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Capitolo settimo

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Capitolo sesto

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La rubrica dei lettori e lo Zibaldone razzista

Nella narrazione autobiografica della sua «discesa nel Mezzogiorno» all’indomani dell’8 settembre, Enzo Santarelli, noto storico dell’età contemporanea scomparso nel 2004, ricostruendo la propria giovanile partecipazione alla rubrica dei lettori – il cosiddetto Questionario – della «Difesa della razza»1, riporta, come punto di partenza di questa «iniziazione» razzista2, una corrispondenza con Massimo Lelj, responsabile della rubrica dall’ottobre 1938 al dicembre 1940:

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27 gennaio (1939)

Caro Santarelli, ebbi la tua lettera, hai fatto bene a scrivermi, e mi ha fatto piacere. Quello che voglio dirti è che tu non trascuri Dante e che legga Vico e che ti renda padrone dello Zibaldone, delle lettere e del mondo di Leopardi. Ciò ti darà certezza. Intanto cerca di scrivere com’è accaduto questo tuo cambiamento e anzi richiamo d’un sentimento già tuo oppure qualche altra cosa, per il Questionario, e mandamela, ma indirizzandola a Telesio Interlandi, nostro direttore, al quale puoi scrivere francamente. Se ci riesci, vedremo di pubblicare il tuo scritto. E ficcati in testa che lo scrivere è difficile, lento da imparare, scoraggiante, per quelli che hanno qualche cosa da dire, e che io voglio aiutarti, per quel che posso, non per le scorciatoie. Scrivi quando vuoi3

Proprio citando il caso di Santarelli, Renzo De Felice, nella sua Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, individuava nel Questionario della «Difesa della razza» la sede di una partecipazione culturale dei giovani fascisti, nella quale l’antisemitismo e il razzismo rappresentavano «un modo per poter finalmente capire e criticare tutta la storia italiana, attaccando a fondo la “corruzione” borghese, e per realizzare finalmente una “concezione religiosa della vita”»:

In questa rubrica fino a tutto il 1940 e ai primi del 1941 (poi, un po’ per la maturazione di quegli stessi giovani, un po’ per la guerra, la rubrica decadde) un buon numero di giovani, studenti liceali e universitari e anche qual-

316Capitolo settimo che operaio e impiegato […], discusse un po’ di tutto, criticando «razzisticamente» tutti i principali aspetti della cultura italiana del tempo […]. In questo quadro più ampio, l’antisemitismo non era sinceramente che un pretesto per sollevare ben altri problemi, e un mezzo per mettere finalmente alla prova la borghesia italiana e lo stesso fascismo4

L’intuizione defeliciana circa la dimensione culturale del Questionario è di indubbia rilevanza, ma il limite cronologico sottolineato – fino «ai primi» del 1941, ovvero nel periodo corrispondente alla direzione di Massimo Lelj – rivela indirettamente come la spiegazione causale del problema storiografico (e, di conseguenza, il quadro interpretativo complessivo) debbano essere di fatto rovesciati.

La rubrica dei lettori della «Difesa della razza» non va interpretata, infatti, come un’arena spontanea e «democratica» di un fascismo giovanile critico, quanto piuttosto – e la lettera citata da Santarelli lo conferma – come uno spazio di idee, intriso di razzismo e antisemitismo5, politicamente controllato da Interlandi e culturalmente gestito, fino al dicembre 1940, da un giornalista e scrittore abruzzese, imbevuto di Vico, Croce e Leopardi: Massimo Lelj6 .

1. Dall’anarchia al fascismo: Massimo Lelj.

La carriera ideologico-politica di Massimo Lelj ha inizio nelle file dell’anarchismo e del socialismo rivoluzionario. Nato a Tione, in Abruzzo, il 10 dicembre 1888, Lelj risulta schedato fin dal 1909 nel Casellario Politico Centrale. La sua attività «sovversiva» è così registrata dalla Prefettura di Chieti: In pubblico riscuote discreta fama. È di carattere vivace e possiede discreta educazione. Ha intelligenza e sufficiente cultura avendo frequentato la seconda classe liceale. Presentemente studia privatamente per ritentare l’esame di licenza liceale che gli fallì l’anno scorso. Non ha titoli accademici; è poco amante dello studio e vive a spese della famiglia che presentemente versa in poco floride condizioni economiche. Egli frequenta costantemente la compagnia degli anarchici di qui e durante la sua permanenza in Aquila dove studiò dalla prima Ginnasiale avvicinò sempre giovani sovversivi. Verso la famiglia si comporta piuttosto bene. Non gli furono mai affidate cariche amministrative o politiche. È ascritto al partito anarchico e s’ignora a quale partito abbia precedentemente appartenuto. Ha discreta influenza fra gli aderenti al partito di qui ed anche in Aquila e col socialista rivoluzionario Raho di Foggia. Non è stato mai all’estero. Non fa parte di associazioni sovversi- ve e di mutuo soccorso. Ha collaborato al giornale «Il Foglio Anarchico» che si pubblica in Aquila ed aveva anche aderito a collaborare nel giornale anarchico «Nihil» del quale uscì in questa Città solamente il numero di saggio che fu sequestrato perché conteneva articoli incriminabili. Riceve e spedisce giornali sovversivi, fa propaganda ma con scarso profitto fra gli studenti. È capace di tenere conferenze e ne tenne l’anno scorso a Chieti in occasione degli scioperi degli studenti. Verso le Autorità tiene contegno poco corretto. Ha sempre preso parte alle poche dimostrazioni di piazza che si sono avute in questa Città, in occasione di anniversari, commemorazioni. Non fu proposto per l’ammonizione. Con sentenza del 7 novembre 1908 del Tribunale di Aquila fu assolto per non provata reità dall’imputazione di apologia di reato a mezzo della stampa per articoli pubblicati nel giornale «Il Foglio Anarchico» che si pubblica in Aquila dal compagno Piccinini Francesco7

Nel 1911, Lelj si trasferisce a Roma, dove frequenta l’università, e nel 1913 si sposa con la marchesa Maddalena Della Valle. Lo scoppio della prima Guerra mondiale lo vede impegnato sul fronte macedone, esperienza che sarà alla base, negli anni Cinquanta, del suo secondo romanzo, Mezzaluna grigioverde. Alla fine del conflitto, dopo essersi laureato, intraprende a Roma l’attività forense. Nel 1925, secondo le note della prefettura dell’Aquila, «professa sempre principi anarchici, ma non consta che svolga propaganda»8. Nello stesso anno, per la casa editrice legata alla rivista «L’Esame» del critico d’arte Enrico Somaré, Lelj cura un’antologia di «discorsi scelti» di Cavour, dal 1851 al 1861, scrivendo un’introduzione che non risparmia critiche al fascismo, denunciato come «governo di polizia rivoluzionaria»9. Il delitto Matteotti e l’Aventino vengono, in particolare, descritti come «l’apogeo materialmente contrario al Risorgimento»10:

Questo [il fascismo], costretto a porre qualche pausa nella politica di polizia, teneva, a vicenda, di Massimiliano e di Radeski, finché, in modo impreveduto e clamoroso, sboccò apertamente nel delitto giacobino.

La muta protesta del pubblico fu altissima, ma gli oppositori parlamentari lasciarono alla stampa il compito di esprimerla; rinunciarono al coraggioso diritto di indicare i colpevoli innanzi al Parlamento e di trarli al giudizio delle legittime autorità, rimpicciolendo entro un comitato illegittimo l’esercizio intrepido della potestà parlamentare, proprio nel momento in cui, colpito dalla violenza, aveva grandeggiato vittoriosamente11

L’unica

speranza è ormai incarnata – afferma Lelj – dalla solitaria figura di Benedetto Croce: «un uomo solo, in una casa editrice, si poneva il compito critico di riproporre l’Ottocento italiano ed europeo e, a poco a poco, ha come richiamata l’attenzione

318Capitolo settimo distratta, che si è fatta piena attorno a lui; ma tuttavia senza fervore di sviluppi pubblici»12. Sulla terza pagina del «Tevere», il tentativo di Lelj di contrapporre l’Ottocento di Cavour e dei macchiaioli al Novecento di Mussolini e del fascismo è giudicato «interessante» e «intelligente» da Corrado Pavolini13, il quale tuttavia prende spunto da una recensione pubblicata dallo scrittore abruzzese sul quotidiano di Interlandi per sostenere una tesi ben differente: «Proprio il fascismo, fenomeno popolare, rurale, istintivo e antintellettualistico […] appar la prosecuzione spontanea di un Risorgimento che non sia quello propostoci, in forma di recensione d’arte, da Massimo Lelj»14 .

Secondo i rapporti della questura di Roma, Lelj conserva «le sue teorie» ancora nel settembre 1928:

Nella sua giovane età, [Lelj] fu fervente anarchico ma dal 1913, epoca in cui si unì in matrimonio con la Marchesa Della Valle Maddalena, non ha preso più parte attiva alla politica, conservando però sempre le sue teorie. È di buona condizione sociale e trae mezzi di sussistenza dalla sua professione e dalle rendite dei poderi da lui posseduti al paese nativo.

È di buona condotta morale e mai riportò condanna alcuna. Non risulta abbia preso mai parte alla fondazione della Rivista «Pietre» né che abbia fatto propaganda fra l’elemento antifascista della Capitale per la diffusione della predetta rivista15 .

Arrestato per «truffe» il 10 dicembre 1928, viene scarcerato dopo circa un mese, il 17 gennaio 1929. L’episodio segna il definitivo abbandono della carriera di avvocato e l’inizio di significative collaborazioni giornalistiche: con «La Stampa» diretta da Curzio Malaparte, con «L’Italia letteraria», con le «Cronache d’attualità» di Anton Giulio Bragaglia. Nel marzo 1929, il suo nome viene cancellato dal «novero dei sovversivi»16. Pochi mesi prima di uscire dall’elenco delle persone controllate dal regime fascista e schedate nel Casellario Politico, Lelj ha dato alle stampe – sempre per iniziativa editoriale dell’«Esame» di Somaré – quello che può essere considerato il suo saggio storico-filosofico più rilevante. Il titolo, Il Risorgimento dello spirito italiano (1725-1861),suggerisce una periodizzazione che ne sintetizza, fin da subito, i contenuti: tra il 1725, data della pubblicazione della Scienza Nuova di Giambattista Vico, e il 1861, data della proclamazione dell’Unità d’Italia, matura infatti, secondo il giornalista di Tione, la «personalità popolare degli italiani», il cui tratto distintivo sarebbe indivi- duabile nel rifiuto del modello culturale e politico della Rivoluzione francese.

Non stupisce, in tal senso, che il punto di partenza del discorso di Lelj sia proprio rappresentato dall’anticartesianesimo di Vico, letto non soltanto nei suoi aspetti teorici ma soprattutto nelle sue ricadute politiche:

Il Vico infine rivolse ai suoi concittadini e all’Europa un consiglio di moderazione. Nei principi giusnaturalisti egli rilevò un errore morale, già insito nel cogito di Cartesio che poneva un essere disinteressato rispetto alla sua origine divina e cioè senza causa di bene. E a Descartes, a Hobbes, a Puffendorf, a Locke, allo stesso Grozio, e alla loro incondizionata volontà ideale di distruggere il male, contrappose il condizionato progresso morale, l’eterna e spontanea creazione popolare del bene.

Disse ai facili distruttori che bisognava rispettare gl’istituti presenti, nei motivi profondi che li avevano formati e non che distruggerli, ma comprenderli e considerarli come il punto di partenza del progresso futuro, il quale altro non può essere che uno sviluppo ed una elevazione del presente.

Nel rilevare l’errore dei pensatori egli parlava alle menti divenute già rivoltose e sembra presagire l’impeto della rivoluzione, contrapporle un anticipato giudizio e la vigorosa indicazione, tutta umana, di una moderna vita popolare17

Sulla scia di un Vico osservato attraverso la lente di Benedetto Croce18, Lelj approda, nel secondo capitolo, a Vincenzo Cuoco e alla sua critica nei confronti della Repubblica napoletana del 1799. Il giornalista abruzzese utilizza le parole di Cuoco per attaccare Robespierre e il giacobinismo:

Chi ha piena la testa delle idee intellettuali delle leggi, ma ignora i costumi, suole spingere i popoli ad una meta tanto lontana che mentre perdono quel tanto di buono, che avrebbero potuto raggiungere, diventano disperati sul conto del loro destino. Né può considerarsi il popolo una parte passiva, quale era considerato nell’antichità, ciò sarebbe come votare lo stato a una perpetua debolezza, ma il politico di uno stato moderno deve legare e armonizzare le leggi col costume, secondo principii della vita popolare, e non cadere nell’errore di credere che le leggi possano educare il popolo […]. La rivoluzione svela al popolo il gran segreto della sua forza e la rivoluzione francese ci fa vedere un popolo padrone di questo segreto, ma, al tempo stesso, distaccato da ogni suo principio, intento, per voler tutto riformare, a tutto distruggere e trascinato ad opere le più scellerate19 .

320Capitolo settimo re degl’italiani». È ovviamente il Manzoni del Saggio sulla Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859 ad attirare l’attenzione del giornalista abruzzese, pronto a contrapporre il liberalismo cattolico e moderato manzoniano all’utopismo rivoluzionario di Mazzini:

Il primo [Mazzini], apostolicamente fermo nella sua concezione rivoluzionaria, attese invano da eventi inutili e inutilmente scatenati il misterioso manifestarsi del suo ideale; il secondo [Manzoni] vide, invece, con il prestigio dei fatti maturare ogni giorno la sua idea d’unificazione politica. Il primo, sempre più irrigidito, si pose, a poco a poco, fuori dagli avvenimenti, restando al fine isolato nella storia del suo tempo; il secondo guardando agl’istituti che lo circondavano, li comprendeva ed abbracciava mentre vedeva le sue opinioni ricevute e compenetrate sempre più negli avvenimenti ed al fine se stesso, come una personale espressione della nostra storia20 .

La parabola genealogica di Lelj culmina quindi nell’esaltazione di Cavour, «grande spirito liberale», portatore di un «sentimento religioso e civile insieme della vita»21, capace di tradurre in pratica il «nuovo carattere italiano», conciliando – vichianamente, secondo Lelj – la modernità economica con la «fecondità silenziosa della tradizione»22. Nell’ottica del giornalista di Tione, Cavour è l’antirivoluzionario per eccellenza, colui che porta al pieno compimento politico quella maturazione dell’«opinione popolare», manifestatasi con Vico nel 1725: «Fu un vincitore e un creatore dell’opinione, l’ispirò, seppe contenerla e riscaldare, senza farne un dominio irascibile, trovò in essa l’alleata più forte e senza della quale non avrebbe coronato l’opera propria. Tutta la di lui modernità è in questa forza nuova, in questa forza morale, in questa nuova potenza cristiana […]»23 .

Nel percorso ideologico-politico compreso tra Vico e Cavour, Il Risorgimento dello spirito italiano definisce il quadro teorico di riferimento intorno al quale si sviluppa l’attività saggistica di Lelj negli anni Trenta. Non è irrilevante notare come un’anticipazione del libro venga pubblicata sulla terza pagina del «Tevere» nell’ottobre 192724. Sempre sul quotidiano diretto da Interlandi Lelj pubblica, nel 1930, un denso articolo, il cui incipit riprende l’insegnamento vichiano, subordinando l’idea di «razza» a quella di «nazione», intesa quest’ultima come «comunione popolare dell’immaginazione e del linguaggio»:

La razza non è elemento essenziale di una nazione. Esistono nazioni formate da molte razze, esistono gruppi di nazioni che si sogliono considerare d’una stessa razza.

È un elemento genealogico, certamente importante, la razza, nella considerazione dell’individualità ed umanità, ma di inesistente o scarso rilievo nella formazione d’una società nazionale, la quale è piuttosto il risultato d’una comunione popolare dell’immaginazione e del linguaggio25

Sulla scorta di Vico e soprattutto di Leopardi, a lungo citato nell’articolo, Lelj insiste soprattutto sul «principio popolare e poetico» delle nazioni, rispetto al quale la purezza biologica passa in secondo piano:

Gli elementi del sangue e delle discendenze concorrono, come gli umori della terra, ad abbellire i rami e le fronde della nazione. Si dice che gl’incroci ringiovaniscano le razze e i popoli, e se un’energia si sprigiona dai sangui mescolati, essa va a beneficio delle nazioni sul terreno delle quali si mescolano le razze, e per quanto vasti e intensi siano i commerci e gl’incroci del mondo, lungi dallo smussare i contorni nazionali, li potenziano con nuovi rilievi26

Nel febbraio 1932, sull’«Italia letteraria», Lelj ripropone la sua interpretazione linguistica della nazione all’interno di un’ampia recensione della Storia d’Europa di Benedetto Croce. Pur giudicando il saggio come un’opera esemplare per «somma di meditazione», «padronanza della materia» e «moderazione e risolutezza letteraria», il giornalista, nel finale, prende tuttavia le distanze, dichiarando che la «vera libertà» si realizzerà soltanto quando l’unità della nazione europea si fonderà non sulla «coscienza filosofica» o su un «ordinamento giuridico», ma su quella «forma personale» garantita dalla «lingua» e dall’«immaginazione»27 .

Nel 1935, due anni dopo l’esordio narrativo con la pubblicazione del romanzo autobiografico Stagioni al Sirente 28, le riflessioni filosofico-politiche di Lelj trovano una sistematizzazione nel libro Poesia e forza delle nazioni, pubblicato dal raffinato editore abruzzese Carabba, il cui catalogo propone, negli anni Trenta, opere di Alvaro, Gallian e Titta Rosa, ma anche Falqui, Govoni, Vittorini, Montale29 .

Il discorso di Lelj muove ancora una volta dall’esaltazione di Giambattista Vico e della Scienza Nuova, «poema in prosa della nazione italiana», «epica dell’immaginazione nazionale»30:

Galanti e Cuoco si possono dire diretti discendenti di Vico, e Galanti, Cuoco, Foscolo, Leopardi, Balbo, Cavour, Manzoni non avrebbero genio na- zionale, non senso di genealogia e di tradizione, se il loro spirito religioso non si potesse dir vichiano. Stettero, come Alfieri, contro la rivoluzione, e si dissero moderati, perché possedevano la fantasia e il linguaggio del mondo morale, e per questo erano artisti davvero31

L’«immagine» vichiana della nazione lascia in eredità al Risorgimento di Lelj il rifiuto dell’astrattismo rivoluzionario: Vico – afferma il giornalista – combatte «la già accesa tendenza a voler riformare la società per via filosofica e combatte quella filosofia con gli argomenti della storia. Una società non si riforma altro che da se medesima, con la conoscenza e lo sviluppo del genio e dell’istinto suo»32. A partire da tali premesse, Lelj parla delle insorgenze come della «prima guerra sociale dell’Italia moderna»33, ma nello stesso tempo torna a celebrare Galanti e Cuoco, contrapposti ai «patrioti» napoletani:

Uomini come Giuseppe G. Galanti e Vincenzo Russo erano lontani mille miglia tra loro. Lo spirito di Russo era come una pianta slanciatissima e senza radici, la sua repubblica immaginaria un simbolo inesatto. […] Nel clamore e confusione delle lingue, la corrente portava a galla i legni più leggeri. Uomini come Galanti erano destinati a rimanere in disparte, Vincenzo Cuoco non era di quelli che si mettono a gesticolare, per richiamare l’attenzione, e le memorabili sue lettere a Vincenzo Russo rimasero lettera morta34

E da Cuoco a Cavour il passo è breve, in una cornice interpretativa antirivoluzionaria ispirata esplicitamente al verum et factum vichiano:

Cavour e Ricasoli non pensarono all’unificazione politica di tutta l’Italia, se non quando se ne furono presentate le condizioni e il modo, se non quando le forze furono sciolte, e poterono esser convogliate nel grande disegno. Prima di allora ad essi sarebbe sembrato estremamente falso e campato in aria il far progetto d’unità. Tuttociò deriva dal loro realismo, dall’amore della verità, ed anche da quel principio tanto nostro e tradizionale del verum et factum, che è poi il principio artistico di ogni arte, anche della politica35

Nella galleria delle manifestazioni del «genio nazionale», fa il suo ingresso, in queste pagine, l’«esempio» del governo di Pietro Leopoldo in Toscana, espressione di una «civiltà popolare» fautrice di politiche economiche liberiste, a sostegno delle classi subalterne:

Oggi, con l’atmosfera sgombra dalle transazioni repubblicane, e dalle preoccupazioni di coloro che avevano avuto qualche parte negli eventi, possiamo guardare con maggiore simpatia principi dei passati governi, come i granduchi toscani, che dobbiamo considerare di quella scuola che condusse ad effetto il Risorgimento. […] E al governo granducale dobbiamo se in Italia potè risorgere una civiltà vera, non un dominio di città, ma una civiltà popolare, favorita dal sentimento stesso dei granduchi, ch’era di vivere con il popolo, fondata sopra grandi interessi morali, una civiltà di agricoltori, umanisti e poeti36

Nei riferimenti alla Toscana di Ferdinando III, è la simbiosi fra «lingua e terra», ovvero fra i progressi nel campo dell’agricoltura e i dibattiti politico-culturali promossi dall’«Antologia» di Gian Pietro Vieusseux, ad alimentare l’entusiasmo nazionalistico di Lelj: «Firenze era la nostra capitale d’umanità, e dobbiamo considerare l’Antologia, per avere sotto gli occhi, nello stesso tempo, la letteratura, la poesia e l’agricoltura dell’Italia di allora. Dell’agricoltura parlavano e scrivevano grandi spiriti. Erano letterati che scrivevano d’agricoltura, erano agricoltori che scrivevano di letteratura […]»37 .

Il linguaggio è del resto centrale nella riflessione di Massimo Lelj. Per il giornalista di Tione, che cita nuovamente Vico, le nazioni hanno un principio poetico: «Esso svela il nuovo e i tratti misteriosi, ed è un punto di fusione e comunicazione del linguaggio, che genera il modo nazionale d’immaginare anche i costumi, l’eroismo, le leggi; stabilisce e tramanda la memoria di quel che siamo e a cui siamo destinati»38

In quest’ottica, se il «Risorgimento dello spirito italiano» si è compiuto, tra il 1725 e il 1861, sotto il segno della sintesi vichiana fra poesia e politica, il dopo Cavour individua, invece, una «fase nuova»39, una crisi tanto politica quanto estetica. La Sinistra Storica coincide infatti, per Lelj, con il ritorno all’enfasi mazziniana del 1848. Dai giacobini a Marx e Sorel, è un processo unico e indistinto di decadenza quello delineato in Poesia e forza delle nazioni:

Dopo giacobini, cartesiani, quarantottisti, comunardi, repubblicani, socialisti; Marx tenne il campo. […] Marxisti, sindacalisti, soreliani, nazionalisti rappresentano la parte più attiva della cultura, fino alla guerra, tutta l’intelligenza italiana è irretita da quella scoperta, staccata dalla storia nazionale, distacco bizzarro, specialmente nel meridionale, che nelle sue condizioni non aveva nemmeno un pretesto marxistico, ma distacco che approfondì la tendenza al generale e al dottrinario, che si vedeva anche nel linguaggio40 .

E con il riaffermarsi della dialettica rivoluzionaria, «la memoria, gli affetti, le illusioni, il linguaggio, i motivi civili» della poe- sia italiana – e Lelj ha in mente, in particolare, Carducci, Pascoli, D’Annunzio – rimangono «un sole che non penetra e non riscalda più»41. Il culmine viene raggiunto con la campagna di Libia, «quando stridono fra loro il realismo giolittiano e la mistica delle canzoni dannunziane»42 .

Le pagine conclusive di Poesia e forza delle nazioni, destinate a una critica dell’hegelismo inteso come «regno della dialettica», aggiungono l’antistoricismo al complesso di elementi filosofici e storiografici che contraddistinguono ormai chiaramente la produzione teorica di Lelj: antirazionalismo vichiano, antigiacobinismo, nazionalismo basato su continui rimandi alle esperienze dell’illuminismo tosco-napoletano e del liberalismo cattolico moderato. Nessuna traccia, invece, di quell’antisemitismo, che caratterizzerà, a partire dal 1937, la collaborazione giornalistica di Lelj alle pubblicazioni interlandiane. In Poesia e forza delle nazioni, Dreyfus è una vittima innocente e l’affaire non è che l’ennesima espressione di una Francia ridotta ad «estrema, coerente e conservatrice incrostazione del principio giacobino»43 .

2. Il Questionario della «Difesa della razza».

In un suo esposto al capogabinetto del ministero della Cultura Popolare, Carlo Barduzzi, protestando per essere stato improvvisamente licenziato da Interlandi, così descrive il ruolo di Massimo Lelj nella redazione della «Difesa della razza»:

L’Interlandi ha affidato la parte più delicata, cioè la scelta degli articoli da pubblicare, a Massimo Lelj, che oltre a non essere iscritto al Partito ha fatto sempre notoria professione di idee ben lontane da quelle fasciste, facendo parte di quelle conventicole letterarie che sono fuori della scia del Regime. […]

Il Lelj poi ha abitudini curiose che contribuiscono alla poca efficacia dell’ufficio. Dorme sino alle undici del mattino e viene in ufficio a mezzogiorno. La sera frequenta la piccola combriccola letteraria che fa capo al caffè Aragno – centro di pettegolezzi – e si ritira a tarda notte44 .

Assunto nella redazione del quindicinale fin dall’agosto 1938, Lelj è in particolare il curatore della rubrica dei lettori, il cosiddetto Questionario. È in questa sede che il giornalista abruzzese espone in chiave antisemita le sue riflessioni sul «Risorgimento dello spirito italiano», inserendole nell’ambito di una filosofia decadentista della storia in cui il polo negativo è sempre rappresentato dal binomio «borghesia-ebraismo»45 .

L’antirazionalismo di matrice vichiano-leopardiana rappresenta, anche in questo caso, il presupposto teorico delle argomentazioni di Lelj. L’immaginazione s’identifica con la creazione e la civiltà, mentre la ragione è riflessione, passività e civilizzazione46:

La ragione comprende e non può fare. E le epoche di decadenza sono tutte fondate sulla ragione.

La ragione comprende, senza poter comprendere la natura, ma riducendola a se stessa. Riflettendola.

Sono niente altro che epoche di riflessione le decadenze.

Di incomprensione dell’immaginazione, che è tutta natura. Incomprensione dell’arte, che vuol dire capacità di fare, e fare non si può senza immaginare.

Sono niente altro che le epoche di incomprensione della civiltà, le epoche della riflessione, perché la civiltà, non la civilizzazione, ma la civiltà, è fatta di opere, come la omerica, la romana, il Rinascimento47

Dalla dicotomia immaginazione-ragione procede la netta contrapposizione fra la poesia, frutto della fantasia immaginativa, e la filosofia, espressione del pensiero. La «civiltà» nasce con l’epica di Omero, di Virgilio, di Dante. La poesia è la voce dell’immaginazione e del popolo, e in essa inizia a costruirsi la nazione:

Omero creò la prima patria del mondo, comunicando agli uomini la lingua greca, cioè parlando all’immaginazione, e creando il primo comune umano. È possibile vedere chiaramente che omerica fu l’immaginazione, così dell’arte come dell’ordine umano, dopo Omero. E che la sorgente di questa immaginazione era la lingua. E che gli uomini parlavano, secondo l’immaginazione d’Omero, e facevano come parlavano. E che Omero scoprì ciò che chiamiamo nazionale, vale a dire un modo comune di parlare e fare. Si deve alla sua immaginazione la nascita dell’uomo comune e se il mondo fu ordinato a uno48

Se l’epica di Omero, di Virgilio e di Dante corrisponde al «genio classico», «attivo», «universale» (e, in quanto tale, «cattolico»), la decadenza moderna ha invece inizio con l’umanesimo erasmiano, con la riforma protestante, con il razionalismo cartesiano. È questo afferma Lelj – il momento fondativo dell’Europa, della Francia, dell’Illuminismo e della «società mercantile borghese»:

L’umanesimo sono Erasmo e Lutero. L’umanesimo sono l’illuminismo greco, la libertà della ragione, l’esame. Sono le forze con cui lo spirito acca- demico francese non ci fece accorgere di fare del classico il classicismo e il classicistico e di spostare il punto di vista romano, di metterci da un altro punto di vista, l’europeo. L’Europa principiò con l’umanesimo, diversa da Roma. L’umanesimo sono Cartesio, l’illuminismo, il giusnaturalismo, la rivoluzione, con cui la Francia accentrò a sé l’Europa. Spostò la patria del mondo, senza aver fatto l’altra civiltà, ma fondando invece un sistema di civilizzazione, di cultura49 .

L’umanesimo di Lutero ed Erasmo prelude alla formazione della «filosofia franco-tedesca»50, all’idealismo e allo storicismo, fasi conclusive del «tentativo di mettere l’Europa da un punto di vista non romano»51. «Ebraica» è infatti, nell’ottica di Lelj, la trama che unisce Lutero e Cartesio a Kant, Hegel e Marx, sotto il segno dell’arroganza intellettuale, dell’anticattolicesimo e della rivoluzione politica:

Non amare Dio e avvalersi della facoltà di pensarlo, questa è la presunzione delle cattive religioni, che chiamiamo filosofie. Questa la mancanza d’umiltà dei cervelli senz’affetto, l’arroganza di mettere a sistema Dio e gli uomini. Di mettere l’umanità in luogo di Dio, divinizzarla, che è il nocciolo della filosofia luterana. Ed ebraica: la cassidista, quella dei talmudisti. O credi che a caso gli ebrei abbiano puntato su Lutero, nella loro lotta al cattolicesimo, a Roma? E sulla carta della rivoluzione francese?52

Non a caso il Questionario di Lelj agisce, nel settembre 1939, come cassa di risonanza53 degli articoli firmati da Giuseppe Pensabene fra l’agosto e l’ottobre, tesi a denunciare l’inquinamento «giudaico» della filosofia «romana» e «cattolica», istituendo, all’insegna dell’influenza dell’elemento «levantino» ed «ebraico», un nesso genealogico fra l’immanentismo di Zenone e Crisippo, il neoplatonismo di Bruno e Campanella, il razionalismo di Cartesio, il panteismo di Spinoza e, da ultimi, il criticismo kantiano e lo storicismo di Hegel54. Non basta allora condannare gli «ebrei» Spinoza, Bergson ed Einstein: la loro «ombra» si riflette, infatti, su Kant, Hegel e Croce. E Lelj rincara la dose, definendo proprio Benedetto Croce come «il maggiore discendente di Erasmo» e accusandolo di aver voluto ridurre Vico a «precursore di Hegel»:

Quanto a Croce, egli è il maggior pensatore che abbia l’Europa, diciamo il mondo, e vorrei dire che chiude un’epoca, la quale il destino dell’Italia esige che sia seppellita, e la quale resterà senza voce, sarà finita davvero, quando Croce avrà terminato l’opera sua. È il maggiore discendente di Erasmo da Rotterdam, è la colonna dell’Europa erasmiana, dell’Umanesimo erasmiano; è maggiore di Hegel, e tutto il suo lavoro è stato di ridurre

Vico un precursore di Hegel, un fondatore dello storicismo dialettico; ma questa scienza è tutta dialettica del pensiero e dell’azione, mentre Vico è il filosofo della lingua e dell’immaginazione classica, e la sua stessa filosofia è tutta opera d’immaginazione […]55 .

Per Pensabene – e per Lelj – occorre «liberarsi dell’idealismo», e ritornare ad Aristotele e a san Tommaso, a Vico e a Dante: «La contaminazione ebraica c’è, oramai da secoli, in tutta la filosofia dell’Europa: essa si chiama idealismo; e comincia dalla Riforma. Non rimane dunque che liberarsi da tutto l’idealismo; e fermarsi all’unica filosofia immune; che è perciò la più sana; e, fino a Vico, fu la sola dell’Italia. Cioè quella che ebbe per maestri gli stessi maestri di Dante»56 .

Promossa dall’umanesimo erasmiano, la nascita dell’Europa coincide, secondo Lelj, con lo sviluppo di quel «potere sinistro», chiamato borghesia. Una «classe di mercanti» – così la definisce il giornalista abruzzese – fa il suo ingresso nella storia usurpando le «terre del popolo», le terre comunali e i feudi demaniali:

Quando i signori, per condizioni di vita create dagli stessi mercanti, ebbero urgente e stragrande bisogno di quel denaro, di cui i signori di terre non avevano mai avuto bisogno; i borghesi fecero il colpo. Diventarono padroni dei feudi, padroni del feudo demaniale, ch’era terra del popolo, con una serie di usurpazioni che furono dette abusi feudali, e che ebbero come conseguenza che il popolo fu ridotto servo della gleba, oppure fu scacciato dalle sedi, ove da secoli seppelliva i suoi morti, spinto verso le città […].

Questa usurpazione era accaduta, quando la borghesia con la rivoluzione mise il polverino sulla rivoluzione stessa, e la fece legale57

L’analogia fra «ebrei», «borghesi» e «rivoluzione» – prima fra tutte quella del 1789 – è automatica:

Gli ebrei si trovano ottimamente nel sistema francese, sembra fatto per essi, essi stessi hanno aiutato la Francia a farlo. Da Madrid a Mosca a Cairo, diciamo pure a New York, in tutto il campo della rivoluzione francese, ci sono ebrei, ma soprattutto ci sono e ci si trovano ottimamente i borghesi. Dove c’è un borghese, c’è il sistema francese, ed il sistema è quello che conta, perché la Francia non l’avrebbe potuto fare di soli ebrei, e non sarebbe un sistema, se fosse di soli ebrei58 .

Con l’umanesimo, alla staticità metafisica del classico vengono a contrapporsi la «dialettica» e il «movimento» che caratterizzano, invece, il moderno. Ed ecco, dunque, affermarsi, per opera di «ebrei e borghesi», le «tendenze», in ambito estetico, e le rivo- luzioni, in campo ideologico-politico: «Col movimento, ebrei e borghesi, alias europei, misero tutto in movimento, in dialettica, anche il Rinascimento. Fecero il dantismo, raffaellismo, romanticismo, come il comunismo, socialismo, nazionalismo, nietzschianismo, sorelismo, ecc.»59 .

È infine sul piano linguistico che la dicotomia immaginazioneragione trova l’ennesima ipostasi. La lingua creatrice di «civiltà» è, infatti, quella che rispecchia il «genio della nazione», il «potere dell’immaginazione»60. Omero per la Grecia, Ennio per Roma e Dante, Leopardi e Manzoni per l’Italia sono gli esempi costantemente ripetuti da Lelj:

Per creare una civiltà ci vuole una lingua capace di farti al tempo stesso parlare e operare. Una lingua che non sia strumento, ma frutto del potere d’immaginare e fare, perché immaginare e fare sono la stessa facoltà. Immaginazione e creazione essa stessa: in una lingua, come questa, risiede il potere di dire e fare. Una lingua come l’omerica è il principio di tutte le opere greche. Una lingua poetica insomma, che ferisca la fantasia e sia volgare, capace perciò di ordinare il mondo a uno, come dice Dante, e come l’ordinarono la prima volta l’omerica, la romana, l’italiana61 .

Il «genio» della nazione italiana risiede, pertanto, nella lingua, e in particolare nel volgare, la «lingua del popolo». «Difesa della razza» vuol dire allora difesa del «volgare latino», espressione del «suo potere di immaginare e fare». E nemici della razza italiana sono ovviamente tutti coloro che attentano alla purezza della lingua. In primo luogo, l’Europa, la quale «non parla una lingua sola», e soprattutto la Francia, portatrice di una lingua dettata esclusivamente dalla ragione: «è dalla lingua, – scrive Lelj, – che specialmente si vede il carattere razionale del genio francese. Non è una lingua artefatta, sebbene ne sia stato legislatore il corpo accademico, ma è la lingua più razionale, la manifestazione del genio veramente razionale della Francia»62. La Francia appare in tal senso, nel discorso di Lelj, l’antitesi di Roma:

I francesi vogliono per riflessione fare proprio ciò che non hanno per natura. La loro natura è morta. La loro natura è morta da quanto ha ripiegato nella riflessione della lingua latina. Non sono romani e hanno costruito un sistema razionale di riflessione romana, cominciando dalla loro lingua. […] Essi parlano di Roma, in nome e dal punto di vista di Roma. Ma il punto di vista di Roma esiste in natura. È vivo e vivrà finché durerà il volgare latino. Noi soli parliamo la lingua del Lazio63 .

In secondo luogo, pericolosi avversari della purezza linguistica sono i «giudei», fautori di una letteratura «borghese», «riflessiva» e «psicologica»64, e inventori, grazie all’«ebreo» Zamenhof, dell’Esperanto:

Abbandonato l’uso popolare della sua lingua, e per conseguenza interrotto lo sviluppo della sua immaginazione, il popolo ebreo si è condensato nell’esercizio della facoltà razionale, della riflessione, della psicologia. Disposta per natura al raziocinio, ne ha fatto la sua principale forza. Disposto per natura al raziocinio, era naturalmente portato alla vita materiale, perché la ragione tira all’utile. Privo di immaginazione, privo di linguaggio, tutto ragione e materia, vivendo sparpagliato nel mondo, aveva da vincere l’ostacolo della immaginazione, della lingua, del genio delle nazioni; livellarle, neutralizzarle, farne una gran borghesia neutra, e a questo scopo, a tirare cioè i popoli all’abbandono delle facoltà nazionali, che sono tutto linguaggio e immaginazione, doveva appunto servire l’esercizio d’una lingua neutrale, artefatta e convenzionale, quale la lingua Esperanto65

Riassumendo, la dicotomia immaginazione-ragione dà luogo, nel discorso di Lelj, a una serie di antinomie ricorrenti, tutte culminanti nell’esaltazione del «genio» della nazione italiana e nella stigmatizzazione degli ebrei: immaginazioneragione

ClassicoModerno

Poesia epicaPoesia lirica

ReligioneFilosofia

PopoloBorghesia

Lingua «volgare»Lingue «riflessive» – Esperanto

ArteCritica

UniversalismoUmanesimo, cartesianesimo, idealismo

ItaliaEuropa-Francia

«genio della nazione»ebrei

Se si tiene presente la logica binaria in cui, per così dire, si articola il «sistema» filosofico di Lelj, si riesce a comprendere più agevolmente la razzizzazione della storia della letteratura italiana, di cui è artefice il curatore del Questionario. Dante e Leopardi divengono, in tale contesto, i numi tutelari del «genio della nazione» italiana. Il primo è celebrato come l’inventore del «volgare», e quindi della «razza»:

Col volgare Dante ci fece vedere il volto della razza. Le lingue erudite, dotte, filosofe sono lingue tarde, riflessive e decadenti. Mostrano il volto senile d’una razza. Per meglio dire, queste lingue sono la testimonianza che la nazione va perdendo i suoi tratti personali.

Dante trovò il genio della nazione italiana nel volgo, non fra i dotti, non fra i patrizi, ma fra la gente umile, nel parlare comune. Lo scoprì e lo rappresentò e ce ne mostrò le leggi66

Quanto a Leopardi, «La Difesa della razza» si contraddistingue per una rubrica dedicata interamente alla pubblicazione dei «pensieri» del poeta di Recanati, tratti dallo Zibaldone. Basterebbe la frequenza con cui i riferimenti a Leopardi compaiono nel Questionario per indurre a ritenere che il curatore della rubrica sia proprio Massimo Lelj: «Leggi lo Zibaldone, – scrive Lelj a un lettore del quindicinale, – e capisci che Leopardi è il nostro poeta»67 . Leopardi è il «volto più giovane del genio italiano»:

Gl’italiani sono ancora mille miglia lontani dal sospettare che cosa è significato che lo Zibaldone sia rimasto ignorato fino all’avanzata epoca carducciana del primo novecento; che sia stato pubblicato ai primi del novecento, anziché, mettiamo, il 1840. E che ora debba solo servire da medicina alla piccola scienza luterana e ideista e alla mediocre epica ottantanovista, che appunto tra il 1840 e il 1900 dettero il colpo maggiore alla civiltà italiana. È diventato una medicina ciò che era il nutrimento della nazione. Insomma, l’Italia è diventata soltanto una medicina dell’Italia. Disperatissima medicina, ridotti come siamo al facile meccanismo delle ideuzze, e all’ozio del sangue e della lingua e della natura italiana, rimasti per tanti anni intristiti, sopraffatti.

Leopardi è l’Italia messa a paragone del cosiddetto moderno. Leopardi è il volto più giovane del genio italiano. È la gioventù stessa dell’Italia68

Ma al di là dell’importanza della figura leopardiana nel Questionario della «Difesa della razza», è un articolo di Giuseppe Pensabene, pubblicato sul «Tevere» nell’aprile 1942, a confermare l’ipotesi che sia proprio Lelj il responsabile della rubrica: Non solo si considera lo Zibaldone come una voce viva dalla quale attingere l’insegnamento d’ogni giorno, ma è tale ormai la necessità anzi l’urgenza di quest’ultimo che si creano i modi più pronti per averlo, direi quasi, sotto gli occhi. Si raggruppano nell’immensa congerie dei pensieri di Leopardi scritti colla sola preoccupazione dell’ordine di data quelli che pure appartenendo a varie date si riferiscono a uno stesso argomento. Se ne fanno così dei veri e propri libri. Il primo è stato uno raccolto da Massimo Lelj e pubblicato mano mano a puntate a cominciare dal 1938 sopra una rivista che ha come proposito il mantenimento dei caratteri della razza italiana sia nel campo biologico che in quello morale: la «Difesa della razza»69 .

I Pensieri di Leopardi, curati da Lelj e pubblicati tra il 20 novembre 1938 e il 5 dicembre 1940, dovevano dunque essere rac- colti in un volume antologico della collana Biblioteca razziale italiana, con il titolo L’Italia e l’Europa 70. L’iniziativa si ricollegava indubbiamente all’eco suscitata dal centenario della morte di Leopardi, celebrato nel 193771, e all’uscita di una nuova versione dello Zibaldone, curata per Mondadori da Francesco Flora. Non a caso era stato proprio Massimo Lelj ad accogliere con entusiasmo, sulle pagine di «Quadrivio», l’edizione critica di Flora, presentandone in anteprima le peculiarità filologiche e sottolineandone l’utilità72. Al fianco di Lelj, nella schiera dei collaboratori di Interlandi, Francesco Biondolillo, professore di italiano e latino al liceo Mamiani e libero docente di letteratura italiana presso l’Università di Roma, aveva preso spunto dallo Zibaldone per «fascistizzare» Leopardi, ponendo l’accento soprattutto sui sentimenti «antifrancesi» del poeta73

Tenendo conto dell’attenzione riservata da «Quadrivio», soprattutto nel 1937, alla figura di Leopardi, non stupisce a questo punto che sia lo stesso Biondolillo a introdurre per primo il poeta di Recanati sul terzo numero della «Difesa della razza», nel settembre 1938, presentandolo, attraverso un collage di citazioni tratte dallo Zibaldone, come un «agguerrito conoscitore» degli ebrei e come una sorta di illustre anticipatore dell’antisemitismo fasci- del pensiero leopardiano fornita dal critico letterario:

Ritornando alla religione degli Ebrei, egli [Leopardi] sottolineava la forte consistenza storica e nazionale di essa, e perciò anche la resistenza della razza ebraica a fondersi con quella di altri popoli: resistenza ch’egli riscontrava perfino – ed era naturale ! – nella lingua, la quale – dice egli, che ben la conosceva da fanciullo – è povera e manca quasi affatto di composti, e scarseggia assaissimo di derivati, ecc. ecc.: segno evidente della ostilità che nutrono gli Ebrei contro gli altri popoli, di cui non vogliono neppure utilizzare la lingua. E segno evidente anche del loro smisurato orgoglio, se essi rifuggono da ogni contatto linguistico, e si tengono tenacemente stretti alla loro lingua fino a impedire l’ingresso in essa di altre voci74 .

Sulla scorta dell’autorità di Leopardi, Biondolillo ha quindi buon gioco nel giustificare la politica antisemita del fascismo come un necessario atto di difesa, provocato dall’ostilità di un corpo estraneo alla nazione italiana, come quello ebraico:

Ora, se è così, perché gli Ebrei cominciano a strillare contro i primi provvedimenti emanati dal Governo fascista? Noi italiani e fascisti non intendiamo far altro che trattarli… come essi trattano gli altri popoli, in mezzo ai quali vivono, e come trattano anche il nostro, in mezzo al quale sono stati lasciati vivere e prosperare purtroppo indisturbati fino a ieri. […] Con questo di più, e di meglio: che noi vogliamo usare mezzi aperti, e non subdoli, come i loro; che noi vogliamo agire a viso aperto e con leggi chiare ed esplicite75 .

Differente è invece l’impostazione della rubrica Pensieri di Leopardi, inaugurata da Lelj sulla «Difesa della razza» il 20 novembre 1938. La breve introduzione con cui si apre la rassegna antologica insiste particolarmente sull’analogia fra «civiltà classica», «arianità» e «italianità»:

È opera di nazioni di razza aria la civiltà: intendiamo non già una civiltà, ma la civiltà singolare, quelle delle più grandi opere, che l’uomo abbia creato, la civiltà classica: quella dei greci, romani, italiani. È aria la civiltà classica, sono state arie le due prime nazioni classiche, della stessa razza è la terza nazione classica, la italiana; arie altresì sono le maggiori nazioni viventi; ma la civiltà non sarebbe nata, se la nostra razza non avesse formato le tre successive nazioni classiche, perché, nel prendere sembiante di nazione, ha rivelato la sua forza, diventando creatrice; e questa è la ragione che uno studio della razza deve cominciare dalle nazioni, con le quali si personifica, opera, diventa effettiva la razza, se vogliamo vedere come questa abbia da vedere con la civiltà, e con quali facoltà la crei76 .

L’analisi dei testi leopardiani selezionati per la rubrica rivela una sistematica forzatura delle strutture oppositive dello Zibaldone (natura/ragione; parole/termini; poesia/scienza; antichi/moderni), finalizzata a sostanziare, da un lato, il tessuto filosofico leljano e, dall’altro, le strategie ideologico-politiche della rivista. La citata recensione di Pensabene esplicita l’appropriazione fascista del simbolo culturale leopardiano77, operata da Massimo Lelj sulle pagine della «Difesa della razza»:

Il libro [i testi della rubrica Pensieri di Leopardi] è imperniato intorno a questi due fondamentali argomenti: primo, fede, tradizione e natura generatrici di civiltà alla maniera nostra, contro ragione generatrice di civilizzazione alla maniera francese; secondo, poetica cioè arte come imitazione della natura quanto più sentita e perfetta quanto più capace di commemorare alla maniera nostra e dei classici, contro estetica cioè arte come sfogo indefinito dell’anima alla maniera francese, inglese, tedesca e dei romantici78 .

La lettura «interna» fornita dal critico d’arte del «Tevere» non è, questa volta, lontana dal vero. In perfetta sintonia con l’antirazionalismo e la vis antiborghese di Lelj, il primo nucleo di pensieri dello Zibaldone, pubblicati sul quindicinale interlandiano, riprende, infatti, il binomio Ragione-Natura del Leopardi dei pri- missimi anni Venti79. La natura – scrive il poeta di Recanati – è «santa», è stata madre delle illusioni che hanno contraddistinto il periodo più antico, il più felice per gli uomini, ai quali essa aveva nascosto quelle verità la cui scoperta ha provocato la fine di ogni bello e di ogni virtù morale, con la consapevolezza della nullità di tutte le cose e la spinta alla «scellaraggine ragionata»80, all’egoismo individuale, che ha distrutto ogni spirito eroico ed ogni grandezza. La ragione ed il suo uso eccessivo hanno dunque corrotto gli esseri umani provocandone per di più l’infelicità. Il cosiddetto incivilimento è soltanto barbarie che aumenta, da cui sono esclusi – e in parte – i selvaggi, i primitivi vissuti senza contatti con la civiltà, le persone semplici e gli ignoranti, ancora governati dagli istinti. La ragione ha matematizzato e geometrizzato la natura, descrivendola semplicemente come si descrive un cadavere, senza coglierne la vita che è accessibile soltanto all’immaginazione, al cuore ed alle passioni81. A sostegno di questa radicale antitesi, Leopardi chiama in causa il racconto biblico del peccato d’origine, e sono proprio questi passaggi dello Zibaldone a essere lungamente riprodotti da Lelj sulla «Difesa della razza», in coincidenza con il parallelo dibattito della rivista sui rapporti fra cattolicesimo e razzismo82. Il Genesi della vulgata è utilizzato da Leopardi per trovare conferme al «sistema» della natura-provvidenza: la natura è vita, odia la morte, tende alla conservazione degli esseri, coincide con la loro felicità; ma l’uomo ha ricercato la ragione e, peccando di superbia, ha smarrito la felicità e la perfezione originarie. L’operazione culturale di Lelj suscita non poche resistenze fra gli stessi lettori della «Difesa della razza», i quali non paiono gradire la presentazione del Recanatese come poeta dell’immaginazione e della cristianità83. Ma l’obiettivo filosofico-politico del giornalista abruzzese rimane inflessibile ed esplicito nella sua strumentalità: far emergere dai pensieri leopardiani la figura di un poeta protofascista, cattolico e anti-illuminista.

Accanto al tema «natura-ragione» e alle sue interazioni con il cristianesimo, un secondo nucleo di testi zibaldoniani, selezionati da Lelj per la «La Difesa della razza», attinge direttamente all’analisi filosofico-linguistica leopardiana84. Ad attirare l’attenzione del giornalista è chiaramente la riflessione del poeta sulle relazioni che la parola intrattiene con la struttura politica e intellettuale della nazione. Considerando il linguaggio come un elemento non con- venzionale, ma costitutivo di una gnoseologia in cui è l’immaginazione a innescare le facoltà della memoria e dell’intelletto, Leopardi concepisce le «parole» come lo specchio della realtà biologicoambientale, dell’esperienza culturale, delle idee e dei sentimenti di individui, gruppi sociali, intere nazioni e popoli. A esse si contrappongono i «termini» – le nomenclature, i linguaggi tecnicoscientifici, gli «europeismi» – frutto di una restrizione convenzionale del valore semantico delle parole: come queste ultime esprimono il punto massimo di peculiarità e specificità nazionale di una lingua, così i termini ne identificano il massimo di convergenza con altri idiomi e culture. Da questa dicotomia prende le mosse la contrapposizione fra «lingue architettate sul modello dell’immaginazione» e lingue «architettate sul modello della ragione» che in Leopardi esprime l’equivalente simbolico della crisi di cultura delle società moderne, in cui la cogenza dell’uso giunge a imprigionare la naturale libertà del linguaggio85 .

Proponendo ai lettori della «Difesa della razza» le riflessioni critico-linguistiche di Leopardi, Lelj opera una scelta antologica che ne accentua la dimensione nazionalistica. Non è un caso, ad esempio, che sulle pagine della «Difesa della razza» sia riportata pressoché interamente la controversia tra Leopardi e Ludovico Di Breme, nelle cui note agili e immediate è contenuto in germe il futuro Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica 86. La poetica antiromantica leopardiana viene sostanzialmente «militarizzata» dalla rubrica di Lelj: se il razzismo fascista, richiamandosi a Leopardi, si ricollega al classicismo degli «antichi» e a una poesia legata allo stato di natura, a esso si contrappongono, invece, Lord Byron e i romantici dell’Ottocento francese, già a suo tempo bersaglio del poeta recanatese e ora divenuti simbolo della modernità decadente e antifascista, priva di immaginazione e di naturalezza87 .

Allo stesso modo, la selezione di Lelj irrigidisce e strumentalizza il binomio leopardiano «lingua-nazione». Nel momento in cui, con l’ingresso dell’Italia in guerra, la propaganda fascista si accanisce contro la Francia, il giornalista di Tione ha buon gioco, ad esempio, nel riprodurre la polemica di Leopardi contro la rigidità e «geometricità» della lingua francese, la sua struttura lineare e semplificata, la sua cronica incapacità di «inversioni», la sua mancanza di «ardire» e di mobilità sintattica88. Lungi dal propor- re quei passaggi in cui il poeta indica la Francia come modello di intensa circolazione linguistica e culturale, Lelj sottolinea, per contro, in funzione antifrancese, i momenti zibaldoniani in cui l’italiano viene celebrato come punto di massima resistenza dell’«antico» e annoverato fra quelle lingue «architettate sul modello dell’immaginazione» che lasciano venire in pieno risalto le potenzialità variazionali ed espressive delle «parole»89. In nome del «genio» della nazione italiana, non solo la Francia, ma anche la Germania fa significativamente le spese dello Zibaldone riletto da Lelj: riprendendo la contrapposizione leopardiana fra popoli settentrionali, legati alla «ragione» e alla «filosofia», e popoli meridionali, pervasi dall’«immaginazione» e dalle «illusioni»90, la rubrica della «Difesa della razza» finisce, infatti, per esaltare la Spagna91 e condannare la nazione tedesca, i cui tormenti sarebbero iniziati con la Riforma protestante, con la «febbre divorante e consuntiva della ragione e della filosofia»92 .

In un tale contesto di sistematica fascistizzazione e razzizzazione del testo leopardiano, stupisce la relativa assenza dei pensieri più «politici» del poeta di Recanati. È da notare tuttavia che, nonostante l’esiguità, gli unici due passaggi esplicitamente politici pubblicati, nell’ottobre-novembre 1940, dall’antologia di Lelj, scaturiscono in realtà da una scelta ben studiata e niente affatto casuale. Il giornalista seleziona, infatti, quei brani zibaldoniani in cui Leopardi esalta la monarchia assoluta come forma metafisica dello Stato perfetto originario, giungendo, per questa via, a criticare il modello della monarchia costituzionale93: offuscando del tutto l’antidispotismo «progressivo» dell’autore dello Zibaldone, Lelj arriva così a trasformare Leopardi in una sorta di anticipatore della dittatura mussoliniana.

Alla fine del 1940, la rubrica si chiude con due ultime citazioni, le quali si soffermano, rispettivamente, sul ruolo dell’immaginazione nello sviluppo delle virtù guerriere94, e sulla preferibilità di una vita breve, ma ricca di «attività e varietà», rispetto a un’esistenza lunga, ma piena «di noia e di miseria»95. Temi del tutto coerenti con l’attivismo bellicista del regime, ma che sembrano, nello stesso tempo, annunciare la partenza di Massimo Lelj per il fronte, da dove giungeranno le sue corrispondenze di guerra per «Il Corriere della Sera», poi pubblicate nel libro Torpediniere, del 194296 .

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