per natura privi di «genio creativo», di
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«carattere guerriero» e di «passione idealistica disinteressata e temeraria», contribuiscono a escluderne l’influenza sulla «nascita delle nuove idee e dei nuovi ritmi»165. Per il padre del futurismo, dunque, disfattista non è, come sostiene Interlandi, chi contesta l’identificazione fra arte moderna e arte «ebraizzata», ma chi tenta di attribuire agli ebrei la grandezza e il prestigio dell’arte moderna italiana166 .
L’accusa di «disfattismo» – replica Interlandi sul «Tevere», riferendosi implicitamente a Carlo Levi, Renato Birolli e Aligi Sassu – andrebbe rivolta a quegli artisti moderni, torinesi e milanesi, che sono effettivamente entrati nella sfera di competenze del Tribunale Speciale. Nella sua difesa dell’arte moderna, Marinetti si è prestato al gioco dei «profittatori», degli «affaristi», degli «ebraizzati», presentando come «moderna» roba «pietosamente vecchia» ed «estranea al genio dell’Italia, d’ispirazione cosmopolita e giudaica»167. Al fine di dimostrare come l’arte moderna sia in realtà «un’escrescenza straniera nel corpo dell’Italia»168, Interlandi si scaglia contro le «confusioni» marinettiane, circoscrivendo il campo d’influenza del futurismo e citando come esempi negativi Carrà, Bontempelli, Terragni, la rivista «Valori Primordiali»:
Non facciamo confusioni. Tu ne fai moltissime. Tu citi come «moderni» gli artisti che si sono avvicinati a te per una stagione e poi ti hanno abbandonato e anche vilipeso. Per esempio Soffici, per esempio Carrà. Soffici ha scritto i suoi «Chimismi lirici» venti anni or sono, ma li ha cancellati poi con una tonnellata di scritti e un quintale di quadri. E Carrà scrisse, poveretto, «Guerrapittura», ma poi si fece «moderno» secondo una formula non più futurista. […]
Tu fai della confusione; e invece in Italia si ha sete di chiarezza. L’arte cosiddetta «moderna» non è la tua, che ha il suo posto particolare nella storia dell’estrosità nazionale; è quella che si definisce nei documenti, quadri, sculture, architetture, coi quali si farà la storia dell’arte della nostra epoca. Ecco qui la Bibbia dell’arte «moderna»; tu la conosci perché vi sei collocato a capofila dei «creatori», in questo «primordio della civiltà contemporanea». È un grosso volume, intitolato «Valori primordiali», e doveva esser seguito da altri volumi; ma dicono che il finanziatore dell’impresa era un ebreo e le provvidenze del Regime per la difesa della Razza lo dissuasero dal continuare a spendere i suoi quattrini. C’è il solito Bontempelli, inventore del «Novecento» in francese e traduttore del surrealismo in realismo magico; grande protettore dell’architettura ebraica che ha rovinato perfino il paesaggio del lago di Como […]169 .
Nel suo articolo Marinetti – insiste Interlandi – non ricorda tutti coloro che invece sono indicati da «Valori Primordiali» co-
280Capitolo sesto me «i fondatori della civiltà artistica contemporanea», le cui opere sono, invece, riprodotte dal «Tevere» come esempi di «arte degenerata»: in particolare, De Chirico e Ghiringhelli, ma anche Rho, Reggiani, Fontana, Lingeri. Senza contare poi l’architettura funzionale, descritta dal «linguaggio ebraico» di Ernesto N. Rogers: parole, aggiunge Interlandi, che «il Mediterraneo vomiterebbe, se avesse uno stomaco»170. Se, dunque, di «disfattismo» bisogna parlare, quest’ultimo è sicuramente espresso dalla «figliuolanza marinettiana», ovvero dal surrealismo, dall’astrattismo, dall’espressionismo, dal dadaismo. Imputando a Tzara e compagni di essere dei disertori, ironizzando sulla Fontana di Duchamp, definendo gli artisti delle avanguardie come «anarcoidi» e «invertiti morali», Interlandi denuncia l’arte moderna come «opera di bolscevichi, di ebrei e di bastardi»: in quanto tale, essa «non può essere opera di fascisti, che si richiamano ogni giorno alla tradizione nazionale e vogliono che l’Italia sia in Italia e non Cosmopoli»171 .
Il «moderno», prosegue Interlandi, è una «truffa», un «tumore», e l’Italia non può sottostare all’«inammissibile violenza» rappresentata dalla Casa del Fascio di Como di Terragni, dalle sculture di Fontana, dalle pitture di Ghiringhelli, dagli affreschi dell’«ebreo Cagli», tutti esempi riprodotti ora sul «Tevere». Né vale, come fa Marinetti, chiamare in causa il ruolo degli artisti moderni nella Mostra della Rivoluzione fascista, nelle mostre dell’Autarchia o in «tutto ciò che porta un Fascio littorio sull’Ingresso»: infatti, «altro è una Mostra, un cartello pubblicitario, un pannello decorativo, altro una casa d’abitazione, un quadro, un ritratto»172. E Marinetti non sarà certo «profeta» del fascismo se continuerà a esserlo dell’«instabilità» come «formula artistica dell’avvenire». La difesa marinettiana dell’architettura razionalista è, dunque, secondo Interlandi, intrisa di «malafede» ed è inutile scomodare «l’ombra di Sant’Elia», quando testi come quello di Gustav Adolf Platz, nel volume Die Baukunst der neuesten Zeit, rivelano esplicitamente l’«ispirazione comunistica ed ebraica» del razionalismo. La conclusione dell’editoriale interlandiano sembra preannunciare le argomentazioni che appariranno il giorno dopo, sempre sul «Tevere», in un articolo del critico d’arte (oltre che noto scrittore, pittore e incisore)
Luigi Bartolini, nel quale si accusa Marinetti di non aver preso posizione sul problema ebraico e di avere manifestato, per contro, in varie occasioni, delle connivenze di marca bolscevica173 .
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Il 27 novembre 1938, sono nuovamente le colonne del «Giornale d’Italia» a ospitare la replica marinettiana174. Alle «franche parole» dell’artista, tese a rivendicare con forza il carattere «italiano» e «fascista» del futurismo, si aggiunge ora una lunga lettera, firmata dai futuristi Umberto Bernasconi, Carlo Belli e Luigi Scrivo, alla quale aderiscono anche Berto Ricci, Omero Valle, Vasco Pratolini, Giuseppe Marchiori, Gino Ersoch, Giuseppe Ravegnani, Duilio Morosini, Arrigo Ghiara, Aniceto del Massa, Daniele Occhipinti, Elemo d’Avila. A dimostrazione di come il futurismo abbia «le carte in regola» anche in materia di antisemitismo, al centro della lettera di Bernasconi-Belli-Scrivo si trova la contrapposizione fra «genio artistico» italiano e «impotenza artistica» ebraica: «Noi non saremo mai così antitaliani, – scrivono i tre autori, – da ritenere l’esistenza di una intelligenza rivoluzionaria ebraica e di una sua decisiva influenza sugli artisti italiani: l’ebreo non crea ma specula, non inventa ma baratta e tutta una storia di secoli sta a dimostrare la sua vera impotenza artistica». Gli artisti ebrei italiani «non superano numericamente il numero delle dita» e la loro produzione è «tanto scarsa ed irrilevante da giudicare misero e quasi inesistente qualsiasi apporto giudaico all’arte contemporanea»175. L’«accusa di ebraismo» non è altro, secondo Bernasconi-Belli-Scrivo, che il maldestro tentativo di mascherare l’offensiva reale contro il futurismo. I «passatisti reazionari» di oggi si collocano, dunque, sullo stesso piano della «borghesia neutralista e pacifista» di ieri: la stessa che «i futuristi e i primi squadristi hanno polverizzato con le battaglie nelle piazze e nelle trincee, preparando l’avvento della grande era mussoliniana»176 .
Le firme che corredano la lettera di Bernasconi-Belli-Scrivo sono quelle degli autori delle numerose risposte al «cicloncino reazionario»177 interlandiano, pubblicate dalla stampa nell’ottobrenovembre 1938. Una rapida carrellata di questi interventi rivela il sostanziale allineamento dei difensori dell’arte moderna lungo le direttrici concettuali formulate da Marinetti. In primo luogo, la polemica ingaggiata dalla coppia Interlandi-Pensabene viene etichettata come una forma di ignorante «reazione»: «Origini», mensile diretto da Umberto Bernasconi, denuncia la «ventata di cafoneria e di disfattismo che vuole ridurre ad un fenomeno degenerativo dello spirito italiano il patrimonio artistico non dell’ultimo decennio, ma dell’ultimo trentennio»178; per Cornelio Di Marzio, direttore ge-
282Capitolo sesto nerale della Confederazione generale professionisti e artisti, quelle dei giornalisti di «Quadrivio» sono idee «canute e inutili»:
A tutti i secoli è stato lecito avere una sua arte da Adamo a ieri; dal trecento all’Ottocento, solo noi dovremmo vergognarci di avere quella nostra, ossia del nostro tempo e dei nostri gusti?
C’è chi vuol tornare al cinquecento e chi al settecento: e chi all’arte greca e chi all’arte romana. Mai si organizzarono più treni turistici per tornare indietro negli anni e altrove nello spazio179
E se Berto Ricci stigmatizza come «coprocefali» Interlandi e compagni180, Vasco Pratolini, sul periodico «Campo di Marte», parla di «polemisti inoperosi e falliti»181. In secondo luogo, all’«ebraizzazione» dell’arte moderna si replica con la speculare affermazione antisemita che vuole il «giudaismo» incompatibile con il moderno: la modernità – si legge sul numero del novembre 1938 di «Origini» – è «nei suoi caratteri più espressivi nettamente antiebraica»182. In piena sintonia con questa tesi si colloca l’articolo di Omero Valle, pubblicato dal «Bargello»: «La modernità giudaica è un non senso. Una razza chiusa nell’esclusivismo dogmatico che si taglia fuori dalla storia per millenni non può semmai che essere patinata di attualismo. Accusare l’arte moderna di ebraismo perché si manifesta in tutto il mondo sarebbe come lanciare l’identico anatema al Fascismo in quanto movimento spirituale del secolo»183. Sulle colonne di «Roma Fascista», Carlo Belli giudica in termini cospirazionisti il legame fra ebraismo e modernità artistica: «Tutti sanno che il giudeo possiede la intelligenza particolare del bluff: sotto l’apparenza di un certo amore per la modernità, egli nasconde il suo spirito quasi sempre gretto e conservatore»184. La tesi dell’«incapacità creativa degli ebrei» consente a Belli di contrapporre gli «artisti più moderni d’Italia» (Carrà, Severini, Prampolini, Funi, Terragni, Ghiringhelli, Pollini), tutti «o provenienti dal futurismo – movimento antiebraico per definizione –, o squadristi e sansepolcristi», al «tragicismo caricaturale dei Soutine, dei Pascin, dei Max Ernst, o peggio dei Grosz, dei Dix, dei Meidner, dei Morgner – figli dell’orrido Kokoshka – tutti ebrei, inventori delle più forsennate, epilettiche e lebbrose deformazioni»185. Ed è ancora Belli, nel novembre 1938, a chiedere un intervento ufficiale contro gli articoli di Pensabene, pubblicati sulla «Difesa della razza»:
Chiediamo francamente alla direzione de La Difesa della Razza, periodico fascista cui attribuiamo una grande importanza ai fini di una chiarifica-
Arte e razza: pittura, musica e architettura283 zione necessaria in molti campi essenziali nella vita italiana, domandiamo, dunque, con quale diritto tale Pensabene è lasciato libero di esporre da così alta sede redazionale, concetti assurdi, errori storici e apprezzamenti gratuiti sull’arte e sulla cultura italiana. […] Che egli condanni il disfacimento materiale e spirituale introdotto nell’arte dagli ebrei questo è giusto ed è utile; ma che egli offenda in blocco l’arte italiana di oggi definendo ebraiche le sue migliori manifestazioni […] questo non deve essere tollerato oltre186
Del medesimo parere è anche «Origini», che riproduce la pagina 56 della «Difesa della razza» del 20 ottobre 1938, stigmatizzando come una «manovretta reazionaria» l’utilizzo strumentale dell’iconografia nazista sull’«arte degenerata», posta a commento delle tesi di Pensabene (prontamente ribattezzato «pensamale»):
Un documento sui sistemi polemici dei reazionari: l’articolo contro l’arte moderna del solito critico «pensamale» apparso su La difesa della razza e commentato con quadri di ebrei tedeschi.
La malafede e l’ignoranza dell’autore sono evidenti: in quale opera il nostro avanguardismo artistico è arrivato a tali oscenità di espressioni? Basta mettere a confronto il famoso «antigrazioso» di Boccioni, composto in piena fase di polemica pittorica187
Con l’inizio di dicembre, «Il Giornale d’Italia» muove ancora contro Interlandi, lanciando un referendum sul tema Originalità, tendenze, intenzioni dell’arte italiana moderna. Gli interventi raccolti compongono una sinfonia di opinioni sostanzialmente unanime e facilmente riassumibile: lungi dall’essere «ebraizzata», l’arte italiana versa in ottime condizioni, riuscendo a essere moderna pur nel rispetto della tradizione. Per Marinetti, il referendum è l’ennesima occasione per attaccare i «denigratori dell’arte moderna italiana» e il loro «temperamento anemico e tremebondo»188 . Piacentini, pur moderatamente critico nei confronti del razionalismo, vede nell’architettura italiana «l’innato istinto della Bellezza perfetta»189 e la sua opinione appare condivisa anche da Carlo Broggi190 e da Alberto Calza-Bini191. A un Carrà che critica tanto i neorealisti quanto gli astrattisti192, si affianca Severini, che individua nel «realismo trascendentale» il filo conduttore della tradizione artistica italiana193. In ambito musicale, Alfredo Casella194 e Vincenzo Tommasini195 difendono le ragioni della ricerca contemporanea, mentre, nel campo delle lettere, Emilio Cecchi ritiene che l’Italia abbia ormai una «prosa nazionale e moderna»196 ed i commediografi Luigi Antonelli197 e Luigi Chiarelli198 esaltano il carat-
284Capitolo sesto tere «antiborghese» ed «eroico» del teatro italiano. Non mancano certo le posizioni critiche nei confronti dell’arte moderna: il compositore Ennio Porrino si scaglia contro le «conversazioni celebraloidi, di provata derivazione internazionale»199; Adriano Lualdi, direttore del Conservatorio di Napoli, parla di «tendenze che hanno, per noi, qualche cosa di anticristiano, di irreligioso, di ateo; e che sono infatti rappresentate, nei loro elementi più significativi e fanatici, da campioni e condottieri israeliti stranieri»200; il pittore Ferruccio Ferrazzi denuncia «l’enorme numero di mestieranti» nel campo dell’arte, prendendo di mira l’«indulgenza» e il «dilettantismo» dei critici, dei responsabili delle esposizioni, dei direttori delle accademie201 .
Non a caso sono proprio queste ultime dichiarazioni le sole a essere riprese sulle pagine del «Tevere», all’interno di un articolo in cui si rende noto il rifiuto di Interlandi all’invito, giunto dalla direzione del «Giornale d’Italia», a partecipare all’inchiesta:
Il Giornale d’Italia, con una presentazione in verità alquanto sconnessa e redatta in un linguaggio approssimativo […] ha iniziato la pubblicazione di alcune dichiarazioni d’artisti sul dibattuto problema, naturalmente senza far cenno all’origine della discussione e permettendo ancora a qualcuno dei suoi collaboratori inammissibili espressioni ingiuriose verso i promotori di questa utile discussione; espressioni che comprovano la inciviltà di chi istericamente le adopera e denunciano il persistere di un malcontento polemico che veramente dovrebbe esser bandito dalla nostra stampa.
È in considerazione di questo malcostume che il nostro Direttore, Telesio Interlandi, ha dovuto rifiutare il cortese invito, trasmessogli dal Direttore del Giornale d’Italia, Virginio Gayda, di partecipare all’inchiesta da lui promossa202 .
La stessa pagina in cui compare questa nota ospita, sotto il titolo Referendum sull’arte moderna, l’effettiva risposta di Interlandi all’iniziativa del «Giornale d’Italia». Si tratta della lettera con cui il direttore del «Tevere» invita «i migliori scrittori, artisti e critici d’arte» a pronunciarsi in merito a due questioni che riguardano «la civiltà italiana»: in primo luogo, il ruolo dell’influenza «straniera» – in particolare tedesca o francese, e «altresì di carattere ebraico» – sull’arte italiana; in secondo luogo, le responsabilità di critici, filosofi, commissari di esposizioni e insegnanti di accademie, nel «danno» perpetuato all’«arte nazionale»203 .
La replica marinettiana non si fa attendere, e si esprime, il 3 dicembre 1938, in un discorso serale al Teatro delle Arti di Ro-
Arte e razza: pittura, musica e architettura285 ma e nell’uscita del numero 117 di «Artecrazia», la rivista futurista diretta da Mino Somenzi. Della conferenza al Teatro delle Arti, dal titolo L’italianità dell’arte moderna, esistono tre resoconti204: uno, abbastanza generico e critico, risulta elaborato da un capodivisione, componente del Gabinetto di Alfieri, Annibale Scicluna Sorge, che su ordine di Celso Luciano è stato spedito al Teatro delle Arti; l’appunto è visto anche da Mussolini, che segue l’evolversi della situazione205. Un secondo resoconto – immaginifico, brevissimo e senza una virgola – appartiene allo stesso Marinetti:
Cadute le stupide accuse di ebraismo stranierismo bolscevismo come i piccoli impedimenti e le scalette che preparano la partenza lo spavaldo furore del motore centrale cioè il patriottismo fascista mi staccò e mi portò a quattro mila metri sopra gli applausi favorevoli e i rari grugniti dei negatori206 .
Il terzo, il più importante, è steso da Cornelio Di Marzio, direttore della Confederazione dei professionisti e del «Meridiano di Roma»207, e rivela con chiarezza la strategia marinettiana nella polemica con Interlandi. Al Teatro delle Arti – rivela Di Marzio – il padre del futurismo avrebbe accusato il direttore del «Tevere» di avere, nel proprio passato, dei precedenti «ebreizzanti», avendo curato la pubblicazione di autori «stranieri ebrei» (Blok e Schnitzler), e oltretutto in collaborazione con «ebrei stranieri»:
È anche conosciuta l’opera svolta da Interlandi nella traduzione di autori stranieri ebrei – come il Bloch [sic], lo Schnitzler – in collaborazione con ebrei stranieri.
Si ricorda la oscena commedia «Girotondo» dello Schnitzler, tradotta in collaborazione con l’ebreo Gurevich, per la editrice Gurevich: lavoro che, rappresentato per volontà dell’Interlandi, provocava per la sua oscenità la chiusura del teatro per oltre una settimana. Sempre in collaborazione con l’ebreo Gurevich Interlandi traduceva il Diario di Satana di Andreieff, donando poi in numerose altre occasioni il contributo della sua ammirazione al pensiero giudaico208 .
Dietro una campagna condotta con «faciloneria» e «incompetenza» si celerebbe, dunque, secondo Marinetti, un preciso obiettivo politico, particolarmente sottolineato da Di Marzio: nel corso della conferenza, infatti, si sarebbe «sentito gridare contro “i monopolizzatori del razzismo”. Grido che ha espresso la convinzione generale che l’Interlandi si serva del razzismo per fare del rassismo». La ritorsione di Marinetti e Di Marzio non si farà attende-
286Capitolo sesto re: come membri della Commissione per la bonifica libraria, tra il dicembre 1938 e il febbraio 1939, essi inseriranno, infatti, nell’elenco dei volumi da bandire anche le lontane traduzioni dei due autori «ebrei» eseguite dal direttore della «Difesa della razza»209 .
Che dietro il «rassismo» interlandiano si trovi, in questa fase, lo stesso Mussolini appare confermato dal sequestro del numero 117 di «Artecrazia», uscito proprio il 3 dicembre e interamente dedicato all’Italianità dell’arte moderna. Il numero presenta un editoriale di Somenzi, dal titolo Razzismo, seguito da una nota non firmata (ma probabilmente dello stesso Somenzi), intitolata significativamente Arte e… Razzia, e da un articolo più lungo e complesso – Italianità dell’arte moderna – firmato «Artecrazia» e frutto sicuramente della penna di Somenzi e Marinetti. Ferocemente polemici nei confronti della campagna interlandiana, i tre testi ripetono in sostanza i punti basilari della difesa marinettiana: il futurismo non solo ha precorso l’Italia fascista, ma ha influenzato l’intera arte moderna italiana e diverse correnti artistiche internazionali, fra cui il razionalismo architettonico; il futurismo è «artepatria», mentre l’arte «ebraica» non esiste, in quanto «non può esistere l’arte quando non esiste la patria»; la «manovra» di Interlandi è dettata dalla «malafede», dal mero opportunismo degli «eroi della sesta giornata» e dalla «più crassa ignoranza».
Il sequestro del numero 117 di «Artecrazia» lascia campo aperto al referendum indetto da Interlandi e pubblicato a puntate settimanali su «Quadrivio», dall’11 dicembre 1938 al 1º gennaio 1939. Dal confronto con l’elenco completo dei suoi destinatari210 , l’esito dell’iniziativa non ha certo la dimensione del successo: le risposte sono soltanto ventiquattro, e i nomi più noti superano di poco la decina211. Quanto ai contenuti, l’influenza degli «ebrei» sull’arte moderna è il tema dominante. Se numerosi interventi (Brasini212, Bartoli213, Somaré214, Marchi215, Porcella216, Torresini217) si riferiscono genericamente a influssi «stranieri» ed «europeisti», altrove i riferimenti sono più circostanziati: per Michele Biancale l’«internazionalismo» si colora chiaramente di «ebraismo» 218 e per Nino Bertoletti corrisponde agli «ideali» e al «gusto del popolo ebraico»219; per Guido Guida, la «deturpazione» dell’arte italiana ha suscitato le risa «dal muro del pianto»220; per Giuseppe Cesetti, chi nega l’influenza «parigina» ed «ebraica» è in malafede221; «opera peculiare dell’ebraismo» è stata, per Luigi Trifoglio, «la
Arte e razza: pittura, musica e architettura287 grande confusione di spiriti e di lingue»222; l’«arte internazionale ebraica» – dichiara Gisberto Ceracchini – ha tentato di distruggere l’«originalità creativa» degli italiani223. Anche le risposte apparentemente più moderate, spesso provenienti dalle firme più prestigiose, sono in realtà intrise di antisemitismo. È il caso, ad esempio, di Ardengo Soffici, il quale, pur suggerendo a Interlandi «prudenza» e «delicatezza» nella conduzione del dibattito, condivide l’obiettivo del combattere «l’ebraismo degli ebrei e dei non ebrei» e non risparmia accuse nei confronti dell’architettura «ebraizzata»224. Allo stesso modo, Ugo Ojetti ritiene che i «fermi divieti» hitleriani non siano riproducibili nel contesto italiano, ma si scaglia contro i «deformatori della figura umana» ostracizzati in Germania, sottolineando come, fra costoro, «di ariani ve n’erano pochi»225. Nel momento in cui tenta di circoscrivere la «pregiudiziale razziale» nelle arti figurative, Emilio Cecchi recupera lo stereotipo dell’«intraprendenza e corruzione mercantile» degli ebrei, i quali possono soltanto svolgere il ruolo di «mercanti» d’arte: «Come artisti veri e propri, gli ebrei, bene o male non poteron far molto: tanto mediocremente sono portati a queste attività, e tanto debole è il segno che vi hanno sempre lasciato»226. Se questo è il clima generale del referendum, soltanto Gio Ponti e Giovanni Comisso esprimono posizioni equilibrate: il primo invita, infatti, a lasciar lavorare gli artisti, ormai «troppo scossi e intimiditi»227, il secondo si limita a esaltare le doti assimilatrici italiane: «Circa le influenze, – scrive Comisso, – si deve sempre tenere presente che l’Italia ha uno stomaco fortissimo e tutto quanto viene dal di fuori si assimila e si supera potentemente»228 .
Di ben altro spessore e dimensioni appare, invece, l’azione plebiscitaria organizzata in parallelo da Filippo Tommaso Marinetti. I «cazzotti a scintilla»229, lanciati il 3 dicembre dal palcoscenico del Teatro delle Arti di Roma – e successivamente rinnovati a Como, in occasione della commemorazione di Sant’Elia, al Circolo artistico di Napoli e ancora al Circolo Barbera di Milano – vengono attentamente documentati in un numero monografico di «Artecrazia» (il 118), dedicato all’«italianità di tutta l’arte moderna» e uscito l’11 gennaio 1939, con in copertina un ritratto di Marinetti firmato da Enrico Prampolini230. Il fascicolo, oltre ad un corposo documento teorico marinettiano che riprende gli argomenti
288Capitolo sesto già esposti sul «Giornale d’Italia», presenta una dichiarazione congiunta di Marinetti, Sartoris e Terragni, nella quale – oltre a riscrivere una storia dell’arte moderna sub specie futurista – si esclude radicalmente, con una lunga serie di enunciazioni, la possibilità di un’origine «ebraica» dell’arte moderna:
No, non è vero, gli ebrei non hanno inventato né l’architettura razionale, né la pittura astratta, né le statue «con i piedoni», né i ritratti «con collo lungo».
Mentre rileviamo il carattere disfattista dell’equivoco ebraico che si cerca di creare intorno all’arte moderna, la quale, secondo innumerevoli dichiarazioni straniere, deriva quasi tutta dal futurismo italiano, rivendichiamo la italianità di questa arte e l’arianità dei suoi più geniali e noti assertori italiani ed esteri.
Come non vi sono ebrei nel movimento futurista italiano, movimento tipicamente fascista, non vi sono ebrei fra i principali poeti, pittori, scultori, musicisti, architetti, scrittori, decoratori e ceramisti avanguardisti italiani, né fra gli inventori ed i capiscuola delle tendenze artistiche di avanguardia straniere.
Il surrealismo è stato inventato in Italia, intorno al 1500, da Giuseppe Arcimboldi che non era ebreo.
Il cubismo è stato inventato in Italia, intorno al 1620, dal pittore fiorentino Giovanni Battista Bracelli che non era ebreo. Fu poi ripreso da Guillaume Apollinaire (morto volontario in guerra) che non era ebreo.
Il futurismo è stato inventato a Milano, nel 1909, dal Sansepolcrista e volontario di guerra F. T. Marinetti che non è ebreo.
L’astrattismo è stato inventato dagli Incas. Fu poi ripreso da alcuni pittori del Rinascimento italiano e da Theo Van Doesburg (morto nel 1931) che non era ebreo e da Piet Mondrian che non è ebreo.
Il razionalismo e l’urbanismo, come li intendiamo oggi, sono stati inventati in Italia da Antonio Sant’Elia, di Como, morto volontario in guerra, che non era ebreo.
L’inventore delle statue «con i piedoni» è stato il grande italiano Umberto Boccioni (morto volontario in guerra) che non era ebreo.
I ritratti «con collo lungo» non sono stati inventati dall’ebreo Amedeo Modigliani, ma dagli Etruschi, dai Bizantini e dai cristianissimi Primitivi.
In Italia, i primi tentativi di architettura funzionale sono dei futuristi Mario Chiattone, Virgilio Marchi e Alberto Sartoris che non sono ebrei e del «Gruppo 7» di Milano.
In Albania, l’architettura razionale fu creata dai fratelli Ragazzi che non sono giudei; nell’America del Nord, da Frank Lloyd Wright che non è giudeo; in Argentina, da Alejandro Bustillo che non è giudeo; in Australia, da Raymond MacGrath che non è giudeo; nel Belgio, da Victor Bourgeois che non è giudeo; nel Brasile, da Lucio Costa che non è giudeo; in Bulgaria, da Nicola Diulgheroff che non è né giudeo né bulgaro, ma italiano e futurista; in Cecoslovacchia, da Jan Kotera e da Adolf Loos che non erano giudei; in Danimarca, da Karl Lonberg-Holm che non è giudeo; in Estonia, da Oskar Siiman e da Anton Soans che non sono giudei; in Finlandia, da Alvar Aalto che non è giudeo; in Francia, da Tony Garnier (Premier Grand Prix de Rome) e dai fratelli Perret che non sono giudei; in Germania, da Josef Maria Olbrich che non era giudeo e da Peter Behrens (Membro del Consiglio Superiore delle Belle Arti) che non è giudeo ma nazista; nel Giappone, dagli architetti dell’Ufficio Lavori Pubblici di Tochio e da B. Yamaguchi che non sono giudei; in Grecia, da Stamo Papadaki che non è giudeo; in Inghilterra, da Charles Rennie Mackintosh che non era giudeo; in Islanda, da Sigurdur Gudmudsson che non è giudeo; in Jugoslavia, da Alberto Antolic che non è giudeo; in Lettonia, da Alexander Birzenieks che non è giudeo; nel Messico, da Enrique de la Mora che non è giudeo; in Norvegia, da Herman Munthe-Kaas che non è giudeo; in Olanda, da J. J. P. Oud che non è giudeo; in Persia, da Gabriel Guevrekian che non è giudeo; in Polonia, da Bohdan Lanchert e da Josef Szanajca che non sono giudei; in Rumenia, da Marcel Iancu che non è giudeo; in Russia, da El Lissitzky e dai fratelli Wjesnin che non sono giudei; in Spagna, da Fernando Garcia Mercadal che non è giudeo; in Svezia, da Gunar A. Asplund che non è giudeo; in Svizzera, da Charles-Édouard Jeanneret (Le Corbusier) che non è giudeo; in Ungheria, da Marcel Breuer che non è giudeo; nell’Uruguay, da Mauricio Cravotto che non è giudeo231 .
Il numero 118 di «Artecrazia» riporta anche il testo di una seconda dichiarazione, approvata nel corso della conferenza al Teatro delle Arti di Roma:
1.Esiste una grande arte moderna – originale, fuori da ogni pompierismo e compromesso – documentata da numerose realizzazioni del Regime.
2.Questa grande arte moderna italiana, vibrante d’originalità e di coraggio in tutte le sue manifestazioni, ben lungi dall’essere accusabile di ebraismo di stranierismo e di bolscevismo ha influenzato d’italianità, tutte le arti straniere. Insistere in certe balorde accuse è antifascismo e disfattismo spirituale.
3.Questa grande arte moderna italiana – inventata tutta da italiani –esprime sinceramente con un idealismo eroico e fuor da ogni opportunismo la grande Rivoluzione Fascista che, partendo dal Carso è giun-
290Capitolo sesto ta, attraverso la guerra veloce, all’Impero Mussoliniano: blocco ispiratore che nessun altro popolo della terra può vantare. Quindi, da noi, italiani d’oggi, ottimismo e forza creatrice in abbondanza232 .
Tra le firme in calce sono quelle di Cattaneo, Lingeri, Terragni, Zanuso («architetti razionalisti»), di Sartoris e Mazzoni («architetti futuristi»), di Licini, Nizzoli, Radice, Reggiani, Rho («pittori astrattisti»), di Prampolini («pittore architetto futurista»), dello stesso Marinetti («poeta futurista»), della moglie Benedetta («scrittrice futurista»), di Mino Somenzi e Luigi Scrivo («giornalisti futuristi»). Le adesioni indicate da «Artecrazia» delineano uno schieramento esteso dai futuristi agli architetti razionalisti, dai pittori astrattisti ai maestri del «Novecento» fino ai giovani di «Corrente»233. Un fronte prestigioso e compatto, che consente ad «Artecrazia» di scagliarsi con maggior vigore contro il Premio Cremona, irriso da un racconto intitolato Se volete un’«opera d’arte» bevete torrone di Cremona, dove «opera d’arte» è scritto capovolto e rovesciato234 .
L’ironica provocazione anti-farinacciana segna, tuttavia, il punto di rottura: dopo il sequestro del numero 117, «Artecrazia» viene definitivamente soppressa. Negli stessi giorni in cui si consumano le sorti della prestigiosa rivista futurista, si conclude anche il referendum promosso da «Quadrivio». La coincidenza merita di essere sottolineata, poiché consente di illuminare, per contrasto, la dimensione – finora largamente trascurata dalla storiografia – del successo politico della campagna interlandiana contro l’arte moderna. Può essere, infatti, interessante notare come, a sancire la «migliore conclusione»235 dell’iniziativa referendaria, sia un’intervista rilasciata da Interlandi alla redazione delle «Arti», il bimestrale della Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti, fondato nell’ottobre 1938 e presentato da Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione Nazionale, come «espressione diretta della politica artistica del regime»236. Nella nota che precede l’intervista, la redazione giudica di «fondamentale importanza» il dibattito avviato da Interlandi e, pur non prendendo posizione fra le «due opposte tesi», individua un possibile punto di mediazione nell’«esatta distinzione tra i valori che appartengono e quelli che non appartengono al patrimonio artistico nazionale»237. Non a caso la successiva dichiarazione di Interlandi prende le mosse da una generica critica nei confronti dell’influenza dei modelli «stranieri» sull’arte italiana: «La mia tesi non ha nulla di eccezionale, – afferma Interlandi, – io dico semplicemente che in un determinato periodo, con l’importazione di alcune idee e modelli stranieri, […] si è creata in Italia una situazione per cui sembra assurdo poter dipingere, modellare o costruire diversamente da Picasso, Maillol o Le Corbusier»238. Di fronte all’obiezione dell’intervistatore – «ma voi fate questione di ebrei» – Interlandi non recupera il tema del rapporto fra «ebraismo» e «arte moderna», ma insiste piuttosto sulla necessità di separare rigidamente «arte italiana» e «arte ebraica», limitando l’egemonia degli «ebraizzati»:
Io ho fatto questione non di ebrei ma di ebraizzati. Per gli ebrei una volta ho dato ordine ai miei redattori di occuparsene con la massima imparzialità, ma di passarli tutti sono l’intestazione generale di «arte ebraica», così come si dice «arte tedesca» o «arte finnica». L’ebreo ha diritto di fare la sua arte, ma non di gabellarla per arte italiana; tanto meno di esigere che gli artisti italiani vadano a scuola da lui, o si lascino da lui irreggimentare. In quanto agli altri, agli ebraizzati, io non nego il diritto di esprimersi come meglio credono; anzi davanti a qualcuno di loro, personalmente, posso levarmi tanto di cappello come faccio con chiunque lavora; quel che combatto è la pretesa di questi artisti di farla a caposcuola, e attraverso i salotti, le combinazioni di interessi o sotto la suggestione di aderenze eccezionali, imporre un indirizzo personale a un intero gruppo di pittori239
Quanto alla polemica con Marinetti, essa in realtà «non c’entra», poiché il futurismo – dichiara polemicamente Interlandi –«non ha mai avuta alcuna reale influenza sulle arti». Scavalcato il problema degli «avanguardismi» riaffermando una nozione metastorica di arte, basata sul generico concetto di «classicità», Interlandi indirizza quindi i suoi strali contro l’architettura razionalista, accusata per l’ennesima volta di essere «internazionalista» e anti-autarchica. E il disfattismo?, domanda, in conclusione, l’intervistatore. Una formula «comoda» – risponde il direttore del «Tevere» – anche se questa volta «è stata applicata male»: il fascismo, infatti, impone di parlare agli artisti con «linguaggio virile», disinteressandosi di come «lo straniero» possa giudicare, dall’estero, la discussione interna sull’arte240 .
La pubblicazione dell’intervista a Interlandi sulle «Arti» e la sua riproduzione nel volume La condizione dell’arte, in cui il direttore del «Tevere» riassume i contorni dell’offensiva avviata nell’ottobre-novembre 1938, devono indurre a ripensare la portata della manovra interlandiana in termini politici più che artistico-
292Capitolo sesto estetici. Finora, infatti, il «cicloncino reazionario» dell’autunno
1938 è stato interpretato dalla storiografia come un sostanziale fallimento, provocato sia dalla reazione di Marinetti e dei secondi futuristi241 sia dalla concreta impossibilità di riprodurre, nel contesto del fascismo italiano, l’operazione nazionalsocialista contro l’«arte degenerata»242. Un simile approccio, tuttavia, ha contribuito a sottovalutare l’effettivo risultato politico dell’azione interlandiana, definito dal pieno raggiungimento di tre specifici obiettivi. In primo luogo, l’espulsione reale e simbolica degli ebrei dall’arte moderna «italiana»: con argomentazioni differenti e contrapposte – da un lato, l’accusa di «ebraizzazione» dell’arte moderna, dall’altro la raffigurazione dell’ebreo come privo di «forza creativa» –, la separazione antisemita fra arte «italiana» ed «ebraismo» è, infatti, l’elemento dialettico che domina l’intero dibattito, accomunando Interlandi a Marinetti e Bottai; in secondo luogo, il definitivo «addomesticamento» di Marinetti e del secondo futurismo, già da anni in contrasto con il rappel à l’ordre del regime fascista in ambito artistico e divenuti ora, a partire dal 1934 e ancor più dal 1937, un preoccupante elemento di tensione nei rapporti culturali fra Italia e Germania243; infine, l’apertura di uno spazio ideologico-politico disponibile ad accogliere, con i primi mesi del 1939, tanto il modernista Premio Bergamo, sostenuto da Bottai244 , quanto il tradizionalista Premio Cremona, capeggiato da Farinacci. In quest’ottica, non la III Quadriennale del 1939, segnata ancora – nonostante la totale esclusione degli artisti identificati come «ebrei»245 – dalla furia di Pensabene contro il «Novecento» e contro la critica di Lionello Venturi e Roberto Longhi246, ma l’istituzione del Premio Cremona farinacciano individua probabilmente il momento in cui – per citare una nota non firmata pubblicata sul «Tevere» – vengono pronunciate le «parole conclusive sulla polemica artistica»247 .
4. L’arte come mimesi della razza.
Stemperatasi con gli inizi del 1939, la campagna antimodernista di Interlandi conoscerà un significativo proseguimento nelle aule dei tribunali. Nel novembre 1938, Giuseppe Pensabene ha infatti lanciato, sulle pagine di «Quadrivio», l’ennesimo fulmine
Arte e razza: pittura, musica e architettura293 contro la cosiddetta «internazionale dell’architettura». La tesi è quella nota, costantemente riaffermata, dell’origine «ebraica» del razionalismo:
I principali «architetti» di Novembre, l’ebreo Mendelsohn, il comunista Gropius, seguiti subito da Mies Van der Rohe, poi a Francoforte da Ernesto May, anche lui ebreo, mentre in Francia operava, isolato, col finanziamento dell’industriale Frugès, lo svizzero Carlo Eduardo Jeanneret, detto Le Corbusier (che, sebbene su altro suolo, aveva respirato anche lui l’aria ebraica della sconfitta e del comunismo, al tempo della sua propaganda su la rivista «Esprit Nouveau»), tutti costoro crearono, in qualche anno, il cosiddetto «razionalismo». Senza razza, senza patria, distruttore dell’artigianato, favoreggiatore della grande Industria: ecco i suoi connotati. Che sono, come si vede, connotati ebraici248 .
Fin qui nulla di nuovo. La conclusione del lungo articolo è però interamente occupata da pesanti invettive nei confronti di Giuseppe Pagano:
Anzitutto questo stesso Pagano da dove viene? Dove ha fatto i suoi studi? Intanto è certo che il suo nome Pogatschnig, non pare di struttura italiana. Poi c’è il fatto innegabile che proprio lui, quando cominciò a diffondere tra i primissimi il razionalismo in Italia era strettamente legato all’architetto ebreo Levi-Montalcini: precisamente quando il finanziere internazionale Gualino fece per la prima volta da mecenate alla nuova moda, sperimentandola in una casa a varii piani, costruita appunto dallo stesso Pogatschnig.
Contemporaneamente l’ebreo Bonfiglioli, fondava a Milano la rivista «Casa Bella», che diveniva subito il massimo centro di propaganda, agendo soprattutto sulla massa ingenua e impreparata degli studenti. Fin da principio il Pagano ne fu uno dei più accesi ed assidui collaboratori: a cui si unirono l’ebreo Levi-Montalcini, l’ebreo Faludi ed altri; divenuti d’allora in poi i capi del movimento249 .
Il direttore di «Casabella Costruzioni» risponde, nel novembre 1938, con un pungente articolo diretto principalmente contro «Quadrivio» e «Il Perseo»250, ovvero contro Pensabene e Della Porta, definiti «energumeni» e «sciacalli», che «van sbavando parole sconclusionate e insulti gratuiti pur di ridurre il mondo dell’arte italiana a una grettezza e a un’ignoranza che non è permessa oggi neanche al Niam-Niam»251. Pagano ha buon gioco ovviamente nel dare del «razionalista rinnegato» a Pensabene:
Esaminiamo, una volta tanto, questo ineffabile Pensabene, specie di medium scrivente che in questi ultimi anni si è messo al servizio di tutte le correnti con una disinvoltura e una animosità degne del più fetido levantino. Se io non possedessi delle sue lettere autografe del 1931 nelle quali dice esatta- mente il contrario di quanto oggi sproloquia; se non conoscessi l’aborto del suo unico progetto di architettura che, per la mia generosità, fu il suo passaporto razionalista; se io non conoscessi la sua disinvoltura a cambiar opinione potrei crederlo traviato, ma in buona fede. Ma io so che egli non può essere convertito perché mai ha avuto un’opinione definita: oggi è la Pizia da Quadrivio, domani scriverà i versetti del Talmud, posdomani, come qualche anno, scaricherà la casacca al servizio dell’arte moderna, sempre strisciando al riparo di un qualsiasi paravento252
Come può parlare «in difesa della razza» – continua Pagano –un «sudicio trasformista che in pochi anni ha cambiato colore più di un camaleonte»? Se Pensabene ha dato dell’«ebreo» a Pagano, quest’ultimo replica, etichettandolo come «agente di Stalin» e «meticcio»253. Un’orgogliosa rivendicazione dell’«italianità» dell’architettura moderna giunge quindi a concludere l’articolo. La «dignità della nostra razza» – afferma Pagano – non si eleverà certo con le «polemiche a base di insulti gratuiti e di argomentazioni sconclusionate»: «La rivista che io dirigo, – scrive ancora l’architetto, – è un blocco chiaro e coerente che onora l’Italia e i suoi artisti più vivi. Non abbiamo livori, non abbiamo ambizioni che offuschino il nostro giudizio critico e il nostro ideale. Lavoriamo per i giovani e per il domani, e la nostra azione costruttiva non sarà mai intaccata dai bassi livori di un Pensabene o di un Della Porta»254 .
A metà dicembre, la prima pagina del «Tevere» annuncia la querela di Pensabene contro Pagano. Oggetto del processo – afferma la nota – sarà l’attività di «un gruppo di architetti ebrei svolta attraverso pubblicazioni fondate da ebrei»:
Con la separazione degli ebrei dalla vita nazionale, si cerca appunto di separare il metodo degli ebrei – ammirevolmente assunto dagli ebraizzati per calcolo o per vocazione – dal metodo degli italiani; e il metodo usato dagli ebrei che sostengono le ragioni dell’architettura da noi ripudiato è quello che sarà sottoposto al magistrato ordinario. A suo tempo, quando il Pagano-Pogatschnig sarà sul banco degli accusati, illustreremo ai lettori come, da una discussione fondata su dati di fatto inoppugnabili (l’attività, per noi deleteria, di un gruppo di architetti ebrei svolta attraverso pubblicazioni fondate da ebrei) si sia precipitati, per la ben nota incapacità giudaica a dominare i propri nervi, in una sconcia diatriba. Il Pogatschnig-Pagano si è evidentemente inspirato ai grandi modelli del ghetto nell’aggredire verbalmente uno scrittore che difende le proprie idee e combatte quelle degli ebrei255 .
Pagano risponde, querelando a sua volta Interlandi e Pensabene. La discussione dei procedimenti penali viene fissata per il 20 febbraio 1940256. Nei mesi che intercorrono, l’antisemitismo di Pensabene non conosce tregua e anzi continua a esprimersi sulle colonne della «Difesa della razza», attaccando, soprattutto nel periodo maggio-luglio 1939, il razionalismo257 e gli allestimenti prodotti da Pagano in occasione della mostra leonardesca di Milano. Contro l’interpretazione che vede in Leonardo un precursore di Le Corbusier, Pensabene esalta piuttosto l’«italianità» dell’arte leonardesca, in polemica con le letture «europeiste» e «internazionaliste»258. Nei primi mesi del 1940, la contrapposizione Pensabene-Pagano annuncia di riproporre lo scontro Interlandi-Marinetti del novembre 1938: difensori di Interlandi e Pensabene sono Bruno Cassinelli e Andrea Finocchiaro; l’avvocato di Pagano è invece Reichlin, dell’ufficio legale del pnf; i testimoni dei giornalisti sono Soffici, Ojetti e Brasini, mentre a difesa di Pagano intervengono Marinetti, Mezzasoma, vicesegretario del pnf e Luciano De Feo.
Alla prima udienza, il diretto intervento mussoliniano giunge, tuttavia, a soffocare la diatriba. Un documento della Polizia Politica ricostruisce con chiarezza lo svolgimento dei fatti:
Gli avvocati e tutti coloro che si attendevano dallo svolgimento del dibattito della querela presentata dal Comm. Pagano contro il Comm. Telesio Interlandi, delle scene movimentate e violenti contrasti fra difesa e Parte Civile, sono rimasti – riferisce Brucassi – alquanto delusi, perché (come sarà noto già alla Direzione Generale di P.S.) il Presidente ha rinviato, a nuovo ruolo, il predetto processo.
Il rinvio a nuovo ruolo fu dovuto ad un telegramma del Comm. Vito Mussolini, Direttore del «Popolo d’Italia», col quale telegramma si rendeva edotto il Tribunale che la Parte Civile Comm. Pagano, non poteva intervenire al dibattimento, perché obbligata ai lavori del Congresso di Mistica Fascista di Milano.
Naturalmente questo fatto ha dato ai nervi al Direttore del «Tevere» perché l’intervento del Comm. Vito Mussolini, è sembrato un tentativo di sabotaggio e il Comm. Interlandi ha pronunziato le solite minacce di scandalo!
«Mi recherò a Milano – esclamava il Comm. Interlandi – e parlerò molto chiaramente al camerata Vito Mussolini! Io voglio giustizia e non voglio interferenze politiche e per questo mi sono astenuto dal chiedere protezioni! Ma se si vogliono salvare gli ebrei perché milionari e pronti a sborsare qualsiasi somma, sono pronto a denunziare tutte queste losche manovre!»259
Il modesto esito della querela contro Pagano260 non basta a placare le rivendicazioni di Pensabene. Pochi mesi dopo l’abortita udienza di febbraio, il critico d’arte del «Tevere» si affianca, infatti, al farinacciano «Il Regime Fascista» nel rivolgere tutta la sua
296Capitolo sesto indignazione verso la seconda edizione del «Premio Bergamo», colpevole di riproporre un’arte «ebraizzata», proprio nel momento in cui l’Italia è coinvolta nella guerra provocata dall’«internazionale giudaica»261. Anche «La Difesa della razza» riporta l’accusa, dando voce a Giuseppe Dell’Isola (alias Giuseppe Pensabene) sulle colonne del Questionario. Di fronte al «gusto apertamente giudaizzante» del «Premio Bergamo», il critico invoca «l’intervento delle autorità responsabili»: «È possibile turbare ancora in tal modo la sana attività degli artisti italiani, e porli dinanzi ad una contraddizione? Come può avvenire ancora ciò? Anzi, come è avvenuto? Come è stato permesso? E come, ancora si permette?»262 .
Proprio «La Difesa della razza» è il luogo in cui, dopo le polemiche condotte dal «Tevere» e da «Quadrivio», si sviluppa con maggiore continuità il tema della contrapposizione fra arte «italiana» e arte «ebraica». L’ampio utilizzo dell’immagine segna, da questo punto di vista, un rilevante salto di qualità. La scultura classica e rinascimentale e la pittura del Quattrocento e Cinquecento – si potrebbero citare, fra i più riprodotti, Leonardo, Piero della Francesca, Perugino, Raffaello, Paolo Uccello, Michelangelo, Tiziano – ma anche le produzioni di Alberto Ziveri (nella sua fase realista), di Angelo Dall’Oca Bianca, di Mary Cassatt, vengono mobilitate al fine di «condurre le menti più semplici a collegare con un colpo d’occhio le caratteristiche razziali delle antiche genti d’Italia con quelle delle genti d’oggi e intuirne il mantenersi invariato nei millenni»263. È un’arte dell’eternità, quella espressa dalla «Difesa della razza», in una sorta di duplice processo di assorbimento, dell’invisibile nel visibile e del passato nel presente (e nel futuro)264: reso visibile dall’arte, il «genio» indica alla razza italiana la sua origine e il suo fine. I tesori archeologici degli Uffizi e dei musei capitolini, le architetture e gli affreschi rinascimentali promuovono un’auto-idolatria della razza italiana, celebrandone la permanenza nel tempo dei caratteri somatici e spirituali: così il San Giorgio di Mantegna diviene espressione della «maschia italica fierezza»265, la Madonna col figlio e angeli di Girolamo dai Libri identifica la «purezza italiana»266, l’Annunciazione di Antonello da Messina rappresenta il «vero tipo etnico siciliano»267; le figure femminili di Tiziano e di Botticelli sono indicate come donne «di razza italiana»268. Nel primo numero del quindicinale, una freccia con la didascalia Continuità di caratteri fisionomici della razza attraverso i
Arte e razza: pittura, musica e architettura297 millenni,collega una figura femminile proveniente dagli scavi di Orvieto del iii secolo a.C. al ritratto giovanile di Margherita di Savoia269 .
E se il volto scolpito di Augusto riflette «la nobiltà della razza italica», quello di Caracalla ha invece «i caratteri somatici del semibarbaro»270. Prodotto del «genio artistico» italiano ed incarnazione delle sue caratteristiche antropologiche, l’arte incide, in quanto tale, un segno definitivo di esclusione. Due esempi, fra i molti possibili: in un articolo intitolato L’Umbria contro gli ebrei, le fotografie del Palazzo dei Priori a Perugia, della basilica di Assisi, del duomo di Orvieto, della rocca di Spello illustrano uno spazio architettonico nel quale «l’elemento ebraico non poté aver ospitalità»271; nel fotomontaggio Madri e figli di tutte le razze, pubblicato nelle pagine centrali del terzo numero della rivista, la Madonna del Ghirlandaio è collocata al centro, come canone estetico della «maternità italiana», ed è circondata dalle fotografie delle madri di altri continenti, il cui atteggiamento verso la prole è descritto dalle didascalie in termini di «abiezione», «forza brutale», «espressione selvaggia»272 . Per visibilia invisibilia: la formula neoplatonica della Patristica ben si attaglia all’impostazione iconografica della «Difesa della razza», la quale attinge largamente al patrimonio artistico a soggetto religioso, per esprimere non solo l’eternità del tipo antropologico, ma anche il suo carattere assoluto, trascendente: la stessa Madonna del Ghirlandaio, citata in precedenza, viene riprodotta a tutta pagina, nel luglio 1940, con la didascalia «una pura bellezza italiana divinizzata»273 .
In questa cornice affrescata, la voce antisemita di Giuseppe Pensabene ha un impatto, se possibile, ancora più devastante. È una sorta di darwinismo estetico, su base razziale, quello delineato dall’architetto palermitano nelle pagine del quindicinale di Interlandi, tra il gennaio e l’aprile 1939. Fondamentale è, ovviamente, la contrapposizione dicotomica fra Semiti e Arii. I primi – comprendenti, oltre agli ebrei, i Fenici, gli Assiri, gli Arabi – scaturirebbero dal «miscuglio» di due razze dell’Asia anteriore, «l’orientale e la levantina», entrambe poco dotate in campo artistico: «L’una per la sua psiche d’una passionalità chiusa che si nutre d’astrazioni e d’accecanti apparizioni, l’altra per la sua esuberanza tutta sensuale e intollerante di forma, incapace d’armonia: l’una e l’altra, conseguentemente, staccate dalla natura, e impotenti a immedesimarvisi ed a riplasmarla»274. Anche gli Arii sono composti, secondo Pensabene, da almeno quattro «razze»: «l’occidentale o medi-
298Capitolo sesto terranea, la nordica, l’alpina, la dinarica». L’«arte classica» – intesa come architettura, scultura, pittura, poesia e musica – sarebbe patrimonio esclusivo della «razza mediterranea», dotata di un «vivo e splendente senso della natura»; agli altri tre nuclei razziali, più inclini al «mondo invisibile delle emozioni», si ricollega, invece, il «romanticismo»275. Di qui il primato della Grecia cretese e ionica, dei Persiani e degli «Italici di tutti i tempi» – dagli Etruschi al Rinascimento – nel campo della scultura e della pittura: il dono della mimesi artistica sarebbe, in sostanza, una virtù razziale dei «mediterranei»276 .
Se tutta la classicità è, dunque, patrimonio razziale della componente mediterranea degli Arii, dai Semiti non proviene, per contro, alcun apporto originale nel campo dell’architettura, della scultura o della pittura. L’arte fenicia, ad esempio, sarebbe copiata, importata, ridotta a mera produzione artigianale facilmente commerciabile:
Questa insensibilità, questa deficienza, questo poter ridurre l’arte a meccanismo; questo poter copiare senza impegnarsi, e senza che le stesse materie trattate, legno, rame, argento, avorio, suggerissero, nel corso del lavoro, impressioni ed immagini, li liberassero solo per un momento, dalla copia: questa vera e propria inferiorità dovuta alla razza, fu da loro, secondo il solito, trasformata in uno strumento di guadagno277
Confrontata con l’«anima camitica» dell’arte egizia, l’architettura, la scultura e la pittura babilonesi rivelerebbero quella mancanza di senso plastico, propria, invece, dell’«anima semitica»: «Non v’è senso d’eternità, né di durata, né di regolato e metodico lavoro. La natura è assente. […] È chiaro che in un carattere simile, privo costituzionalmente del senso della durata, non possono allignare le arti plastiche. E che, anche quando ciò in apparenza avviene, si tratta sempre di riflessi privi di valore»278. E sorte non migliore tocca all’architettura assira, costantemente oscillante fra la «troppa povertà» della razza «orientale» e la «troppa ricchezza» della razza «levantina»279. Proprio agli Assiri si deve, secondo Pensabene, la diffusione di quello stile «barocco» che, nella storia dell’arte – dalla Gigantomachia di Pergamo alle architetture dell’Asia Minore ellenistica fino al Seicento italiano – annuncia sempre i processi degenerativi, innescati dalla razza «levantina» dei Semiti ai danni del classicismo ariano-mediterraneo280. Quanto agli ebrei, il giudizio di Pensabene è quanto mai netto: «non esistono
Arte e razza: pittura, musica e architettura299 una pittura ed una architettura ebraiche»281; quando si occupano di arte, gli ebrei ripetono meccanicamente gli stili di «altri popoli», banalizzandoli e commercializzandoli successivamente sul mercato internazionale282 .
Il cerchio così si chiude, e nell’antisemitismo di Pensabene, ancora una volta, tout se tient: l’arte «ibrida» ed «eclettica» dei Semiti, frutto di una costitutiva incapacità delle razze «orientale» e «levantina» alla figurazione e al senso plastico, è l’origine storica profonda della moderna «arte internazionale», da quella moda pompeiana lanciata, nel 1933, dagli ebrei delle gallerie parigine al razionalismo architettonico, con cui il «genio distruttivo» ebraico tenta di «assoggettare del tutto l’edilizia alla grande industria»283. Una tesi condivisa, nel febbraio 1939, anche da Giulio Cogni, per il quale «l’arte ebraica», intesa come arte «internazionale, cioè anazionale, falsa e fondamentalmente immorale», è diretta espressione delle «disarmonie» del corpo e dell’anima «semitiche»284 .
Che l’arte sia «una manifestazione della razza ed anzi certamente la più tipica e sensibile»285 non è, infatti, un’opinione nutrita dal solo Pensabene. Al contrario essa trova due importanti sostenitori, fra quanti collaborano alla «Difesa della razza», nelle figure di Ottorino Gurrieri, giornalista e storico dell’arte a Perugia, e di Silvestro Baglioni, docente di fisiologia umana all’Università di Roma. Per il primo, «i più nobili ed immortali monumenti dell’arte» tramandano e documentano «la mancanza di qualsiasi inquinazione e profanazione straniera» ai danni della «linea mirabile di continuità e di purezza» rappresentata nei secoli dalla «stirpe italica»286. Dagli Etruschi al Rinascimento – afferma Gurrieri – la «persistenza delle caratteristiche ariane» è evidente. Gli Etruschi non sono mai stati contaminati dall’elemento «semitico» e anzi la loro arte rivela le influenze elleniche e anticipa le realizzazioni romane, dall’arco trionfale alla scultura della Lupa287. La statua funebre di Arunte Volumnio rispecchia fedelmente i «caratteri ariani e italici»: «le fronti ampie e spaziose, i nasi diritti, l’arco delle sopracciglia elevato, il taglio della bocca e la conformazione del mento sono indubbie qualità di purezza»288. La «notte bizantina» – continua Gurrieri – interrompe la continuità artistica e razziale, rappresentata dal dominio etrusco e romano. La «razza» torna a risplendere negli scultori e pittori del Duecento e Trecen-
300Capitolo sesto to, primi fra tutti Cimabue, Giotto e Nicola Pisano. Il punto di riferimento è dato, questa volta, dalla fontana di Perugia, vera e propria «figurazione enciclopedica dell’umanità e della morale medioevale»: «Questo monumento così schiettamente nostro, incontaminato da influssi stranieri, lascia durevoli insegnamenti, quali ne aveva ricevuto dalla scultura etrusca e romana»289. Un terzo esempio dell’aderenza dell’«ideale artistico» italiano al «tipo ariano e latino» è infine incarnato dal Rinascimento umbro del Perugino e del suo allievo Raffaello. La «razza italiana» è qui «trionfante» nelle caratteristiche dei volti e degli atteggiamenti: «Basta vedere il Salomone ed il Davide dipinti da Pietro Vannucci nel Collegio del Cambio, ed il San Domenico ed il San Girolamo di Raffaello, per constatare come quelle facce costruite con senso latino discendano dai più remoti progenitori e siano in conclusione il prodotto di una razza rimasta immune»290 .
A confermare le tesi di Gurrieri giunge, nel marzo 1939, un articolo del solito Pensabene, che sintetizza le ricerche di Eugen Fischer sull’arte etrusca: quest’ultima rivelerebbe chiaramente come gli Etruschi non siano affatto una razza «levantina» od «orientale», ma una razza a sé, ribattezzata «aquilina» dalla forma del naso. E la continuità del «tipo etnico», raffigurato in tanti bassorilievi, sarebbe facilmente riscontrabile nei volti degli «etruschi viventi», ovvero degli abitanti di Volterra, Chiusi, Tarquinia291 La teorizzazione fischeriana viene curiosamente adottata dallo stesso Gurrieri, nel maggio 1941, per elaborare una sorta di classificazione antropologica del «genio artistico» italiano. Alla fisionomia «aquilina» sarebbero così riconducibili Leon Battista Alberti, Michelangelo Buonarroti, Benvenuto Cellini; «latini» sarebbero, invece, Giotto, Tiziano, Bernini; e nella categoria dei «feminei» – per la «delicatezza dei tratti» e la «dolcezza dell’espressione» – si troverebbero Raffaello, Canova, Andrea del Sarto, Vincenzo Bellini292
Anche per Silvestro Baglioni, l’arte dei «grandi maestri» contribuisce a fissare la bellezza della «razza italica»: «Lo studio antropologico ed etnologico dei caratteri fisici dei personaggi delle figure rappresentate nelle opere dei grandi artisti fa manifestamente riconoscere, – scrive il fisiologo, – che i loro tipi corrispondono, per moltissimi caratteri di somiglianza, ai tipi etnici regionali delle persone e degli individui oggi ancor viventi nelle regioni e
Arte e razza: pittura, musica e architettura301 nelle città, ove essi vissero ed operarono»293. Così il tipo di bellezza femminile del Correggio si può riconoscere nei volti delle donne parmigiane; la donna giunonica di Tiziano o di Tiepolo è «l’apoteosi del caratteristico tipo femminile che ancor oggi irradia di sua bellezza il mondo veneto»; negli affreschi di Raffaello risplende «la mite bellezza delle donne umbro-picene»294. Alla descrizione tradizionale dell’arte come specchio della razza, si aggiunge, nel discorso di Baglioni, l’individuazione di una sua precisa funzione eugenetica: agendo sulla «fantasia» e sullo «spirito», la contemplazione della bellezza artistica educa il gusto e incide sulla «scelta amorosa» alla base della procreazione e della trasmissione ereditaria dei caratteri razziali. Di conseguenza, secondo Baglioni, «il culto e l’amore delle opere dei nostri grandi maestri» deve essere promosso dal regime «anche in riguardo di questa azione del miglioramento e dell’elevazione di nostra stirpe»295. Non a caso le Madonne con bambino di Raffaello, di Michelangelo e di Correggio divengono, in un successivo articolo, l’«alimento» e la «fiamma» a cui attingere per sviluppare l’eugenetico «amore per i figli»296. Per Baglioni, è Leonardo da Vinci l’esempio più elevato di convergenza fra arte e razziologia: l’artista, infatti, «vide e scrutò con metodi strettamente scientifici, matematici ed esatti, la struttura e il tipo antropologico dell’uomo»297 .
Leonardo è del resto al centro dell’attenzione di diversi collaboratori della «Difesa della razza». Già nell’ottobre 1938, un articolo redazionale di accompagnamento al contributo del giurista Domenico Rende sul «pansessualismo» di Freud aveva rigettato l’interpretazione psicanalitica di un ricordo d’infanzia leonardesco come un tentativo condotto da Israele per «insudiciare» l’immagine del «genio»298. Ma l’apice del processo di razzizzazione dell’arte leonardesca, condotto sulle pagine del quindicinale interlandiano, è senza dubbio raggiunto dall’interpretazione del Cenacolo scaturita dalla fantasia di Gino Sottochiesa. Per il pubblicista cattolico, si può parlare, per il dipinto leonardesco, di vero e proprio «razzismo pittorico». I caratteri somatici degli Apostoli, circonfusi da un «alone mistico di grazia», rivelano, infatti, i volti di «ebrei tipici e inconfondibili», ma soltanto nell’espressione di Giuda i tratti fisionomici portano «le stigmate del delitto e della diabolica nequizia»: «I volti degli Apostoli Ebrei, – scrive Sottochiesa, – sono di una verità razziale che suscita uno straordinario stu-
302Capitolo sesto pore. Vi è una intera gamma di espressioni, una diversa dall’altra, ma tutte e ciascuna improntate a una identica manifestazione di ritratto razziale, le cui caratteristiche somatiche e psichiche portano il segno sicuro e indelebile della natura umana ebraica»299 .
Sulla raffigurazione artistica di Giuda è anche incentrato, nel dicembre 1941, un lungo articolo di Giovanni Marro. Da Leonardo al Canavesio, dal Giotto della Cappella degli Scrovegni all’Andrea del Castagno dell’ex convento di Santa Apollonia a Firenze, fino ai maestri della Scuola senese nella Chiesa superiore del Sacro Speco di Subiaco, l’arte – afferma l’antropologo – ha saputo riprodurre perfettamente, nella figura di Giuda, il carattere «degenerativo» e l’ibridismo «negroide» degli ebrei300 .
La parabola del rispecchiamento razziologico nell’opera artistica è così compiuta: nel momento stesso in cui fissa la bellezza della «razza italiana», l’arte dei «grandi maestri» raffigura e denuncia l’alterità e la pericolosità dell’«elemento giudaico».
1 a. a. blok, Poesia ed arte bolscevica, trad. dal russo di G. Bomstein e T. Interlandi, Casa Ed. Rassegna Internazionale, Pistoia 1920. Nel 1922, Interlandi traduce, inoltre, in collaborazione con Boris Gurevich, il Diario di Satana di Leonid Andreev (Casa ed. Apollo, Bologna 1922).
2 p. gobetti, «Canti bolscevichi» di Blok, in «Ordine Nuovo», 6 marzo 1921, ripubblicato in p. spriano (a cura di), Opere complete di Piero Gobetti, II, Scritti storici, letterari e filosofici, Einaudi, Torino 1969, pp. 376-77.
3 Cfr. a. soffici, Della libertà, in «Il Tevere», 14 febbraio 1925, p. 3; id., Armando Spadini, ivi, 25-26 novembre 1925, pp. 1 e 3; id., Parigi, «La Rotonde» e l’italianità, ivi, 23-24 agosto 1926, p. 3; id., Morti di fame, ivi, 21-22 maggio 1927, p. 3; id., Periplo dell’arte, ivi, 12-13 luglio 1927, p. 3. Sul Soffici apologista antimoderno degli anni Venti, cfr. v. trione, Dentro le cose. Ardengo Soffici critico d’arte, Bollati Boringhieri, Torino 2001, pp. 260-388.
4 Per un approfondimento, cfr. c. burdett, Vincenzo Cardarelli and his Contemporaries. Fascist politics and literary culture, Clarendon Press, Oxford 1999, pp. 116-49. Cfr. anche v. cardarelli e g. ungaretti, Lettere a Corrado Pavolini (1926-1930), introduzione e note di M. Mascia Galateria, Bulzoni, Roma 1989.
5 l. sciascia, Del dormire con un occhio solo, in v. brancati, Opere 1932-1946, a cura di L. Sciascia, Bompiani, Milano 1987,p. x.
6 Cfr. a titolo di esempio, a. g. bragaglia, Paesaggi teatrali, in «Il Tevere», 22 giugno 1925, p. 3.
7 m. bontempelli, Perché «’900» sarà scritto in francese, ivi, 18-19 maggio 1926, p. 3. Per la polemica Soffici-Bontempelli, Diritto e rovescio della rivista italiana in lingua francese, ivi, 8-9 giugno 1926, p. 3.
8 Cfr. v. paladini, Questioni sul razionalismo, ivi, 7-8 aprile 1931, p. 3; id., Del «razionalismo» in architettura, ivi, 27-28 giugno 1931, p. 3. Su Paladini «bolscevico immaginista», cfr. u. carpi, Bolscevico immaginista. Comunismo e avanguardie artistiche nell’Italia degli anni venti, Liguori, Napoli 1981.
Arte e razza: pittura, musica e architettura303
9 Cfr. v. brancati, Mariolina, in «Il Tevere», 19-20 luglio 1929, p. 3; id., Amore e odio, ivi, 16-17 giugno 1931, p. 3; id., Tempesta nel nulla, ivi, 23-24 luglio 1931, p. 3; id., La mia visita a Mussolini, ivi, 13-14 agosto 1931, p. 3; id., Guido Piovene, ivi, 13-14 novembre 1931, p. 3.
10 Cesare Zavattini, collaboratore del «Tevere» fin dal 1928, viene osannato da Interlandi in t. interlandi, Arriva uno scrittore, ivi, 13-14 agosto 1931, p. 1.
11 Cfr. e. flajano, Quattro passi, ivi, 2-3 aprile 1932, p. 3; id., Binario morto, ivi, 27-28 aprile 1932, p. 3; id., Primo giorno, ivi, 18-19 giugno 1932, p. 3.
12 r. melli, Visite ad artisti (su Capogrossi), in «Quadrivio», II, n. 3, 12 novembre 1933, pp. 5-6; id., Visite ad artisti. Emanuele Cavalli, ivi, n. 7, 10 dicembre 1933, pp. 7-8; id., Visite ad artisti. Fausto Pirandello, ivi, n. 21, 18 marzo 1934, pp. 7-8; id., Visite ad artisti. Mario Mafai, ivi, III, n. 22, 31 marzo 1935, pp. 9-10; id., Visite ad artisti. Marino Marini, ivi, n. 23, 7 aprile 1935, pp. 6-7.
13 p. m. bardi, Risveglio della pittura murale, ivi, I, n. 2, 13 agosto 1933, p. 1; f. t. marinetti, L’architettura di Sant’Elia e la pittura murale, ivi, p. 2; p. m. bardi, Pittura murale. Difesa d’un diritto secolare, ivi, n. 4, 27 agosto 1933, p. 6; f. t. marinetti, Pittura murale. Una lettera di F. T. Marinetti, ivi, n. 6, 10 settembre 1933, p. 7.
14 m. m. morandi, Opinioni sull’architettura, ivi, p. 9.
15 v. paladini, Mario Ridolfi, ivi, III, n. 4, 25 novembre 1934, pp. 4-5; id., Adalberto Libera, ivi, n. 15, 10 febbraio 1935, pp. 8-9.
16 p. m. bardi, Roma, il fascismo, Littoria, l’architettura (Discorsi con Le Corbusier durante un viaggio in Grecia), ivi, I, n. 5, 3 settembre 1933, pp. 1-2.
17 [t. interlandi], L’arte nello Stato fascista, in «Il Tevere», 2-3 dicembre 1926, p. 1.
18 Aperta dall’articolo di id., Un ordine artistico (ivi, 13-14 luglio 1927, p. 1), l’inchiesta registra gli interventi di Oppo, Carrà, Soffici, Maccari, Biancale, Tinti, Ojetti, Cecchi, Maraini, Rosai, Tridenti, Drei, Venturi. Le conclusioni vengono pubblicate, sotto forma di lettera a Mussolini, in c. pavolini, Per un ordine artistico. Conclusione, ivi, 2-3 agosto 1927, p. 1. Il «disordine» del sistema artistico è nuovamente denunciato in [t. interlandi], Toh, chi si rivede: l’arte!, ivi, 6-7 ottobre 1928. Per un riassunto dei dibattiti suscitati da questo articolo, cfr. s. a., Conclusioni dopo una nomina, ivi, 1011 novembre 1928, p. 3.
19 [t. interlandi], Il teatro come arma di combattimento, ivi, 10-11 luglio 1926, p. 1.
20 id., Cinema, ivi, 15-16 novembre 1926, p. 1.
21 id., 50.000 lire spese bene, ivi, 8-9 febbraio 1929, p. 1.
22 Ibid
23 [t. interlandi], Il Fascismo e l’Arte, ivi, 15-16 febbraio 1926, p. 1.
24 id., Contributo all’antieuropeismo, ivi, 7-8 ottobre 1927, p. 1.
25 id., La peggiore internazionale, ivi, 8 settembre 1925, p. 1. Contro Croce, cfr. anche id., Gli ultimi disfattisti, ivi, 27 agosto 1925, p. 1 e id., Filosofi corrigendi, ivi, 1-2 aprile 1926, p. 1; contro Francesco Coppola e l’idea di «civiltà europea», cfr. id., Solidarietà suicida, ivi, 15 settembre 1925, p. 1.
26 «Chi nega o piglia sottogambe il Fascismo non ha diritto di cittadinanza nella cultura nazionale perché s’è condannato da sé; egli può essere un dio della cultura europea, sarà il re della “città dell’intelligenza” fondata da Croce, ma in Italia, nell’Italia fascista del 1926, è un perfetto cretino o un cialtrone in mala fede»: cfr. [t. interlandi], Il senso del Fascismo e l’Enciclopedia, in «Il Tevere», 28-29 aprile 1926, p. 1. Sull’antigentilianesimo di Interlandi, cfr. a. tarquini, Gli antigentiliani nel fascismo degli anni Venti, in «Storia contemporanea», XXVII, n. 1, febbraio 1996, pp. 36-37.
27 [t. interlandi], Il Fascismo e l’Arte cit.
28 c. pavolini, La XVI Biennale Veneziana, in «Il Tevere», 3-4 maggio 1928, p. 3. Si veda, su questo articolo, la polemica con Ungaretti, in v. cardarelli e g. ungaretti, Lettere a Corrado Pavolini cit., pp. 172-73.
29 c. pavolini, La XVII Biennale Veneziana. Modigliani e altri artisti, in «Il Tevere», 2021 maggio 1930, p. 3.
30 Sulla figura di P. M. Bardi e una bibliografia di riferimento, cfr. f. tentori, P. M. Bardi, Mazzotta, Milano 1990; a. d’orsi, Bardi, Pier Maria, in s. luzzatto e v. de grazia (a cura di), Dizionario del fascismo cit., pp. 146-47.
31 Sul miar, cfr. d. p. doordan, Building Modern Italy: Italian Architecture 1914-1936, Princeton Architectural Press, New York 1988.
32 Per un quadro generale dei temi storiografici relativi al rapporto tra fascismo e architettura, al centro di questo capitolo, si rimanda a c. de seta, La cultura architettonica in Italia tra le due guerre, Laterza, Bari 1972; r. mariani, Fascismo e «città nuove»,Feltrinelli, Milano 1976; h. a. millon e l. nochlin, Art and Architecture in Service of Politics, The mit Press, Cambridge (Mass.) - London 1978; c. cresti, Architettura e fascismo, Vallecchi, Firenze 1986; g. ciucci, Gli architetti e il fascismo. Architettura e città, 1922-1944, Einaudi, Torino 1989; r. a. etlin, Modernism in Italian Architecture, 18901940, The mit Press, Cambridge (Mass.) - London 1991; d. y. ghirardo, Bulding New Communities: New Deal America and Fascist Italy, Princeton University Press, Princeton 1989; p. nicoloso, Gli architetti di Mussolini. Scuole e sindacato, architetti e massoni, professori e politici negli anni del regime, Franco Angeli, Milano 1999; f. dal co e m. mulazzani, Stato e regime, in g. ciucci e g. muratore (a cura di), Storia dell’architettura italiana. Il primo Novecento, Electa, Milano 2004, pp. 234-59; b. w. painter, Mussolini’s Rome. Rebuilding the Eternal City, Palgrave MacMillan, New York 2005. Recentemente, p. nicoloso, Mussolini architetto. Propaganda e paesaggio urbano nell’Italia fascista, Einaudi, Torino 2008; e. gentile, Fascismo di pietra, Laterza, Roma-Bari 2007.
33 g. pensabene, Estetismo e razionalismo, in «Il Tevere», 16-17 dicembre 1932, p. 3; id., I primi gruppi, ivi, 21-22 dicembre 1932, p. 3; id., L’archivio dei professori, ivi, 2627 dicembre 1932, p. 3; L’archivio dei professori, ivi, 29-30 dicembre 1932, p. 3; id., La campagna di stampa, ivi, 31 dicembre 1932 - 1º gennaio 1933, p. 3; id., La Tavola degli orrori, ivi, 2-3 gennaio 1933; id., La Tavola degli orrori, ivi, 5-6 gennaio 1933, p. 3; id., La Tavola degli orrori. Conclusioni, ivi, 9-10 gennaio 1933, p. 3. Per una breve ricostruzione del ruolo di Pensabene e soprattutto per una sintesi delle polemiche sull’architettura razionalista in Italia, cfr. l. patetta, L’architettura in Italia 1919-1943. Le polemiche, clup, Milano 1972.
34 g. pensabene, Estetismo e razionalismo cit., p. 3.
35 id., La Tavola degli orrori. Conclusioni cit., p. 3.
36 g. ciucci, Gli architetti e il fascismo cit., p. 135.
37 [t. interlandi], Archi, colonne e piattabande (ovvero: una discussione sbagliata), in «Il Tevere», 2-3 febbraio 1933, p. 1.
38 Cfr. p. nicoloso, Mussolini architetto cit., pp. 196-226.
39 Per una bibliografia di riferimento, cfr. g. ciucci, Gli architetti e il fascismo cit., p. 136.
40 Il Gruppo Toscano, guidato da Giovanni Michelucci, comprendeva Nello Baroni, Pier Niccolò Berardi, Italo Gamberini, Sarre Guarnieri e Leonardo Lusanna.
41 g. pensabene, A proposito della Stazione di Firenze, in «Il Tevere», 10, 69, 22-23 marzo 1933, p. 3.
42 Ibid
43 id., Disintossicare l’arte italiana, ivi, 2-3 giugno 1933, p. 3.
44 id., Liquidazione del «Novecento», in «Quadrivio», I, n. 10, 8 ottobre 1933, p. 1.
45 Ibid
46 g. pensabene, I limiti del razionalismo, ivi, n. 13, 29 ottobre 1933, p. 4.
47 id., Idea dello «standard» nell’architettura, ivi, n. 12, 22 ottobre 1933, p. 1. Cfr. anche id., Architettura e Industria, in «Il Tevere», 23-24 ottobre 1935, p. 3.
48 s. a. [ma g. pensabene], L’arte Kn o l’arte astratta, ivi, 4-5 giugno 1935, p. 3.
49 id., Borghesia novecentista, in «Quadrivio», II, 23, 1º aprile 1934, pp. 1-2.
50 Per un breve profilo biografico di Gio Ponti e una bibliografia di riferimento, cfr.
Arte e razza: pittura, musica e architettura305 p. nicoloso, Ponti, Gio, in s. luzzatto e v. de grazia (a cura di), Dizionario del fascismo cit., pp. 407-8.
51 g. pensabene, L’Accademia, le Lettere, le Arti. Gio[vanni] Ponti, in «Quadrivio», II, n. 27, 29 aprile 1934, p. 1.
52 Sulla Quadriennale del 1935, cfr. id., La scultura alla Quadriennale, ivi, III, n. 17, 24 febbraio 1935, pp. 1 e 5; id., La pittura alla Quadriennale. Ceracchini, Guidi, Donghi, Settala e Rosai, ivi, n. 20, 17 marzo 1935, p. 6; id., La pittura alla Quadriennale. Pirandello e Trifoglio, ivi, n. 23, 7 aprile 1935, p. 7.
53 id., Perché dipingono? Perché scolpiscono?, ivi, n. 33, 16 giugno 1935, p. 1.
54 id., Disintossicare l’arte italiana, ivi, IV, n. 9, 29 dicembre 1935, p. 3.
55 Ibid.
56 Ibid .Cfr. anche id., Intorno alle gare artistiche, ivi, n. 8, 22 dicembre 1935, p. 4.
57 id., Disintossicare l’arte italiana cit., p. 3.
58 Sulla coincidenza fra «internazionalismo» ed «ebraismo», con particolare riferimento all’antisemitismo hitleriano, cfr. e. jäckel, La concezione del mondo in Hitler. Progetto di un dominio assoluto, Longanesi, Milano 1972, p. 72.
59 g. pensabene, L’europeismo e i giovani, in «Quadrivio», IV, n. 17, 23 febbraio 1936, p. 1.
60 Ibid
61 Ibid.
62 Ibid.
63 Ibid.
64 id., A proposito dei giovani, ivi, n. 13, 26 gennaio 1936, p. 1.
65 id., L’europeismo e i giovani cit., p. 2.
66 Ibid
67 Ibid
68 Cfr. r. melli, Visite ad artisti. Corrado Cagli, in «Quadrivio», n. 17, 23 febbraio 1936, p. 6.
69 t. i. [telesio interlandi], C’è in Roma un focolare ebraico?, ivi, n. 18, 1º marzo 1936, p. 1.
70 Ibid
71 Ibid
72 Ibid
73 g. pensabene, Confusione pericolosa, ivi, n. 19, 8 marzo 1936, p. 1.
74 Ibid., p. 2.
75 Ibid.
76 id., Distruzione dell’architettura, ivi, n. 21, 22 marzo 1936, p. 1.
77 Ibid., p. 2.
78 id., Un Congresso Volta sull’Architettura, ivi, n. 22, 29 marzo 1936, p. 1.
79 Ibid., p. 2.
80 id., Architettura plutocratica, ivi, n. 38, 19 luglio 1936, p. 6.
81 Cfr. a. pica, Storia della Triennale di Milano. 1918-1957, Edizioni del Milione, Milano 1957; a. pansera, Storia e cronaca della Triennale, Longanesi, Milano 1978.
82 g. pensabene, Un’intollerabile manovra, in «Quadrivio», IV, n. 37, 12 luglio 1936, p.
1. Cfr. anche id., Punto critico, ivi, n. 35, 28 giugno 1936, pp. 1 e 6; id., Il torto degli artisti, ivi, n. 36, 5 luglio 1936, p. 1.
83 id., Un’intollerabile manovra cit., p. 1. Cfr. anche id., Architettura plutocratica cit., p.
6. Sull’architettura della Germania hitleriana, id., L’architettura monumentale ritorna all’ordine del giorno, in «Quadrivio», IV, n. 40, 2 agosto 1936, p. 1.
84 id., L’arte fascista scoperta dai comunisti, ivi, n. 50, 11 ottobre 1936, p. 1; cfr. anche id., La Biennale e la critica, ivi, n. 49, 4 ottobre 1936, pp. 1 e 7.
306Capitolo sesto
85 Cfr. accademia d’italia, Rapporti dell’architettura con le arti figurative. Sesto Convegno «Volta» promosso dalla classe delle arti (Roma, 25-31 ottobre 1936), Reale Accademia d’Italia, Roma 1936.
86 g. pensabene, Il Convegno Volta, in «Quadrivio», IV, n. 52, 25 ottobre 1936, p. 1.
87 id., L’arte fascista scoperta dai comunisti cit., p. 1.
88 h. g. [helmut gasteiner] e g. p. [giuseppe pensabene], Gli ideali dell’arte «moderna», in «Quadrivio», V, n. 37, 11 luglio 1937, p. 6.
89 t. i. [telesio interlandi], Crepuscolo sulle piattabande, ivi, n. 39, 25 luglio 1937, p. 2.
90 g. pensabene, Quel che c’è sotto, ivi, VI, n. 2, 7 novembre 1937, p. 6.
91 Cfr. é. michaud, Un art de l’éternité: l’image et le temps du national-socialisme, Gallimard, Paris 1996, pp. 242-46.
92 h. g. [helmut gasteiner] e g. p. [giuseppe pensabene], La «tradizione moderna» nella pittura e nella scultura, in «Quadrivio», V, n. 38, 18 luglio 1937, p. 7.
93 Cfr. e. crispolti, b. hinz e z. birolli, Arte e fascismo in Italia e in Germania, Feltrinelli, Milano 1974; s. barron, «Degenerate Art»: The Fate of the Avant-Garde in Nazi Germany, Los Angeles County Museum of Art, Los Angeles 1991; é. michaud, Un art de l’éternité cit.
94 g. pensabene, Politica e Arte a Monaco, in «Il Tevere», 27-28 settembre 1937, p. 3; id., Un simbolo: la Casa dell’Arte Tedesca a Monaco, in «Quadrivio», V, n. 49, 3 ottobre 1937, p. 1.
95 Cfr. e. crispolti e g. marchiori, Corrado Cagli, Edizioni d’Arte Pozzo, Torino 1964. Sulla galleria La Cometa, cfr. s. salvagnini, Il sistema delle arti in Italia cit., pp. 310-12.
96 Sulla Galleria del Milione, cfr. ibid., pp. 200-35.
97 «La Casa Bella», il cui primo numero esce nel gennaio 1928 sotto la direzione di Guido Marangoni, ha per i primi quattro numeri il sottotitolo «Arti e industrie de l’arredamento»; poi diviene «Rivista per gli amatori de La Casa bella»; col numero di gennaio 1930 la direzione passa ad Arrigo Bonfiglioli, con Pagano già in posizione preminente: la nuova copertina viene disegnata da lui e da Gino Levi Montalcini, l’impaginazione è totalmente rinnovata; nel gennaio 1931 e nel gennaio 1932 si cambia nuovamente la copertina, mentre nel dicembre 1932 Pagano firma come direttore e Bonfiglioli come responsabile. Nel gennaio 1933, la rivista modifica la testata, divenendo «Casabella», il formato e l’impaginazione. Nel novembre 1934 Persico assume la veste di redattore capo e quindi per un anno, dal gennaio 1935 fino alla morte, condirettore con Pagano. Ripresa la direzione unica di Pagano, la rivista diviene nel 1938 «Casabella-Costruzioni» e nel 1940 «Costruzioni-Casabella». Gli ultimi tre numeri della rivista, che cessa le pubblicazioni alla fine del 1943, non vengono firmati dal direttore.
98 g. pensabene, Il punto debole, in «Quadrivio», V, n. 11, 10 gennaio 1937, pp. 1-2.
99 id., Per una politica nazionale dell’Arte, in «Il Tevere», 12-13 giugno 1937, p. 3.
100 g. p. [giuseppe pensabene], Mostre romane. Disegni di Giorgio De Chirico, ivi, 2-3 dicembre 1937, p. 3.
101 Cfr. l’internazionale ebraica, I «Protocolli dei Savi Anziani» di Sion, La Vita Italiana, Roma 1937.
102 Sulla figura di Giuseppe Pagano-Pogatschnig, cfr. a. saggio, L’opera di Giuseppe Pagano tra politica e architettura, Dedalo, Bari 1984; per una bibliografia di riferimento, a. d’orsi, Pagano, Giuseppe, in s. luzzatto e v. de grazia (a cura di), Dizionario del fascismo cit., pp. 301-2.
103 g. pensabene, I Protocolli dei Saggi di Sion e le arti, in «Quadrivio», VI, n. 5, 28 novembre 1937, p. 1.
104 id., La Biennale e le «tendenze», ivi, n. 9, 26 dicembre 1937, p. 4.
105 id., «Razionalismo» ritardario, in «Il Tevere», 21-22 luglio 1937, p. 3. Cfr. anche id., Il ferro irrazionale, ivi, 19-20 luglio 1937, p. 3.
106 id., Soprattutto in Italia è importante la questione della razza, in «Quadrivio», VI, n. 14, 30 gennaio 1938, p. 2. Cfr. anche id., La razza in Italia, I, Introduzione, ivi, n. 13, 23
Arte e razza: pittura, musica e architettura307 gennaio 1938, p. 6; id., La razza come guida della nostra classe dirigente, ivi, n. 15, 6 febbraio 1938, p. 6; id., Una sola può essere la base della nostra cultura: la razza, ivi, n. 17, 20 febbraio 1938, p. 2.
107 id., 900 contro «Novecento». I «giovani» sono solo gli Ebrei?, in «Il Tevere», 4-5 gennaio 1938, p. 3. Della stessa serie, id., 900 contro «Novecento». Come è stato incoraggiato l’internazionalismo, ivi, 13-14 gennaio 1938, p. 3.
108 id., 900 contro «Novecento». I «giovani» sono solo gli Ebrei? cit.
109 Ibid.
110 Ibid.
111 Ecco Jacob Epstein, in «Il Tevere», 2-3 giugno 1938, p. 3.
112 g. pensabene, Alla XXI Biennale di Venezia. Inghilterra, Danimarca e Olanda, ivi, 2122 giugno 1938, p. 3.
113 id., Alla XXI Biennale di Venezia. Arte realistica, forte nel padiglione della Germania, ivi, 3-4 agosto 1938, p. 3.
114 id., La critica a Venezia, in «Quadrivio», VI, n. 33, 12 giugno 1938, p. 5.
115 [t. interlandi], Chi è ebreo?, ivi, n. 34, 19 giugno 1938, p. 5.
116 id., Cultura ebraizzata, in «Il Tevere», 21-22 luglio 1938, p. 1.
117 g. pensabene, La razza e la rinascita dell’arte, in «Quadrivio», VI, n. 42, 14 agosto 1938, p. 2.
118 id., Quello che c’è da aspettarsi, in «Il Tevere», 11-12 agosto 1938, p. 3.
119 id., La cultura e la razza, in «Quadrivio», VI, n. 41, 7 agosto 1938, pp. 1 e 6.
120 id., Vice-ebrei, ivi, n. 48, 25 settembre 1938, p. 2.
121 id., L’architettura e gli ebrei, ivi, n. 49, 2 ottobre 1938, p. 1. L’articolo è illustrato dalla consueta fotografia di Jacob Epstein e della sua scultura «Genesi».
122 id., Lettera a «Quadrivio», ivi, n. 50, 9 ottobre 1938, p. 7.
123 id., La casa è l’indice di come una razza concepisce la propria esistenza, ivi, p. 8.
124 f. scardaoni, L’ombra giudaica sulla Francia, in «La Difesa della razza», I, n. 3, 5 settembre 1938, p. 34.
125 g. cesetti, L’arte e la razza, ivi, n. 5, 5 ottobre 1938, p. 40. Per un profilo biografico di Cesetti, pittore di soggetti maremmani con un’impaginazione quasi naïve, stabilitosi a Parigi tra il 1935 e il 1937, cfr. f. bizzotto, Cesetti, Giuseppe, in La Pittura in Italia. Il Novecento, I/2, 1900-1945, Electa, Milano 1992, pp. 816-17.
126 Sul «disfattismo» del «gruppo di Novembre», cfr. anche g. pensabene, Motivi trionfali nell’arte dei popoli arii, in «La Difesa della razza», II, n. 1, 5 novembre 1938, pp. 26-28.
127 id., Arte nostra e deformazione ebraica, ivi, I, n. 6, 20 ottobre 1938, pp. 54-56.
128 id., Arte nostra e deformazione ebraica, ivi, II, n. 2, 20 novembre 1938, pp. 46-47.
129 a. casella, Modernità e tradizione nell’Italia musicale fascista, in «Quadrivio», II, n. 4, 19 novembre 1933, p. 1.
130 g. nataletti, Alfredo Casella, ivi, n. 18, 25 febbraio 1934, p. 5; a. casella, Riflessioni e confessioni, ivi, pp. 5-6.
131 Per alcuni accenni, cfr. f. nicolodi, Musica e musicisti nel ventennio fascista, Discanto, Fiesole 1984, pp. 262-65; h. sachs, Music in fascist Italy, Weidenfeld and Nicolson, London 1987, pp. 181-82. Cfr. inoltre il saggio di m. de santis, Casella nel ventennio fascista,in r. illiano, Italian Music during the Fascist Period, Brepols, Turnhout 2004, pp. 371-400. Utili anche, nel volume curato da Illiano, i contributi di Alaimo, Carapella e Nicolodi.
132 Francesco Santoliquido (San Giorgio a Cremano, Napoli 1883 - Anacapri 1971), diplomatosi al Liceo Musicale di Santa Cecilia (1908), si stabilisce dal 1912 al 1921 a Hammamet (Tunisia). A Tunisi fonderà una società di concerti e nel 1927 una scuola musicale sotto l’egida della Dante Alighieri. Nominato nel 1928 accademico di Santa Cecilia, si trasferisce nel 1933 ad Anacapri.
308Capitolo sesto
133 f. santoliquido, Gli ebrei e la musica in Italia, in «Il Tevere», 1-2 dicembre 1937, p. 1.
134 Ibid., p. 3.
135 Fondazione Cini, Archivio A. Casella, lettera di A. Casella a J. Goebbels, 25 giugno 1935. L’inventario dei carteggi di Alfredo Casella è stato pubblicato da Olschki nel 1992 a cura di Francesca Romana Conti e Mila De Santis.
136 f. santoliquido, La piovra musicale ebraica, in «Il Tevere», 14-15 dicembre 1937, p. 1.
137 Ibid., p. 3.
138 Fondazione Cini, Archivio A. Casella, lettera di A. Casella a B. Mussolini, 23 dicembre 1937.
139 Ibid.
140 f. santoliquido, Ebraismo e sovversivismo, in «Il Tevere», 25-26 gennaio 1938, p. 3.
141 id., In hoc signo vinces!, ivi, 3-4 gennaio 1938, p. 3.
142 id., Ebraismo e sovversivismo cit.
143 Ibid. Cfr. anche id., La musica verso il popolo, in «Il Tevere», 9-10 febbraio 1938, p. 3.
144 f. santoliquido, Musica internazionale e italianità, ivi, 15-16 aprile 1938, p. 3.
145 id., Difendiamo l’anima musicale del popolo italiano, in «Il Giornale d’Italia», 31 luglio 1938, p. 3.
146 Difendiamo l’anima musicale d’Italia. Polemica tra musicisti. Alfredo Casella, ivi, 7 agosto 1938, p. 3.
147 Difendiamo l’anima musicale d’Italia. Polemica tra musicisti. Francesco Santoliquido, ivi, p. 3.
148 f. santoliquido, Musica e Razza, ivi, 28 agosto 1938, p. 3.
149 gregario zeta, All’insegna dell’asino, in «Origini», II, n. 8-9, settembre 1938, pp. 4-7.
150 e. porrino, La musica nella tradizione della nostra razza, in «La Difesa della razza», III, n. 3, 5 dicembre 1939, pp. 6-14. Ennio Porrino (Cagliari 1910 - Roma 1959), allievo di Giuseppe Mulé al Conservatorio di Santa Cecilia, segue per un triennio il corso di perfezionamento, tenuto da Respighi. Musicista per lo più tradizionale, trae ispirazione soprattutto dai canti folcloristici della Sardegna. Vincitore del concorso nazionale bandito dall’Accademia di Santa Cecilia (1932), premiato ai Littoriali del 1935 (composizione musicale), è insignito di un premio di incoraggiamento dell’Accademia d’Italia (1935). Fiduciario del guf per la sezione musicale di Roma, è docente di armonia e contrappunto al Conservatorio di Santa Cecilia (1936-45). Bibliotecario al Conservatorio di Napoli (1946-47), dirigerà quello di Cagliari dal 1956 alla morte. Aderisce alla Repubblica Sociale, per la quale scrive l’Inno dei legionari (1945).
151 g. cogni, Razza e musica, in «La Difesa della razza», V, n. 5, 5 gennaio 1942, pp. 1012; n. 8, 20 febbraio 1942, pp. 9-11; n. 9, 5 marzo 1942, pp. 9-10; n. 10, 20 marzo 1942, pp. 14-16; n. 11, 5 aprile 1942, pp. 17-18. Su Musik und Rasse (J. F. Lehmann Verlag, Munich 1932), cfr. e. levi, Music in the Third Reich, St Martin’s Press, New York 1994,pp. 59-61; 222-23.
152 e. porrino, La musica nella tradizione della nostra razza cit.
153 a. casella, I segreti della giara, Sansoni, Firenze 1940, p. 306.
154 Ibid., p. 315.
155 Taccuino. Gli ebrei e l’arte, in «Quadrivio», VII, n. 2, 6 novembre 1938, p. 2.
156 t. i. [telesio interlandi], La questione dell’arte e la razza, in «Il Tevere», 14-15 novembre 1938, pp. 1-2; id., Arte e razza, in «Quadrivio», VII, n. 4, 20 novembre 1938, p. 1.
157 id., La questione dell’arte e la razza cit., p. 1.
158 Ibid.
159 Ibid
160 Ibid., p. 2.
161 acs, mcp, Gabinetto, II versamento, b. 7, fasc. Telesio Interlandi: appunto di D. Alfieri per Mussolini, s.d.
162 f. t. marinetti, Italianità dell’arte moderna, in «Giornale d’Italia», 24 novembre 1938, p. 3.
163 Ibid
164 Ibid.
165 Ibid
166 Ibid
167 [t. interlandi], Straniera, bolscevizzante e giudaica, in «Il Tevere», 24-25 novembre 1938, p. 1.
168 Ibid
169 Ibid.
170 Ibid.
171 Ibid., p. 2.
172 Ibid
173 l. bartolini, Discorso a Marinetti, ivi, 25-26 novembre 1938, p. 3. Su «Quadrivio», Bartolini accusa gli esponenti di «Valori Primitivi» di essere «unti» e «vischiosi», «veramente ebrei più degli ebrei o quanto gli ebrei»: l. bartolini, Punti sugli i degli «ismi», ivi, VII, n. 6, 4 dicembre 1938, pp. 1-2.
174 f. t. marinetti, Conclusioni sull’italianità dell’arte moderna, in «Il Giornale d’Italia», 27 novembre 1938, p. 3.
175 u. bernasconi, c. belli e l. scrivo, Conclusioni sull’italianità dell’arte moderna, ivi, p. 3.
176 Ibid
177 Così lo definisce Arrigo Ghiara nell’«Idea Fascista» cit. in id., La contadinesca malizia di certi falliti, in «Origini», III, n. 1, novembre 1938, p. 18.
178 il gregario zeta, La tradizione si continua con la rivoluzione e non con la reazione, ivi, p. 12.
179 c. di marzio, L’arte è sempre moderna, in «Meridiano di Roma», III, n. 46, 13 novembre 1938, p. 1.
180 b. ricci, Arte e razza, in «Origini», III, n. 1, novembre 1938, p. 4.
181 v. pratolini, Un «processo all’arte moderna» è solo opera di colpevoli anonimi che cercano un nome, articolo riprodotto ivi, p. 14.
182 il gregario zeta, La tradizione si continua con la rivoluzione e non con la reazione cit., p. 11.
183 o. valle, Contro l’equivoco dell’ebraismo intorno all’arte moderna, articolo riprodotto in «Origini», III, n. 1, novembre 1938, p. 13.
184 c. belli, Arte e giudaismo deviazioni pericolose, in «Roma Fascista», XV, n. 48, 5 ottobre 1938, p. 3.
185 Ibid. L’articolo è del resto accompagnato dalle riproduzione del Cuciniere, dell’«ebreo» Soutine, contrapposto al Ricordo dell’Italia del «cattolico» De Chirico.
186 c. belli, La mediocrità al posto dell’intelligenza?, ivi, XVI, n. 2, 10 novembre 1938, p. 3.
187 Cfr., Una manovretta reazionaria su «La difesa della razza», in «Origini», III, n. 1, novembre 1938, p. 14.
188 L’arte italiana moderna. Originalità, tendenze e intenzioni. F. T. Marinetti, in «Il Giornale d’Italia», 1º dicembre 1938, p. 3.
189 L’arte italiana moderna. Originalità, tendenze e intenzioni. Marcello Piacentini, ivi, 2 dicembre 1938, p. 3.
310Capitolo sesto
190 L’arte italiana moderna. Originalità, tendenze e intenzioni. Carlo Broggi, ivi, 3 dicembre 1938, p. 3.
191 L’arte italiana moderna. Originalità, tendenze e intenzioni. Alberto Calza-Bini, ivi, 4 dicembre 1938, p. 3.
192 L’arte italiana moderna. Originalità, tendenze e intenzioni. Carlo Carrà, ivi, 3 dicembre 1938, p. 3.
193 L’arte italiana moderna. Originalità, tendenze e intenzioni. Gino Severini, ivi.
194 L’arte italiana moderna. Originalità, tendenze e intenzioni. Alfredo Casella, ivi, 1º dicembre 1938, p. 3.
195 L’arte italiana moderna. Originalità, tendenze e intenzioni. Vincenzo Tommasini, ivi, 4 dicembre 1938, p. 3.
196 L’arte italiana moderna. Originalità, tendenze e intenzioni. Emilio Cecchi, ivi, 2 dicembre 1938, p. 3.
197 L’arte italiana moderna. Originalità, tendenze e intenzioni. Luigi Antonelli, ivi, p. 3.
198 L’arte italiana moderna. Originalità, tendenze e intenzioni. Luigi Chiarelli, ivi, 3 dicembre 1938, p. 3.
199 L’arte italiana moderna. Originalità, tendenze e intenzioni. Ennio Porrino, ivi, 1º dicembre 1938, p. 3.
200 L’arte italiana moderna. Originalità, tendenze e intenzioni. Adriano Lualdi, ivi.
201 L’arte italiana moderna. Originalità, tendenze e intenzioni. Ferruccio Ferrazzi, ivi.
202 s. a., Opinioni sull’arte, in «Il Tevere», 1-2 dicembre 1938, p. 3.
203 Referendum sull’arte moderna, ivi.
204 Sulla conferenza, si veda in particolare g. fabre, L’elenco cit., pp. 190-94.
205 acs, mcp, Gabinetto, b. 53, fasc. Marinetti Tommaso Filippo (S.E.). L’appunto è citato da p. v. cannistraro, La fabbrica cit., p. 152.
206 Una presentazione di F. T. Marinetti, in «Meridiano di Roma», IV, 4, 22 gennaio 1939.
207 La minuta in acs, Fondo Di Marzio, sc. 13, fasc. 2, s.fasc. «Discorsi, articoli, recensioni di C. D. M., manoscritti dattiloscritti e fotocopiati: s.d.». Riprodotta interamente in g. fabre, L’elenco cit., pp. 448-49.
208 Oltre ai volumi già citati in questo capitolo, Di Marzio si riferisce ad a. schnitzler, Girotondo. Dieci dialoghi, trad. di T. Interlandi e B. Gurevich, Ed. Gurevich, Roma s.d. In copertina, un disegno dello stesso Interlandi. La commedia Girotondo era stata rappresentata a Roma nel marzo 1926 dal Teatro degli Indipendenti di Anton Giulio Bragaglia ed era stata effettivamente sospesa dal prefetto; sul «Tevere», la traduzione, non nominata, era stato oggetto di notevoli elogi, mentre la commedia era stata attaccata da Marinetti su «L’Impero» perché troppo «tedesca». Sulla vicenda, cfr. g. fabre, L’elenco cit., p. 192. Sullo spettacolo, a. c. alberti, s. bevere e p. di giulio, Il teatro sperimentale degli Indipendenti (1923-1936), Bulzoni, Roma 1984, pp. 228232.
209 Cfr. g. fabre, L’elenco cit., p. 223.
210 L’elenco comprende: Carlo Anti, Antonio Baldini, Amerigo Bartoli, Cesare Bazzani, Marziano Bernardi, Nino Bertocchi, Massimo Bontempelli, Michele Biancale, Armando Brasini, Raffaele Calzini, Vincenzo Cardarelli, Felice Carena, Carlo Carrà, Emanuele Cavalli, Emilio Cecchi, Giuseppe Cesetti, Giovanni Comisso, Arturo Dazzi, Ferruccio Ferrazzi, Gustavo Giovannoni, Giulio Quirino Giglioli, Leo Longanesi, Roberto Longhi, Mino Maccari, Mario Mafai, Antonio Maraini, Virgilio Marchi, Arturo Martini, Francesco Messina, Giovanni Michelucci, Giacomo Noventa, Ugo Ojetti, Cipriano Efisio Oppo, Biagio Pace, Aldo Palazzeschi, Alfredo Panzini, Giovanni Papini, Marcello Piacentini, Stefano Pirandello, Gio Ponti, Amadore Porcella, Romano Romanelli, Luigi Ponga, Quirino Ruggeri, Attilio Selva, Ardengo Soffici, Pietro Toesca, Carlo Tridenti.
211 Le risposte al referendum verranno pubblicate in t. interlandi, La condizione dell’arte, Edizioni di «Quadrivio», Roma 1940, pp. 29-94.
Arte e razza: pittura, musica e architettura311
212 L’arte e la razza, Armando Brasini, in «Quadrivio», VII, n. 8, 18 dicembre 1938, p. 1.
213 L’arte e la razza, Amerigo Bartoli, ivi, n. 7, 11 dicembre 1938, p. 2.
214 L’arte e la razza, Enrico Somaré, ivi, n. 9, 25 dicembre 1938, p. 1.
215 L’arte e la razza, Virgilio Marchi, ivi, pp. 1-2. Sulla figura dell’architetto e scenografo futurista e per una bibliografia critica di riferimento, cfr. l. lombardi, Marchi, Virgilio, in La Pittura in Italia. Il Novecento, I/2 cit., pp. 952-53.
216 L’arte e la razza, Amadore Porcella, in «Quadrivio», VII, n. 7, 11 dicembre 1938, p. 2.
217 L’arte e la razza, Attilio Torresini, ivi, n. 9, 25 dicembre 1938, p. 2.
218 L’arte e la razza, Michele Biancale, ivi, n. 10, 1º gennaio 1939, p. 1.
219 L’arte e la razza, Nino Bertoletti, ivi, 18 dicembre 1938, p. 2. Per un profilo biografico-artistico di Bertoletti, dall’iniziale espressionismo alla visione classica delle forme degli anni Trenta, e una bibliografia critica di riferimento, cfr. i. millesimi, Bertoletti, Nino, in La Pittura in Italia. Il Novecento, I/2 cit., pp. 756-57.
220 L’arte e la razza, Guido Guida, in «Quadrivio», VII, 18 dicembre 1938, p. 2.
221 L’arte e la razza, Giuseppe Cesetti, ivi, n. 8, 18 dicembre 1938, p. 2.
222 L’arte e la razza, Luigi Trifoglio, ivi, p. 1. Sulla figura di Trifoglio, esponente del Novecento Italiano, cfr. g. dell’isola [pseud. di g. pensabene], L’arte di Luigi Trifoglio, in «Il Tevere», 16-17 giugno 1939, p. 3. Per un profilo biografico-artistico, cfr. a. capriotti, Trifoglio, Luigi, in La Pittura in Italia. Il Novecento, I/2 cit., p. 1097.
223 L’arte e la razza, Gisberto Ceracchini, in «Quadrivio», VII, n. 9, 25 dicembre 1938, p. 2. Sulla figura di Ceracchini, autore di composizioni statiche, ispirate alla pittura del Quattrocento toscano, cfr. g. conti, Ceracchini, Gisberto, in La Pittura in Italia. Il Novecento, I/2 cit., pp. 814-15.
224 L’arte e la razza, Ardengo Soffici, in «Quadrivio», VII, n. 7, 11 dicembre 1938, p. 1.
225 L’arte e la razza, Ugo Ojetti, ivi.
226 L’arte e la razza, Emilio Cecchi, ivi, p. 2.
227 L’arte e la razza, Gio Ponti, ivi, n. 10, 1º gennaio 1939, p. 2.
228 L’arte e la razza, Giovanni Comisso, ivi, n. 9, 25 dicembre 1938, p. 1.
229 f. t. marinetti, Nuove battaglie per l’italianità di tutta l’arte moderna, in «Artecrazia», VII, n. 118, 11 gennaio 1939, p. 3.
230 Il numero è presentato, in copertina, come «omaggio di Mino Somenzi a Benito Mussolini fondatore dell’Impero».
231 f. t. marinetti, a. sartoris e g. terragni, Panorama sintetico di tutti gli inventori dell’arte moderna, in «Artecrazia», VII, n. 118, 11 gennaio 1939, p. 6.
232 Cfr. ivi, p. 6.
233 Le lettere a Marinetti riportate da «Artecrazia» sono quelle di: D. Alfieri, A. Pavolini, A. Maraini, E. Caviglia, F. Severi, A. De’ Stefani, F. Orestano, P. Buzzi, B. Corra, G. Ponti, G. Pagano, M. Tevarotto, L. M. Personci, M. Giobbe, O. Valle, gli architetti G. L. Banfi, L. B. di Belgioioso, E. Peressutti, E. N. Rogers, P. Bottoni, M. Pucci; F. Ciliberti e R. Giolli, O. Rosai, M. M. Lazzaro, F. Depero, A. Pica, L. Raggi, E. Thayaht; Funi e Ghiringhelli; D. Brogi, A. Del Massa, M. Gottarelli, Fontana, Futuristi umbri. Adesioni provengono anche da duecentoventidue artisti (suddivisi fra architetti, pittori, scultori, poeti e letterati), dai membri del gruppo futurista sardo Sant'Elia e dagli espositori della mostra «Dopo il 900».
234 n. spiry, Se volete un’«opera d’arte» bevete torrone di Cremona, in «Artecrazia», VII, n. 118, 11 gennaio 1939, pp. 1 e 15.
235 Nota introduttiva a [t. interlandi], L’arte e la razza. Conclusioni, in «Quadrivio», VII, n. 14, 29 gennaio 1939, pp. 1-2. L’articolo riproduce l’intervista pubblicata sulle «Arti».
236 g. bottai, Direttive del Ministro dell’Educazione Nazionale, ivi, I, n. 1, ottobre-novembre 1938, p. 1.
237 Discussioni sull’arte moderna: intervista con T. Interlandi, ivi, n. 2, dicembre 1938 - gennaio 1939, p. 170.
238 Ibid., pp. 170-71.
239 Ibid., p. 171.
240 Ibid., p. 173.
241 e. crispolti, Il mito della macchina e altri temi del futurismo, Celebes, Trapani 1971.
242 f. tempesti, Arte dell’Italia fascista, Feltrinelli, Milano 1976.
243 Cfr., in particolare, g. berghaus, Futurism and Politics. Between Anarchist Rebellion and Fascist Reaction, 1900-1944, Berghahn Books, Providence-Oxford 1996, pp. 218307.
244 Sulla storia del Premio Bergamo, cfr., l. galmozzi, L’avventurosa traversata: storia del Premio Bergamo 1939-1942, Il Filo di Arianna, Bergamo 1989; m. lorandi, f. rea e c. tellini perina (a cura di), Il Premio Bergamo 1939-1942: documenti, lettere, biografie, Electa, Milano 1993; e. r. papa, Bottai e l’arte: un fascismo diverso? La politica culturale di Giuseppe Bottai e il Premio Bergamo (1939-1942), Electa, Milano 1994.
245 In occasione della III Quadriennale, si ricorre all’invio di una «scheda personale» tramite la quale l’artista è costretto a dichiarare se appartenente alla razza ebraica, con conseguente esclusione dalla manifestazione. Tra gli invitati esclusi per motivi razziali vi sono Corrado Cagli, Roberto Melli, Resita Cucchiari, Liegi Ulvi. L’esposizione vede anche l’assenza di Aldo Carpi, Francesco Di Cocco, Mario Cavaglieri, Carlo Levi, Paola Levi Montalcini, Arturo Nathan, Adriana Pincherle. Cfr. l. fusco, Effetti delle leggi razziali nelle istituzioni artistiche italiane. I casi di Antonietta Raphaël e Corrado Cagli, in «Rassegna Mensile di Israel», LXVI, n. 3, settembre-dicembre 2000, pp. 3-36.
246 g. pensabene, Carrà ovvero: la suocera della Quadriennale, in «Il Tevere», 24-25 gennaio 1939, p. 3; id., La III Quadriennale d’Arte. Sguardo d’assieme all’organizzazione, ivi, 4-5 febbraio 1939, p. 3; id., Alla III Quadriennale d’Arte. Altri pittori, ivi, 21-22 febbraio 1939, p. 3.
247 s. a., Il Premio Cremona. Parole conclusive sulla polemica artistica, ivi, 23-24 maggio 1939, p. 3.
248 g. pensabene, L’Internazionale dell’Architettura, in «Quadrivio», VII, n. 5, 27 novembre 1938, p. 2.
249 Ibid
250 Fin dal 1932-33, la rivista «Il Perseo» era stata caratterizzata dagli articoli di A. F. Della Porta contro l’arte moderna.
251 g. pagano, Discorso ai riempitori di destri, in «Casabella Costruzioni», X, n. 131, novembre 1938, p. 2.
252 Ibid.
253 Ibid., p. 3.
254 Ibid.
255 s. a., Una querela, in «Il Tevere», 14-15 dicembre 1938, p. 3.
256 id., Due querele, ivi, 19-20 febbraio 1940, p. 3.
257 g. dell’isola [pseud. di g. pensabene], Italia e Germania per l’arte della propria razza, in «La Difesa della razza», II, n. 15, 5 giugno 1939, pp. 26-29; id., Arte, ivi, n. 17, 5 luglio 1939, pp. 16-19.
258 id., La favola dell’europeismo e Leonardo italiano, ivi, n. 14, 20 maggio 1939, pp. 2931. Cfr. anche id., Domani si inaugura a Milano la Mostra leonardesca. Prime impressioni, in «Il Tevere», 8-9 maggio 1939, p. 3; a. palinuro, Il «suo» Leonardo, ivi, 2-3 giugno 1939, p. 3.
259 acs, mi, dgps, dpp, Fascicoli Personali 1927-44, Ing. Pagano, nota del 23 Febbraio 1940. Cfr. anche r. mariani, Fascismo e «città nuove» cit., pp. 233-34.
260
Arte e razza: pittura, musica e architettura313
Per un accenno allo scontro e soprattutto alle sue conseguenze nell’utilizzo dell’argomentazione antisemita all’interno delle contrapposizione fra architetti, cfr. r. a. etlin, Modernism in Italian Architecture cit., pp. 590-97.
261 g. pensabene, Considerazioni intorno al secondo Premio Bergamo, in «Il Tevere», 30 settembre - 1º ottobre 1940, p. 3; g. p. [giuseppe pensabene], Per una maggiore disciplina delle mostre d’arte, ivi, 7-8 ottobre 1940, p. 3.
262 Questionario – Incredibile anacronismo di una mostra d’arte, in «La Difesa della razza», III, n. 24, p. 47, 20 ottobre 1940.
263 acs, mcp, Gabinetto, b. 151, fasc. «Collaboratori Ufficio Razza», s.fasc. «Lidio Cipriani»: allegato III (p. 7) alla lettera di L. Cipriani a D. Alfieri, 15 luglio 1938.
264 é. michaud, Un art de l’éternité cit., pp. 163-64.
265 Cfr. «La Difesa della razza», III, n. 18, 20 luglio 1940, p. 39.
266 Ivi, n. 20, 20 agosto 1940, p. 5.
267 Ivi, p. 8.
268 Ivi, I, n. 2, 20 agosto 1938, p. 9.
269 Ivi, n. 1, 5 agosto 1938, pp. 24-25.
270 Ivi, pp. 27-29. Un contrasto simile è quello espresso fra «la nobile e chiara fisionomia di un console romano» e l’«ottuso volto dell’Imperatore Valentiniano I, di oscura famiglia della Pannonia», ivi, n. 2, 20 agosto 1938, pp. 32-33.
271 Ivi, III, n. 21-22, 5-20 settembre 1940, pp. 40-44.
272 Ivi, I, n. 3, 5 settembre 1938, pp. 24-25.
273 Ivi, III, n. 18, 20 luglio 1940, p. 27; corsivo aggiunto.
274 g. pensabene, La razza dell’arte, ivi, II, n. 11, 5 aprile 1939, p. 21.
275 Ibid.
276 Ibid., pp. 21-22.
277 id., I semiti e le arti figurative, ivi, n. 6, 20 gennaio 1939, p. 36.
278 id., Psicologia dei semiti e dei camiti, ivi, n. 7, 5 febbraio 1939, p. 29.
279 id., Arii e levantini nell’arte, ivi, n. 8, 20 febbraio 1939, pp. 34-35.
280 Ibid., p. 36.
281 id., I semiti e le arti figurative cit., p. 35.
282 Ibid., p. 37.
283 Ibid
284 g. cogni, La corruzione dell’arte, «La Difesa della razza», II, n. 8, 20 febbraio 1939, pp. 32-33.
285 g. pensabene, La razza e le arti figurative, Cremonese, Roma 1939, p. 9.
286 o. gurrieri, Unità della razza dagli Etruschi al Rinascimento, in «La Difesa della razza», II, n. 5, 5 gennaio 1939, p. 16.
287 Ibid., pp. 16-17.
288 Ibid., p. 17.
289 Ibid., p. 18.
290 Ibid., p. 19.
291 g. dell’isola [pseud. di giuseppe pensabene], La razza aquilina, ivi, n. 10, 20 marzo 1939, pp. 8-10.
292 o. gurrieri, Genio artistico della nostra razza, ivi, IV, n. 13, 5 maggio 1941, p. 10.
293 s. baglioni, Arte e razza, ivi, III, n. 2, 20 novembre 1939, pp. 8-9.
294 Ibid., p. 9.
295 Ibid., p. 10. Su questo tema, cfr. é. michaud, Un art de l’éternité cit., pp. 220-28.
296 s. baglioni, Continuità della razza, in «La Difesa della razza», III, n. 4, 20 dicembre 1939, pp. 6-12.
314Capitolo sesto
297 id., Scienza e razza, ivi, n. 3, 5 dicembre 1939, p. 20.
298 s. a., Come Israele insudicia il genio di Leonardo, ivi, I, n. 5, 5 ottobre 1938, pp. 4445. Cfr. anche d. rende, Il pansessualismo di Freud, ivi, pp. 43-45.
299 g. sottochiesa, Leonardo pittore razzista, ivi, III, n. 6, 20 gennaio 1940, p. 26.
300 g. marro, Giuda ebreo Giuda negroide cit., p. 20.