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«La Difesa della razza»
Eppure, ne scrivevo di righi. Scrivevo, in media, una colonna al giorno; una colonna di giornale. Trecento sessantacinque colonne ogni anno. Tremila seicento cinquanta colonne in dieci anni… E in venti? Settemila e trecento colonne.
Una colonna di giornale è di circa cinquanta centimetri: mezzo metro. Poste su una stessa linea, le mie settemila trecento colonne coprono una distanza pari a diciottomila duecento cinquanta metri; diciotto chilometri di parole. Ah, ah!... E che cosa scrivevo?
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t. interlandi, Così, per (doppio) gioco, Roma 1961.
L’estremista di regime
Telesio Interlandi nasce a Chiaramonte Gulfi, in provincia di Ragusa, il 20 ottobre 18941. Il nome – scelto dal padre anticlericale e positivista con riferimento al filosofo Bernardino Telesio2 –non viene accettato dall’ufficiale civile e risulta pertanto sostituito, all’anagrafe, con Evaristo, il santo di quel giorno.
Dopo gli studi liceali a Catania, il giovane Interlandi si iscrive, seguendo la volontà paterna, al Politecnico di Torino. A soli diciannove anni è redattore capo del quotidiano catanese «Il Giornale dell’Isola». Dopo la prima Guerra mondiale, alla quale partecipa come ufficiale nell’artiglieria di montagna, giunge a Roma, dove fa un po’ di tutto, dal partecipare senza successo a un concorso per autori di novelle, al tradurre Blok e Andreev, allo scrivere testi satirici per «Il Travaso delle Idee», al disegnare copertine di gusto liberty per il mensile «Noi e il Mondo». In un articolo scritto nell’aprile 1928 sotto forma di lettera al figlio, Interlandi descriverà questa fase come un periodo di smarrimento, interrotto finalmente dall’arrivo di Mussolini:
Vedi, a quel tempo io m’occupavo di libri, di quadri, di spettacoli teatrali; facevo dei pupazzi sui giornali… Ma che scopo aveva tutto quello che vedevo e facevo? Nessuno; si faceva per fare, per riempire le giornate, certi che coloro che sarebbero venuti dopo di noi avrebbero disfatto e rifatto a lor piacimento – senza scopo. Ma quando quell’uomo cominciò a comandare, si capì che uno scopo c’era; e non era cosa che il capriccio degli uomini poteva distruggere o spostare3 .
Trasferitosi a Firenze, è come inviato del quotidiano «La Nazione» che Interlandi incontra la marcia su Roma e il fascismo. Di nuovo a Roma, nel 1923 diviene redattore capo dell’«Impero», il quotidiano reazionario-futurista di Mario Carli ed Emilio Settimelli4, dove cura, sulla prima pagina, la feroce rubrica polemica
6Capitolo primo
Colpi di punta, una colonna di odio fascista indirizzata ogni giorno contro Amendola, Sturzo, Gobetti, Treves, ma anche contro il «filofascista», ovvero «il nemico interno, il disfattista, il seminatore di dubbi, di angosce fuor di luogo, colui che mina la resistenza chiacchierando»5 .
Nella seconda metà del 1924, mentre esplode la crisi Matteotti e «L’Impero» assume una posizione sempre più critica nei confronti degli orientamenti politici mussoliniani, Interlandi viene in soccorso del fascismo in crisi, andando a intervistare Luigi Pirandello, suo amico personale, il quale proprio in quei giorni si è iscritto al Partito fascista. Nel suo articolo, pubblicato il 23 settembre, Interlandi premette di non essere andato «a scoprire in Pirandello il fascista»: «Chiunque abbia avuto qualche dimestichezza con il grande commediografo sa che egli è, per natura, un antidemocratico, un nemico dichiarato d’ogni ideologia intessuta d’immortali principi»6. Ciò che interessa al giornalista di Chiaramonte Gulfi è invece «sentire il perché della richiesta della tessera, atto che aveva sconcertato gli avversari del Fascismo, in ispecial modo quelli che cianciano d’una presunta incompatibilità fra fascismo e intelligenza»7. E la curiosità viene presto soddisfatta: Pirandello ha spiegato il suo atto con una sola parola: Matteotti. L’oscena speculazione compiuta sul cadavere del deputato unitario, l’industrializzazione di quel cadavere spinta fino alle più rivoltanti conseguenze, la campagna di menzogne e di falsità prosperante su quel macabro terreno, il tentativo in parte riuscito, di ridurre il Fascismo da fenomeno storico a fenomeno di malavita politica, la chiara percezione del tremendo pericolo che corre il paese abbandonato ai suoi avvelenatori: tutto questo ha spinto Pirandello a dar forma concreta a quello che fu sempre un atteggiamento del suo spirito8 .
La durezza con cui Interlandi traduce sulla prima pagina dell’«Impero» l’adesione di Pirandello al «metodo fascista integrale» induce lo scrittore a inviare una lettera di precisazione, pubblicata il 26 settembre:
Caro Interlandi, a chiarimento del mio pensiero, mi permetto di farle osservare che io non dissi così recisamente e crudamente come appare dalla sua intervista, che avrei voluto «la soppressione della stampa avversaria». Dissi che, applicato il decreto sulla stampa, come misura eccezionale per impedire una macabra e oscena propaganda d’odio partigiano, s’era soppresso ben poco e col solo risultato di render vana a un tempo e nociva l’applicazione di quel decreto. Vana, perché la propaganda d’odio poté avere il suo frutto nefando nell’uccisione dell’onorevole Casalini; nociva, perché è stata e seguita
L’estremista di regime7 a essere facile pretesto di gridar vendetta per «la conculcata libertà». Beato paese, il nostro, dove certe parole vanno tronfie per la via, gorgogliando e sparando a ventaglio la coda, come tanti tacchini. Eppure s’è visto sempre che un po’ di bene s’è avuto sol quando, senza gridare e senza neppure alzar le mani, semplicemente ma risolutamente, s’è andato incontro a queste parole, che subito allora sono scappate via, sperdendosi di qua e di là, con la coda bassa e illividite dalla paura. Mi creda, con affetto9 .
A distanza di un mese dall’intervista a Pirandello, e forse anche grazie a questo scoop giornalistico, Interlandi viene scelto da Mussolini per dirigere un nuovo quotidiano romano, «Il Tevere». La tendenza sempre più marcata dell’«Impero» a svincolarsi dalla linea «moderata» del capo di Governo e da ultimo l’aperto sostegno al «pronunciamento» dei consoli della Milizia10 vengono duramente pagati da Carli e Settimelli non solo con la sospensione dei sussidi governativi, ma anche con la creazione del nuovo giornale, avvenuta proprio per garantire a Mussolini, in un momento particolarmente difficile, l’appoggio di una testata aggressiva e integralista, ma al tempo stesso disciplinata.
Il primo numero del «Tevere» esce il 27 dicembre 1924. A distanza di un anno, Interlandi rievocherà l’esordio con queste parole: «In quei giorni noi pigliavamo gli ordini da un Uomo che nell’ottenebrarsi rapido dell’orizzonte aveva conservato una splendente serenità alla quale ci si poteva abbeverare come a una fonte»11. Non è tuttavia soltanto la luce della fede fascista a provenire da Mussolini. Inizialmente finanziato dall’imprenditore romano Vannissanti, «Il Tevere» sopravvive, infatti, a partire dal 1926, grazie ai contributi che giungono dal Partito Nazionale Fascista (pnf) e dall’Ufficio stampa della Presidenza del Consiglio. A trent’anni, il giornalista di Chiaramonte Gulfi si trova dunque a capo di un quotidiano destinato a essere presto riconosciuto come l’anticipatore e il contenitore ufficioso delle posizioni politiche di Mussolini12. La redazione del «Tevere» è ristretta e prevalentemente siciliana: il caporedattore Mauro Giuseppe Ittar; Corrado Pavolini e Dante Interlandi, fratello di Telesio; il fotografo Amerigo Petitti; gli scrittori siciliani Ercole Patti, Rodolfo De Mattei e Francesco Lanza. Molte le firme illustri, ad arricchire, almeno fino ai primi anni Trenta, una raffinata terza pagina culturale. Innanzitutto Luigi Pirandello, il quale, oltre a collaborare e a essere costantemente recensito dal «Tevere», mette in sce-
8Capitolo primo na, l’11 maggio 1927, al Teatro Argentina, l’opera teatrale che Interlandi ha scritto a quattro mani con Corrado Pavolini, La croce del Sud 13. Un’assidua presenza sulle pagine del quotidiano è anche quella di Vincenzo Cardarelli, autore, sempre nel 1927, di una prefazione al volumetto di Interlandi Pane bigio, nel quale si ritrova un colorito ritratto del giornalista siciliano: Immerso nella vita e nello spirito dei suoi tempi fino al collo, sebbene di razza antica e savia e di abitudini casalinghe, intorno a lui si respira la fiducia, l’ottimismo, il piacere di lavorare e di vivere. […] L’attività intera di questa affilatissima lama del giornalismo fascista, di quest’uomo ombroso e pericoloso a cui, certo, pestare un callo, non sarebbe consigliabile impresa, è la dimostrazione viva e quotidiana che si può essere modesti e dinamici, modesti e buoni fascisti, modesti e persone di molto ingegno e di molto spirito14 .
Ma sulla terza pagina del «Tevere» compaiono anche Emilio Cecchi, Giuseppe Ungaretti, Vitaliano Brancati, Elio Vittorini, Corrado Alvaro, Ardengo Soffici, Cesare Zavattini, Ennio Flaiano, Giovanni Macchia, Silvio D’Amico, Antonio Baldini, Antonello Trombadori, Marino Mazzacurati, Vinicio Paladini. Nell’agosto 1933, Interlandi fonda «Quadrivio», «settimanale illustrato di Roma»: vicedirettore è Luigi Chiarini, direttore del Centro sperimentale di cinematografia; redattore capo è Vitaliano Brancati15, mentre fra i collaboratori, oltre a molti dei nomi già citati, si trovano anche Umberto Barbaro, Massimo Bontempelli, Alfredo Casella, Roberto Melli, Aldo Palazzeschi.
È nelle colonne di queste due riviste che si forma quel milieu giornalistico destinato a costituire il lungo elenco di collaboratori della «Difesa della razza», quindicinale che Interlandi dirigerà a partire dall’agosto 1938: dall’architetto e critico d’arte palermitano Giuseppe Pensabene al polemista cattolico Gino Sottochiesa; dallo scrittore Alfredo Mezio al pedagogista Nazareno Padellaro; da filosofi tradizionalisti come Massimo Scaligero e Julius Evola all’antropologo Guido Landra; dallo storico della letteratura italiana Francesco Biondolillo al giornalista, esperto di esercito e aeronautica, Antonio Trizzino; da Domenico Paolella, critico cinematografico e poi regista, sceneggiatore e produttore, al critico letterario Aldo Capasso; dal giornalista Giovanni Savelli a Giorgio Almirante, redattore capo del «Tevere» a partire dal 1934.
Non è tuttavia la costituzione di una lobby giornalistica – il «gruppo Interlandi», come verrà definita – disponibile a mobili-
L’estremista di regime9 tarsi al servizio del razzismo di Stato, l’unico motivo di interesse individuabile in una lettura, anche soltanto iniziale e suscettibile di ulteriori approfondimenti, del «Tevere» e di «Quadrivio». Ripercorrere l’attività pubblicistica interlandiana dal 1924 al 1938 consente, infatti, di precisare due aspetti storiografici senza i quali sarebbe probabilmente impossibile comprendere la genesi, nell’agosto 1938, della «Difesa della razza». In primo luogo, l’antisemitismo e il razzismo non sono, per Telesio Interlandi, il frutto di una scelta improvvisa, cinica e opportunistica, come si evince, ad esempio, dal profilo di Antonio Spinosa ripreso da Renzo De Felice16, ma rappresentano un nucleo sostanziale e strutturale della sua formazione intellettuale e della sua Weltanschauung ideologico-politica. In secondo luogo, il legame privilegiato fra Interlandi e Mussolini autorizza a considerare in controluce gli articoli razzisti e antisemiti del «Tevere» e di «Quadrivio» non solo come invenzioni propagandistiche di un giornalista o come isolati eccessi di un fascista radicale, ma come cartina di tornasole del «pensiero segreto»17 del dittatore e del complesso e non lineare sviluppo delle sue posizioni in materia di razzismo e antisemitismo.
1. Un antisemitismo di lunga data.
Basterebbero forse i numerosi apprezzamenti che Alfred Rosenberg dedica al «Tevere» nel Völkischer Beobachter, almeno a partire dall’aprile 192618, per non nutrire dubbi sulla profondità e sulla radicalità del pregiudizio antiebraico presente negli scritti di Telesio Interlandi, ben prima dell’ascesa al potere di Hitler. Profondamente influenzato dalla lettura di Charles Maurras e di Léon Daudet19, Interlandi fa dell’antisemitismo uno degli aspetti imprescindibili della sua visione «integrale» del fascismo.
Prima di tutto, l’ebreo è infatti, per il giornalista siciliano, il simbolo dell’antifascismo. Già sulla prima pagina dell’«Impero», nell’ottobre 1924, Interlandi definisce l’Aventino «il ghetto della nazione», dove si traffica «senza scrupoli e senza pentimenti, alla giudìa»20. In una cornice interpretativa che non esita a descrivere il conflitto fascismo-antifascismo come «una guerra di razze che si avversano perché non s’intendono né s’intenderanno mai»21 , Interlandi, divenuto nel frattempo direttore del «Tevere», si sca-
10Capitolo primo glia contro l’«ebreo» Claudio Treves, inserito, insieme agli altri socialisti Modigliani e Turati, nell’elenco dei «traditori», dei «parassiti» e dei «responsabili del sangue versato» dall’esercito sul Piave e dal fascismo nelle vie e piazze d’Italia: «Come tutti gli ebrei, –scrive Interlandi, – il rossiccio deputato Treves deve nutrire un infinito disprezzo per il popolo italiano. Egli immagina di mettere agevolmente nel sacco il popolo italiano, come fanno i suoi correligionari venditori di tappeti coi buoni borghesi di provincia». Ma il popolo – continua l’editoriale – ha ancora «segnato nelle carni il ricordo della criminalità socialista», e «nessuna dialettica giudia riesce a cancellare le cicatrici»22. Due mesi dopo, in occasione delle celebrazioni per l’anniversario dell’intervento del 1915, Interlandi torna ad accusare Treves di tradimento e di disfattismo: «come nel ’15 anche sabato l’ebreo Treves era “dall’altra parte”».
Antifascismo e «anti-Italia» sono evidentemente connessi, in una logica antisemita nella quale ebreo è costantemente sinonimo di «europeismo», di «internazionalismo», di «rollandismo». Sotto la maschera dell’«europeismo», rappresentata da Rolland, da Barbusse e dai gruppi Clarté, si nasconde sempre, secondo Interlandi, «l’ebraismo senza patria e dissolvitore»23, quello – ancora una volta – dell’«ebreo» Treves24, dei «neutralisti» e dei «disfattisti»25 , degli intellettuali apolitici, chiusi nella loro torre d’avorio, lontani dalla sintesi di cultura e politica perseguita dal fascismo: Per molti, per troppi scrittori non solamente il Fascismo, ma il patriottismo è una cosa che non ha nulla a che fare con l’Arte. Si tratta di politica, e gli scrittori non vogliono far politica; si tratta di sentimenti che occorre dividere con l’enorme massa del popolo, e ciò è di cattivo gusto, è «borghese», non è originale. Lo scrittore si chiude nella sua torre d’avorio e non ne esce se non per qualche bizzarra mascherata che, molto spesso, è d’origine giudea o internazionalistica. […] Lo scrittore ha orrore di pensare come pensa l’uomo qualunque, ha bisogno d’apparire «superiore», ha bisogno di tener la distanza, teme d’insudiciarsi con la politica; e, in definitiva, vuole vivere tranquillo26 .
Nemico politico (in quanto antifascista e internazionalista) e culturale (in quanto «europeista»), l’ebreo è infine, nell’ottica di Interlandi, il nemico economico. Lo dimostra con sufficiente chiarezza la violenta campagna lanciata dal «Tevere», nel settembreottobre 1926, contro gli agenti di cambio. Nel sostenere la politica deflazionistica di quota Novanta, Interlandi descrive la Borsa come il regno della «Dea speculazione», un luogo «non rispetta-
L’estremista di regime11 bile» rivestito di «piante parassitarie»27, nel quale gli agenti di cambio si rendono complici di manovre inflazionistiche degne dell’«economia semita» più che di quella «latina»:
L’Italia è un paese che dai latini ha ereditato una saggezza economica che è stata presa a modello nel mondo. Alla base del nostro edificio morale ci fu sempre, dalle origini ad oggi, l’amore per la terra; il quale rivela il sacro desiderio dell’ordine, della stabilità, della continuità, tipico della nostra razza.
Gli altri, coloro che amano il giuoco d’azzardo, non sono dei nostri; non sono italiani e non possono essere fascisti. È l’economia semita che ha insegnato a qualcuno il gusto della speculazione senza scrupoli, l’arte di sfruttare il lavoro degli altri e la buona e la cattiva fortuna; anche quella del paese sul cui suolo egli vive e prospera. Tutto ciò non è fascista28 .
La campagna interlandiana contro gli «speculatori» sfocia, sempre nell’ottobre 1926, nella pesante critica mossa dal «Tevere» al «Manifesto finanziario» per il libero scambio, firmato da centottanta banchieri europei. È questa una delle occasioni in cui si manifesta con maggiore evidenza l’immaginario cospirazionista alla base dell’antisemitismo interlandiano. Secondo il giornalista, dietro l’«adunca mano della finanza internazionalista»29 si nasconde, infatti, il capitalismo ebraico. Non è un caso che Interlandi citi, a sostegno delle sue allusioni, una frase – decontestualizzata e mal interpretata – dell’«ebreo» Walter Rathenau, pubblicata nel 1909 sulla «Neue Freie Presse»e destinata a divenire un cardine del mito cospirazionista antiebraico del xx secolo: «Trecento uomini che si conoscono l’un l’altro, reggono i destini economici del mondo e designano i loro successori nel loro stesso entourage»30. Questa stessa frase è stata già riportata da Interlandi alcuni mesi prima, nel giugno, in un editoriale nel quale il giornalista ha preso di mira l’antifascista Carlo Sforza, definendolo uno spirito «europeo», ovvero «uno di quei personaggi secondo i quali la storia si sarebbe fermata nel 1922, alla Conferenza di Genova»31. A Genova – continua Interlandi – primeggiarono «dieci o dodici personaggi», «demagoghi ed ebrei», e tra questi vi era «l’ebreo tedesco» Rathenau. Assassinato «perché era ebreo» e perché «non aveva voluto convertirsi», Rathenau aveva scritto, con «conoscenza di causa», le «sacrosante parole» sui «trecento» reggitori dei destini del mondo, e lui stesso – conclude il direttore del «Tevere» – era in quell’entourage 32. Nessun dubbio, dunque, sul fatto che Interlandi, nell’usare la citazione dei «trecento» a proposito del «Manifesto» li-
12Capitolo primo beroscambista, intenda alludere alla presenza ebraica (e «internazionalista») nel «trust» dei banchieri europei: «Alcuni di questi trecento uomini – scrive Interlandi il 19 ottobre – si sono accorti di guadagnare poco, appunto perché l’Europa è spezzettata; e tentano una cancellazione di frontiere per far migliori affari»33. Le ambiguità, del resto, si sciolgono nel corsivo pubblicato sul «Tevere» il giorno dopo, dedicato ai banchieri e imprenditori italiani che hanno aderito all’iniziativa: «Ci sono degli uomini di affari italiani che trovano superflua, inutile la riserva e nel testo del documento trovano il verbo definitivo che fa per loro. I signori Toeplitz (ehm! ehm!), Agnelli e Gualino pensano che l’Italia può mettersi senza riserve nelle mani dei centottanta»34. L’ironica esclamazione tra parentesi è un chiaro riferimento alle ben note accuse dirette da tempo contro Giuseppe Toeplitz, amministratore delegato della Banca Commerciale Italiana, in quanto «ebreo» e in quanto «tedesco». Guidata dall’«ebreo» Toeplitz, la comit – insinua ancora Interlandi il 22 ottobre – sarebbe la componente italiana del ««trust» bancario internazionale» che utilizza il pretesto del libero scambio per metter mano, in realtà, alle «grandi aziende industriali dell’Europa»35 .
La «finanza internazionalista» non è certo l’unico tassello della rete cospirazionista immaginata da Interlandi. Fin dal 1924 il giornalista ha individuato, infatti, nella massoneria il principale nemico del fascismo36: «associazione a delinquere internazionale», la massoneria deve essere colpita a morte37, deve essere distrutta38 . In più occasioni Interlandi disegna le maglie di una cospirazione internazionale, composta dalla «demomassoneria francese»39, dal «fuoruscitismo», dalla democrazia, dal socialismo, dove l’ebreo gioca sempre un ruolo rilevante. Definito, come si è visto, il «ghetto della nazione», l’Aventino è per Interlandi l’atto di nascita della figura del «demo-masson-popolare-repubblicano»40, il prototipo dell’eterno avversario del fascismo. Il «rollandismo», sinonimo per il giornalista di «ebraismo senza patria e dissolvitore», è «la chiave di volta per capire tutto l’antifascismo», poiché «in esso trovano ospitalità tutte le forze antinazionali: la massoneria, il comunismo, la socialdemocrazia internazionalistica»41. Nel dicembre 1925, nel denunciare i legami esistenti tra la sezione francese dell’Internazionale socialista e il Partito socialista dei lavoratori italiani di Treves, Modigliani e Turati come una manovra orchestra- ta contro la lira italiana, Interlandi insiste sull’attenzione ai «calcoli precisi» e ai «cordoni della borsa», che contraddistinguerebbe l’«ebreo» Treves e l’«ebreo» Blum42. E se il congresso pacifista di Bierville è stigmatizzato come una «famosa buffonata giudeo-cristiano-massonica»43, nel maggio 1925 la prima pagina del «Tevere» allude alle connivenze ebraico-massoniche con la vignetta di Sem (alias Bernardo Leporini), intitolata In attesa che canti il gallo, dove il disegno del negozio «Spizzichino A.A.A. Abiti usati», ricoperto di simboli massonici, di fronte al quale sostano interdetti Amendola e Domizio – «Amendola: Che roba è? Domizio: Mah…» – accompagna il commento «Nessuno ha avuto la lealtà di difendere la massoneria»44 .
Elemento della cospirazione «massonica» antifascista e nemico interno/esterno sul piano politico, culturale ed economico, l’ebreo rappresenta, pertanto, fin dalla metà degli anni Venti, il polo negativo della Weltanschauung ideologico-politica di Interlandi. Le principali argomentazioni di questo immaginario antisemita –incentrato particolarmente sull’idea dell’ebraismo come movimento «internazionale», antifascista e antitaliano – ritorneranno con frequenza nella produzione giornalistica interlandiana degli anni Trenta. Nel novembre 1932, ad esempio, commentando il convegno Volta per lo studio e la trattazione dei problemi dell’Europa, Interlandi stigmatizza «l’intellettualismo, fortemente intriso di ebraismo e di massoneria, che fece le sue prime armi in Isvizzera e in Francia, subito dopo la guerra, quando si tramutò in “europeismo” dopo essere stato il più sconciamente possibile “disfattismo”». Il giornalista prende di mira, in particolare, «l’ebreo austriaco Stefano Zweig» e il comitato Clarté, «piccola chiesa laica formata in Isvizzera da ebrei massoni e sovversivi internazionalisti», che «mirava all’unione dell’Europa attraverso la scomparsa delle patrie»45. Nell’ottobre 1933, nel momento in cui avvia un’ampia campagna in difesa dell’«italianità» di una cultura fascista giudicata eccessivamente succube del modello francese – il cosiddetto «mal di Parigi» – Interlandi, su «Quadrivio», si scaglia non solo contro i soliti Rolland, Barbusse, Gide e Malraux, ma contro l’intellettualità «ebraica». Ecco allora che, dietro gli scrittori francesi antifascisti e antitaliani, si cela «l’ebreo Benda», il quale «non per nulla» è partito in guerra «contro i chierici che tradiscono». Ancora più pesante è l’affondo contro gli «ebrei» Mann:
Io ho sentito dire degli ebrei Mann, Tommaso ed Enrico, ed anche del rampollo Klaus… Che cosa ha fatto l’Italia fascista a questi tre miserabili se non comprargli dei libri, tradurglieli, riconoscerne i meriti, diffonderli? Essi hanno voluto fare della politica; noi non dovremo farne? Noi la faremo con più eleganza, con maggiore onestà; ecco tutto. Ma non potremo tacere che i Mann e i loro simili sono dei fetenti.
Alcuni anni dopo, nel 1937, in un lungo intervento volto a stigmatizzare come «meticci dissidenti» quanti si oppongono ai precetti teorico-politici del razzismo biologico, Interlandi aggiornerà, in chiave razziologica, le invettive antisemite degli anni Venti:
[I «meticci dissidenti»] sono gli intellettuali privi di radici nella loro terra, vaganti a mezz’aria tra una culturetta francese d’accatto e un europeismo di natali democratici. Un bel giorno, se ne vede qualcuno varcare la frontiera e imbrancarsi nei Comitati di vigilanza intellettuale antifascista, o nei gruppi internazionalisti comunisteggianti; Rolland è il loro dio e se ne fanno, con straordinario zelo di novizi, i chierici. Essi, alla fine, non tradiscono nulla, perché l’Italia mussoliniana non è il loro paese; essi vi sono ospitati, e a volte in perfetta buona fede credono che il destino dell’Italia debba essere conforme al loro meschino destino, e che quello che oggi accade non sia che una parentesi.
Se il nesso «internazionalismo» ebraico-antifascismo sembra, dunque, costituire un elemento di continuità dell’antisemitismo interlandiano, la progressiva declinazione in senso razzista del concetto di ebreo inizia a delinearsi con i primi anni Trenta, intrecciandosi con l’entusiastico sostegno fornito dal «Tevere» all’ascesa politica di Hitler in Germania. Dopo aver salutato, nell’aprile 1925, Hindenburg come «l’incarnazione dell’interesse della razza» tedesca e, due anni dopo, Hitler come il «corpo vivo della Germania»46, gli orientamenti assunti dal quotidiano romano tra il 1930 e il 1933, lungi dal rivelare presunti finanziamenti da parte tedesca47, si accordano per contro perfettamente con la complessa strategia adottata da Mussolini nei suoi rapporti con Hitler, soprattutto in relazione alla «questione ebraica». Nel quadro dell’organizzazione diplomatica del Patto a Quattro, Mussolini persegue, infatti, nel 1932 fino al giugno 1933, un’articolata politica di mediazione, finalizzata a frenare sia la violenza nazista contro gli ebrei sia lo sdegno antinazista dell’opinione pubblica internazionale. Al di là delle dichiarazioni distensive sugli ebrei espresse nell’intervista a Emil Ludwig tra marzo e aprile 193248, Mussolini, a partire dal 1930 ma ancor più intensamente nel 1932-33, suggerisce più volte a Hitler l’adozione di un atteggiamento più morbido nei confronti degli ebrei, meno ideologico e più politico, senza scosse violente ma con «una eliminazione graduale degli ebrei dai posti di responsabilità»49. Un consiglio legato alla specifica situazione tedesca, ma che riflette parallelamente la concreta prassi persecutoria avviata segretamente in Italia da Mussolini in quegli stessi mesi, con la rimozione dai luoghi di responsabilità di Alessandro Della Seta (10-18 aprile 1933), Carlo Foà (gennaio-febbraio 1933), Margherita Sarfatti (novembre 1932 - gennaio 1934), Giuseppe Toeplitz (febbraio-marzo 1933), Guido Artom (luglio 1933) e Guido Beer (agosto 1933)50. Il patronage critico esercitato nei confronti delle misure antisemite tedesche non impedisce a Mussolini –unico statista dell’Occidente – di agire parallelamente come protettore internazionale di Hitler: il dittatore rilascia dichiarazioni ostili verso la «propaganda internazionale lanciata da ebrei e massoni contro la Germania» e intima ai giornali di «non occuparsi di pretese persecuzioni di ebrei in Germania e di non pubblicare niente in proposito»51 .
La lettura del «Tevere», tra il 1930 e il 1933, fornisce non pochi elementi a conferma della complessità di questo quadro politico-diplomatico generale. Nel 1930, una serie di articoli, firmati da Corrado Pavolini, documenta, ad esempio, la situazione politica tedesca. Trattando dell’antisemitismo nazionalsocialista, Pavolini sottolinea la distanza rispetto alla situazione italiana: «un odio così intenso (quasi raccapricciante se si riflette che anche l’ebreo è infine creatura umana), può riuscire affatto incomprensibile in quei Paesi, come l’Italia, dove un antisemitismo non esiste». Tuttavia, il carattere sovversivo e antitedesco dell’ebraismo in Germania giustifica comunque, secondo il giornalista, «se non azioni così radicali come il bando e la confisca, il rancore almeno degli hitleriani»52 .
Con l’inizio degli anni Trenta, la valutazione positiva della progressiva ascesa nazionalsocialista s’intreccia con la polemica del «Tevere» nei confronti dei gradi di «italianità» e di adesione al fascismo degli ebrei sionisti della penisola. Fin dall’agosto 1929, in occasione della prima seria crisi palestinese e della presa di coscienza del fenomeno sionista da parte dell’opinione pubblica italiana, Interlandi ha criticato il progetto del «focolare ebraico» in Palestina, ritenendolo incompatibile con le caratteristiche innate
16Capitolo primo del «popolo ebraico» – «privo della facoltà d’amare il lavoro sedentario», «nomade per definizione», «negato all’attaccamento alla terra»53 – e denunciandolo come il prodotto di una sorta di lotta di classe interna al mondo ebraico, attraverso la quale l’«ebreo di qualità», l’«israelita “arrivato”» della diaspora punterebbe a spedire lontano «lo scarto» dei ghetti europei, «l’ebreuccio miserabile» che non è riuscito ad «acclimatarsi sotto nessun cielo nazionale»54 .
Fautore di un antisionismo antisemita e cospirazionista, «Il Tevere» pone il problema della cosiddetta «ebraicità integrale» degli ebrei italiani nel novembre 1932, in un lungo articolo senza firma, ma attribuibile a Ghivouli, alias Moshe Krivoshein, ebreo palestinese di origini russe, giunto in Italia nel 1930 con l’intento di «fascistizzare» il locale ebraismo e autore di un lungo memorandum, consegnato all’Ufficio stampa del capo di Governo alla fine del novembre 1932, la cui tesi centrale risiede nell’attribuzione di un carattere antifascista al sionismo italiano55. Nell’articolo pubblicato dal «Tevere» si distingue fra l’inesistenza, in Italia, di un «problema ebraico», da un lato, e, dall’altro, il persistere di un’«aristocrazia ebraica», tendente a porsi al di fuori della «linea fascista». Riprendendo le istanze ricattatorie già più volte espresse da Mussolini nel 1920-2156 e nel 192857, l’articolo del «Tevere» domanda retoricamente «se gli ebrei d’Italia intendono essere e farsi considerare prima italiani e poi ebrei, e agire da italiani, col pensiero rivolto all’Italia prima che alla Torà e alla Parascià»:
Perché se come italiani noi li lasciamo liberamente godere – e a buon diritto – dello stupendo clima fascista, come «ebrei integrali», non italiani, non fascisti, e forse anche antifascisti, noi ameremmo vederli di nuovo segregati nel «ghetto». Se è la nostalgia del «ghetto» che li vince, gli ebrei «italiani» non hanno che da continuare ancora per un poco in questo atteggiamento anti-italiano, e saranno forse accontentati!58 .
Nell’aprile 1933, Interlandi si scaglia contro le «tenere anime» che – in Italia, ma non solo – si sono allarmate di fronte all’antisemitismo nazionalsocialista. Tale reazione mancherebbe innanzitutto di senso realistico: una «rivoluzione non è un giuoco di società», e soprattutto non lo è quella nazista, impostata su «una questione di sangue o di razza ai fini d’un risollevamento di certe virtù nazionali»59. Interlandi distingue, in secondo luogo, fra il contesto italiano – «immune da un semitismo combattivo» e caratterizzato soltanto da pochi ebrei che a volte si situano, nelle loro argomentazioni, «un po’ lontano dall’adesione pura e semplice alla nazione fascista» – e la situazione tedesca, in cui la «razza germanica» cerca di porre «una barriera al dilagante affermarsi d’una attività ebraica, molto spesso neppure assimilata attraverso una nazionalizzazione burocratica, ma tendente a costituirsi in comunità politica ed economica e a sovrapporsi all’attività nazionale»60 . In ultimo, a conclusione del suo fondo, il direttore del «Tevere» lancia un’accusa destinata a notevoli fortune negli anni successivi: i «filosemiti» sarebbero in realtà gli strumenti, consapevoli o meno, delle trame «affaristiche» degli ebrei che intendono proteggere. Poiché tutta l’umanità è «ammalata di pregiudizi e di bestiali prevenzioni», la difesa unilaterale degli ebrei diviene l’indizio che conferma l’esistenza di una rete cospiratoria:
Può sorgere il dubbio che i filosemiti siano amici più degli affari che gli ebrei controllano, che degli ebrei stessi. Intorno a queste faccende c’è sempre un cattivo odore affaristico del quale spesso è responsabile l’ammiratore dell’ebreo: l’ebreo, semmai, trae profitto dell’ingenua «filìa»61
Nel maggio 1933, Interlandi precisa ulteriormente il proprio bersaglio. Al centro del mirino è la rivista «Israel», organo dei sionisti italiani, accusata sostanzialmente d’ipocrisia: come possono infatti «lagnarsi dei presunti eccessi del “razzismo”» quegli stessi ebrei che da sempre si considerano il «popolo eletto», la «razza privilegiata»?62. È il consueto stereotipo dell’ebreo «padre dei razzismi», tipico delle strategie autodifensive dell’antisemitismo moderno, che ritorna. La sintesi interlandiana è da manuale antiebraico: «Tutti i razzismi non sono che una derivazione del razzismo semitico o una difesa contro di esso»63. Per la loro stessa natura nomade, gli ebrei hanno coltivato per millenni, «con raffinata ostinazione», il mito della razza: «Per individui che hanno attraversato millenni di storia, subendo le più imprevedibili peripezie, conservando quasi intatte qualità positive e negative di razza, è un po’ troppo temerario scagliarsi contro i cosiddetti pregiudizi del “razzismo”»64. È interessante notare come, riferendosi orgoglio di razza» che impedisce e «impedirà sempre» l’assimilazione degli «israeliti», Interlandi citi esplicitamente il caso italiano, «dove un nucleo israelitico sparuto (in rapporto all’enorme massa
18Capitolo primo nazionale) resiste con i suoi riti, le sue superstizioni, le sue antipatie e… i suoi interessi alla fusione che l’affermarsi d’un potente stato nazionale esige»65 .
Quest’ultimo argomento – l’anti-italianità del sionismo, ma, più in generale, dell’ebraismo italiano – rappresenta il perno concettuale della campagna antisemita condotta dal «Tevere» tra il gennaio e l’aprile 193466. Prendendo a pretesto alcune affermazioni pronunciate da Augusto Levi in occasione della ripresa dell’attività del Gruppo sionistico romano, il quotidiano, in un violentissimo corsivo del 30 gennaio, si domanda se gli ebrei che rifiutano di essere cittadini «al cento per cento» non abbiano forse «nostalgia del ghetto». Tra il 5 e l’8 febbraio, in una cornice definita dal titolo Sionismo o assimilazione?, «Il Tevere» pubblica le lettere di «italiani ebrei» (rispettivamente di Giorgio Sacerdoti, Rubens Samaia, Mario Rossi), pronti a denunciare il sionismo in quanto «reato di lesa italianità». Di fronte alle dichiarazioni ufficiali dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, che – per voce del presidente Felice Ravenna – rivendicano, con un comunicato del 14 febbraio, la «fervida» e «pura» italianità degli ebrei sionisti e riaffermano «la perfetta armonia dell’idea sionistica col più assoluto affetto all’Italia», il quotidiano diretto da Interlandi rimprovera allo Statuto dei Gruppi sionistici italiani di non citare mai la parola «Italia» e ricorda il Programma di Basilea, del 1847, presentandolo come il presupposto ideologico-politico di una totale incompatibilità con la «Roma mussoliniana»:
Il Programma di Basilea (1847, nientemeno) proclama anzitutto la necessità della creazione d’un focolare ebraico in Palestina, l’opportunità del ritorno degli Ebrei in Palestina, come condizioni decisive per la vita e lo sviluppo d’una pretesa nazione ebraica. Nei vari Congressi sionistici si è parlato sempre d’una missione culturale, d’un ritorno alla cultura nazionale degli ebrei, d’uno ritorno alla lingua ebraica. Tutto ciò si armonizza molto male con la «fervida» e soprattutto con la «pura» italianità67
«Nemmeno un analfabeta», dichiara Interlandi nel febbraio 1934, potrebbe riconoscere ciò che è smentito da «tutti i testi sionistici», ovvero «la compatibilità tra sionismo o nazionalismo ebraico e italianità vera e concreta»68. Quelle dei sionisti italiani – definiti ora come «i cittadini italiani di razza ebraica che fanno propaganda di sionismo» – non sono che «ciarle». Raccogliendo le «testimonianze» di Einstein, Max Nordau, Josiah Wedgwood e Mo-
L’estremista di regime19 ses Hess, Interlandi offre ironicamente ai sionisti «sedicenti italiani puri» un corso gratuito di sionismo per «male informati», affannandosi nel descrivere quest’ultimo come la semplice copertura nazionalistica del consueto internazionalismo ebraico. La conclusione dell’editoriale è apodittica: «noi riaffermiamo ancora una volta la incompatibilità piena completa e scandalosa tra sionismo e “italianità fervida e pura”, cioè fascista»69. Pochi giorni dopo, il 28 febbraio, «Il Tevere» entra in polemica con «Il Corriere Padano», giornale ferrarese diretto da Nello Quilici e facente capo a Italo Balbo. L’occasione è offerta da una recensione di Leo Cappa al libro di Wolfgango Ludovico Stein L’ebraismo, incentrato sulla contrapposizione fra il crudele antisemitismo hitleriano e il «filosemitismo» fascista. Interlandi reagisce, gettando il sospetto di «ebraicità» sull’autore (per il cognome Stein) e alludendo all’eccessivo potere degli ebrei a Ferrara. Quilici, in risposta, definisce «Il Tevere» come «l’organo ufficiale dei social-nazionalisti in Italia» e lo accusa di voler far nascere per forza una «questione ebraica» che, in Italia, «non esiste»70. Dietro la schermaglia giornalistica, si gioca, in realtà, una partita politica di estremo rilievo: di lì a un mese, infatti, il capogabinetto del ministero dell’Interno solleciterà seccamente il prefetto di Ferrara a sostituire il podestà ebreo della città, Renzo Ravenna, fedelissimo di Balbo, con un podestà cattolico71 .
Alla fine di marzo, la campagna culmina con il lungo articolo scritto da Interlandi in occasione dell’arresto di un gruppo di ebrei torinesi appartenenti al movimento antifascista Giustizia e Libertà. Gli antefatti dell’episodio sono noti e ben ricostruiti in sede storiografica72. L’11 marzo 1934, al posto di frontiera italo-svizzero di Ponte Tresa, due torinesi che rientravano in Italia, trasportando clandestinamente varie pubblicazioni e numerosi volantini con l’invito a votare «No» al plebiscito indetto dalla dittatura per il 25 marzo, vengono casualmente fermati e perquisiti da agenti della Finanza in cerca di «sigarette non denunciate». Uno dei due, Mario Levi, riesce a riguadagnare la Svizzera; il rapporto di polizia inviato da Ponte Tresa a Roma comunica tra l’altro la (falsa) notizia che egli, fuggendo, avesse gridato «Cani di italiani vigliacchi». Il secondo, Sion Segre, viene arrestato e condotto a Varese; il relativo rapporto inviato a Roma sottolinea la «religione ebraica» di Segre e informa che una nuova perquisizione avrebbe portato al rinvenimento di copie di una circolare di un «comunicato organizzatore riunioni
20Capitolo primo ebraiche giovanili» di Torino (l’Onegh Shabbath). Nella sede centrale della polizia a Roma, «sulla base di una sicura ignoranza dell’effettiva realtà ebraica e anche – evidentemente – di una piena disponibilità a considerare decisamente gli ebrei come antifascisti»73 , viene disposta il giorno seguente una bozza di telegramma che dispone l’arresto e la perquisizione di sedici militanti di Giustizia e Libertà da tempo schedati (per una buona metà ebrei di identità o di cognome) e di quattro ebrei citati nel rapporto giunto da Varese, nonché la perquisizione della sede del «comitato».
Dopo lo svolgimento del plebiscito, alcuni quotidiani pomeridiani del 30 marzo e tutte le testate della mattina seguente riportano con grande evidenza un comunicato nel quale si descrive l’episodio dell’11 marzo e la cattura di Sion Segre, i successivi arresti (Barbara Allason, Cesare Colombo, Leone Ginzburg, Giovanni Guaita, Carlo Mussa Ivaldi Vercelli, Carlo Levi, Gino Levi, Giuseppe Levi, Leo Levi, Riccardo Levi, Camillo Pasquali, Attilio Segre, Giuliana Segre e Marco Segre) e la (falsa) affermazione di Mario Levi. Il comunicato – redatto dalla direzione di polizia su indicazione di Mussolini – non contiene il vocabolo «ebreo» ma – a seguito di una precisa sollecitazione ai direttori dei giornali dell’Ufficio stampa del dittatore – in tutti i titoli viene proposto l’abbinamento ebrei-antifascisti74 .
Nell’editoriale di Interlandi del 31 marzo, l’ebreo è al tempo stesso un nemico della nazione (anti-italianità) e un nemico ideologicopolitico (antifascismo). Non è certo una coincidenza, infatti, secondo il direttore del «Tevere», che dei sedici arrestati, «quindici almeno» siano «figli del popolo eletto»: «il meglio dell’antifascismo passato e presente – si legge nell’editoriale – è di razza ebraica: da Treves a Modigliani, da Rosselli a Morgari, gli organizzatori del sovversivismo antifascista furono e sono della “gente consacrata”»75. Il «plotoncino d’ebrei antifascisti e antitaliani» – scrive Interlandi –giunge dunque opportunamente a concludere «una polemica che poteva sembrare oziosa»76. Mentre il presidente dell’ucii invocava l’italianità degli ebrei sionisti, «gli ebrei Levi, Segre e compagna lavoravano contemporaneamente a dimostrare, con la propaganda antifascista, il loro assoluto affetto per l’Italia e la loro pura italianità»77: l’arresto del gruppo antifascista è lì a dimostrare, dunque, come la «professione di fede fascista», sbandierata dagli ebrei italiani, e la riaffermazione dell’«italianità più pura» non siano in realtà che ma- schere, dietro le quali si nasconde «il vero sentimento che è quello di essere stranieri in una terra straniera». Il nocciolo della questione, verso cui «mirava la polemica che abbiamo sostenuto in questi ultimi tempi», risiede evidentemente, secondo Interlandi, nella «non assimilabilità» razziale degli ebrei:
[La polemica ] mirava a stabilire, con documenti ebraici alla mano, che l’ebreo non si assimila, perché nell’assimilazione vede una diminuzione della sua personalità e un tradimento della sua razza; che l’ebreo esige una doppia nazionalità – diciamo pure una doppia patria – per rimanere «elemento produttivo», cioè per fare i suoi affari e avere oltre i confini un centro d’attrazione e di propulsione supernazionale; che nemmeno la guerra (e quindi il Fascismo) ha assimilato gli ebrei alla nazione della quale portarono le armi78
Poche righe, ma in esse vi è già tutto l’Interlandi degli anni successivi: la definizione dell’ebreo in termini razziali, l’affermazione del suo carattere straniero e nemico, la denuncia della sua inassimilabilità.
2. Il cammino del razzismo biologico.
La storiografia più recente colloca nell’estate 1935, ancor prima della guerra di Etiopia, la svolta del regime fascista verso la progressiva affermazione del razzismo e dell’antisemitismo di Stato. Nell’agosto 1935, Mussolini chiede al ministero delle Colonie di predisporre «d’urgenza un piano d’azione per evitare il formarsi di una generazione di mulatti in Africa Orientale»79. Due mesi prima, nel giugno, il dittatore ha preparato con cura il reinserimento nella sua Opera Omnia di un precoce articolo antiebraico del 1908, destinato a essere pubblicato da De Begnac nel 193780 .
Tanto la campagna contro il «meticciato» quanto la persecuzione antiebraica conoscono un rilevante giro di vite sull’onda dell’impresa militare di conquista dell’Etiopia81. Nel giugno 1936, il nuovo ordinamento dell’Africa Orientale Italiana (aoi), esclude la possibilità di concedere la cittadinanza italiana a meticci nati da un genitore di «razza bianca» rimasto ignoto. Parallelamente, tra la fine del 1935 e l’estate del 1936 si verifica quella che Michele
Sarfatti ha definito la transizione dalla persecuzione della parità e dell’autonomia dell’ebraismo (e dal progressivo allontanamento dalle cariche pubbliche) alla persecuzione dei singoli ebrei (e in
22Capitolo primo particolare dei loro diritti). Un passaggio complesso alimentato, nella spiegazione di Sarfatti, da due diversi ordini di fattori: da un lato, il fallimento del tentativo di fascistizzazione dell’Unione delle comunità, dimostrato dalla sconfitta, nella primavera del 1935, dei «bandieristi» (gli ebrei fascisti raccolti attorno alla rivista «La nostra bandiera»); dall’altro, il rovesciamento della prospettiva delineata dal rabbino capo di Roma e dirigente dell’Unione, Angelo Sacerdoti – l’«utilità» dell’ebraismo nazionale e la conseguente «disutilità» dell’antisemitismo – in seguito al mancato successo delle iniziative antisanzionistiche in campo ebraico e alla parallela lenta, complessa e non lineare politica di avvicinamento tra Roma e Berlino82. Meir Michaelis ha insistito particolarmente sull’alleanza ideologica con la Germania e su altre ragioni legate soprattutto alla politica estera italiana: il risentimento di Mussolini nei confronti dell’«ebraismo internazionale»; la crociata contro il «bolscevismo giudaico», rappresentato sia dalla Spagna che dalla Francia di Léon Blum; il crescente disprezzo per le democrazie «corrotte»; la rivalità anglo-italiana nel Mediterraneo orientale e le accuse nei confronti del sionismo «inglese»83 .
Per quanto riguarda il ruolo, in questo contesto, di Telesio Interlandi, non è certo la guerra d’Etiopia ad alimentare il suo razzismo antinero. Fin dal 1930, commentando il confronto fra il delegato senegalese presso il bit, Diagne, e il delegato francese Albert Thomas, sul tema del lavoro forzato nelle colonie, Interlandi aveva amaramente ironizzato sull’umanitarismo di quest’ultimo:
Chi era per il lavoro forzato, Diagne o Thomas; il negro o il bianco?
Ah, ah! Ve lo avevamo detto: avete perduto. Era per il lavoro forzato Diagne, il negro; era contro e rimase contro, il bianco, che secondo voi dovrebbe rappresentare i diritti delle civiltà, del progresso, delle razze più dotate84
Quando «un negro reclama per i suoi simili la dura legge dell’obbedienza alla razza dominatrice», mentre «un bianco esige libertà per la razza che i suoi fratelli sono andati a sottomettere», allora, secondo Interlandi, si è di fronte allo «smarrimento pauroso della coscienza d’una razza che possedette e seppe imporre un suo splendente primato»; si è alla vigilia «d’una abdicazione offerta a chi non è ancora in grado d’accettarla»; e, in sostanza, si certifica «una minorazione di prestigio a vantaggio del disordine morale in cui il mondo oggi vive». Se dunque l’idea di una preci- sa gerarchia razziale tra bianchi e neri e di una legittima e naturale superiorità dei primi sui secondi è ben antecedente alla guerra del 1935-36, la campagna giornalistica che affianca lo svolgimento del conflitto presenta due motivi specifici, destinati a esercitare un’influenza importante nello sviluppo del razzismo e dell’antisemitimo interlandiani. In primo luogo, il direttore del «Tevere», nella sua offensiva contro le democrazie sanzioniste, introduce il concetto di Europa «negroide»: l’Europa anti-italiana è, in quanto tale, un’Europa che – fatta eccezione per la Germania nazista –ha tradito la solidarietà della «civiltà bianca», dando pertanto chiari segni di «degradazione negroide». Anche a conflitto ormai concluso, Interlandi approfitta dei tumulti di Harlem, seguiti alla notizia della sconfitta del pugile afro-americano Joe Louis ad opera del tedesco Max Schmeling, per denunciare gli effetti delle «disgraziate campagne inglesi proetiopiche»: Il «coloured people» s’è ubriacato di polemica inglese, come di acquavite; e varca rumorosamente i limiti della legalità. Si è spesso sentito parlare d’una politica delle nazioni bianche, d’una difesa della civiltà bianca, e di altre bellissime cose; ma alla fine basterebbe non tradire la civiltà dando armi ai suoi nemici, non esercitare incoscientemente il contrabbando degli stupefacenti spirituali che agiscono sulla primitiva mentalità di popolazioni non sufficientemente civili come un veleno85 .
Accanto all’Europa «negroide», sono le «manovre ebraico-massoniche intorno al conflitto italo-etiopico»86 ad attirare l’attenzione di Interlandi: una «solidarietà semitica» nei confronti del «negro» non poteva mancare, infatti, «sotto il segno di Mercurio intorno al trono di Salomone»87. Sulla scia dei risentimenti dello stesso Mussolini nei confronti dell’«ebraismo internazionale»88, le sanzioni contro l’Italia vengono lette dal direttore del «Tevere» come la riprova della cospirazione ebraico-massonica contro il fascismo: «massoneria ed ebraismo, – scrive Interlandi nel gennaio 1936, – sono […] all’origine di questa infame campagna antitaliana». Dietro l’Inghilterra, è il potere occulto ebraico-massonico che agisce nell’ombra, perseguendo i propri scopi: Giungeremo dunque a un conflitto di regimi, come qualcuno in Europa teme? Vedremo le armate massoniche ed ebraiche in marcia contro l’Italia fascista? Ahimé, non vedremo nulla di tutto questo, come, del resto, nessuno vide mai queste oscure forze scendere in campo aperto. Noi assisteremo, come assistemmo, alla mobilitazione degli ingenui, all’intorbidamento delle acque, all’arroventamento dell’atmosfera, in modo da precipitare gli eventi:
24Capitolo primo massoneria ed ebraismo resteranno al coperto, in attesa di cogliere i frutti di tanto lavoro89 .
Concepita da Interlandi come un’offensiva dell’Italia fascista contro un’Europa «negroide», divenuta ormai mero strumento nelle mani della cospirazione «ebraico-massonica», la guerra d’Etiopia porta con sé la progressiva elaborazione di un apparato normativo razzista diretto contro i neri e gli africani in genere e, in particolare, le popolazioni dell’aoi (Etiopia, Eritrea e Somalia). Nel gennaio 1937, «Il Tevere» è tra i pochi giornali autorizzati dal ministero della Stampa e Propaganda a commentare i nuovi Provvedimenti per i rapporti fra nazionali e indigeni, un progetto di legge finalizzato a vietare – in Italia e nelle colonie – le «relazioni d’indole coniugale» tra un «cittadino italiano» e un «suddito» dell’aoi o persona assimilabile (cioè le convivenze miste note come «madamato»). Nel suo editoriale, Interlandi insiste particolarmente sugli effetti disgenici dell’incrocio: «Le osservazioni scientifiche più accurate sono concordi, oramai, nell’affermare che l’evoluzione delle razze per incrocio si compie in senso “disgenico”: i tipi superiori sono assorbiti dai tipi inferiori. Ecco dunque apparire le leggi di difesa delle razze minacciate dalla promiscuità sessuale»90. Poiché il nucleo concettuale dei provvedimenti legislativi è rappresentato dalla condanna del carattere degenerativo dell’incrocio, nessuna distinzione può essere avanzata, secondo Interlandi, tra relazione d’indole coniugale, ovvero extra-matrimoniale, e relazione coniugale. Anzi, in confronto al «madamismo», il matrimonio «con gente di colore è una mostruosa perversione che non sarà mai più permessa»91 .
Sull’onda della vittoria militare in Etiopia, nell’estate-autunno 1936 Interlandi intensifica il rapporto di collaborazione con il ventottenne senese Giulio Cogni, laureato in giurisprudenza, studioso di filosofia vicino a Giovanni Gentile92, dapprima preside di un istituto d’istruzione media a Martina Franca, poi docente di filosofia al liceo di Perugia e infine docente presso l’Istituto italo-germanico di cultura di Amburgo. Nel 1933, Cogni era giunto all’onore delle cronache per il suo libro Saggio sull’amore come nuovo principio d’immortalità, dedicato a Gentile e definito causticamente da Guido De Ruggiero come «un tentativo di svolgere l’idealismo attuale nel senso dell’antropofagia»93
Interlandi a presentare Cogni a Mussolini, nel contesto di un progressivo avvicinamento tra Roma e Berlino in materia di raz- zismo, databile all’estate-autunno 1935. Nel settembre 1935 – come ha rivelato un documento pubblicato alcuni anni fa da Meir Michaelis – Mussolini invia, infatti, in Germania il console Gino Scarpa, il quale, nel corso della sua missione, intrattiene numerosi e lunghi colloqui con Walther Gross, capo dell’Ufficio Razza del Partito nazionalsocialista. Nel suo resoconto, Gross dichiara di aver raggiunto con Scarpa «un completo accordo sui principi fondamentali», concretizzatosi, dopo la conclusione della guerra d’Etiopia, nella campagna giornalistica di Farinacci, ma soprattutto nell’attività di Giulio Cogni, indicato come «il primo e il più coerente» studioso italiano impegnato a «introdurre l’approccio biologico razzista nel pensiero e nella scienza italiani»94. È interessante anche notare come, ricostruendo a posteriori, il 24 luglio 1938, la campagna di stampa condotta nei due anni precedenti, «Quadrivio» dati al 1936 l’inizio della collaborazione di Cogni: «Poco dopo [Interlandi] chiamava a collaborare a Quadrivio uno studioso della questione, Giulio Cogni. Il quale, vivendo in Germania, ed essendo direttamente informato della dottrina razzista quale si era svolta in questa nazione, ne fece conoscere, su queste colonne alcuni aspetti»95. L’indicazione della svolta politica ha chiaramente la meglio, in queste righe, sulla precisione filologica, poiché in realtà fin dal marzo 1934, in sintonia con il progressivo radicamento delle intenzioni razzistiche mussoliniane96, Cogni aveva esaltato, sulla prima pagina di «Quadrivio», il concetto di razza, come «nuova sintesi», in termini idealistici, di materia e di spirito, di universalismo e di individualismo: «il sangue, la materia, la dura materia in cui si incide la nostra vita, è spirito e sacramento»97 . Nell’agosto 1935, il filosofo di Siena aveva visto nel conflitto italo-etiopico la legittima affermazione gerarchica dell’«uomo ario» sugli «uomini bestiali», sulle «greggi di popoli che nulla mai hanno creato», in un crescendo di estetismo razzista:
Negli uni – ché il fisico non è che l’adombramento del metafisico – corpi neri, aspetti fanatici, spesso laidi, oscurità dell’espressione e della carne; negli altri la solare bellezza d’Apollo, la capacità a idealizzarsi e ricrearsi nelle forme perfette dell’arte greca, nell’immenso palpito, lucente d’autocoscienza, dell’arte italiana98
Bisogna tuttavia attendere il luglio 1936 per vedere un Cogni nella veste di teorico di punta della nuova campagna razzista av-
26Capitolo primo viata da Interlandi. Sia «Il Tevere» che «Quadrivio», rispettivamente il 17 e il 19 luglio 1936, pubblicano infatti, con grande evidenza, un suo lungo articolo intitolato Razza. In questo scritto, si nega innanzitutto che «il problema razzistico» sia soltanto «il frutto d’orgoglio nordico»; al contrario, riconoscere la razza vuol dire «riconoscere anche, e prima di tutto, nella nostra realtà corporea i valori dello spirito; e studiarne, con una filosofia fisiognomica, i sensi e le rispondenze generali e particolari». In secondo luogo, si afferma la superiorità antropologica («dolicocefala») degli italiani: «La vera latinità, – scrive Cogni, – è […] solo romana e soltanto italiana. È quella della razza dolicocefala bruna e bionda, imparentata soprattutto per generici caratteri di nobiltà con i nordici; ma ardente soprattutto di valori che sono soltanto suoi e che nessun altro popolo nordico o meridionale può usurparle»99 .
La successiva produzione pubblicistica di Cogni, diligentemente ospitata dalle colonne del «Tevere» e di «Quadrivio»100, culmina nella pubblicazione di due volumi: Il razzismo, uscito nel novembre 1936101, e I valori della stirpe italiana, uscito nella primavera del 1937102. Nel primo, Cogni sintetizza i contenuti del razzismo tedesco, coniugando l’idealismo gentiliano con il misticismo biologico di Rosenberg e Günther; nel secondo, il giovane filosofo insiste invece soprattutto sul carattere «nordico» della razza italiana. In entrambi i saggi, invariata è l’adesione di Cogni all’eugenica «negativa» nazionalsocialista. Nel Razzismo, è la legge tedesca sulla sterilizzazione del 14 luglio 1933 a essere sostenuta con convinzione:
Molte accuse sono state levate contro questa legge. Per lo più si è pensato che un’adeguata educazione fisica e spirituale possa supplire a questi provvedimenti, gradualmente elevando il tono di salute della razza. Ma in questo problema, studiatissimo, i razzisti sono concordi nell’affermare che l’educazione, ritenuta fino ad oggi capace di tutto, si rivela invece capace solo di migliorare in modo sicuro il singolo; quanto all’eredità, essa non risente quasi l’effetto dell’educazione. Si può dire che la razza come eredità praticamente non migliora, se è tarata, con semplici esercizi sportivi e provvedimenti igienici, solo la selezione può operare un tal beneficio103 .
Il controllo statale del matrimonio – «atto veramente fondamentale da cui unicamente dipende la vita futura della Nazione»104 – è invece il cardine dell’eugenica suggerita nei Valori della stirpe italiana.
L’estremista di
Quanto, invece, all’esistenza in Italia di una «questione ebraica», si nota tra i due volumi un progressivo aggravamento delle posizioni. Nelle pagine del Razzismo, pur sostenendo la tesi dell’«inferiorità storica delle civiltà di origine semitica»105, Cogni ribadisce, infatti, la necessità di «staccar le teorie dai transeunti effetti pratici che hanno avuto». In Germania, «l’odio e l’espulsione degli ebrei» sono originati da un’«inimicizia di fatto, sotto la quale naturalmente stava una inimicizia di sangue»106. Differente, invece, la situazione italiana:
Questo non avviene da noi: da noi, gli israeliti sono pochi e non formano gruppo a sé, ma collaborano apertamente alla vita nazionale, colla quale si immedesimano totalmente, pur mantenendo, com’è naturale, in privato, un attaccamento alle loro tradizioni avite. Gli ebrei delle nazioni latine, già meno lontani di esse per tipo etnico, han fatto in realtà con esse un solo corpo. Né vi è accenno alla possibilità di una presa di posizione, in senso di inimicizia. Perciò da noi, finite le ragioni religiose, una questione ebraica non può più esistere107
Alcuni mesi dopo, nei Valori della stirpe italiana, Cogni afferma che «una vera lotta contro un popolo, fosse anche il peggiore della terra, non può aver ragione d’esistere», ma introduce, di seguito, una condizione: «se non quando questo popolo costituisca un pericolo»108. In tal senso, il futuro sembra annunciare, anche per l’Italia, «gli stessi pericoli che si son verificati in Germania»109 .
L’arrivo degli ebrei stranieri, in particolare, ha modificato la situazione generale. Certo, «un antisemitismo è bene evitarlo» e l’ebreo va accolto «finché resta minoranza; o finché, nei casi singoli, si tratta di persone simpatiche e accettabili». Tuttavia, precisa Cogni, «non potremmo più tollerare gli ebrei, qualora essi volessero – come minacciano le nuove invasioni – assidersi in gran numero al nostro desco, per nessun’altra ragione che per vivere un po’ meglio che nelle loro terre d’origine»110 .
Oltre a essere sostanzialmente delle sintesi di articoli apparsi sulle riviste di Interlandi, tanto Il razzismo (in uscita nelle librerie) quanto I valori della stirpe italiana (in programmazione)vengono di fatto «lanciati», nel settembre 1936, da una densa intervista di Alfredo Mezio all’autore, pubblicata sia sul «Tevere» che su «Quadrivio». In questa «conversazione» Cogni, sollecitato da Mezio, si sofferma soprattutto su due argomenti. In primo luogo, la comune origine «ariana» e «nordica» di italiani e tedeschi: «Roma-
28Capitolo primo ni e nordici, pur nelle loro differenze, hanno fondamentalmente una comune visione del mondo, la stessa tendenza verso l’assoluto, e caratteri fisici – soprattutto anatomici – molto più simili di quello che non si creda»111. In secondo luogo, l’importanza di un rigido controllo eugenetico delle unioni, ai fini del miglioramento biologico della razza italiana:
[L’utilità di una politica razzista consisterebbe] nella formazione di una chiara coscienza circa il valore fondamentale e pratico dei problemi della razza e del sangue; in una selezione accurata dei matrimoni, in un riconoscimento dell’importanza suprema dell’atto che si compie nello scegliersi il compagno e la compagna, atto dal quale devono esulare le usuali considerazioni innaturali, o la pura voce di un istinto basso e momentaneo.
Due giorni prima dell’intervista, l’11 settembre 1936, Cogni ha inviato il «primo esemplare» del Razzismo a Mussolini, annunciando la prossima uscita dei Valori della stirpe italiana e delineando i contorni degli accordi intercorsi con Dino Alfieri per «una serie di conferenze» e per «articoli in grandi quotidiani e in grandi riviste illustrate»112. Cogni afferma inoltre di aver sottoposto al ministro della Stampa e Propaganda il progetto per un «grandioso film documentario sulla Stirpe, non puramente fotografico ma svolgentesi drammaticamente attraverso i motivi del mito e della storia», per il quale il filosofo senese potrebbe «scrivere la tela generale e scegliere le musiche»113
Il desiderio di Cogni di essere un «istrumento»114 nelle mani del dittatore deve però fare presto i conti con la realtà. I suoi libri suscitano infatti più critiche che consensi. Nel novembre 1936, Berto Ricci, nella rubrica Stoccate da lui curata sulla rivista di Bottai «Critica Fascista», non usa mezzi termini: «Pronubo l’idealismo […] il razzismo tenta di atteggiarsi a storia e filosofia e realtà italiana. […] Uno stile deliziosamente suggestivo a base di glauchi sguardi nordici e di biondi aspetti fatali, è il più adatto per introdurre con la dovuta vasellina il piacevole arnese. […] Ma pochi crederanno che il feticismo barbarico del sangue e la filosofia dell’indistinto appartengano all’Italia di Dante e della Rivoluzione»115 . Dagli ambienti cattolici provengono le critiche più aspre. Per «L’Avvenire d’Italia», le parole di Cogni ricordano «troppo da vicino i profili del biondo e del puro ariano» e «rintoccano della sgarbata e frenetica idea eccitante di Federico Nietzsche»116. Sul «Frontespizio», raffinato mensile diretto da Piero Bargellini, Riccardo