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Capitolo terzo
Contra Judaeos: antisemitismo e cospirazionismo
Ognuna delle grandi ideologie del xix secolo – ha sostenuto Ernst Nolte all’inizio degli anni Sessanta – ha prodotto «un antisemitismo a lei peculiare»1. La felice intuizione dello storico tedesco è stata recentemente ripresa da Pierre-André Taguieff, il quale ha individuato, nell’antisemitismo moderno2, cinque tradizioni giudeofobiche corrispondenti ad altrettante configurazioni ideologiche: liberalismo, tradizionalismo, socialismo, razzismo, nazionalismo3. Sulla base di questa tipologizzazione, la costruzione della categoria negativa e repulsiva dell’ebreo in età moderna può essere, dunque, così riassunta: l’ebreo come individuo settario e fanatico, religioso e intollerante, intriso di particolarismo e di tribalismo, inadatto al progresso, sordo al sapere razionale, ribelle al movimento universalista di emancipazione (giudeofobia liberale-progressista)4; l’ebreo come sintesi della modernità satanica, l’eterno ribelle dell’Occidente cristiano, votato alla sovversione, alla rivoluzione, all’ateismo, alla massoneria, alla propagazione delle idee moderne, distruttore delle tradizioni e delle istituzioni cristiane (giudeofobia cattolico-reazionaria)5; l’«ebreo-Rotschild», contrapposto al «popolo», ai «piccoli», alla «brava gente»; incarnazione del capitalismo, del «mammonismo», del cosmopolitismo plutocratico; (giudeofobia rivoluzionario-socialista)6; l’ebreo come «razza» immutabile e inassimilabile, stigmatizzata come inferiore, nemica, corruttrice e caratterizzata da una specifica ereditarietà (giudeofobia razzista); l’ebreo come straniero per essenza e per eccellenza, senza patria, cosmopolita, internazionale e internazionalista, sradicato, nomade (giudeofobia nazionalista)7
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Nella misura in cui adotta e sintetizza queste cinque tradizioni giudeofobiche di differente provenienza ideologica, «La Difesa della razza» esprime quello che si potrebbe definire un antisemitismo totale, ovvero un antisemitismo il cui elevato potenziale
116Capitolo terzo sincretico è sostenuto e alimentato dalla presenza di due invarianti costantemente identificabili: da un lato, la tesi, variamente declinata, dell’inassimilabilità radicale degli ebrei; dall’altro, la visione cospirazionista della storia, ovvero la teoria del complotto, locale o mondiale, applicata all’«ebreo internazionale» ed «eterno», stereotipizzato come nemico ubiquo, indistruttibile e proteiforme8 .
1. Dall’antigiudaismo cattolico all’antisemitismo politico.
Fin dai primi numeri del 1938-39, l’antisemitismo della «Difesa della razza» attinge largamente all’arsenale rappresentato, nella tradizione culturale italiana, dall’antigiudaismo di matrice cattolica. Dietro la retorica della continuità fra antigiudaismo religioso e antisemitismo razzista vi è chiaramente un preciso obiettivo politico: dimostrare con un’insistita propaganda che le misure assunte dal governo contro gli ebrei non fanno altro che ripetere quanto già fatto dalla Chiesa nel passato, significa, infatti, costringere preventivamente gli ambienti cattolici, già profondamente divisi al loro interno, in una posizione di ulteriore difficoltà e di difesa9. Lo stesso discorso vale per la contemporanea, e per molti aspetti simile, campagna contro il «pietismo», la quale, lungi dall’attestare una diffusa presenza di posizioni di positivo dissenso e opposizione all’antisemitismo fascista, appare piuttosto come un’operazione tattica ad deterrendum, volta cioè a prevenirle e a scoraggiarle10 .
Ma se le ragioni della propaganda spiegano i numerosi articoli che, nelle pagine della «Difesa della razza», descrivono le bolle pontificie antiebraiche11 o raffigurano gallerie di «santi antisemiti», impegnati nella battaglia contro l’usura praticata dagli ebrei in ogni tempo e in ogni luogo12, esse non esauriscono, tuttavia, da sole il significato più profondo della dialettica fra dimensione religiosa e dimensione politica del pregiudizio. Da quest’ultimo punto di vista, «La Difesa della razza», affiancata da «Quadrivio» e dal «Tevere», può essere, al contrario, letta e interpretata alla luce di quello che lo storico Renato Moro ha definito l’incontro-scontro compiutosi nel Novecento, sul terreno dell’antiebraismo, tra discorso teologico tradizionale cattolico e nuove «religioni secolari»: «Da un lato, – scrive Moro, – le “religioni laiche” della politica assumono al loro interno parte della tradizione religiosa; dal- l’altro, lo stesso discorso dei cattolici tende a fare propri molti elementi caratterizzanti delle nuove ideologie totalitarie, nel nostro caso il razzismo»13 .
A illustrare il secondo aspetto della polarità identificata da Moro, ovvero l’assorbimento della logica razzista all’interno del discorso cattolico, un elemento chiave pare indubbiamente rappresentato dalla collaborazione del pubblicista Gino Sottochiesa alle riviste interlandiane. Fin dagli articoli pubblicati da Sottochiesa su «Quadrivio» nel 1937 e confluiti nel pamphlet Dietro la maschera d’Israele 14, la predominanza dell’impostazione razziale rispetto al recupero dei motivi tradizionali dell’antigiudaismo cattolico risulta, infatti, evidente. La definizione della categoria di «ebreo» è già di per sé rivelatrice. Sulla scorta degli scritti di Hilaire Belloc e di Theodor Fritsch, Sottochiesa dichiara, infatti, l’immutabilità del «sangue» e dello «spirito» ebraici, al di là di qualsiasi apostasia: «L’Ebreo non cesserà mai di essere ebreo, nazionalmente parlando. Se in fatto di religione può esistere l’apostasia, essa non è mai possibile nei riguardi della razza e della nazione […]. La religione è innanzitutto sentimento, epperciò passibile di mutamento. La razza è sangue, carne, intimità congenita»15. In polemica con la «santa ingenuità gesuitica» della «Civiltà Cattolica», nel giugno 1937, il giornalista roveretano afferma a chiare lettere l’inutilità del «battesimo cristiano» di fronte alla «spinosissima questione» della razza: «Anche convertiti gli Ebrei saranno “non guari cambiati” da quelli che erano prima: “speculatori e rastrellatori d’oro, messianici e rivoluzionari”, così come li aveva definiti la stessa autorevole rivista cattolica»16 .
La stessa elezione religiosa biblica di Israele viene letta da Sottochiesa in termini di razzismo nazionalistico ebraico. E il sionismo – assimilato al messianismo ebraico «tradotto in azione» – assume i contorni della razza: «Il Sionismo è nell’anima, nel sangue, nel cervello, nel cuore dell’ebraismo. È il fulcro del suo insopprimibile razzismo»17. Non vi è dunque nessun margine per quella distinzione fra ebrei sionisti ed ebrei italiani auspicata da Paolo Orano: per Sottochiesa, evidentemente, tutti gli ebrei sono sionisti18 .
Anche sul versante teologico, l’ebraicità di Gesù viene contestata a partire da considerazioni prevalentemente razziologiche: se la filiazione ebraica del cristianesimo è limitata al momento vetero-testamentario, il problema della «maternità di Gesù» risulta supe-
118Capitolo terzo rato declinando in termini razziali il dogma dell’Immacolata concezione. La «maledizione» che pesa sugli ebrei, colpevoli del «deicidio del Golgota», nell’ottica di Sottochiesa, è «perenne». Al corpo paolino, il quale insiste sulle possibilità salvifiche della conversione, occorre pertanto contrapporre altri testi delle Sacre Scritture e dei Padri della Chiesa: «Nella preghiera liturgica del Venerdì Santo, – scrive Sottochiesa, – la Chiesa cattolica eleva a Dio la fervente invocazione che venga tolto agli Ebrei il “velo dai cuori” e riconoscano Cristo-Dio dopo aver abbandonato la loro “perfidia”. Una perfidia questa che nel ventesimo secolo dell’era cristiana continua ad essere tale e quale, com’era quando fu fatta nei primi secoli quella preghiera»19 .
Sottochiesa si scaglia, quindi, contro il «filo-ebraismo» cattolico, colpevole di esagerare proprio il concetto paolino della conversione finale degli ebrei «sino a snaturarlo e a renderlo nella sua sostanza e nelle sue conseguenze addirittura irriconoscibile», portando ad una «perfetta quanto stomachevole alleanza» con gli ebrei20. E altrettanto radicali sono le critiche rivolte all’«ebraismo filo-cattolico», messo sotto accusa soprattutto per le iniziative francesi di difesa religiosa comune contro il neopaganesimo nazista: Quella specie di «fronte unico» che in Germania fece cilecca, eccolo comparire a Parigi in veste filantropico-religiosa: è l’Unione critica dei credenti, formata da cattolici, ebrei e protestanti, e la cui direzione è affidata ad un erudito cattolico, il Dupont […]. Ma ve li immaginate voi quei filocattolici e filoprotestanti Ebrei difensori di Cristo, che essi rinnegano nella sua natura divina, negando le sostanziali prerogative cristiano-cattoliche dell’Incarnazione e della Redenzione? Quel Cristo che i loro padri hanno perseguitato, sputacchiato e crocifisso?21
Con l’introduzione del razzismo di Stato in Italia, a partire dall’estate 1938, Sottochiesa appare impegnato nel dimostrare la possibile conciliabilità tra razzismo fascista e cattolicesimo. Il polemista roveretano non ha dubbi di essere «nel vero, cattolicamente e razzisticamente a posto», quando, sulle pagine di «Quadrivio», afferma, in polemica con Wilhelm Schmidt, che la teoria biologica della razza non contraddice il dogma cattolico dell’anima indipendente creata ex nihilo da Dio: «Finché vive su questa terra, prigioniera del corpo, [l’anima] è costretta a subire da parte di questo corpo una infinità di influenze e, se vogliamo, anche di sopraffazioni e di soprusi, modellandosi quasi a sua immagine sì che la vo- lontà e il sentimento (attività spirituali) sono bene spesso manifestazioni umane, insieme fisiche e spirituali»22. Il razzismo «cattolico», di cui Sottochiesa si fa portatore, è «vero e integrale», in quanto, lungi dal presentarsi come «mero ed esclusivistico materialismo», difende sia i «caratteri somatici» sia le «facoltà spirituali» della «razza italiana»:
Il razzismo, nei suoi scopi più immediati ed elevati, tende a salvaguardare in primo luogo le virtù tradizionali e intrinseche della razza, difendendo questo patrimonio dai pericoli di inquinazioni d’ogni specie, con provvedimenti eugenetici e sociali atti alla bisogna. Orbene, questi sono principi eminentemente cattolici, ché è propria della dottrina e della prassi del Cattolicesimo quella superiore eugenetica spirituale, che è rivolta alla salute e alla difesa delle anime umane, attraverso l’insegnamento e l’osservanza di una morale che ha valore assoluto e dogmatico23
Sbagliano, dunque, gli «pseudoscienziati» della «Civiltà Cattolica» a contrapporre il concetto di nazione a quello di razza, «come l’acqua santa al demonio», quasi che entrambe non fossero costituite dagli stessi uomini, «dotati di anima e di corpo»24 .
E sbaglia «L’Osservatore Romano» a criticare le immagini troppo esplicite della «Difesa della razza», in una sorta di «ripicco tanto piccino quanto inutile»: «L’organo vaticanesco dovrebbe invece mettere in guardia i cattolici da certe letture equivoche e pornografiche che sono presentate alla gioventù cattolica da certe compiacenti case editrici cattoliche italiane, in false apologetiche traduzioni. Ma è questione di gusti. Et de gustibus non est disputandum»25 .
A partire da queste premesse, Sottochiesa si spinge fino a interpretare il racconto biblico della Genesi come momento fondativo della distinzione fra le razze26 e a esaltare il valore universale delle teorie razziali di Gobineau, Vacher de Lapouge e Chamberlain27. E nel momento stesso in cui s’impegna a difendere, di fronte alle condanne ecclesiastiche, il razzismo nazionalsocialista, ridimensionando l’influenza del neopaganesimo rosenberghiano28 e rinfacciando alla «Civiltà Cattolica» di non aver appreso l’importanza del concetto – tanto biologico quanto cultural-religioso – di Volksgemeinschaft 29, Sottochiesa ribadisce la sua adesione ad un razzismo «tipicamente italiano, nostro, fascista», inteso come strumento di tutela e di valorizzazione dello «spirito tradizionale della stirpe italica, cioè quel Cattolicesimo che ha dato alla Patria una fioritura di Santi, di Eroi, di Martiri, di Artisti e di Geni che portano un nome unico: Italianità»30 .
Portavoce sul «Tevere» e su «Quadrivio» di una linea di conciliabilità fra cattolicesimo e razzismo ai limiti dell’ortodossia, Sottochiesa diverrà ovviamente, a partire dall’agosto 1938, una delle firme più importanti della «Difesa della razza». Una collaborazione che, a questo punto, non desta stupore, ma che appare in tutta la sua portata se si riflette su quanto lo stesso antisemitismo razziologico espresso dal quindicinale interlandiano si nutra di motivi provenienti dall’antigiudaismo di matrice religiosa, a partire da quelli che sono probabilmente i suoi costrutti stereotipici più ricorrenti: la stigmatizzazione razzista del Talmud, da un lato, e, dall’altro, la cosiddetta «accusa del sangue».
Era stato il teologo cattolico August Rohling, alla fine dell’Ottocento, a fornire, con il suo Talmudjude, la sintesi più nota ed efficace di stereotipi circolanti in realtà da tempo nella cultura occidentale31. Nella prospettiva teorica di Rohling, l’ebraismo costituiva un tradimento dell’autentico messaggio biblico e tale violazione risultava codificata nel Talmud, vero e proprio manuale della perversione della razza ebraica. Nell’ambito del gruppo di pubblicisti che ruota attorno a Telesio Interlandi, è Mario de’ Bagni il più impegnato nella denuncia delle scritture talmudiche. Fra l’ottobre 1938 e il gennaio 1939, sulla terza pagina del «Tevere», è infatti De’ Bagni a stigmatizzare «le folli norme del Talmud, prescriventi l’odio al genere umano, la frode, l’inganno, lo sterminio del non ebreo», puntando il dito contro le scuole rabbiniche di Roma, colpevoli di trasmettere ai giovani «l’obbligo religioso di nuocere al cristiano in tutti i modi, fino allo sterminio»32. Nel febbraio 1939, De’ Bagni invoca l’intervento del regime contro la religione israelitica, i cui precetti sarebbero contrari alla «legge» e alla «morale»:
La giornata comincia: dalle vecchie catapecchie del ghetto, dove stagna l’odore di rinchiuso e quello pesante dell’aglio cotto, prima di scendere alla botteguccia nei vicoli senza sole, oppure qua e là dai quartieri signorili dove pure vapora vagamente nell’aria l’odore giudaico, prima di calare agli uffici ed ai negozi del centro, i giudei liberano sommessamente e guardinghi ogni mattina un’ondata di «preghiere», delle quali il livore contro i cristiani è quasi il solo argomento33 .
Ad essere messa sotto accusa da De’ Bagni è, però, l’intera modernità, contaminata dal «veleno del Talmud»: non solo il princi- pio democratico della maggioranza, ma anche il sistema metrico decimale e «la proclamata “novità” dello scrivere sciatto e senza punteggiatura, della frammentarietà degli scrittori “moderni”» sarebbero, infatti, dovuti «alla tradizione e al modo di pensare del Talmud»34
Questa serie di articoli pubblicata sul «Tevere», tra la fine del 1938 e l’inizio del 1939, prepara l’uscita, nella collana della «Biblioteca de “La Difesa della razza”», del libro del teologo cattolico Justinus Elisejevi™ Pranaitis35 , Cristo e i Cristiani nel Talmud. L’introduzione, scritta dallo stesso De’ Bagni, sviluppa un cospirazionismo antisemita che si muove su un duplice binario: da un lato, il Talmud viene distinto dalla Bibbia, e presentato come il «codice della maggiore associazione a delinquere che sia mai esistita»36; dall’altro, la pubblicazione del testo viene descritta come un gesto volto a contrastare la tendenza ebraica a mantenerne segreti i contenuti, per poter meglio realizzare i propri progetti di dominio: le grandi crisi della storia – dal crollo dell’impero babilonese alle «invasioni barbariche», dalla Riforma protestante alla Rivoluzione francese37 – sono infatti interpretate da De’ Bagni come il frutto dell’«azione unitaria» degli ebrei a tutela della segretezza del Talmud 38. Pubblicato con l’intento esplicito di contrastare le «attitudini pietistiche di molti sconsigliati od ignorantissimi ariani di fronte alle sagge provvidenze del Regime»39, il pamphlet antitalmudico di Pranaitis è oggetto di un intenso battage pubblicitario. A metà febbraio 1939, Interlandi annuncia l’iniziativa editoriale ai lettori del «Tevere»: «una preziosa scelta di massime talmudiche anticristiane, con testo ebraico a fronte, è d’imminente pubblicazione in Italia, dedicata agli ultimi pietisti»40. Nel maggio, «La Difesa della razza», che fin dal settembre-ottobre 1938 ha sviluppato una filologia antropologico-criminologica del Talmud, descrivendolo sostanzialmente come un perfetto manuale di «razzismo ebraico» contro i gentili41, anticipa una parte dell’introduzione di De’ Bagni, nella quale, attraverso un patchwork strumentale di citazioni, il testo sacro viene presentato come un insieme di precetti, finalizzati a ingannare, derubare e, alla fine, sterminare i cristiani: «Questa malaugurata prevalenza del Talmud e dei libri rabbinici di contro alla Bibbia è decisiva per le attitudini giudaiche nella nostra società, poiché il Talmud ed i libri medesimi prescrivono chiaramente e minutamente l’odio ed il disprezzo
122Capitolo terzo per il cristiano, al quale i giudei devono guardarsi dal far del bene, pena la dannazione eterna, e che devono invece derubare e ingannare per obbligo religioso»42. Il 4 luglio 1939, Interlandi invia una copia del libro al ministro della Cultura Popolare, Dino Alfieri, presentandolo come un «documento di eccezionale importanza, che meriterebbe d’esser segnalato e diffuso»43. Nel luglio-agosto, la pubblicazione del volume è ampiamente sostenuta dalla terza pagina del «Tevere», che si mobilita per ospitare le osannanti recensioni apparse sul «Corriere Adriatico»44, il «Lavoro Fascista»45, «Il Popolo d’Italia»46. Il 3 settembre 1939, l’intera quarta pagina di «Quadrivio» è occupata da un lungo estratto di Cristo e i Cristiani nel Talmud 47 .
Ciò che colpisce, in questa ricezione dello stereotipo antitalmudico da parte del milieu interlandiano, è la significativa torsione dell’antigiudaismo religioso in chiave biologica e razziale: a differenza dell’Antico Testamento, il Talmud non è soltanto un testo sacro, ma un manuale razzista; e i suoi precetti non implicano soltanto un dovere religioso, ma plasmano un comportamento e un modo di essere, che si trasmette di generazione in generazione: «dispotismo, terrorismo, super-razzismo» sono – per usare la sintesi delineata da Gino Sottochiesa – il messaggio centrale dell’«anticristianesimo giudaico»48. Di conseguenza, se l’ebreo blasfemo dell’Antico Testamento era ancora moralmente e socialmente recuperabile, a patto che riconoscesse la verità del Cristo, l’ebreo «talmudico» è invece un soggetto irrecuperabile, ormai precipitato nel vortice della degenerazione e della perversione. In quest’ottica, non basta nemmeno l’ateismo a salvare l’ebreo dall’influenza nefasta del Talmud. La nota «irreligiosità» degli ebrei – afferma, ad esempio, Mario de’ Bagni – non ridimensiona per nulla la «mentalità talmudica nella quale essi si sono formati»: «Nello stesso modo infatti che l’irreligiosità di molti cattolici non impedisce loro di professare e praticare l’amore del prossimo insegnato dalla nostra Religione, l’ebreo, anche quando è ateo, è tratto a professare l’odio al genere umano, che la sua religione e l’ambiente in cui è nato gli suggeriscono dall’infanzia, non solo, ma che sempre coincide coi suoi interessi materiali»49 .
Nel novembre 1938, Interlandi collega significativamente la notizia dell’assassinio di Ernst von Rath50, ucciso da un «mostro giudeo», con la «summa di atrocità e di istigazioni al delitto» con- tenute nel Talmud. La «tendenza ebraica alla follia» e ad una «morbosa sensibilità» trasforma, nel discorso interlandiano, il «fanatismo religioso» del Talmud in una «legge infame» di natura razziale, in base alla quale l’ebreo mira allo «sterminio» dei non ebrei:
Noi diremo che il fanatismo religioso conduce fatalmente alla confusione tra il concetto e il fatto; e in ogni caso è la distruzione di ciò che è nostro che gli ebrei vogliono. Mettete queste massime, che ammettono il sacrificio dei cristiani in onore del giudaismo, nella testa d’un fanatico o d’un ragazzo, considerate la tendenza ebraica alla follia e la morbosa sensibilità di quella gente, e avrete la lunga catena di assassinii, rituali e comuni, di cui gli ebrei dovranno pur rendere conto. È dunque la legge dell’ebraismo che conduce al delitto; gli ebrei non sono che strumenti d’una legge infame che li porta o all’asservimento dei non ebrei o al loro sterminio51
L’ebraismo – dichiara Armando Tosti sulla «Difesa della razza», nell’ottobre 1940 – non è una religione. Lo dimostra ancora una volta il Talmud, vero e proprio «simbolo di unità e codice comune di vita», sui cui precetti si basa il progetto di «dominazione universale» di Israele sul genere umano: «Questo libro non è il lavoro di un uomo, di una scuola o di una setta: è il prodotto collettivo del giudaismo e di tutto il popolo ebreo. Essi, come un orientalista si esprime, vi hanno deposto il loro spirito, la loro vita, la loro fede, le loro speranze, le loro superstizioni, la loro ignoranza, i loro odi e le loro predilezioni»52 .
Questa stessa torsione del pregiudizio antiebraico cattolico in funzione di un discorso antisemita essenzialmente politico e razziologico si riscontra anche in relazione alla cosiddetta «accusa del sangue»53, il secondo importante tema antigiudaico ripreso nelle pagine della «Difesa della razza». Come è noto, con questo termine si intende l’accusa rivolta contro gli ebrei di usare il sangue dei cristiani come ingrediente dei cibi e delle bevande prescritti per le feste pasquali. Presentatosi per la prima volta a Norwich, nel corso di quel xii secolo che produsse il deterioramento dell’immagine degli ebrei nord-europei, il mito dell’infanticidio a scopi rituali si era diffuso, nei tre secoli successivi, in tutta l’Europa centro-occidentale, parallelamente alla progressiva separazione di ebrei e cristiani, e aveva conosciuto una definitiva cristallizzazione, con l’età dei ghetti, ad opera dell’Inquisizione. Dopo un paio di secoli di relativo calo anche in area cattolica, l’accusa aveva ripreso vigore al termine dell’età napoleonica, rimbal-
124Capitolo terzo zando in Europa dalla Russia ortodossa e dalla Damasco ottomana e rafforzando, nella seconda metà dell’Ottocento, lo sviluppo dell’antisemitismo politico54 .
Nelle pagine della «Difesa della razza», il recupero dell’«accusa del sangue» va inserito nel più generale contesto della razzizzazione dei «riti» e delle «superstizioni» degli ebrei, che caratterizza in particolare gli articoli del noto incisore Luigi Servolini e del giornalista e autore di commedie in dialetto bolognese, Bruno Biancini: la specificità culturale della circoncisione55, del matrimonio56 , della macellazione rituale57, della cucina58 viene qui costantemente tradotta in termini di irriducibile alterità e inassimilabilità razziale. Introdotto, nel gennaio 1939, sotto forma di lungo commento didascalico alla tavola di Paolo Uccello per la Confraternita del Corpus Domini a Urbino59, lo stereotipo dell’omicidio rituale ritorna successivamente al centro dell’attenzione del quindicinale, soprattutto in relazione all’episodio del «martirio di San Simonino»60. Come nel caso del Talmud, anche in questi articoli emerge, tuttavia, in misura significativa, la ripresa di un tema antigiudaico di matrice religiosa a sostegno, però, di un antisemitismo a carattere politico e razziale: l’ebreo, in sostanza, sacrifica i bambini cristiani non solo per i suoi riti religiosi, ma soprattutto in quanto crudele e criminale per natura, nonché fedele esecutore dei precetti assassini del Talmud. In un articolo di Armando Tosti, apparso sulla «Difesa della Razza» dell’ottobre 1941, l’omicidio rituale dei bambini diviene, ad esempio, la prova più clamorosa di una tendenza alla criminalità che caratterizza «l’essenza stessa dell’ebraismo», il quale «tutto riduce alla dominazione terrena, al benessere e al godimento materiale»61. Sono le stesse affermazioni di un lettore, riportate nella rubrica Questionario nell’ottobre 1940, a esplicitare questo passaggio epistemico: l’infanticidio a scopo rituale non è che l’antecedente storico-culturale dei «moderni strumenti, per mezzo dei quali i figli di Israele succhiano – perpetuando il rito – il nostro sangue»: ovvero i monopoli mondiali, gli istituti bancari, le borse62 .
Oltre a subire una torsione concettuale nel senso di una progressiva biologizzazione e razzizzazione, i temi antigiudaici propri della tradizione religiosa assumono, nelle pagine della «Difesa della razza», una dimensione immediatamente politica, alimentando, in misura non casuale, due campagne di stampa, che la reda- zione della rivista orchestra abilmente attraverso la mobilitazione della rubrica dei lettori.
La prima, tra il novembre 1938 e il marzo 1939, affronta direttamente il problema dei rapporti tra «razza e cattolicesimo». Ad accendere il dibattito è la lettera di un anonimo «avanguardista d’un liceo milanese», la quale esprime, in poche battute, una versione piuttosto cruda di neopaganesimo razzista: «È ripugnante che dei giovani, dopo aver impugnato un moschetto o avere vinto una gara allo stadio, vadano a rinchiudersi in alcuni oscuri oratori, e perdano, per le meschine parole di un prete quella religione della vita e della natura, quell’amore per la lotta e per l’attimo eroico che è insito nelle loro vene e che è loro donato con la vita stessa, superba eredità romana e pagana»63 .
Lo «sfogo» del liceale avanguardista offre alla redazione del quindicinale l’occasione per ribadire la perfetta armonia tra razzismo e cattolicesimo:
Questo avanguardista, cresciuto alla fede di Roma, non ha il sospetto che Roma nacque cattolica ed era cattolica prima di diventare cristiana, e che perciò poté fondare il cattolicesimo; e che il Rinascimento fu splendore cattolico, e cattolico è tutto quello che è romano: che il cattolicesimo non è questione d’una confessione, per noi, ma questione di nazione, cioè di natura e di genio. […] Perché un prete manca al suo ufficio d’insegnante, con una mancanza persino di ogni briciolo di opportunità, e si mette contro la questione della razza, tu vuoi buttare a mare duemila anni di cattolicesimo, cioè di civiltà italiana, di civiltà, al singolare?64
Nel «mucchio di lettere» che la rivista dichiara di aver ricevuto, quella di Girolamo Amantia attribuisce alla «Difesa della razza» il compito di contrastare le «insinuazioni» ebraico-massoniche che teorizzano una presunta inconciliabilità fra razzismo e cattolicesimo: «quest’opera, – afferma, infatti, il lettore, – non la può certo compiere un prete che fa dell’antirazzismo, né tanti insegnanti di religione che non hanno l’energia di reprimere il disfattismo di certi giovani»65. Con l’isolata eccezione di tal Antonio
Dolcemascolo, «giovane fascista» del liceo Umberto I di Palermo, secondo il quale il «mondo classico romano-imperiale» è «l’antitesi assoluta del Cristianesimo Cattolico»66, le altre lettere riportate dal Questionario compongono per lo più una sinfonia di voci a sostegno delle posizioni espresse dalla redazione e dal suo direttore: per Ambrogio Sironi, l’«universalità» del razzismo italiano
126Capitolo terzo coincide con il suo essere «cattolico»; Enrico Cattonaro, da Pola, accusa l’avanguardista milanese di bestemmia67; per Arnaldo Corrieri, l’«Osservatore Romano» ha torto nelle sue critiche e non si accorge che il razzismo fascista è «un ritorno alla civiltà, alla nostra civiltà, Romana, universale e cioè cattolica»68; per Franco Turchi, giovane insegnante milanese, e per Giuseppe Grieco, operaio all’avis di Castellammare di Stabia, nell’«amor patrio» trovano la loro sintesi «religione e razza»69. In questo contesto, in cui non manca la parola del sacerdote Luigi Stefani a ribadire la cooperazione fra Azione Cattolica e Partito fascista, merita di essere particolarmente sottolineato l’intervento del siciliano Pasquale Pennisi, professore incaricato di diritto internazionale nella Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Parma e poi di Roma, figura ben nota del mondo cattolico, membro del gruppo dirigente della fuci (l’associazione degli universitari cattolici), attivo nel pnf proprio nella direzione di una conciliazione tra cristianesimo e fascismo70. Difendere la razza – afferma nel marzo 1939 lo scritto di Pennisi, sintetizzato da Massimo Lelj, curatore del Questionario – non vuol dire «negare l’unità primordiale del genere umano, ma soltanto affermare la successiva ed attuale diversità delle razze». Pertanto, il razzismo fascista, «mirando a restaurare e potenziare la razza italiana», restaura e potenzia «il sostrato della nazione italica», incarnazione di quella «civiltà cristiano-romana» a cui la Provvidenza ha affidato un compito superiore. E infine, che cosa fu lo ius gentium romano se non riconoscimento della «dignità razziale dei Quiriti», da un lato, e, dall’altro, dell’«unità originaria del genere umano»?
L’insistenza della «Difesa della razza» sul tema «razza e cattolicesimo» produce l’irritata reazione della Segreteria di Stato del Vaticano, la quale denuncia presso la Regia Ambasciata d’Italia le «gravi offese alla Religione cattolica» contenute nella rivista:
La Segreteria di Stato di Sua Santità sente il dovere di sottoporre alla considerazione dell’Ecc.ma Regia Ambasciata d’Italia quanto appresso.
Dall’agosto 1938 si pubblica in Roma, sotto la direzione del Signor Telesio Interlandi la Rivista «La Difesa della Razza».
Con vivo rammarico si è constatato che sovente i quaderni bimensili di detta Rivista contengono non soltanto gravi offese alla Religione cattolica, ma anche veri errori ed eresie, come si rileva dal qui unito Pro-memoria.
La Santa Sede non può non preoccuparsi seriamente del dannoso influsso che la Rivista – già largamente diffusa soprattutto fra le istituzioni scolastiche – verrà ad avere sulle coscienze cattoliche, ingenerando in esse massime in contrasto con la dottrina cattolica, che il Concordato ha meritamente dichiarato di considerare fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica.
La Segreteria di Stato confida, pertanto, che la Regia Ambasciata vorrà interporre i suoi buoni uffici, alfine di ottenere che la menzionata Rivista usi maggior cautela nel trattare questioni attinenti la fede cattolica, in modo che in avvenire non si debbano deplorare altri erronei scritti71 .
Chiusa nel marzo 1939, forse proprio in seguito alle proteste della Santa Sede, la campagna conosce tuttavia un seguito nell’estate-autunno 1939, allorché la rubrica Questionario avanza una proposta di aggravamento della legislazione antiebraica in vigore, che sembra suggerita direttamente dalla tradizione antigiudaica di matrice religiosa: l’introduzione di un «segno» distintivo per gli ebrei, la stella gialla a sei punte. Richiamandosi ad uno scritto di Mario de’ Bagni, una lettrice romana della «Difesa della razza», la «giovane impiegata» Valeria Bartoli, propone l’adozione di «un bracciale giallo»:
Tale scritto ha dato molto da pensare sia a me che a diversi miei conoscenti, tutti abbiamo trovato più che sensata per la difesa della nostra razza l’applicazione di questo «segno diacritico», ossia l’obbligo agli ebrei di portare un bracciale giallo od altro distintivo. Infatti ciò è molto importante perché il governo fascista, eliminando gli ebrei dall’esercito, dalle scuole e dagli impieghi pubblici, ci difende soltanto in parte da questi parassiti. Ma sui tram, nei caffè, sui treni, negli alberghi, teatri, case, botteghe, cinema, ovunque insomma si è mescolati con estranei, come tener lontani i giudei? Non si può ogni attimo aguzzare la vista e tendere gli orecchi per cogliere dalle fisionomie o dall’accento le caratteristiche giudaiche delle persone che ci circondano con cui talvolta si è costretti a parlare72 .
Nel fascicolo del 5 settembre della rivista, altri due lettori (Fumagalli da Roma e Parmiggiani da Bologna) si dichiarano favorevoli alla «netta separazione» fra ebrei e italiani. Il parere contrario di Ermanno Romanò, che giudica il provvedimento «barbaro e antiurbanistico», offre a Massimo Lelj il pretesto per intervenire direttamente nel dibattito, non risparmiando un largo uso della metafora patologizzante dell’ebreo: «Ermanno Romanò è invece di parer contrario. […] Dice che bisogna combattere il parassita ebreo, ma non soffocarlo. Evidentemente egli è del parere che le malattie aiutino il corpo a vivere, e non che lo uccidano. Ma chi vuol soffocare gli ebrei? Si tratta soltanto di metterli in condizione di non continuare a nuocere alla nazione italiana»73. A ottobre, sempre dalla voce di un lettore giunge la proposta di un «distinti-
128Capitolo terzo vo commerciale» per distinguere i «commercianti cristiani» da quelli «giudii». E l’idea non verrà abbandonata tanto presto. Sull’onda di analoghi provvedimenti assunti in Germania e in Croazia, essa farà nuovamente comparsa, nel dicembre 1941, in un lettera dello «squadrista» Mario Paluzzo: «Il nostro popolo, per indole e sentimento, è portato alla sincerità e cordialità nei rapporti sociali per cui si rende indispensabile evitare che, per mero errore, si possano stringere tali rapporti con chi appartiene alla razza a noi nemica, e che una volta stretti difficilmente possono allentarsi anche se si viene a scoprire l’errore iniziale»74 .
Il processo di razzizzazione e di politicizzazione che interessa, nelle pagine della «Difesa della razza», l’adozione di alcuni stereotipi classici dell’antigiudaismo cattolico, convive, nell’immaginario antisemita della lobby interlandiana, con il mantenimento di precise linee di confine tra antisemitismo religioso e antisemitismo laico e biologizzante. Conversioni e matrimoni misti costituiscono, in particolare, il principale terreno di scontro fra cattolicesimo e razzismo. «Niente “marrani”!», esclama Gino Sottochiesa dalle colonne del «Tevere», nel settembre 1938. E il «marranismo» coincide evidentemente con la «corsa al conversionismo» degli ebrei che intendono sfuggire alle persecuzioni: «Gli Ebrei nostrani tentano di rinnovare il carnevale spagnuolo del marranismo, senza pensare che noi italiani, noi fascisti abbiamo mangiato già quella foglia, per cui è vano il tentativo di una novella mascheratura a base di battesimo e di acqua santa. Il diavolo, quando si fa frate, non riesce più pericoloso; è ridicolo»75. Nel sesto numero della «Difesa della razza», nell’ottobre 1938, Francesco Callari, saggista e critico cinematografico e teatrale palermitano, nega la possibilità che il battesimo possa aprire effettivamente agli ebrei la strada dell’assimilazione: lungi dall’essere autentica, la conversione degli ebrei non è altro, infatti, che il frutto di un calcolo opportunistico finalizzato a metterli nella condizione di godere dei benefici delle società ospitanti76 .
Simulate, provvisorie e, in definitiva, sacrileghe, le conversioni corrispondono, oltretutto, alla strategia adottata dalla «razza ebraica» per nascondersi, in caso di persecuzioni antisemite, sotto «l’ombra protettrice della Chiesa». Lo afferma a chiare lettere il giornalista Nicola Salvati: «Gli ebrei nella falsa veste di cristiani e di fascisti potranno continuare la loro attività affaristica e specu- lativa ai danni del popolo italiano; ed ecco quindi che, pur in un regime razzista, si appalesa il gravissimo pericolo che il germe nefasto della razza giudaica continui a covare nell’ombra, pronto a germogliare e ad infestare alla prima occasione»77. In quest’ottica, il battesimo è soltanto il salvagente da estrarre in caso di tempesta, la simulazione della morte che permette di prolungare la vita: «Gli ebrei, – scrive Antonio Trizzino, – sanno quanto a loro valga la tattica di mettersi alle spalle della Chiesa quando si trovino fatti segno a reazioni da loro stessi preparate e provocate. Ma è di assoluta evidenza che si tratta di adattamenti e ripari del momento, ai quali l’ebreo è insuperabilmente portato per natura»78 .
Anche ammettendo, dunque, la sincerità della conversione, essa risulta comunque invalidata dall’immutabilità stessa delle caratteristiche razziali dell’ebreo. Francesco Callari non ha dubbi in proposito: poiché la religione ebraica non è soltanto un «fatto religioso», ma un «fatto razziale», un «ebreo debraizzato resta ebreo»79. E Berlindo Giannetti, nel marzo 1939, sintetizza il problema per punti:
Constatiamo riguardo agli ebrei che:
1º) gli ebrei anche di religione cristiana non potranno avere mai una razza ed una nazionalità diversa da quella ebraica; 2º) gli ebrei convertiti, anche quando sono sinceri, si considerano appartenenti alla razza ed al popolo ebraico; 3º) gli ebrei non convertiti considerano gli ebrei convertiti appartenenti pur sempre alla loro razza; 4º) gli ebrei in genere anche se un cristiano si convertisse alla loro religione lo considererebbero un non appartenente alla loro razza; 5º) gli ebrei inoltre il più delle volte si convertono singolarmente o collettivamente per godere di una «comoda assicurazione»; per avere un «biglietto da visita» di nostro gusto; per poter restare «ebrei indisturbati»80 .
Ma l’apice della polemica è raggiunto, ancora una volta, da Gino Sottochiesa, il quale, nell’agosto 1940, espone i dati di una sua personale inchiesta, condotta «con rigoroso metodo» presso gli uffici parrocchiali delle varie diocesi, da cui risulterebbe provata l’impennata del «conversionismo ebraico» fra l’agosto 1938 e il giugno 1940: per sfuggire alle maglie dell’antisemitismo fascista, la «razza ebraica» ha evidentemente tentato di mettersi «sotto la protezione della Chiesa Cattolica» e questo «meschino calcolo» ha prodotto, come drammatica conseguenza, un «meticciato religioso» che assume i contorni dell’ennesima «profanazione» ai danni del «Dio dei Cristiani». L’ebreo, infatti, rimane sempre ebreo – riba-
130Capitolo terzo disce Sottochiesa – anche quando muta «etichetta religiosa». Anzi, l’ebreo convertito è paradossalmente più pericoloso dell’ebreo talmudico, «poiché egli, mascherato da cristiano, avrà modo di insozzare questa sua nuova veste nella casa del Signore»81 .
Al pari delle conversioni, anche i matrimoni misti fra «marito ebreo e moglie cattolica» sono denunciati da Sottochiesa, sulle pagine di «Quadrivio», come una forma di «meticciato religioso». Per quanto educati nella religione cattolica, i figli di matrimoni misti andrebbero, infatti, considerati degli «ebrei mascherati», dei «circoncisi dello spirito»: «Nell’anagrafe e nelle statistiche religiose figureranno pur sempre dei cattolici, questi figli di matrimoni misti. Ma nel loro spirito e nella loro coscienza, la realtà è ben altra. È qui che salta fuori il meticciato: pericolo grave e funesto per il Cattolicesimo, tanto più pernicioso quanto più oscuro e mascherato»82
Non stupisce, dunque, che Sottochiesa accolga con favore la legge sulla proibizione del matrimonio fra individui di razza ariana e individui d’altra razza, non ritenendola affatto un vulnus nei confronti del Concordato, e anzi auspicando un compromesso fra il «divieto razziale» dello Stato italiano e le argomentazioni religiose della Santa Sede83 .
Il razzismo – scrive Giorgio Almirante nel settembre 1938 –implica il recupero del passato e il ritrovamento della «tradizione che pulsa col sangue nelle nostre vene»84. La riscrittura della storia nazionale e l’espulsione simbolica degli ebrei da questa vicenda rappresenta, dunque, il primo atto del cospirazionismo antisemita della «Difesa della razza».
È la contrapposizione fra «Roma antica» e i «giudei» a individuare, nelle pagine del quindicinale interlandiano, il primo sintomo dell’inconciliabilità razziale fra «ebraismo» e «italianità». Almirante – per continuare nell’esempio citato – non ha alcuna esitazione nel fornire un’interpretazione razziologica della giudeofobia del mondo romano: «Ci sarà facile […] documentare: 1) che i Romani nutrirono contro i giudei una costante radicatissima avversione; 2) che i giudei si adoperarono in ogni modo per scalzare le basi dell’Impero romano, dal quale, come ognun sa, ebbero a tempo debito e con la dovuta energia fiaccato il collo; 3) che provvedimenti atti a frenare l’arroganza ebraica sottolinearono in ogni tempo l’antigiudaismo dell’antica Roma»85 . La razzizzazione della romanità, che trasforma – nelle pagine della «Difesa della razza» – gli scritti di Cesare86, Livio87, Orazio88 e Tacito89 in altrettanti manuali di razzismo ante litteram, implica l’affermazione di un radicale antagonismo razziale fra romani e «giudei». Il «problema antiebraico» in Italia risale, secondo Salvotti, ai «tempi più remoti» e si ricollega, in particolare, al ruolo di Cartagine nell’area geopolitica del Mediterraneo90. Le guerre contro la potenza punica, condotte prima dai Siracusani e poi dagli stessi Romani, vengono lette, da Agostino Gurrieri, come scontro fra «ariani» e «semiti»91. A partire dalle rovine di Cartagine, lo «spirito ebraico-punico» dilaga. Le «rivolte promosse o direttamente scatenate dagli ebrei nell’Impero romano» sono elencate da Antonio Trizzino, in un articolo del marzo 1939, come il diretto antecedente storico dell’azione dei «rivoluzionari» e dei «comunisti» ebrei novecenteschi: in entrambi i casi, «è sempre l’ebreo […] nella sua costituzione, fisica e morale, insopprimibile e immutabile»92. All’interno di un’ampia rassegna dedicata alla «storia del giudaismo», Giovanni Savelli presenta lo scontro fra Roma e Giudea nei termini di un «urto ideologico» fra spiritualità razziali agli opposti estremi: da un lato, la «forza» e «l’ordine» della «romanità», dall’altro «le involuzioni e le deviazioni della natura giudaica»93. E anche per Paolo Guidotti, studioso della storia e delle tradizioni dell’Appennino bolognese, l’unico rapporto fra Roma e la «razza ebraica» coincide con uno «stato di attrito e conflitto perpetuo palese o latente»94. Non stupisce, in quest’ottica, che Vespasiano e Tito siano celebrati come i «distruttori d’Israele»95 .
Dopo il «primo periodo» della «lotta ebraica» per la «disgregazione dell’Impero»96, è l’intero arco cronologico compreso tra il xii e il xvi-xvii secolo a costituire il secondo momento nell’«invenzione della tradizione» elaborata dall’antisemitismo della «Difesa della razza». Un periodo storico estremamente lungo, complesso e articolato viene omologato dalla logica cospirazionista del quindicinale e ridotto ad un unico, banale quadro interpretativo: le discriminazioni messe in atto nei confronti delle comunità ebraiche in Italia costituirebbero la «legittima reazione» della Santa Sede e dei sovrani e principi «cattolici», i quali asseconderebbero
132Capitolo terzo l’odio spontaneo e «popolare» verso gli ebrei, «usurai e parassiti». In tale contesto discorsivo, che coniuga la retorica di autolegittimazione in chiave difensiva dell’antisemitismo moderno con il massiccio impiego dello stereotipo usurario97, alcuni eventi polarizzano l’attenzione dei pubblicisti del gruppo interlandiano, configurandosi, da un lato, come dimostrazione dell’inassimilabilità dell’ebreo nel corpo nazionale, e, dall’altro, come legittimazione «storiografica» dell’antisemitismo fascista: l’opera dell’Inquisizione contro il mondo ebraico nel Due-Trecento98; la «cacciata» degli ebrei dalla Sicilia, dalla Sardegna e dal regno di Napoli ad opera dei re spagnoli99; l’eccidio di Trento del 1475100; i provvedimenti antigiudaici dei papi della Controriforma, in particolare Paolo IV e Pio V101 .
Una volta identificata l’Italia con Roma – intesa quest’ultima sia come sede dell’Impero sia come centro della Chiesa cattolica gli ebrei divengono, per usare le parole dello studioso della classicità Salvatore Costanza, gli «eterni nemici di Roma»102: se, infatti, «Roma imperiale» e «Giudea» sono due entità razzialmente definite in perpetuo conflitto tra loro, la storia della Chiesa è il racconto di un «antigiudaismo inequivocabile e costante», dettato dall’«imperioso» bisogno di «separare gli ebrei dai Cristiani»103 . Sull’insanabile contrasto fra la «Roma dei Cesari e dei Papi» e «gli ebrei», Interlandi si esprime del resto a chiare lettere in un editoriale apparso sul «Tevere» il 19 luglio 1938: «Non si dirà che Roma – la Roma dei Cesari e quella dei Papi – sia un’affermazione della stoltezza umana. Eppure l’antisemitismo fiorì in Roma non appena l’ebreo vi apparve; e vi durò, con intensità varia, col durarvi degli ebrei»104. La «condanna degli ebrei», prosegue Interlandi, è pronunciata da Ovidio, Petronio, Tacito, Svetonio, Giovenale, Plinio, Seneca, e sarà confermata dai papi e dalla Chiesa cattolica. La conclusione del lungo elenco di «azioni repressive» è a senso unico: «Con ciò si dimostra ancora una volta che l’ebreo è inassimilabile; che ha attraversato i secoli e i millenni ostinandosi nel suo esclusivismo; che sempre, in tutte le epoche, e in tutti i luoghi, i popoli hanno dovuto difendersi da lui, con tutti i mezzi. Roma lo ha fatto, Roma lo farà»105 .
La costruzione dell’ebreo come «eterno nemico» dell’Italia si traduce, dunque, sia nella giustificazione teorica della legislazione antisemita fascista sia nell’identificazione di una concreta mi- sura operativa contro gli ebrei: da un lato, essa consente, infatti, la rivendicazione dell’assoluta autonomia del razzismo fascista (per usare le parole di Almirante, «in fatto di razzismo e di antigiudaismo gli italiani non hanno avuto né avranno bisogno di andare a scuola da chicchessia»)106; dall’altro lato, una volta descritta la storia d’Italia come un paesaggio segnato dalle «vessazioni», dalle «angherie» e dai «soprusi» degli ebrei contro le innocenti «masse popolari», il «massacro» e l’«espulsione» vengono individuati come le misure che, nel corso dei secoli, hanno costituito l’unica possibile «soluzione del problema ebraico»107 .
Dopo aver cercato i suoi antecedenti storici nella giudeofobia romana e nell’antigiudaismo cattolico, l’offensiva antisemita della «Difesa della razza» si concentra, dunque, con particolare accanimento, sul problema del ruolo degli ebrei nel processo di unificazione nazionale italiano. È una vera e propria campagna quella che viene scatenata, a questo proposito, da Telesio Interlandi, con l’editoriale apparso sul secondo numero della rivista, il 20 agosto 1938, con il titolo Conoscere gli ebrei. Vi è un periodo della storia italiana «recente» – afferma Interlandi – in cui «l’ebreo non si distingue più dall’italiano» e in cui la causa dell’uno sembra confondersi con quella dell’altro. Frutto di questo equivoco, provocato ad arte dal mimetismo ebraico, è la tendenza a credere nel patriottismo risorgimentale degli ebrei:
Noi ancora troviamo gli ammiratori degli ebrei «patriotti» del Risorgimento, quasi che non fosse ormai chiaro essere il «patriottismo» di quei pochi ebrei una occasionale coincidenza di fini ebraici coi fini della nostra riscossa: l’abbattimento di una potenza cattolica, per gli ebrei, d’una potenza oppressiva, per gli Italiani; la «rivoluzione», per gli ebrei, l’unità nazionale, per gli Italiani. Là dove i fini diversi si incontravano, ivi si sovrapposero e crearono la menzogna dell’identità fra ebreo e patriotta italiano108
L’«inganno dell’ebreo», la «menzogna dell’identità fra ebreo e patriotta italiano» è, però, stato smentito «in mille occasioni» dall’«antica tracotanza» dell’«esclusivismo ebraico»: come quando, ad esempio, Luigi Luzzatti, «ebreo giunto alle più alte cariche di governo in un paese che non era il suo», giunse ad affermare: «Ogni popolo ha gli ebrei che si merita»109. La frase di Luzzatti, decontestualizzata in chiave antisemita da Interlandi, diviene «l’improvviso moto di sincerità» dell’ebreo bugiardo, il sintomo finalmente evidente del «razzismo ebraico», dell’«inassimilabi-
134Capitolo terzo lità», della «mutevolezza dell’ebreo in seno all’umanità non ebraica che lo ospita»110. Se, dunque, diaspora e sionismo, cosmopolitismo e nazionalismo sono i mezzi utilizzati contemporaneamente dagli ebrei per «dominare le razze inferiori, realizzare i fini politici e religiosi dell’ebraismo consacrati da una tradizione millenaria», il razzismo fascista dovrà operare, secondo Interlandi, al fine di «conoscere gli ebrei» e «ammettere che la nostra terra sia un campo di operazioni militari ebraiche; che gli ebrei vi manovrino per i loro lontani fini; che gente di razza diversa vi agisca come in un territorio d’occupazione»111 .
Due giorni dopo, sul «Tevere», Interlandi ritorna sullo stesso argomento: «Gli ebrei vanno prima conosciuti e poi combattuti, perché essi giocano sull’equivoco e approfittano d’ogni errore nostro. Conoscere gli ebrei è indispensabile»112. Di nuovo, nel settembre 1938, il problema del rapporto fra la comunità ebraica e la costruzione della nazione italiana è al centro dell’editoriale interlandiano: l’ebreo – scrive il direttore del «Tevere» – non ha patria né nazione, il suo «vero volto» è sempre quello del «nomade»113. «Estraneo all’Italia», l’ebreo che si dice italiano, secondo Interlandi, «mentisce sapendo di mentire»114. Egli, in realtà, è sempre «l’elemento dissolvitore delle società nelle quali occasionalmente si accampa, per i suoi particolari fini»: «L’ebreo non può capire la subordinazione necessaria dei suoi propri interessi a quelli della nazione ch’egli chiama sua patria; tanto è vero che la deruba, quando può, di valuta, tanto è vero che la tradisce, quando può, coi nemici di fuori»115 .
Sempre nel settembre 1938, sulla «Difesa della razza», Interlandi giustifica la «preminenza» accordata, nelle pagine del quindicinale, al «settore ebraico», con la denuncia del «gran guasto che gli ebrei hanno già fatto nella vita nazionale»116. Dal 1876 all’avvento del fascismo, infatti, l’Italia, secondo Interlandi, «ebbe la buona grazia di consegnarsi agli ebrei senza proteste, quasi con soddisfazione»: «ebrei ed ebraismo», dunque, costituiscono «il velo che ha impedito una coraggiosa visione razziale dei casi della vita nazionale». A novembre, sempre con un editoriale sul quotidiano romano, il giornalista cita se stesso e i suoi articoli dell’agosto, criticando il «silenzio sul problema degli ebrei», mantenuto a suo parere dalla stampa e dagli organi di cultura. Alla domanda «Che cosa si fa per render chiara, lampante, la necessità della difesa del- la nazione nostra dall’inquinamento ebraico?», la risposta di Interlandi è durissima: «l’opinione pubblica continua ad ignorare gli ebrei e l’ebraismo»117. Gli istituti di cultura si sono limitati a discutere degli «ebrei nell’antichità», ma è dell’Italia e del suo recente passato che bisognerebbe occuparsi:
Non abbiamo grande bisogno di sapere chi sono gli ebrei di duemila anni or sono, quando sconosciamo assolutamente chi sono gli ebrei di ieri e di oggi, che cosa hanno fatto e fanno. Non sappiamo – o meglio, non lo sa la grande massa dei cittadini, ma c’è qualcuno che lo sa e assai bene – di che cosa gli ebrei sono responsabili nella deformazione dell’Italia e nelle sue disgrazie dell’immediato anteguerra. Nessuno parla di queste cose. Non i giornali, non la radio, non le conferenze, non il cinema: nessuno118
L’assenza di informazioni sui «voracissimi ospiti», che hanno corrotto e strumentalizzato la politica, l’economia e la cultura dell’Italia in età moderna e contemporanea, fa apparire «privi di proporzione» i provvedimenti antisemiti adottati dal fascismo e giustifica il «pietismo» dell’uomo comune nei confronti del «povero ebreo»: «Si è più parlato di Toepliz [sic], l’ebreo polacco diventato, in quarant’anni, controllore e despota della economia italiana?
Si è più parlato di Luzzatti, a proposito della grande emorragia migratoria che debilitò la nostra Patria? E dell’arroganza degli ebrei, e della loro invadenza, e del loro scandaloso arrembaggio, chi ne parla?»119 .
Di fronte a tanto «silenzio», il suggerimento di Interlandi muove in direzione di un incremento dell’attività di propaganda: «giornali e libri; cinema e teatro; conferenze e conversazioni alla radio; e una mostra della storia degli ebrei dal ’70 ad oggi, una mostra succinta e precisa, da far girare per tutta l’Italia a dimostrare che la politica di separazione degli ebrei era urgente e va condotta fino in fondo»120 .
Se, dunque, è necessario porre fine alla «situazione assurda d’una battaglia combattuta al buio, senza aver nozione dell’avversario e delle sue minacce»121, non stupisce che «La Difesa della razza» sia ben presto mobilitata in quest’impresa. È di nuovo un editoriale – questa volta non firmato, ma attribuibile con certezza a Massimo Lelj122 – a indicare, nel febbraio 1939, la linea. Pur inaugurando un numero in gran parte dedicato allo «studio degli ebrei negli antichi stati italiani», l’editoriale annuncia l’intenzione di approfondire anche la fase storica più recente, al fine di «illumi-
136Capitolo terzo nare specialmente due periodi, quello successivo alla Rivoluzione francese, e quello successivo alla costituzione del regno d’Italia»123 . Nel periodo compreso fra il 1798 e il 1799, «ebrei» e «borghesi» avrebbero, infatti, tradito «il popolo italiano», combattendo al fianco dei francesi: «Risulta, – afferma Lelj, – che con i borghesi si trovarono allora specialmente solidali gli ebrei d’Italia, e che ebrei e borghesi furono d’accordo, nello spargere sangue del popolo italiano, e che insieme subirono l’ira dell’insurrezione popolare. Che significa?»124. Gli ebrei partecipano, inoltre, alle «cospirazioni successive alla Restaurazione e al tentativo di fare nel 1848 dell’Italia una repubblica francese». Ma la «scuola politica italiana» ha il sopravvento e mantiene saldo il potere fino alla morte di Cavour, allorché «i quarantottisti rialzarono la testa» e «s’impadronirono dell’Italia, con la cosiddetta rivoluzione parlamentare del 1876»:
Il governo allora abbandona l’indirizzo cavouriano e imprime alla vita italiana un movimento che culmina al deserto dell’emigrazione, e alla creazione d’industrie completamente diverse e nemiche di quelle che Cavour si riprometteva e che aveva già fatto sorgere in Piemonte. Vediamo nello stesso tempo i partiti prendere le stesse denominazioni dei partiti francesi, mentre il governo, il parlamento, i partiti, le industrie, il commercio, la banca, la scuola, le case editrici, i giornali prendono un indirizzo di cui sono autori i borghesi non meno che le più spiccate personalità d’ebrei […]125
A «spolverare» le carte d’archivio «riguardanti gli ebrei» e a risolvere «l’equivoco» che ancora pesa sulla storia nazionale italiana, la rivista chiama a raccolta non soltanto i suoi collaboratori e corrispondenti, ma anche i lettori, invitati a esprimersi sulla rubrica Questionario. E la risposta non si fa attendere. Nel giugno e nel settembre 1939, Giorgio Piceno e Mario de’ Bagni descrivono «l’entrata dei francesi con la prigionia e l’esilio di Pio VI» e la nascita della Repubblica Romana come un «trionfo esclusivamente ebraico»126 e un’«occasione» per «grasse speculazioni»127. Nell’agosto 1940, Saverio La Sorsa, esperto pugliese di folklore e tradizioni popolari, riporta quasi interamente il testo dell’allocuzione letta nella sinagoga di Ancona, nel 1808, per salutare l’unione della città al napoleonico regno d’Italia, come la riprova del «tradimento» operato dagli ebrei ai danni dell’Italia e a tutto vantaggio dei francesi128. Poche settimane dopo, è Salvotti a dilungarsi nel descrivere le «ruberie ebraico-francesi» ai danni del pontefice durante il periodo della Repubblica Romana129. Ma è soprattutto attorno alla partecipazione degli ebrei italiani alle vicende del Risorgimento che si concentrano le attenzioni degli antisemiti della «Difesa della razza». Interlandi si è espresso chiaramente, a questo proposito, in un editoriale pubblicato sul «Tevere» nel settembre 1938:
Sarà ben chiaro che la partecipazione dell’ebreo ai fatti della nazione che lo ospita è sempre occasionale, fortuita e in ogni caso ispirata a motivi che non si identificano mai, ma soltanto coincidono, coi fini che la nazione persegue: vedi Risorgimento. Gli ebrei detti patriotti nel Risorgimento non erano che ebrei in lotta contro la monarchia austriaca cattolica e apostolica, e contro il Papato; erano ebrei che preparavano un’Italia a immagine e somiglianza della rivoluzione francese, un’Italia massonica e ebraizzata nella quale essi potessero finalmente accomodarsi come il sorcio nel formaggio; e infatti vi si accomodarono. Tutto questo, a suo tempo, sarà meglio illustrato e documentato130
Nello stesso mese, sulla prima pagina di «Quadrivio», Gino Sottochiesa alza il tiro: l’Italia del Risorgimento, in quanto liberale e democratica, indubbiamente «scaldò nel suo seno la serpe giudaica». Ciononostante, gli uomini «migliori» del periodo risorgimentale, a partire da Cavour, non furono «filo-ebrei»: «Il filosemitismo del nostro Risorgimento, – conclude, dunque, Sottochiesa, – è una panzana fabbricata dagli Ebrei per crearsi artatamente un salvacondotto di cittadinanza italiana da sbandierare quando le loro azioni sono in ribasso»131 .
Sempre nel settembre 1938, sulla «Difesa della razza», Giorgio Piceno racconta la storia dell’«ebreo denunciatore» Moisé Formiggini, che tradì e consegnò Felice Orsini agli austriaci132. Nel marzo 1939, Mario de’ Bagni descrive la partecipazione degli ebrei ai moti del Veneto, fra 1797 e 1848, come una cospirazione filofrancese e anti-italiana, combattuta non per la libertà dallo straniero, ma «per ottenere quei diritti civili, dei quali erano stati privati da secoli per la loro insidiosa e pericolosissima turbolenza»133: di qui all’ebreizzazione di Daniele Manin, etichettato Daniele «Medina», il passo è breve. Nel maggio 1939, Umberto Angeli rincara la dose: nel periodo compreso tra Firenze capitale e Roma fascista, «molte famiglie di Italiani veri furono stroncate, molte famiglie di Italiani falsi furono esaltate, pronube la Sinagoga e le succursali»134. Di nuovo Salvotti, nel luglio 1939, parla dell’«infiltrazione
138Capitolo terzo degli ebrei» nelle «società segrete patriottiche italiane»135. «Troppi attestati di patriottismo, – scrive Giorgio Almirante, nello stesso numero della “Difesa della razza”, – sono stati concessi alla leggera»: è il caso di Giuseppe Revere, i cui scritti rivelerebbero, agli occhi del segretario di redazione del quindicinale interlandiano, «l’odio ebraico» verso Roma, senza contare il «pessimismo», il «disfattismo» e la «tetra ironia» tipiche dell’«anima ebraica»136 Poche pagine dopo, il filosofo Riccardo Miceli incalza, raccontando le «manovre» di una «cricca giudaica», guidata dal «signor d’Eichsthal [sic]» e dalla redazione del «Crédit», ai danni di Vincenzo Gioberti137 .
Il 1848, e ancor più il 1870, segnano la definitiva trasformazione dell’Italia in un unico, grande ghetto. L’immagine più sintetica è prodotta dalla penna di Giovanni Savelli: Si crea, secondo le direttive del giudaismo internazionale, la fondamentale interdipendenza tra economia e politica, tra cultura e setta. Uscendo dalla penombra, gli ebrei si impossessano dei posti di comando, li costituiscono a catena. Gran parte dei vecchi patriotti è presto liquidata. I principali giornali d’Italia sono alimentati da giudei; due ebrei divengono proprietari e direttori della «Stefani»; il movimento socialista, con tutte le sfumature delle tendenze, è guidato sostanzialmente dai giudei; la finanza italiana si trasforma in una filiazione dell’alta banca ebraica internazionale e si conforma alla sua politica. I giudei, direttamente o indirettamente, giungono a controllare l’opera dei governi che si succedono nel paese138
Fra i Juifs d’État italiani, è soprattutto Luigi Luzzatti, il «ministro degli ebrei», a essere oggetto degli strali del quindicinale interlandiano: secondo Gino Lupi139, ad esempio, egli è colpevole di aver compromesso, nel 1914, i buoni rapporti diplomatici con la Romania per intervenire contro la politica antisemita del primo ministro Bratianu e a sostegno dei «suoi correligionari»140 .
Il culmine di questa campagna viene, tuttavia, raggiunto con il numero del 5 luglio 1939, all’interno del quale la sezione Polemica è interamente dedicata all’analisi dell’«ombra giudaica sulla vita italiana»: in particolare, nel campo della letteratura, dell’arte, della scienza, del giornalismo, del cinema, della banca, del diritto e della finanza. Su alcuni singoli contributi si ritornerà in seguito in maniera approfondita. Ciò che importa sottolineare in questa sede è, invece, l’articolo che inaugura la rassegna, non firmato ma sicuramente attribuibile a Massimo Lelj. La tariffa doganale del
1886 – terzo momento storico, dopo il 1798 e il 1848, fra quelli indicati nell’editoriale del febbraio 1939 – viene qui individuata, infatti, come il punto d’inizio dell’«oligarchia mercantile», instaurata in Italia da «borghesi ed ebrei»: «Dobbiamo considerare che borghesi ed ebrei il colpo lo fecero con la tariffa doganale del 1886. Allora essi fecero dell’Italia un monopolio di sfruttamento mercantile, allora l’Italia divenne una società anonima, governata da una banca che rappresentava anche gli azionisti stranieri. Allora il popolo fu definitivamente schiacciato, messo alla disperazione, costretto a emigrare»141 .
Prima ancora della tariffa doganale del 1886, per Lelj è la «rivoluzione parlamentare» del 1876 a segnare l’inizio della fine. L’avvento della Sinistra Storica comporta, infatti, il ritorno al clima ideologico-politico del Quarantotto e l’attuazione di una politica economica che trascura l’agricoltura e costringe il «popolo» a emigrare, trasformando l’Italia nel «campo di sfruttamento di cinquanta persone e qualche banca»142. Se Lelj parla di una borghesia «ebraizzata» che trionfa a partire dal 1876, anche per Francesco
Callari gli ultimi decenni dell’Ottocento sanciscono la definitiva «conquista» dell’Italia da parte degli ebrei: le vicende della Banca Commerciale, dominata dagli «ebrei» Toeplitz, Weil e Joel, ne sono la riprova143 .
La prima Guerra mondiale segna ovviamente il momento più drammatico del complotto del «giudaismo internazionale» ai danni della nazione italiana. Maestri del «più feroce e integrale disfattismo»144, gli ebrei da un lato provocano il conflitto per perseguire i propri interessi, ma dall’altro si sottraggono al bagno di sangue. Il Patto di Londra diviene così una manovra imbastita da Sidney Sonnino, «figlio di un ebreo anglo-egiziano», per avvantaggiare la «plutocrazia ebraica». E la riunione «giudeo-massonica» tenutasi nel 1917 in Rue Cadet, a Parigi, è la sede in cui viene deliberata l’annessione di Trieste, Fiume e della Dalmazia alla Jugoslavia, così da costituire, «nell’interesse dell’alta banca ebraica», il «triangolo egemonico di Fiume, Danzica e Costantinopoli»145. Gli ebrei sono, dunque, gli artefici del «tradimento», della «vittoria mutilata». Lo afferma a chiare lettere Antonio Trizzino, nel novembre 1938:
La pace di Versaglia, e la Società delle Nazioni che di essa doveva essere perenne continuazione, furono gli atti internazionali con i quali si concluse la guerra mondiale. È storicamente dimostrato, in base a documenti inop-
140Capitolo terzo pugnabili – che quella pace e quella società furono ideate, preparate di lunga mano e poi attuate dall’internazionale massonica ed ebraica; ebraismo e massoneria sono, quindi, i grandi responsabili del tradimento che fu perpetrato ai danni del popolo italiano146 .
È questa assimilazione fra «ebraismo» e «disfattismo» che trova compimento nella totale assimilazione di ebraismo e antifascismo147, l’ultimo atto dell’espulsione simbolica degli ebrei dal corpo nazionale, teorizzata dalla «Difesa della razza». E non è un caso che proprio su questo tema si concentrino due editoriali di Interlandi, pubblicati consecutivamente il 20 ottobre e il 5 novembre 1938. Il «complesso di studi» raccolto nel fascicolo del 20 ottobre 1938 della «Difesa della razza» intende suggerire, secondo Interlandi, «la necessità e tempestività della separazione operata tra ebraismo e italianità, tra il vivente corpo della nazione e l’escrescenza giudaica»148. La storia della «travagliata ascensione dell’Italia» rivela, infatti, l’«orrenda ostilità» delle «zone giudaizzate»: l’opposizione alla guerra in Africa alla fine dell’Ottocento, il neutralismo durante la prima Guerra mondiale e, infine, l’antifascismo, sono i segni più evidenti della «necrosi dello spirito italiano», operata dall’«invadenza giudaica»149. Sul nesso «guerra-razza-nazione» insiste anche il secondo editoriale del 5 novembre. Due «concezioni della vita» – scrive Interlandi – si dividono il mondo: «la concezione eroica e quella remissiva, la guerriera e la contemplativa, l’attiva e la passiva»150. Se la «razza» italiana è caratterizzata da quei «valori eroici» che fecero la grandezza di Roma, allora ogni «disfattismo» è di per sé l’indizio del «tentativo di adulterare la Razza e di ridurla in cattività»: «I disfattisti del ’17, del ’19, del ’20 e del ’21 furono ancora una volta i negatori dei valori eroici della nostra razza. Essi raffigurarono la guerra come un atroce errore da espiare, gli eroi della guerra come dei banditi da punire, i segni del valore come volgare chincaglieria, i Morti come inutili vittime d’un delitto»151 .
Nel presentare gli articoli contenuti nel numero del quindicinale, Interlandi parla di «documentazione irrefutabile», tesa a «confermare la necessità d’una separazione totale tra la pura Razza italiana e gli elementi razziali che le sono ostili e hanno tentato di corromperla»152. Le pagine che seguono, dedicate per lo più, come si è visto, a individuare negli ebrei italiani i responsabili della «vittoria mutilata» e i protagonisti dell’opposizione antifasci- sta, rendono esplicito e visibile, qualora ve ne fosse bisogno, il volto del bersaglio polemico interlandiano.
3. La visione cospirazionista della storia e il progetto Madagascar.
Il cospirazionismo antisemita della lobby interlandiana non ha bisogno dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion per attivarsi. Certo i riferimenti al celebre falso non mancano153, ma essi non risultano prioritari nella costruzione dell’immaginario del «complotto ebraico mondiale». Quella sostenuta dai giornalisti che fanno capo a Interlandi è piuttosto l’idea di una «cospirazione senza piano»: in altre parole, il complotto non appare tanto il risultato di una macchinazione occulta orchestrata a tavolino, quanto l’espressione di un dato costitutivo e ontologico della natura dell’ebreo.
A fornire l’esempio forse più esplicito di tale impostazione è un articolo del critico d’arte Giuseppe Pensabene, pubblicato sulla prima pagina di «Quadrivio» nell’agosto 1938: «Tutti gli Ebrei, – afferma Pensabene, – non operano secondo un piano prestabilito. Si può, anzi, affermare, in generale, il contrario. Piuttosto, operano per istinto: la concordia viene dall’essere questo istinto, unico. Come in una colonia di bacilli che si diffondono e uccidono, senza sapere le conseguenze del proprio lavoro. Solo in alto, e pochissimo numeroso, c’è un gruppo, nascosto e veggente, che raccoglie i frutti»154 .
Su «La Difesa della razza», un’analoga prospettiva è espressa negli articoli pubblicati, nel 1941, da Giovanni Savelli e Armando Tosti, rispettivamente dedicati alla Storia del giudaismo 155 e alla Razza giudaica156. Per Savelli, l’«anima giudaica», l’«istinto della razza» – da cui originano «le viltà e le frenesie, la pervicacia e le sinuosità sociali, il decentrato misticismo e le acutezze razionali, il messianesimo e il materialismo» – spiegano di per sé l’intera «parabola razziale» degli ebrei nella storia, «dalla cattività babilonese all’epoca contemporanea», nei termini di un’«impossibile coesistenza»: «Il rapporto ebrei-popoli stranieri, – afferma Savelli, –non è in definitiva che questo: una collettività, con le sue leggi e le sue tradizioni, si insinua in una diversa collettività; trae da questa i mezzi di esistenza, s’innesta praticamente nella sua specifica organizzazione sociale; chiede libertà d’azione, eguaglianza di di-
142Capitolo terzo ritti; e, sieno questi concessi o meno, sia la sua coesistenza tollerata o avversata, rimane naturalmente separata […]»157. Allo stesso modo, negli scritti di Tosti, l’anarchismo e la tendenza alla «pandistruzione» costituiscono una caratteristica razziale dell’«ebraismo», in quanto tale: «La caratteristica dei Semiti – venienti dal nomadismo del deserto – fu sempre una insofferenza della disciplina politica, una vera e propria repugnanza a costituirsi in Stato, un’anarchica visione di relazioni universali […]»158 .
In sostanza, le vicende traumatiche della storia – le crisi economiche, le guerre, le rivoluzioni – non richiedono necessariamente l’attività di un’organizzazione occulta, ma possono semplicemente corrispondere alle modalità con cui l’ebreo tende a «perpetuare la propria razza e a saziare la sua libidine di prepotere»159 .
L’essenzialismo dell’antisemitismo cospirazionista del gruppo interlandiano non implica ovviamente la completa assenza di rimandi all’azione di una presunta organizzazione segreta ebraica, ma essi rimangono per lo più generici, sintetizzandosi di solito nella categoria di «internazionale ebraica». Si legga, ad esempio, l’editoriale pubblicato da Interlandi sul «Tevere», il 21 novembre 1938: «Nell’ebreo bisogna combattere non soltanto l’ebreo, ma l’internazionale degli ebrei, la minaccia di quella feroce oligarchia occulta che va tessendo la sua rete sul mondo per finire di soggiogarlo»160
Tale approccio, che unisce l’interpretazione essenzialista dell’ebreo complottista all’individuazione di una non meglio precisata struttura occulta, sembra trovare conferma nell’interpretazione cospirazionista della modernità, come luogo storico del potere ebraico. Da Lutero a Blum, la modernità non è che lo spazio della progressiva realizzazione del dominio degli ebrei. La Riforma protestante – si legge sulla «Difesa della razza» – è stata «promossa e preparata dalle società segrete e dagli umanisti» e ha conosciuto «l’occulta guida dei giudei». Facendo dell’interpretazione della Bibbia «un diritto dei singoli», Lutero ha contribuito, infatti, a far emergere dall’Antico Testamento «lo spirito del giudaismo». Quanto al calvinismo, esso non è che «un giudaismo ampliato, scevro da pregiudizi e da esclusivismi di razza»: Calvino è «il padre spirituale del puritanesimo e delle democrazie». La «più pura espressione del calvinismo» è il puritanesimo, «setta di pretta marca giudaica, che si attiene strettamente ai dettami dell’Antico Te- stamento, festeggia il sabato e […] cerca di imitare in tutto e per tutto i costumi degli antichi farisei»161 .
A partire dalla Riforma, l’«azione giudaica» può lanciarsi, secondo De Giglio, in un’«avventura politica» che conosce, come fasi principali, tre rivoluzioni: quella inglese del 1649, quella francese del 1789, quella russa del 1917. «Tre vittorie giudaiche, – chiosa il pubblicista, – ognuna delle quali doveva costare la vita di un re»162 .
La coincidenza fra puritanesimo ed ebraismo – «entrambi religioni capitalistiche» ed «entrambi fondati sulla fede nel popolo eletto» – spiega, secondo Giuseppe Pensabene, la politica di Cromwell a favore degli ebrei163. Spinto dalle proprie convinzioni religiose, Cromwell nasconde, tuttavia, un preciso progetto politico: «attirare gli ebrei in Inghilterra per servirsi dei loro capitali e delle loro relazioni commerciali»164. È questo l’inizio dell’«alleanza anglogiudaica», sancita non soltanto da una «parentela spirituale», ma anche da una costante «associazione delle azioni politico-diplomatiche ed economico-finanziarie» dell’Inghilterra e del «giudaismo»165. Con Cromwell, secondo Gino Sottochiesa, lo «spirito ebraico» diventa «come una seconda natura nella razza inglese, che ne sarà imbevuta e dominata nei secoli»166. Anche dopo la restaurazione della monarchia, «l’anglo-ebraismo, forgiato dall’idea e dalla prassi puritana» rimane «la spina dorsale e il midollo sostanziale di tutto l’inglesismo»167. Il mito puritano-ebraico del «popolo eletto» alimenta «la costruzione mastodontica plutocratico-capitalistica», in cui si esprime l’«indivisibile consanguineità» fra ebrei e inglesi.
Il colpo più grave è tuttavia rappresentato dalla Rivoluzione francese. La Francia, secondo Carlo Barduzzi, non ha avuto che «quattro secoli in cui ha respirato liberamente e furono quelli della sua grandezza; dall’espulsione dei giudei, nel 1394, alla rivoluzione del 1789»168. Il 14 luglio 1789 è stata, infatti, la «festa degli ebrei»169. Nel convento di Wilhelmsbad, in una riunione segreta avvenuta nel 1782, gli «ebrei-massoni» – scrive il critico musicale Francesco Scardaoni, nel settembre 1938 – approvano il piano rivoluzionario e condannano a morte Luigi XVI. «Scopo essenziale» della rivoluzione doveva essere «il riconoscimento del diritto di cittadinanza agli ebrei» e l’obiettivo verrà, infatti, raggiunto con il voto dell’Assemblea Costituente, il 27 settembre 1791170 .
Durante la Rivoluzione francese, l’ebreo – afferma Carlo Barduzzi – è «nelle strade, cerca il punto che gli conviene, penetra per
144Capitolo terzo la breccia aperta da altri, mette salde radici nella nuova società, è il più feroce nella distruzione dei quadri di quella che precedette»171. I «giudei» svaligiano i gioielli della corona e organizzano «il saccheggio delle chiese, la distruzione di capolavori ispirati dalla fede al genio degli artisti». Ottenuta quindi l’emancipazione, non hanno più «ritegno» e contribuiscono al crollo dell’impero napoleonico: «La sera di Waterloo essi spogliano i cadaveri». All’avvento della Terza Repubblica, il potere giudaico in Francia è «assoluto»: «i giudei Isaac Pereire, Léon Gambetta, Isaac Moisé Crémieux ne sono gli astri»172 .
L’Ottocento è, però, il «secolo d’oro dell’ebraismo»173. Francia, Italia e Gran Bretagna cadono vittime del capitalismo finanziario ebraico, strumento attraverso il quale – afferma Armando Tosti – gli ebrei creano «il disordine sociale nel mondo moderno». Aggiotaggio, crisi e crac sono le «operazioni malefiche dell’ebraismo»174. Negli scritti di Tosti, un legame preciso s’istituisce – nel periodo compreso tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento – fra capitalismo finanziario, regime parlamentare e «borghesia neo-giudaica»175. Marionette nelle mani della «finanza ebraica» divengono, dunque, la Gran Bretagna e la Francia del xix secolo. Per quanto riguarda il mondo anglosassone, nelle pagine della «Difesa della razza» gli esempi abbondano: l’ingresso degli ebrei nella City, nel 1831, è il frutto di una lunga manovra di penetrazione intrapresa fin dai tempi di Cromwell176; l’acquisto delle azioni del canale di Suez è un’operazione del «giudeo Disraeli» e della «banca Rotschild di Londra»177; le guerre dell’oppio contro la Cina soddisfano gli interessi della «ditta ebrea Sassoon»178; la guerra anglo-boera è alimentata dalle mire ebraiche sul commercio dei diamanti in Sudafrica179. Circa la Francia, nel xix secolo – scrive Giuseppe Forteguerri – «i Rotschild e i suoi accoliti con una larga corruzione delle sfere governative» prelevano, nello stesso periodo, dalle tasche dei risparmiatori, «circa tre miliardi di franchi»180
Sul piano strettamente politico, tutti i movimenti rivoluzionari europei, tra il 1830 e il 1848, sono stati «preparati da lunga data dagli ebrei»181. Il crollo della monarchia spagnola, ad esempio, è opera della «cospirazione giudea»:
Ebrei furono quelli che sostennero Napoleone contro la Spagna. Ebrei e massoni i perturbatori della vita pubblica durante le lotte dinastiche e le successioni. Massoni pagati dai giudei coloro che riescirono a detronizzare Isabella II, che proclamarono la prima repubblica e la rovesciarono quando non faceva più loro comodo. Massoni ed ebrei quelli che aiutarono le potenze americane a far perdere alla Spagna, Cuba e le Filippine, ultime gemme della grande corona coloniale conquistata da Carlo V182 .
Preparata dalla cospirazione «demo-pluto-capitalistica», la prima Guerra mondiale inaugura il Novecento sotto il segno dell’«internazionale ebraica». Buona parte dei fascicoli della «Difesa della razza», pubblicati il 20 ottobre e il 5 novembre 1938, insistono, ad esempio, su un’unica, ricorrente argomentazione: poiché il conflitto mondiale è stato preparato e diretto da Israele e ne ha sancito il trionfo sul mondo, gli ebrei si sono comportati, durante la guerra, o come disfattisti, al fine di fiaccare lo «spirito nazionale» e far trionfare la «Supernazione» giudaica183, o come imboscati184, con il chiaro obiettivo di sopravvivere alla carneficina per poi avvantaggiarsi nel dopoguerra. Tale strategia non sarebbe stata, del resto, che la logica conseguenza delle caratteristiche razziali proprie di un popolo «debole e infranto»185, «senza frontiere e senza eserciti»186 , e senza alcun «ideale di patria da difendere con la vita»187 .
Nel cospirazionismo antisemita della «Difesa della razza», gli ebrei «hanno voluto la guerra» affinché «la pace fosse nelle loro mani»188. Nel primo dopoguerra, gli ebrei – scrive Attili – allargarono smisuratamente «il campo dei loro egoismi e dei loro intrighi internazionali con la pretesa di governare il mondo e di far trionfare l’ideale della loro razza»189. I trionfi postbellici del liberalismo, della democrazia, del bolscevismo vengono letti dall’antisemitismo cospirazionista del quindicinale interlandiano come altrettante avanzate dell’«internazionalismo» giudaico. La disfatta della Germania imperiale, la rivoluzione tedesca e l’affermazione della Repubblica di Weimar sono ovviamente il frutto del complotto «giudeomassonico». Tutti ebrei sono, secondo Gasteiner, i protagonisti della disfatta tedesca190. In generale, l’«ingiusta pace» di Versailles è scaturita da una «manipolazione giudaica», e per capire «fino a qual punto l’ebraismo abbia influito sulla formulazione della pace basta tener presente che Lloyd George è di origine ebraica; che Wilson a Parigi era ospite di un ebreo e aveva un segretario ebreo, come Lloyd George e Clemenceau»191. Accanto alla Società delle Nazioni, «strumento utile ad una pacifica e ben dissimulata penetrazione» del giudaismo «in ogni parte del mondo», è l’Unione Sovietica il più grave portato del conflitto mondiale voluto da
146Capitolo terzo
Israele. Il bolscevismo è, infatti, «il più mostruoso delitto del giudaismo: è l’orrendo sacrificio rituale moltiplicato a milioni di volte»192. E la ricerca ossessiva delle prove di tale rapporto non conosce tregua nelle pagine della «Difesa della razza»: due interi fascicoli – uno «dedicato»193 e l’altro «speciale»194 – vengono destinati a raccogliere la documentazione necessaria a dimostrare l’azione del «giudaismo e bolscevismo contro la civiltà». I «maggiori autori del dramma bolscevico, – scrive Aldo Bomba, – sono ebrei e il “finanziatore della rivoluzione” è stato un “banchiere ebreo di nome Jacob Scriff”»195. A partire dalla pubblicazione, nel 1848, del «famigerato manifesto comunista», una «catena di avvenimenti» –afferma Barduzzi – ha messo in evidenza «una lunga teoria degli agitatori giudei». Giudei sono, infatti, Marx («o meglio Mordechai»), Lassalle («discendente di rabbini»), Bernstein: «in mezzo al giudaismo tedesco» maturano i «germi del bolscevismo»196. Sul piano ideologico, nel marxismo rivive, secondo Armando Tosti, il «profetismo» ebraico197. Nessuno stupore, pertanto, che l’Unione Sovietica presenti degli ebrei in «tutti i posti di responsabilità», dalla politica alla diplomazia, dall’esercito all’economia, dalla polizia al giornalismo: «dovunque vi è un posto direttivo e rappresentativo di una certa importanza nella macchinosa ed irresponsabile burocrazia sovietica, quel posto è in mani giudee»198 .
L’antifascismo è, infine, il trampolino di lancio utilizzato dal «giudeo-bolscevismo» per estendersi negli Stati Uniti e in Europa. Non a caso il sindaco di New York, Fiorello La Guardia, è, per Salvotti, l’uomo-guida dei «giudeo-bolscevichi» statunitensi, i quali – come «vampiri» o «termiti corrosive» – minacciano le «vere forze nazionali» americane199. Béla Kun – ebraizzato in Aaron Kohn – è la «belva di Mosca»200. La Francia del Fronte Popolare e di Léon Blum è «un’invenzione giudaica»: ebraizzati sono la politica, l’economia, la pubblica amministrazione, la stampa201. La Francia – dichiara Interlandi – è «tutta una sinagoga»202. Le sanzioni decise dalla Società delle Nazioni – «l’ebraica lega di Ginevra» – contro l’Italia fascista, in occasione della guerra d’Etiopia, corrispondono ad un «mostruoso e infame tentativo» di vendetta nei confronti del fascismo203. La guerra civile spagnola è un «gigantesco affare», provocato da «agitatori ebrei»204. Dietro le Brigate internazionali che lottano contro il fascismo – scrive Gurrieri – è il giudeo che sorride205 .
Nell’antisemitismo cospirazionista della «Difesa della razza», anche ciò che potrebbe contraddire, in teoria, la logica del complotto, viene indotto ben presto a rientrare nel medesimo meccanismo interpretativo. Come, ad esempio, conciliare le manovre «internazionaliste», insite nel wilsonismo, nel bolscevismo, nell’antifascismo, con lo sviluppo novecentesco del sionismo? Nell’epistemologia cospirazionista, la risposta è semplice e automatica: ai complotti «demo-pluto-giudaico» e «giudeo-bolscevico», si aggiunge il complotto sionista. Per i pubblicisti antisemiti della «Difesa della razza» il sionismo è, infatti, un’impossibilità, in quanto contraddice i fondamentali impulsi razziali dell’Ebreo errante. «Diciotto secoli di vagabondaggio» – scrive Alfredo Mezio – hanno, infatti, privato l’ebreo del senso stesso della nazione: «E hanno suscitato in lui l’istinto di solidarietà, di una solidarietà che si esercita a distanza ma rincula, con una specie di terrore incestuoso davanti a qualsiasi forma di organizzazione sociale»206 .
La «solidarietà di razza» degli ebrei è in sostanza una funzione del loro essere un popolo «errante e cosmopolita». La costituzione di uno Stato unitario in Palestina sarebbe inevitabilmente destinata alla disgregazione e al collasso, in quanto la «morale di una convivenza politica» urterebbe contro «l’esclusivismo, l’abitudine al segreto e questo feroce istinto di madrepore che duemila anni di commercio con tutte le razze hanno trasformato in un elemento ereditario della psicologia ebraica»207:
Soltanto a un ingenuo di spirito (quando non fu calcolo) può sorridere l’idea di far convivere assieme elementi della stessa razza ma formati a differenti civiltà, ebrei o francesi che si vantano d’essere mischiati alle vicende della cultura europea d’Occidente e che comunque di questa cultura hanno assorbito gli elementi, adattandoli alla loro mentalità, con dei giudioli yddish scappati dai ghetti della Galizia, i rabbini riformati della Germania che respingono il Talmud e considerano la Bibbia una specie di razza nazionale, e il notabile ortodosso della comunità di Amsterdam il quale ha sulla coscienza la cacciata di Spinoza dalla sinagoga per indegnità religiosa, il potente banchiere di Londra o di Nuova York abituato a influire sul destino di milioni di uomini e il cenciaiuolo berbero o jemenita […]208
148Capitolo terzo se interno al mondo giudaico, attraverso cui gli «ebrei ricchi» tentano di allontanare dall’Europa quegli «ebrei poveri», i quali, a causa della loro scarsa integrazione, sono i primi ad alimentare la reazione antisemita209. Per Interlandi, ad esempio, il sionismo non è che una «felice formula» elaborata dalla «plutocrazia giudaica internazionale» per «risolvere il fastidioso problema d’un proletariato giudaico»210 .
Dall’altro lato, il sionismo appare come l’ennesima «maschera», dietro la quale si cela ancora una volta l’ipernazionalismo ebraico, al tempo stesso razzista e internazionalista, in quanto teso a realizzare il progetto di dominio planetario da parte degli ebrei. Così si esprime, ad esempio, Franco Catalano, nel marzo 1942: lo «scopo dello Stato ebraico» consiste «indubbiamente nel creare un centro internazionale di dominio sui popoli non ebraici, uno Stato i cui cittadini non abiterebbero nei suoi confini, ma su tutta la terra»211. La solidarietà politica, economica e persino militare offerta dal movimento sionista a vantaggio della Gran Bretagna e soprattutto degli Stati Uniti, durante la seconda Guerra mondiale, conferma, agli occhi di Giovanni Savelli, la «contratta cristallizzazione d’odio» e la «vitrea allucinazione di dominio», che muovono l’«azione del giudaismo»: «Lo Stato giudaico palestinese non escluderebbe la Diaspora, le maglie della collettività in azione nei paesi stranieri; in Palestina opererebbe la grande centrale unificata, cui farebbero capo le centrali di oriente e di occidente»212 .
L’impostazione cospirazionista impedisce ovviamente agli antisemiti della «Difesa della razza» di individuare nel sionismo una strada praticabile in vista della definitiva «soluzione del problema ebraico». Anche trascurando la «tendenza alla dominazione mondiale» propria del «popolo ebreo», la Palestina non è comunque, secondo Giannetti, un luogo adatto ad accogliere il «vagheggiato Stato ebraico», sia per ragioni geografiche, potendo accogliere soltanto «una piccola parte degli ebrei del mondo», sia per motivi politici, considerato il «diritto storico degli Arabi» sul quel territorio213. Non in Palestina – incalza Salvotti, citando l’Informazione Diplomatica n. 14 del 16 febbraio 1938 – «si potrà creare lo Stato ebraico, ma in qualche altro luogo o isola»214 .
Meglio della Palestina sarebbe piuttosto il Madagascar, isola verso cui il regime nazista progetta, nella primavera-estate 1940, di deportare quattro milioni di ebrei europei. Sulla «Difesa della razza» l’olandese De Vries de Heekelingen aveva proposto, nel novembre 1939, almeno tre spazi verso cui trasferire gli ebrei: una parte dell’Abissinia e del Kenya; la Rhodesia del Nord; la Guyana215. Il Madagascar è la meta auspicata esplicitamente da Gino Sottochiesa, nel settembre 1940, a patto però che gli ebrei deportati siano privati di qualsiasi autonomia politica: «Releghiamoli pure laggiù, questi fastidiosi giudei, perché imparino una buona volta a vivere col sudore della fronte; ma non permettiamo loro di far della politica, e quel che è più, statale-governativa, ché fonderebbero un altro Regno d’Israele, a tinta social-comunista, come han tentato di fare nelle terre palestinesi, sotto il patrocinio di Albione»216. Anche per Carlo Barduzzi, il Madagascar avrebbe tutte le caratteristiche geopolitiche necessarie per una «soluzione radicale» del «problema ebraico»: «Un territorio che non abbia contiguità territoriale con altri; che sia sufficientemente vasto da contenerli tutti agevolmente; che abbia un clima temperato e risorse naturali cui attingere; che sia fuori delle grandi linee continentali, così da non poter costituire una base insidiosa per alcuno»217 .
Ma è il nazista Johann von Leers, docente all’Università di Jena218 , a elogiare, nel gennaio 1941, il Madagascarplan. L’ora della «degiudaizzazione generale, integrale e radicale» del continente europeo è finalmente giunta: «Il numero dei giudei dei paesi dell’Europa non oltrepassa le possibilità demografiche dell’isola, la loro ultima migrazione non sarebbe cosa nuova nel tempo delle grandi nuove migrazioni di popoli, la volontà quadrata delle Potenze dell’Asse vincerebbe ogni difficoltà […]»219 .
Non la Palestina, dunque, ma il Madagascar: è questa la nuova «terra promessa» che l’antisionismo cospirazionista della «Difesa della razza» suggerisce in vista della «futura sistemazione degli ebrei».
4. Criminalità e prostituzione.
Nel dispositivo ideologico del cospirazionismo antisemita, l’azione disgregatrice compiuta dall’ebreo in campo politico ed economico affonda le sue radici in un più profondo processo di corrosione dell’intero sistema sociale, operato attraverso la diffusio-
150Capitolo terzo ne del crimine e il rovesciamento dell’equilibrio naturale nei rapporti fra i sessi. Per quanto riguarda il primo aspetto, si è visto in precedenza come «La Difesa della razza» recuperi l’accusa di omicidio rituale, traducendola in dato ontologico e razziale, espressione della dedizione dell’ebreo alla delinquenza e alla rottura dell’ordine sociale. Sul tema della «criminalità degli ebrei», il quindicinale interlandiano concentra l’attenzione fin dal primo numero, pubblicando uno schema tratto dall’opera dell’«ebreo» Arthur Ruppin, Gli ebrei d’oggi (pubblicato a Torino nel 1922) il quadro statistico, nel momento stesso in cui denuncia il fatto che «i delitti più infamanti e volgari sono particolari degli ebrei»220, si presenta come svelamento di una «diversità fondamentale della criminalità» fra ebrei e non ebrei, tenuta per contro nascosta sia dall’autore Ruppin, sia dall’«introduzione filoebraica» di Enrico Morselli. Nei numeri successivi, a ritornare sull’argomento saranno soprattutto due contributi, firmati rispettivamente da Julius Evola e da Guido Landra. Nel primo, a partire dalla recensione del saggio dello psichiatra nazista Max Mikorey, L’ebraismo nella psicologia criminale, Evola interpreta le teorie criminologiche di Adler e Freud e le rappresentazioni del delitto contenute nei libri di Kafka e di Wassermann, come meri tentativi di relativizzare e banalizzare la gravità dell’atto criminale, al fine di favorirne la diffusione all’interno della società. Si tratterebbe, in sostanza, di un «disfattismo spirituale e morale», teso a «narcotizzare la sensibilità etica e giuridica fino ad una incapacità quasi completa di reazione»221. Differente è, invece, l’approccio di Guido Landra, il quale tenta di dimostrare, statistiche alla mano, l’ereditarietà biologica della tendenza ebraica a compiere crimini contro l’ordine politico-economico e contro la morale pubblica, e afferma nella conclusione del suo articolo:
Quanto abbiamo esposto ci pare più che sufficiente per dimostrare l’esistenza tra gli ebrei di una particolare tendenza ad alcuni delitti, che, insieme ad altri caratteri morfologici, fisiologici, psicologici e patologici, è senza dubbio ereditaria e costituisce pertanto un tipico carattere razziale, sul quale le variazioni ambientali possono avere solo una influenza molto relativa222
Il riferimento di Landra al «gran numero di delitti riguardanti le cose del sesso» introduce un tema, quale quello del carattere degenerato della sessualità ebraica, ricorrente nella pubblicistica antisemita e particolarmente presente nelle pagine della «Difesa della razza». Non è un caso, infatti, che proprio il quindicinale interlandiano ospiti la prima versione del celebre articolo di Georges Montandon223, che stigmatizza gli ebrei con l’etichetta di «etnia puttana». Tale «qualifica» si fonda, innanzitutto, secondo l’antropologo francese, sullo «psichismo sessuale lubrico» proprio dell’«etnia ebraica». Numerose «circostanze» dimostrerebbero tale tesi: la «scienza detta sessuale (Sexualwissenschaft)» è «in modo preponderante ebrea»; il «famoso museo sessuale di Berlino», distrutto dai nazisti, è opera dell’«Ebreo Magnus Hirschfeld»224; Freud, «il creatore della psicanalisi, che, in un modo ridicolmente esagerato, ogni cosa del dominio degl’istinti infantili e del sogno spiega con appetiti sessuali», è ebreo225. E ancora: la «letteratura e la produzione propriamente pornografiche» sono, «in modo nettamente predominante, in mano di Ebrei»226; la rubrica «più o meno pornografica dei grandi giornali parigini» è gestita da «puttane ebree»; il numero di ebrei «colpiti da sanzioni di polizia dei costumi» è «più forte nella maggior parte dei paesi, di quanto non comporti la loro percentuale demografica»; la condotta sessuale, «dove vivono ebrei, stomaca i vicini»227. Ma è soprattutto nella sua natura di heimatlos che si esprime pienamente, secondo Montandon, l’essenza dell’ethnie putaine. Mentre altri «gruppi etnici» – quali i polacchi, i greci, gli armeni – persa la propria indipendenza, hanno partecipato «alla vita delle nuove unità politiche in seno alle quali erano chiusi», al pari di «donne legittimamente o di fatto sposate», non lo stesso si può dire per gli ebrei: di qui il termine di ethnie putaine, il quale «non ha ombra d’intenzione ingiuriosa», ma è «nella sua concisione il più appropriato, capace di comprendere in una parola sola l’insieme complesso della condotta psichica, che distingue l’etnia israelitica dalle altre»228 .
Teorizzato in questi termini da Montandon, il nesso ebraismoprostituzione ritorna con frequenza negli articoli del quindicinale interlandiano. È il problema della genesi storica dell’assenza di pudore dell’ebreo nella vita sessuale a essere oggetto di discussione.
Per il giurista Tancredi Gatti, ad esempio, l’Antico Testamento rivela come «nello sfogo della libidine, il popolo ebraico raggiunse veramente gli estremi gradi, sicché incesto, omosessualità e bestialità appaiono non tanto vizi diffusi quanto pratiche comuni»229 .
Per l’antropologo Giovanni Marro, la «frequente documentazione dell’incesto nella Bibbia» è sufficiente per spiegare «la conti-
152Capitolo terzo nuata frequenza, fino a tutt’oggi, delle unioni ebraiche fra consanguinei prossimi», alla base delle «ben note stigmate nell’ambito anatomico e funzionale»230. E se Ferruccio Ferroni ricorre ad una satira di Ariosto per dimostrare come, nel Cinquecento, la preparazione e il commercio dei «belletti» fossero gestiti dagli ebrei utilizzando la «saliva delle loro donne»231, nel giugno 1941 Odo Samengo contrappone Giuditta e Sebora, simboli della perversione sessuale della donna ebrea, alle sante cristiane: «Non fu la purezza dell’amore che rese celebri quelle poche grandi figure di donna immortalate nel poema ebraico, come Giuditta e Sebora. Non è la castità dei costumi, non l’amore disinteressato che han fatto di loro due eroine; ché anzi esse, per servire la patria, usarono della bellezza di cui la natura le aveva fatte ricche, in ciò molto diverse per dignità e purità dalle eroine cristiane»232. Non a caso i pontefici – commenta il giornalista – furono costretti, da Alessandro VI a Sisto V, a promulgare continuamente editti al fine di contrastare il «malcostume» delle «donne ebree»: «in tutti i tempi e presso tutti i popoli», infatti, le storie delle «donne giudee» sono «storie di prostituzione»233. In età contemporanea, la stampa pornografica diviene, in quest’ottica, una nuova arma nelle mani degli ebrei. Così si esprime, ad esempio, Gino Lupi, a proposito degli ebrei romeni: «Gli ebrei si impadronirono di molte case editrici e diffusero in tutto il paese, persino nelle scuole, una letteratura sottilmente immorale a tendenza pornografica, che doveva corrompere l’anima dei lettori, abbattere i valori morali, diffondere il disprezzo per la rettitudine e l’onestà, distruggere con l’ironia e il pessimismo ogni entusiasmo ed ogni fede»234 .
«Elementi ebraici» sono, secondo il giornalista napoletano Nicola Marchitto, responsabili della «tratta delle bianche» e della diffusione di «stampa immorale ed oscena» nelle colonie francesi nordafricane: «Infatti i giornalai, i cartolai ecc. del Nordafrica francese sono quasi tutti (secondo alcuni: tutti) ebrei e trovano lucroso tale commercio. Acquistando a vil prezzo tutta la produzione deteriore delle librerie francesi, come libri osceni, riviste con illustrazioni indecenti, cartoline immorali, le rivendono poi con immenso guadagno agli indigeni […]»235 .
Gli «ebrei» agiscono, dunque, come «elemento di dissoluzione», facilitando «l’immoralità ed i rapporti reciproci fra indigeni e bianche (ed ancor di più naturalmente tra bianchi ed indigene)»236. Sul- la scia dei pamphlet di Ford e di Céline237, è il cinema, oltre alla pubblicistica pornografica, a essere denunciato come il mezzo di comunicazione cui l’ebreo ricorre per diffondere degenerazione e immoralità in materia di relazioni fra i due sessi. I film degli «ebrei» Lubitsch e Dupont – con le loro sceneggiature tutte basate sul triangolo «lui-lei-l’altro» – sono, per il critico Domenico Paolella, un attacco alla «santità» della famiglia, alla sua «integra conservazione» e alla «maternità»: «In tutta la storia della cinematografia, non c’è attacco più violento sferrato contro l’equilibrio familiare di quello degli ebrei. Il “Triangolo” – ossia, lui, lei, l’altro o l’altra – è di pura marca ebraica ed è stato portato alle più alte vette della espressione cinematografica da ebrei»238. A Céline si richiama esplicitamente Antonio Petrucci, il quale, dietro la cinematografia americana – definita un’«orgia di pellicola negatrice di ogni valore spirituale» – vede in realtà «una turba famelica di ebrei che vivono incitando e solleticando i più bassi istinti dell’umanità»239. A preoccupare il critico cinematografico palermitano del «Tevere» è soprattutto l’effetto «deleterio» della visione sull’ingenuo abitante della provincia italiana:
Immaginate il ragazzo, studentello in paese che passa i pomeriggi al cinema. Pensate alla ragazzetta che la pubertà sospinge sulla china pericolosa dei desideri insoddisfatti e dei misteri attraenti. Ditemi ora, in coscienza, se avete un figlio o una figlia, che cosa può su quelle molli anime in formazione l’esempio suggestivo della storia facile raccontata sullo schermo nella penombra della sala con una immediatezza di rappresentazione da far dimenticare che è frutto d’invenzione e non piuttosto un brano di vita vera e vissuta colto di sorpresa da un operatore indiscreto?
Cinema e pornografia di marca ebraica trovano la loro esaltazione, nell’antisemitismo della «Difesa della razza», con il caso Pathé-Natan. L’ascesa sociale dell’«ebreino romeno» Bernard Tannenzaft, alias Natan, magnate della cinematografia francese, viene infatti ricondotta agli iniziali successi ottenuti come produttore (e attore) di film pornografici: «Tannenzaft trasforma lo studio fotografico in studio cinematografico. Si dà alla produzione dei film osceni. Egli stesso agisce come protagonista nelle scene più sudice. Crea un tipo alla Charlot; Charlot ha la bombetta acciaccata e i baffetti; lui è sempre in mutande, fa un grande sfoggio di giarrettiere e porta la paglietta»240 .
Evidentemente, nel dispositivo ideologico cospirazionista, tanto la prostituzione quanto la criminalità ebraiche sono articolazio-
154Capitolo terzo ni del medesimo piano di conquista mondiale elaborato dalla razza. In questa prospettiva, la mitridatizzazione dell’Ebreo è la chiave interpretativa fondamentale. Soggetto vizioso e corrosivo, l’ebreo è, infatti, mitridatizzato rispetto al vizio e al crimine che gestisce: provoca disgregazione sociale, ma non disgrega la propria ebraicità, che invece si esalta proprio nell’opera di disgregazione. Attraverso la promiscuità sessuale, ad esempio, l’ebreo non si deebraizza, ma ebraizza la società circostante. È quanto afferma il critico musicale Francesco Scardaoni, sulla «Difesa della razza», nel settembre 1939. L’«azione giudaica» mira a distruggere le barriere naturali esistenti fra le razze, favorendo la reciproca contaminazione fino al totale deperimento: gli ebrei non vogliono certo «determinare il frammischiamento della propria razza con quella ariana»241. Piuttosto intendono «produrre la fusione degli ariani coi negroidi»: solo così – afferma Scardaoni – arriveranno all’«annientamento delle razze superiori e all’asservimento di tutti i popoli alla mafia di Israele». L’ebreo che distrugge la morale tradizionale, che devasta la stabilità dei rapporti familiari e matrimoniali, che sfilaccia la consolidata trama dei rapporti sociali e affettivi, non sprofonda, dunque, nel gorgo che egli stesso ha provocato. Evola parla esplicitamente, a questo proposito, di «doppia morale» o «doppia verità» dell’ebraismo: «mentre l’una – quella interna – è destinata a rafforzare e preservare la razza ebraica, l’altra, quella esterna predicata ai “gentili”, ai goim, ha lo scopo di spianare le vie ad Israele, di propiziare un ambiente disarticolato e livellato»242 .
L’onnipotenza dell’ebreo mitridatizzato e la pervasività della cospirazione ebraica contribuiscono forse a spiegare, dal punto di vista ideologico, il progressivo spostamento del discorso antisemita della «Difesa della razza» da una logica di segregazione verso una prospettiva politica palingenetica e protogenocida: non si tratta più di difendere un sistema sociale – quello moderno e «borghese» – ormai in larga parte ebraizzato, quanto piuttosto di attivare una strategia «rivoluzionaria» che ponga definitivamente fine al processo di ebraizzazione.
5. Dall’ebreo visibile all’ebreo invisibile.
L’antisemitismo cospirazionista privilegia senza dubbio una caratterizzazione psicologico-comportamentale dell’ebreo, che insiste particolarmente sulla categoria dell’«ebraicità». Ciò non significa, tuttavia, che «La Difesa della razza» rinunci tout court a tratteggiare un «tipo ebraico» anche dal punto di vista strettamente somatico.
Nel terzo numero della «Difesa della razza», uscito il 5 settembre 1938, Giuseppe Genna, direttore dell’Istituto di antropologia dell’Università di Roma, fornisce una prima descrizione degli ebrei «come razza». Dal «tipo originario ebreo, misto di elementi asiatici anteriori, ed orientali, e forse un po’ anche nordici», si sarebbero sviluppati, secondo Genna, gli ashkenaziti, «in senso asiatico anteriore, mongoloide, alpino e nordico», e i sefarditi, «in senso orientale mediterraneo»243. Da questa partizione proverrebbero alcune fondamentali differenze morfologiche:
Riguardo i caratteri antropologici di questi due gruppi, risulta che quelli che seguono il rito Sephardim hanno cranio essenzialmente dolicomorfo, fisionomia fine, naso sottile, spesso regolarmente convesso, complessione prevalentemente scura, mentre quelli che seguono il rito Aschenazim hanno tratti più grossolani, testa più larga, spesso realmente brachicefala, naso grosso, carnoso, talora capelli ricci, complessione chiara più frequente244
Sul tema dei «caratteri del tipo ebraico», i contributi più rilevanti apparsi sulle pagine del quindicinale interlandiano si devono, tuttavia, alla penna dell’etnologo francese Georges Montandon. La possibilità di «riconoscere gli ebrei tra le diverse etnie europee» – scrive Montandon nel settembre 1940 – è «forse più grande che tra altri tipi meticci delle stesse etnie»245. Ma quali sono i «lineamenti» propri del «tipo giudaico», il cui «effetto sull’occhio è conosciutissimo»? Innanzitutto, un «naso fortemente incurvato», che assume, negli «individui del mezzogiorno e oriente d’Europa», un «profilo a becco d’avvoltoio». In secondo luogo, le «labbra carnose, delle quali l’inferiore sporge spesso, talvolta molto fortemente»; infine, gli «occhi poco incavati nelle orbite, con, abitualmente, qualcosa di umido, di più pantanoso, di quel che non si veda in altri tipi, e una fessura palpebrale meno aperta». Tre organi, dunque, fortemente «marcati nelle dimensioni»,
156Capitolo terzo la cui combinazione costituisce la «maschera ebraica». Caratteri «meno frequenti e meno decisivi» sarebbero, per Montandon, i «capelli lanosi», le «spalle leggermente incurvate», i «piedi piatti», nonché alcuni atteggiamenti, quali il «gesto rapace» e l’«andamento dinoccolato».
Oltre che dai caratteri somatici, l’ebreo è reso visibile anche dalle malattie specifiche di cui è portatore. La patologizzazione dell’ebreo caratterizza, infatti, buona parte di un secondo articolo pubblicato da Montandon sulla «Difesa della razza», nel giugno 1941. Dopo alcune riflessioni sulle caratteristiche anatomiche (lo scheletro, la dentatura, la pelle) e fisiologiche (la «rilassatezza» e l’«odore particolare») degli ebrei246, l’antropologo francese si concentra sul problema della «patologia razziale», termine da lui stesso coniato per definire il legame fra malattie e «predisposizioni razziali ereditarie»247. Attingendo agli stereotipi della psichiatrizzazione antisemita dell’ebreo di matrice positivistica248, Montandon insiste particolarmente sulla figura dell’ebreo «isterico» e «nevrotico»: «Si è, in particolare, constatato il grande numero di paralisi agitante (il ballo di San Vito è invece meno diffuso), di tic, di atetosi doppie (movimenti involontari, non coordinati, ma lenti), di nevralgie. Fra le diverse forme di paralisi generale, si notano soprattutto le forme gaie e maniache, poi turbamenti dei sensi, turbamenti ipocondriaci, sintomi erotico-sessuali»249. Particolarmente frequenti fra gli ebrei sarebbero i casi di schizofrenia, «pazzia periodica», nevrastenia e psicastenia. Ma nell’elenco delle patologie riferite da Montandon, bisogna includere anche la lebbra, il diabete, la malattia di Tay-Sachs, l’artritismo, l’arteriosclerosi, la «cancrena spontanea», il glaucoma, l’astigmatismo, la «morfinomania» e la «cocainomania».
L’etnologo francese non è comunque il solo a patologizzare la figura dell’ebreo sulle pagine della «Difesa della razza». Secondo Giuseppe Lucidi, l’ebreo presenta una «predisposizione ereditaria» alla «diatesi neuro-artritica», al diabete e alle malattie nervose. La deformità morfologica è, dunque, l’aspetto visibile della malattia interna: «Il suo volto deforme (il naso enorme, ricurvo in una vana ricerca dell’arcuato mento, i suoi occhi protrundenti dalle orbite) la sua facies ci rivela una costellazione endocrina, un iperpituarismo, un distiroidismo, una vagotonia che lo rende predisposto alla spossatezza muscolare, alla depressione psichica, all’ar- teriosclerosi, all’ipertricosi, al diabete mellito»250. Nel luglio 1939, Bruno Della Maggiore, esponente del guf di Siena, individua nella «patologia circolatoria» un elemento di differenza fra la «razza italiana» e quella «ebraica», stigmatizzando l’ebreo come «un individuo al quale la vita moderna fa venire il fiatone»251. Sul tema «razze e malattie», la rubrica Questionario ospita, nel luglio 1940, una lettera di Raimondo Flores, lettore di Milano, per il quale gli ebrei «sono molto soggetti al diabete, gotta e obesità»252. E, nell’ottobre dello stesso anno, Guido Landra utilizza i dati statistici del medico nazista Edeltraut Bieneck sulle cause di morte della popolazione ebraica di Breslavia nel periodo compreso fra 1928 e 1937 al fine di dimostrare il «caratteristico modo di reagire» degli ebrei di fronte a malattie come il diabete, la tubercolosi, il cancro253. Sempre Landra ribadirà, nel novembre 1941, questa volta sulle colonne del «Tevere», il «contributo elevatissimo degli ebrei» alla «popolazione dei manicomi»254, fondando proprio sulla patologia mentale il legame razziale fra ebraismo e bolscevismo.
Se, dunque, il processo di differenziazione-visualizzazione dell’ebreo si esprime, nella pagine della «Difesa della razza», attraverso i meccanismi della patologizzazione e della tipologizzazione morfologica, è l’ebreo «invisibile», più di quello «visibile», a suscitare, in realtà, la maggior preoccupazione degli antisemiti raccolti attorno a Interlandi. Il direttore del «Tevere» e della «Difesa della razza» si è espresso con chiarezza a questo proposito fin dal settembre 1938, denunciando i testi scolastici di «autori ariani ma di mentalità totalmente ebraizzata»: «Più pernicioso dell’ebreo, è l’ebraismo; più dell’ebraismo, l’ebraizzazione»255 .
Il problema dell’«invisibilità» degli ebrei alimenta l’ansia di sovrannumerazione che caratterizza il sostegno interlandiano al censimento degli ebrei dell’agosto 1938. L’importanza attribuita da Interlandi alle operazioni di rilevamento è ben espressa in una sua nota, pubblicata nel quarto fascicolo della «Difesa della razza»:
Da questo esame deve uscire non soltanto un preciso quadro della situazione degli ebrei in Italia, ma la risposta ai numerosi quesiti che la discriminazione razziale ha posto con urgenza alla coscienza del paese. Il quale ha bisogno di sapere non soltanto quanti sono gli ebrei – sul cui numero nessun autore, fra i tanti che si possono consultare, ha mai dichiarato d’esser certo – ma che cosa fanno gli ebrei, quali rami dell’attività nazionale controllano, in che misura si oppongono al legittimo affermarsi dei valori nostri256 .
158Capitolo terzo
A distanza di due settimane, il successivo numero del quindicinale ospita con grande evidenza una lettera di Preziosi a Interlandi, nella quale si gettano dubbi notevoli sul numero effettivo di tutti gli ebrei. Quello del 22 agosto – afferma, infatti, Preziosi – non sarà «il censimento», ma la «prima tappa del vero censimento, che deve essere preceduto dalla ricerca di tutti i cognomi usati da ebrei in Italia»257. E per raggiungere il quadro definitivo dei cognomi «ebraici», non basta pubblicare – come ha fatto Preziosi nel 1930 e Interlandi nel 1937258 – l’elenco di Samuel Schaerf (edizione Israel, Firenze 1925), il quale registra soltanto «i cognomi di coloro che “vogliono” essere considerati ebrei»259. Occorre, invece, organizzare un articolato piano di ricerca:
Le ricerche dovrebbero estendersi: alle Amministrazioni delle città che hanno cimiteri israelitici, per avere i cognomi degli ebrei defunti negli ultimi 50 anni; agli archivi delle principali regioni abitate da ebrei, per cercare i nomi degli ebrei sottoposti a vincoli (dal 1700 al 1850); ai bollettini delle Prefetture per quanto riguarda i cambiamenti autorizzati dei cognomi; non è da dimenticare lo spoglio degli annunzi mortuari, specialmente nel «Corriere della Sera» degli ultimi 50 anni. Da questi annunci verranno fuori le parentele; soprattutto è necessario scovare gli ebrei di razza fattisi cattolici di religione (i Marrani), i quali si sono sempre sposati tra loro. Perciò cattolici di religione, ma di razza pura ebraica260 .
I dati del censimento non sono ancora pubblici, ma già Preziosi ne contesta la validità, collocando intorno almeno a centomila la «cifra degli ebrei in Italia»: «Si è detto che il censimento del 22 agosto farà salire gli ebrei in Italia da 45 a 70 mila! La cifra degli ebrei in Italia non è inferiore a 100000. Ho detto la mia cifra»261. Una cifra, quella di centomila, che l’avvocato pesarese Guido Podaliri ha già indicato, nel gennaio 1938, sulla prima pagina di «Quadrivio»262 , ma che è destinata anch’essa a essere ben presto oltrepassata. Nel novembre 1938, quando ormai il censimento razzista ha fissato provvisoriamente a 57521 il numero degli ebrei in Italia, Carlo Barduzzi ipotizza sul «Tevere» l’esistenza di «zone non esplorate» dall’indagine statistica, e lancia la cifra di 180mila ebrei, comprendente anche i cittadini ebrei italiani residenti nelle colonie e all’estero263 .
Evidentemente non appagata dai dati numerici del censimento, la denuncia dell’ebreo «invisibile» supporta e alimenta la cam- pagna promossa da Interlandi e dal suo entourage contro il «pietismo» nei confronti degli ebrei, al fine di un’ulteriore radicalizzazione della legislazione antisemita italiana. Sulle colonne della «Difesa della razza», è soprattutto Umberto Angeli ad approfondire il problema degli ebrei «clandestini» e «ignari». L’aspetto fisico – afferma Angeli – è «ancora poco». Le «qualità morali» sono «più pericolose» e vi è «fior di gente che passa per ariana, il cui contegno sociale, professionale, politico, la rivela per gente ebraica al cento per cento»264. L’ebreo agisce da ebreo soprattutto «quando si nasconde» e si comporta da ebreo soprattutto «quando ignora di esserlo»: «Gli Ebrei clandestini e ignari, – scrive Angeli, – sono innumerevoli: oltre tutti quelli che gradualmente si sono infiltrati tra gli Italiani, anche sotto nomi non sospetti, oltre quelli in regola con l’anagrafe ma che ignorano la razza ebraica dei loro trisavoli, vi sono i prodotti ebraici dell’adulterio e del concubinato»265. Se gli «ebrei manifesti» sono riusciti a «dominare e sfruttare» l’Italia, osando poi «mettersi contro» il fascismo, la responsabilità maggiore ricade in realtà sugli «ebrei clandestini e ignari». Ieri antifascisti e oggi fra i «più ferventi pietisti», sono questi ultimi, secondo Angeli, i «borghesi al più alto grado»:
Durante la spedizione di Libia, la grande guerra, lo sviluppo del Fascismo, la campagna d’Etiopia, le sanzioni, la guerra di Spagna, gli Ebrei clandestini ed ignari hanno volta a volta gongolato, irriso, fatto il broncio, creato inciampi, diffamato l’Italia proprio come gli Ebrei manifesti, e peggio. Come loro essi non pensano che a far carriera e far quattrini, sono borghesi al più alto grado, sono oggi i più ferventi pietisti; avvelenano anch’essi moralmente e intellettualmente la vita italiana; non hanno entusiasmo per il Fascismo, non lo sentono e non possono sentire; non hanno per il Duce quella venerazione e quella gratitudine che solo gli Italiani di razza possono avere266 .
Dopo gli ebrei «manifesti», il fascismo dovrà, dunque, scoprire e identificare, «con debita procedura», gli ebrei «clandestini e ignari», al tempo stesso «pessimi italiani e pessimi ebrei»267 .
In quest’ottica, la «rivoluzione» fascista non è dunque terminata. Per quanto riguarda gli ebrei, non ci si deve limitare all’anagrafe, ma bisogna indagare il «carattere morale dell’individuo» e «scindere l’Italiano vero da quello falso, mettere avanti il primo, spingere indietro ed eliminare il secondo»268. Nella sua caccia agli «italiani ebraizzati e spurii», Angeli elenca i comportamenti sospetti: il bagarinaggio, l’evasione fiscale, lo scetticismo e l’ironia
160Capitolo terzo a proposito degli armamenti e della politica interna; le «resistenze, nel campo organizzativo e disciplinare, a tutte le disposizioni del Regime»269. Perfino un certo modo femminile di truccarsi può divenire l’indizio di una contaminazione in atto. Dietro «ogni nuova e stramba foggia della moda, – afferma, infatti, Angeli, rivolgendosi alle “donne fasciste”, – è un ebreo che ghigna, un nemico del vostro Paese, degli uomini delle vostre famiglie»:
Le femminucce che ora scimmiottano le dive giudiole del cinema americano, nel colpevole desiderio e nell’illusione di poterne vivere la falsa vita, quando siano anch’esse giudaiche continuino pure a truccarsi da levantine, per essere meglio riconosciute ed evitate dal maschio italiano, per fare da Sulamiti a qualche Salomone. Ma se italiane sono e vogliono apparire, favoriscano lavarsi il viso e crescere tutti i peli al naturale, mostrino i veri lineamenti del volto; quando abbiano di natura i capelli mossi a onde larghe […] non si lascino trasformare dal parrucchiere in altrettanti ricciuti Ebrei polacchi; quando non abbiano i capelli naturalmente ondulati, se li facciano magari correggere, però alla mossa ondulata italica, non a boccoli giudaici270 .
A partire da questa prospettiva, ogni misura «pietista» deve essere respinta in quanto indebolisce la politica antisemita del regime, consentendo agli ebrei di mascherarsi e di nascondersi.
Alla fine dell’agosto 1938, Interlandi, in un durissimo editoriale sul «Tevere», dichiara che soltanto un rigido criterio razziale dovrà essere considerato per definire l’ebreo. Nessun «fatto personale» consentirà di ridefinire la classificazione biologica. Anzi, l’«amico dell’ebreo» sarà considerato un «ebreo onorario»:
[…] Ed è appunto senza pietà che parliamo di questi poveri sciocchi e nemici di se stessi che si atteggiano ad amici di questo o di quell’ebreo. Il fatto personale non si farà; o, se si dovrà fare, sarà fatto al lume d’una sola considerazione ammissibile: quella razziale. Il tale è ebreo? Egli, prima d’essere questo o quello o quell’altro, è ebreo, vale a dire è d’un’altra razza: non può avere i diritti di un italiano. Su questa base ineccepibile si può ammettere il caso personale; e sarà uguale per tutti gli ebrei. Essi sono d’un’altra razza, essi non hanno radici in Italia, essi ci sono estranei, essi vivono parassitariamente sopra una pianta che non ha motivo di nutrirli. L’amico dell’ebreo si convinca di questa verità; e, se è buon fascista, si ricordi delle parole di Mussolini: «anche nella questione della razza noi tireremo diritto». In questo caso, è meglio scansarsi a tempo, perché, in un certo senso, si potrebbe non distinguere tra ebreo e amico dell’ebreo, che è un ebreo onorario; o di vocazione; o che è peggio, d’interesse271
Nessun «caso dubbio» – afferma ancora il direttore del «Tevere», agli inizi del settembre 1938 – sarà lasciato irrisolto. Al con- trario, la rigidità della legislazione antisemita del fascismo sarà proporzionale soltanto al «mimetismo» degli ebrei: «Ci vorrà della tenacia e della oculatezza; bisognerà affrontare il tipico fenomeno del mimetismo, per cui l’ebreo cerca di sfuggire alla sua responsabilità cambiando aspetto e tattica, contando di sparire all’attenzione nel trambusto ch’egli stesso causa. Ma sarà cura del Fascismo […] di non trascurare il più piccolo caso dubbio. Noi vogliamo liberare l’Italia dal parassitismo ebraico ed essere finalmente noi stessi»272 .
La definizione delle linee generali della persecuzione antisemita fascista, sancita dal Regio decreto legge del 17 novembre 1938, sembra tuttavia deludere gli ambienti dell’intransigentismo interlandiano. Ad essere criticata è innanzitutto la delimitazione dei confini giuridici della «razza ebraica»: se, infatti, la legislazione antisemita non considera «di razza ebraica colui che è nato da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, che, alla data del 1º ottobre 1938-XVI apparteneva a religione diversa da quella ebraica», per Mario de’ Bagni, invece, si deve parlare, in tal caso, di «meticci» ed è bene, pertanto, che i giovani «si guardino dalle “figlie di ebree” o “nipoti di ebree” anche se provviste di buoni cognomi nostrani e professanti in apparenza una fede diversa dall’ebraica»273. Reazioni non meno discordanti accolgono l’introduzione del provvedimento della «discriminazione»274 . Agli ebrei «benemeriti o aspiranti tali», Interlandi risponde sarcasticamente con la battuta «il sangue non è acqua»: nessuna assimilazione è ammessa, poiché «tutto ciò che è ebraico non è fascista»275. Per Gino Sottochiesa la «discriminazione» è l’ennesima «maschera dell’astuzia giudaica»: «Abilissimi sono gli ebrei in quest’arte di mascheramento esteriore, di mutamento epidermico e di camuffamento fisico che non impegna menomamente la vita interiore»276. I «presuntuosi e vanitosi discriminati», che pretendono di «dar lezioni di superfascismo e di supernazionalismo», rimangono sempre, agli occhi di Sottochiesa, ebrei «al mille per cento»:
La verità fondamentale, da ficcarsi bene in testa, è questa: il Fascismo, con le sue precise leggi razziali nei confronti con gli ebrei, ha voluto fare un’opera di separazione completa e totalitaria, anche se, per ragioni di longanima giustizia, ha contemplato il fatto di una discriminazione. Ma gli ebrei discriminati non cessano di essere ebrei: cioè individui di razza ebraica, di nazione ebraica, di religione ebraica277 .
162Capitolo terzo ancora Sottochiesa, ad esempio, a denunciare, sulla terza pagina del «Tevere», un presunto tentativo di aggirare la legislazione antisemita in ambito commerciale attraverso la costituzione di Società anonime, «sorte sulle vecchie aziende ebraiche, con nuove etichette ingenuamente e apparentemente innocue, e quasi sempre con nuovo personale, direttivo e amministrativo, ariano»278. Il «vero e insopprimibile volto giudaico» compare sempre dietro una maschera, i cui contorni sono però definiti da «gente di razza ariana», ovvero «messeri filogiudaici, che militano nelle file del Fascismo, ma che insozzano e vilipendono l’idea e la prassi politica del razzismo fascista»279. E sempre «gente falso-ariana, indelebilmente circoncisa, anziché sul prepuzio, nella malata profondità dello spirito» è, per Sottochiesa, quella che si oppone alla «bonifica libraria»280 .
Agli ebrei che indossano la maschera dell’invisibilità si affiancano ovviamente gli ariani complici e, in quanto tali, «ebraizzati».
Insieme alle «discriminazioni», le «arianizzazioni»281 sono un bersaglio ricorrente. Giuseppe Pensabene, ad esempio, nel maggio 1941, punta il dito contro i «convertiti, cioè i marrani» e contro «i falsi arianizzati, cioè i mezzi sangue». I «marrani» e i «mezzi sangue» sintetizzano, secondo il critico d’arte, la capacità mimetica degli ebrei, la loro abilità nell’individuare – al pari dei «topi» – gli interstizi all’interno dei muri legislativi antisemiti: «Tutto ciò nei secoli hanno sempre capito gli ebrei, e con l’istinto del topo che quando ha incontrato un muro non si ferma ma lo rode, lo scava e dopo che vi ha fatto un buco se ne serve come nascondiglio, hanno, col medesimo istinto, trovato anche nella legge rivolta più decisamente contro di loro sempre il buco migliore per nascondervisi»282. Proprio dai «nascosti» – afferma Pensabene – proviene sempre la rinascita dell’ebraismo dopo l’ondata di repressione; al pari delle forme microbiche, bastano infatti pochissimi soggetti sfuggiti alla persecuzione per ricostituire l’intera popolazione: «Così certi microbi s’attaccano alle radici delle piante, certi altri al cervello degli animali; e bastano perciò pochissimi per farli deperire o per paralizzarli interamente. […] Sempre dai pochi, dai dimenticati, dai nascosti, ebbero origine le riprese più terribili dell’ebraismo. Tutto sta nel come erano stati dimenticati, nel dove erano stati nascosti»283. Qualsiasi affermazione tendente a ridimensionare o negare «la realtà della questione ebraica» diviene, nella logica cospirazionista di Pensabene, un indizio della presen- za di ebrei «nascosti», aiutati da ariani «interessati» o «ingenui». Le metafore biologizzanti qui si sprecano, e l’ebreo «nascosto» si trasforma nel verme o nel serpente che si cela sotto la foglia, nella rana immobile sulla superficie dell’acqua284 .
Anche il provvedimento che consente ai cittadini ariani di mutare il proprio cognome «ebraico» al fine di evitare equivoci viene duramente criticato dalla «Difesa della razza». Cognomi «cristiani» ed «arianissimi» sarebbero stati usurpati, infatti, da ebrei in cerca di una nuova «maschera» per rendersi invisibili: «Di queste usurpazioni – furti qualificati e falsi veri e propri – incoraggiati dal liberalismo, sprezzatore e nemico dei valori del sangue, della famiglia, della tradizione – non è giusto che soffrano tanti buoni Italiani, solo perché un bel giorno qualche sfacciato ebreo ha ritenuto comodo procurarsi lo schermo di un nome rispettabile e non compromettente»285 .
Piuttosto che chiedere agli ariani di modificare un cognome che portano «da tempo immemorabile e con pieno diritto», sarebbe invece giusto – secondo il barone bresciano Monti della Corte, docente di «Storia e dottrina del fascismo» a Pavia – obbligare gli ebrei «a rendere il maltolto e a deporre la maschera di cui si son vestiti, sia riprendendo il proprio cognome primitivo, […] sia premettendo al nuovo, come parte integrante, una aggiunta che valga a caratterizzarlo. Ad esempio Israele, e pertanto: Israelbianchi, Israelrossi, Israelneri»286. Sempre a partire dai cognomi, ancora nel giugno 1941, Interlandi attacca gli «ebrei camuffati da ariani», invocando l’eliminazione degli «equivoci» in campo legislativo: «Si dirà, ora: ma che cosa pretendete in materia d’ebrei? È facile dirlo, o meglio, ripeterlo. Desideriamo la separazione legale, non la legale confusione. Non vogliamo Ajà, né Ajù, ma nettamente Ajò: vogliamo conoscere e riconoscere gli ebrei, per quello che sono, per quello che furono e per quello che saranno»287 .
Dalla denuncia del «pietismo», interpretato come uno degli espedienti messi in atto dall’ebraismo per difendersi dalla legislazione discriminatoria, alla criminalizzazione dell’intera società borghese, ritenuta ormai completamente vittima del processo di ebraizzazione, il passo, per i giornalisti antisemiti della lobby interlandiana, è breve. Del resto, per il direttore del «Tevere» – come si legge in un editoriale del novembre 1938 – il nesso fra «pietismo», borghesia antifascista ed ebraizzazione è diretto e imprescindibile:
164Capitolo terzo
Il pietismo è una manifestazione dello spirito borghese, cioè non-fascista. Il non-fascista non si dice che, avendo il Regime, per volere di Mussolini, separato dal corpo nazionale gli ebrei, la ragione è dalla parte del Regime e non da quella degli ebrei. Il borghese, nel contrasto – se contrasto vi può essere tra lo Stato degli Italiani e la Comunità degli ebrei – è portato a prender parte contro lo Stato. Il borghese vuol rendere giustizia all’ebreo, pur sapendo che l’ebreo, a lui borghese, non gli rese mai giustizia, ma lo dominò, lo rese servo, lo contaminò, in una parola lo ebraizzò288 .
I ceti medi – scrive ancora Interlandi nel settembre 1938 – sono indifferenti al «problema ebraico», perché, a differenza del «popolino» e dell’élite finanziaria, non hanno mai conosciuto, rispettivamente, l’ebreo «raccoglitore di stracci» o quello «plutocrate». Ed è questa ignoranza a renderli «ebraizzati fino al midollo»:
È una vastissima zona di ignoranza, che si definisce tolleranza e non si vergogna di sconoscere la storia del proprio paese e di essersi lasciata adulterare nel costume da una tribù di nomadi. Questi ceti assunsero a suo tempo per maestri gli ebrei, per governanti gli ebrei, per direttori di coscienza gli ebrei; ne risultarono ebraizzati fino al midollo. Ricordatevi di una sola cosa: che tutta la letteratura cosiddetta «rosea» per fanciulle fu di scrittrici ebree (Fiducia, Cordelia, Haidée, non sono che pseudonimi di scrittrici ebree); e la borghesia vi si abbeverò per trent’anni289 .
Nel primo numero della «Difesa della razza», Giuseppe Pensabene tratteggia a tinte fosche l’immagine di una borghesia italiana, al governo dell’Italia fino al 1922, moralmente, culturalmente e biologicamente «giudaizzata» e ormai predisposta ad assicurare agli ebrei «il sicuro predominio»290. Pochi giorni dopo, sulla prima pagina di «Quadrivio», Pensabene torna sull’argomento, descrivendo il ceto borghese italiano come l’albero in cui proliferano i «vermi» ebraici:
Solo attraverso la borghesia sono oggi in Italia pericolosi gli Ebrei. Per quanto circoscritta e spodestata vedono in essa il campo d’azione ancora loro accessibile. Da esso, in un secondo tempo, sperano di poter riacciuffare il resto. Si sono tracciati, insomma, una strada forzatamente diversa da quella che sono liberi di svolgere in altri paesi. In questi, attraverso i partiti e le organizzazioni, tengono schiave le masse: da noi il popolo ha per suo esponente il Fascismo, e solo nella più invecchiata borghesia rimane campo per il loro giuoco. Qui bisogna mettere l’occhio, se si vuole risolvere la cosa; e se è necessario, tagliare, come si taglia, quando l’albero è troppo invaso dai vermi291 .
All’antropologia di Georges Vacher de Lapouge si richiama, invece, Guido Landra, teorizzando, nell’agosto 1939, l’esistenza del borghese, come «tipo» morfologicamente definito, fortemente influenzato dal «giudaismo»292. Debitore nei confronti dell’approccio economico di Sombart è Armando Tosti, il quale, nel settembre 1939, istituisce l’analogia fra «ebraismo» e «regime borghese»: «la borghesia capitalistica, – si legge nell’articolo, – ha appreso proprio dal giudaismo a considerare la ricchezza come il solo elemento necessario nella vita»293 .
Ma è soprattutto nell’impostazione ideologico-politica di Massimo Lelj – responsabile del Questionario della «Difesa della razza» – che la polemica nei confronti della «società borghese ebraizzata» raggiunge le vette più elevate. In un articolo pubblicato sul «Tevere», nel settembre 1938, Lelj descrive significativamente il «cancro» ebraico come un male dello spirito che pervade tutti gli italiani e che coincide con l’essere «borghesi»:
Noi dobbiamo se mai disprezzare e odiare noi stessi, perché dagli ebrei possiamo separarci, ma difficile è separarci dal male che è in noi.
Gli ebrei erano già nella condizione in cui ora è l’Europa, lo erano sviluppatamente, trecento anni prima di Cristo, al tempo della traduzione della Torà. È una condizione interiore, nella quale noi scivolammo circa tre secoli or sono, e ci siamo tornati. È la condizione da cui nacque la rivoluzione francese e si sono formate la cultura e la borghesia. Una condizione di riflessione, un dominio del pensiero, uno stato senile. Se la nostra nazione non fosse stata colpita da questo cancro, degli ebrei non ci saremmo nemmeno accorti. Ma ora non ci facciamo distrarre dalla questione ebrea, e non cadiamo nell’errore che la questione sia soltanto ebrea. È vano togliere l’educazione nazionale, la stampa, le cose più gelose dalle mani degli ebrei, se non le togliamo da quelle dei borghesi, della cultura, dei vecchietti riflessivi294
Il Questionario della «Difesa della razza» riflette tale impostazione, inquadrandola tuttavia nella cornice di un’interpretazione più generale della storia italiana. I «borghesi» sono, infatti, i «nemici di Roma», qualunque veste essi abbiano assunto nel corso dei secoli:
Ora è certo che la borghesia si affacciò cartesiana non solo in Europa, ma alla vita d’Italia del sei e settecento, specialmente nel regno di Napoli. […] Cartesiani e giacobini e patrioti italiani diventarono successivamente carbonari, quarantottisti, sempre repubblicani francesi. Continuarono ad essere i nemici di Roma. […] Furono successivamente comunardi, egheliani, marxisti, soreliani, sindacalisti, nazionalisti. Questo si vede specialmente dopo il 1870. Questa è la storia della borghesia italiana, dal 1870 al 1915295 .
166Capitolo terzo
Poiché, dunque, la borghesia – vera e propria «armata della civilizzazione francese»296 – è la «nemica militante ed effettiva» dell’Italia297, per Lelj occorre rivedere «le bucce degli ebrei», in quanto costoro, soprattutto negli ultimi decenni del Settecento e poi ancora nel 1848 e nel 1876, hanno lavorato «per la patria francese, insieme con la borghesia e da borghesi»298. Nell’ottica di Lelj, ebrei e borghesi vanno affiancati, in quanto artefici della società moderna «mercantile», dominata dall’individualismo, dall’europeismo, dal «commercio intellettuale e materiale»:
Gli ebrei sono i più antichi veicoli d’una siffatta organizzazione, e nel medio evo, gli autori, non meno degli altri mercanti, dell’accentramento della ricchezza mobile, del dominio dell’oro. La loro stessa capacità in ogni senso commerciale li condusse al movimento europeo. Essi, non meno dei borghesi, sono gli autori della rivoluzione francese, gli autori della libertà, di quello statuto personale, non nazionale, che fa di ogni uomo un veicolo di merci e di notizie. Borghesi ed ebrei formarono lo stesso sistema299
Il sillogismo antisemita di Lelj e del Questionario della «Difesa della razza» ha una logica ferrea, costantemente ribadita: i borghesi sono i nemici del «genio della nazione» e «la società borghese è il regno degli ebrei e il campo di attrazione di ebrei e borghesi»300. Antisemitismo e antiborghesia finiscono, dunque, per coincidere: «Non perdiamo tempo, – esorta Lelj, – disarmiamo i borghesi»301 .
6. La «guerra giudaica» e la giustificazione dello sterminio.
Lo scoppio della seconda Guerra mondiale conduce alle estreme conseguenze teoriche l’antisemitismo cospirazionista della «Difesa della razza». La generica interpretazione razzizzante del conflitto in corso302 culmina, infatti, sul piano dell’immaginario antisemita, in una «narrativa di guerra»303 alimentata dalla tesi del «complotto ebraico». Da un lato, la responsabilità dello scoppio del secondo conflitto mondiale, attraverso un paradossale rovesciamento delle nozioni di causa ed effetto, viene attribuita alla volontà di dominio dell’ebraismo internazionale, preannunciata dai Protocolli dei Savi Anziani di Sion; dall’altro, la distruzione dell’ebraismo viene presentata come la conseguenza «necessaria» di un conflitto epocale tra Noi e Loro. La seconda Guerra mondiale e la «soluzione del problema ebraico» non sono raffigurati, dunque, co- me due fenomeni distinti, ma s’identificano in un’unica apocalittica battaglia, in cui la distruzione dell’ebraismo appare come la conseguenza normale di una logica di guerra 304. Il conflitto in corso consente, in sostanza, di politicizzare l’immaginario antisemita della «guerra giudaica», traducendolo in una «cascata di profezie autoavverantesi»305: l’Ebreo non è più soltanto un nemico razziale, ma è un soggetto politico razzialmente definito e con un ruolo decisivo nello svolgimento degli eventi bellici.
Il precipitare della crisi europea verso il secondo conflitto mondiale viene letto da Interlandi, fin dal settembre 1938, come il frutto del «calcolo giudaico»: «Sta diffondendosi la certezza, – scrive il direttore del “Tevere”, – che c’è qualcuno che vuole la guerra. La vuole oggi perché pensa che è meglio farla subito che non domani; la vuole perché pensa che un momento così favorevole non si ripresenterà facilmente. Chi è questo qualcuno? […] contro il Nazismo e contro il Fascismo; è l’avversione massonica; è il calcolo giudaico»306. Anche secondo Carlo Barduzzi, l’«assalto» delle «giudeo-democrazie» contro «l’umana e serena grandezza degli Stati che rivendicano la loro arianità» si nutre del secolare sistema mitologico del «messianismo giudaico»307. Ed è sempre Barduzzi, sulle pagine del «Tevere», a pochi giorni dallo scoppio della guerra, a puntare il dito contro il «giudaismo», individuato come l’unico responsabile dell’esplosione bellica: «Chi ha spinto la Polonia verso il suicidio? Chi ha fuorviato a tal segno il governo polacco da fargli incredibilmente obliare la costruttiva politica di Pilzudsky? Il giudaismo. La mano che ha vibrato quest’altro colpo alle spalle della civiltà è mano giudaica»308. «Freneticamente sobillato» dal «giudaismo locale», padrone dell’economia, del commercio e della stampa, il governo polacco «ha perso la testa», pensando di poter competere «in grandezza» con la Germania309 .
E in soccorso della Polonia si sono aggiunte anche la Francia e la Gran Bretagna, sollecitate dai partiti d’opposizione «notoriamente al servizio di interessi giudaici»: così «tre popoli si sono lanciati in una immane catastrofe, sospintivi da una razza infernale»310 .
Il «nemico n. 1»311 – dichiara Antonio Trizzino sul «Tevere» – è «l’ebreo». Il «siluramento» del «giudeo» Hore-Belisha dalla carica di ministro della Guerra inglese e la sproporzionata presenza ebraica nei giornali e nei consigli d’amministrazione dei gruppi bancari francesi non sarebbero altro che la riprova di oscure ma-
168Capitolo terzo novre «giudaiche» finalizzate a trarre profitto dalla guerra312. Sempre nel gennaio 1940, lo stesso Trizzino, questa volta sulle pagine della «Difesa della razza», interpreta l’intera carriera politica dell’«ebreo marocchino» Belisha come un mero prodotto della definitiva ebraizzazione dell’Inghilterra, del suo «utilitarismo» e del suo «mercantilismo»313. Nel marzo 1940, Interlandi riferisce di «una solenne seduta» parigina di «ebrei e massoni di Francia e d’Inghilterra», in cui sarebbe stata dichiarata guerra – «aperta» e «occulta» – all’Italia fascista. Nessuno stupore, nel direttore del «Tevere», circa l’intenzione mostrata dal «giudaismo internazionale» di voler «regolare i conti» con il fascismo:
In verità, era tempo. Era tempo che gli ebrei si ricordassero dell’Italia. Quando essi vomitano fuoco contro i regimi totalitari, o contro gli stati razzisti, o contro l’intolleranza fascista, il bersaglio non è limitato alla Germania, contiene anche l’Italia. Peggio: ha l’Italia al suo centro. Perché, se leggete con attenzione i fogli giudaici […] voi vedete che all’origine dell’odio giudaico c’è l’Italia, la quale ha iniziato in Europa la riscossa antidemocratica. Democrazia, tutti lo sanno, significa massoneria e massoneria giudaismo e giudaismo internazionale314 .
Per Interlandi, soltanto «gli ebrei» e la Gran Bretagna, a sua volta egemonizzata dalla «plutocrazia giudaica», hanno effettivamente compreso la portata generale del conflitto in corso. Lo dimostrerebbe, ad esempio, il passaggio della direzione politica della guerra in Francia da Daladier a Reynaud, «agente britannico»: «Forse soltanto gli ebrei, – commenta Interlandi, – hanno capito perfettamente la portata dell’alleanza italo-tedesca, e ne hanno pianto; forse anche ha capito qualche inglese. Gli inglesi del tipo Eden, vale a dire i rappresentanti e gli agenti della plutocrazia giudaica, quelli che volevano annientare l’Italia prima che l’Intesa con la Germania fosse un elemento attivo; costoro hanno capito»315 .
Il 9 giugno 1940, sulla terza pagina di «Quadrivio», Gino Sottochiesa profetizza la «fine ingloriosa e definitiva della schiatta giudaica degli impunibili, colpevoli dei peccati dei governanti e dei popoli deboli»316. Il sangue versato sui campi di battaglia, come quello del Cristo, ricadrà inesorabilmente sulla «razza giudaica», responsabile «di tutti i mali e di tutte le ingiustizie che oggi affliggono il mondo delle nazioni»: «La stessa guerra, scatenatasi per volontà delle grandi democrazie giudaico-massoniche proprio nei più filogiudaici settori dell’occidente europeo, è frutto e conse- guenza dell’Ebraismo, il quale dovrà scontare tutto il male rovesciato dalla sua perfidia sulla civiltà europea, vittima dei suoi maneggi e della sua azione dissolvitrice». L’ingresso dell’Italia nel conflitto viene immediatamente interpretato, tanto sulle pagine del «Tevere» quanto su quelle della «Difesa della razza», come la legittima reazione «popolare» contro la «borghesia internazionale» giudaica, incarnata da Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Queste sono le argomentazioni di Interlandi nel suo editoriale sul «Tevere»:
Una intesa di borghesia internazionale, modellata dalla forza di corruzione del giudaismo, fu travolta dalla fondamentale avversione popolare, provocata dall’istinto vitale offeso. Questa guerra è dunque popolare più di qualsiasi altra, perché i motivi vitali di essa agiscono sull’immaginazione d’ognuno e di tutti e ne chiariscono la straordinaria portata317
E di «guerra popolare» contro il «sistema» della «borghesia internazionale», quello della «banca» e della «sinagoga», parla anche Giuseppe Pensabene sulla «Difesa della Razza»:
La guerra che oggi si combatte non è una guerra tra popoli. È la rivoluzione di due popoli: l’italiano e il germanico, che, per la prima volta, hanno voluto sottrarsi al sistema. Hanno incontrato perciò l’opposizione della Francia, dell’Inghilterra e dell’America, appunto perché del sistema, sono i maggiori sostegni. È la prima lotta decisiva contro l’accaparramento mondiale; operato, fino ad oggi, da quei tre paesi, i quali, per di più hanno sempre agito nell’esclusivo interesse della borghesia e degli ebrei318 .
La «preminenza ebraica su tutti i paesi» – afferma lo stesso Pensabene, citando strumentalmente la Jüdische Weltrundschau di Gerusalemme – è «il vero movente della guerra»319. Al centro dell’intera vicenda bellica, vi è esclusivamente la «questione giudaica»: «La testa del mostro che si deve abbattere è la testa del giudaismo. Il nemico più pernicioso è l’ebreo. Indulgere all’ebreo è da folli; ignorare l’ebreo è da sciocchi; favorire l’ebreo è da felloni»320. Il «senso della guerra» – afferma ancora Interlandi, commentando un discorso di Hitler al Reichstag – risiede nella «libidine di dominio» degli ebrei:
Ebraica è stata la politica inglese di divisione e di soggezione dei popoli europei. Ebraica è stata la politica di suicidio che molte nazioni dell’Europa hanno svolto al servizio della politica inglese. Ebraico è stato il volto della rivoluzione bolscevica. Ebraica è stata l’azione corruttrice e provocatoria degli Stati Uniti. Ebraico lo spesso velo di incoscienza che è caduto sugli occhi dei governanti sedicenti democratici quando l’ora del redde rationem è suonata321 .
170Capitolo terzo
La «causa degli ebrei» s’identifica a tal punto con quella delle «plutocrazie» da rendere quasi trasparente l’obiettivo della «vendetta giudaica», il quale finisce così per affiorare, al di là del suo carattere occulto, nelle parole della politica: «L’idea che finalmente la grande vendetta giudaica sia per essere compiuta, e il dominio del “popolo eletto” stia per affermarsi sul mondo, circola, nel campo avversario, liberamente; e muove dai ghetti per ritornarvi, come un messaggio satanico, dopo aver trovato solenne conferma nelle manifestazioni ufficiali dei governi responsabili»322. «Traditori» e «infidi» per natura, gli ebrei – scrive Giorgio Piceno sulla «Difesa della razza» – «puntano decisamente sulla sconfitta dell’Asse»: hanno fatto «gli agenti provocatori in tutti i luoghi dove covava un focolare minacciante la guerra»323
La denuncia della «guerra giudaica» in corso, nella quale «gli ebrei hanno una buona parte dietro la schiena dei combattenti»324 , innesca, nell’immaginario antisemita della rivista interlandiana, un processo di progressiva ebreizzazione del nemico politico e militare. Se l’identificazione tra comunisti sovietici ed ebrei è così strutturale e automatica nella logica cospirazionista da non richiedere particolari approfondimenti, contro la Gran Bretagna e gli Stati Uniti si concentrano, invece, gli strali del gruppo di Interlandi. Su «Quadrivio», nell’agosto 1940, Gino Sottochiesa elabora la categoria degli «anglo-ebrei»: «Nessuno dubbio: proprio così. Nessuno dubbio che tutti gli inglesi, non uno escluso, non sono come noi dei Gentili, cioè degli Ariani, ma sibbene una sotto-razza semitica, figliastri di gente ebrea emigrata nelle isole britanniche nell’epoca dei primi Sassoni»325. E due mesi dopo, sempre sulle pagine del settimanale, il pubblicista cattolico accomuna nuovamente anglosassoni ed ebrei, questa volta sotto l’insegna della comune venerazione capitalistica del «Vitello d’Oro»326. Secondo Interlandi, Israele e Inghilterra sostanzialmente coincidono: i Sassoni sono i figli di Isacco (Isacson, sacson, sassone); le Isole Britanniche derivano dalle ebraiche «isole dello stagno», barat-anak; Nathan Rotschild e Benjamin Disraeli sono soltanto l’espressione più evidente della «quasi totale ebraizzazione della nazione britannica»327. L’Inghilterra – scrive ancora il direttore del «Tevere» – è una «feudalità giudaica», che «ha coagulato intorno a sé tutte le forze retrive del vecchio mondo; e in prima linea gli ebrei»328. In Gran Bretagna «pirati ed ebrei» si sono «intimamente mischiati» per creare
«la forma di civiltà più repugnante alla morale cristiana, perché fondata sulla strage, sullo sterminio, sul furto, sul dissanguamento di intere nazioni, sul disconoscimento d’ogni diritto che non sia quello del più ricco»329. Da Cromwell in poi – si legge sulla «Difesa della razza», nell’agosto 1942 – gli ebrei sono i «veri padroni d’Albione»330. Per Franco Catalano non c’è da meravigliarsi «se con tanto accanimento gli ebrei proclamano continuamente la loro solidarietà con l’Inghilterra»: l’Antico Testamento costituisce, infatti, il fondamento dell’«alleanza anglo-giudaica basata sul concetto di “popolo eletto”, sul comune modo di pensare capitalistico e sulla pretesa al dominio del mondo»331. Pochi mesi dopo, il quindicinale offre un lungo elenco dei ministri, segretari di Stato e diplomatici britannici «ebrei o imparentati con ebrei» al fine di dimostrare «fino a che punto gli ebrei sono riusciti a dominare e a dirigere gli affari di stato britannici e ad imporsi nel campo della diplomazia britannica»332. L’intero servizio segreto inglese – scrive Giuseppe Pensabene sulla «Difesa della razza» – è nelle mani degli ebrei333. Non è il Parlamento che governa l’Inghilterra – si legge su «Quadrivio» nel luglio 1941 – ma una «nuova nobiltà: la giudaica, che ha assunto il controllo di tutto l’Impero sacrificando al suo egoistico interesse il diritto dei cittadini»334. Combattere contro la «nazione inglese» vuol dire, dunque, «abbattere l’ultima roccaforte ebraica in Europa»335 .
Churchill e Roosevelt sono ovviamente i «capi delle grandi consorterie massoniche e giudaiche»336. Il primo – si legge sulla «Difesa della razza» – è un «agente del giudaismo», e il suo antifascismo ne è la conferma: «Fra lui e gli ebrei è come se esistesse un tacito accordo di aiutarsi reciprocamente per i comuni interessi in tutte le contingenze»337. «Il Tevere» si spinge, se possibile, ancora oltre, proponendo un’indagine antropologica della «razza di Churchill»:
Dal punto di vista antropologico, Winston Churchill potrebbe essere un falico nel quale emergono come rigurgiti di fondo alcune delle ferocie preistoriche del cromagnoide massiccio e pesante. È infatti un brachicefalo, ha gli zigomi pronunciati, capelli ed occhi chiari, collo taurino e breve, viso largo, osso frontale tanto ingrossato da infossare gli occhi, naso largo e breve la cui rincagnatura è una nota degenerativa del tipo per costituzionale indebolimento delle cartilagini, bocca a labbra sottili e rientranti, movimenti corporei impacciati, tendenza a rimanere nello stato di riposo con le gambe divaricate338
Nei tratti fisiognomici di Churchill si noterebbe, in sostanza, «un ebraicismo, che deriva da precisi vincoli familiari, per cui l’at-
172Capitolo terzo mosfera giudaica ha potuto impregnarlo, e da una certa orientazione antropica che talvolta plasma i corpi in modo da divenire facile ricetto agli stati di animo e di mente tipici al giudeo»339. E qualora non bastassero i caratteri antropologici e i «sicuri legami di parentela con giudei», a tradire la vera natura del primo ministro inglese è comunque la sua «profonda giudeofilia», espressa soprattutto da un linguaggio che riprende lo stile «apocalittico e carnale dei falsi profeti d’Israele»340. Al fianco di Churchill, è Roosevelt –già denunciato da Interlandi fin dal novembre 1938, sulla scorta degli scritti antisemiti di Ford341 – il «patrono» del conflitto e di fatto sua è, secondo Interlandi, la responsabilità di una guerra planetaria, «nella quale l’oligarchia giudaica degli Stati Uniti» può trovare «a spese dell’umanità, le condizioni del suo definitivo trionfo»: «Egli agiva per sé e per i suoi consiglieri giudei: strumento e protagonista, a un tempo, d’una vendetta di razza lungamente covata nei ghetti d’Europa. Si può esser certi che lo storico futuro assegnerà la responsabilità dell’assurda guerra per Danzica proprio al clan della Casa Bianca […]»342 .
Un «cordone ombelicale giudaico» lega evidentemente i «pirati inglesi» ai «gangsters americani»343. Gli otto punti della Carta Atlantica, scaturiti dall’incontro fra Churchill e Roosevelt sull’incrociatore Potomac – a bordo del quale, ironizza Interlandi, mancava soltanto un «bel rabbino»344 – annunciano il piano di «sfruttamento» dell’umanità perseguito dal «giudaismo internazionale», dagli «ebrei e bastardi di ebrei, che l’insaziata avidità e il terrore sostentano nella orrenda manovra»345. Allo stesso modo, l’ingresso degli Stati Uniti in guerra, nel dicembre 1941, è la «preordinata effettuazione di una manovra ebraica»346 e dimostra chiaramente che il «Quartier generale della Plutocrazia sfruttatrice» si è ormai spostato da Londra a Washington:
Prima sull’America del Sud, secondo l’immagine gastronomica del prosciutto destinato al Nord; poi sull’Europa in genere, approfittando del collasso del dopoguerra; poi sull’Inghilterra, per ereditarne le posizioni imperiali; poi sulla Cina, per sfruttarne l’incapacità organizzativa; su ogni contrada che le suggerisse una profittevole manomissione, la banda plutoebraica mise, se non le mani, gli occhi.347 .
Discendente da una stirpe di «schiavisti ebrei delle isole Antille», Roosevelt – scrive Von Leers sulla «Difesa della Razza», in un numero speciale dedicato agli Stati Uniti – ha assoldato una
«cricca di giudei» allo scopo di assassinare tutti gli oppositori della sua politica interventista348. In virtù del suo «proverbiale camaleontismo» – afferma Felice Graziani sulla «Difesa della razza» –l’ebreo è riuscito ad «insediarsi in ogni branca vitale dell’organismo statale, politico, industriale e finanziario» degli Stati Uniti349
L’intero «stato maggiore» del presidente americano – scrive ancora Interlandi nel 1941 – non è che un «trust di cervelli ebraici»350. Non è forse l’ebreo Solomon Bloom a capo della Commissione per gli Affari Esteri statunitense?351. Nessuno deve, dunque, meravigliarsi dell’«alleanza di guerra» che unisce Stati Uniti e Unione Sovietica, Roosevelt e Litvinov: il «tramite» è sempre, dichiaratamente, il «giudaismo internazionale»352 .
Dall’ebreizzazione del nemico politico e dalla denuncia cospirazionista della guerra in corso come «guerra giudaica» scaturisce il modello di «soluzione del problema ebraico» proposto dalla «Difesa della razza». Più le dinamiche del conflitto allontanano la prospettiva di un’eventuale vittoria dell’Asse, più la denuncia del nemico interno diviene ossessiva e pressante nel discorso del gruppo interlandiano: chiunque dia prova di atteggiamenti «filo-giudaici» deve essere considerato un traditore, e va punito come tale.
Paradigmatici appaiono, in tal senso, gli articoli di Umberto Angeli pubblicati sulla «Difesa della razza». Al fine di potenziare la legislazione antisemita in vigore, il giornalista suggerisce, infatti, nel gennaio 1941, l’introduzione di una nuova scienza – ribattezzata «Judeoscopia» – il cui obiettivo sarà fornire «ben allineati e ordinati i criteri di valutazione del suddito italiano, per creare facilmente e con assoluta evidenza, per ognuno di noi, il cartellino segnaletico sul quale si possa leggere di colpo chi è giudeo e chi, senza esserlo dal punto di vista anagrafico e giuridico, lo è di fatto»353. Una volta definito l’ebraismo in termini psicologici e comportamentali, il compito dell’antisemita consiste, dunque, nel colpire tutti quegli italiani che – nell’agricoltura, nel commercio, nell’industria, nelle scienze, nella politica, nella scuola – rivelano «il carattere e l’abito dei giudei autentici»354. Nel contesto di una guerra che «i giudei hanno voluto», smascherare coloro che «all’aspetto, risultano italiani, ma giudei sono di anima e di spirito», costituisce un obiettivo politico fondamentale ai fini della definitiva «epurazione della lebbra giudaica»: «un risentimento unanime, cosciente, del popolo italiano contro questi anonimi,– scrive Angeli
174Capitolo terzo nel giugno 1942, – sarebbe salutare»355. Le preoccupazioni espresse da Interlandi sulla presenza di un nemico interno non sono certo inferiori alle ansie «giudeoscopiche» di Angeli. Un editoriale del maggio 1943, pubblicato sia sul «Tevere» sia sulla «Difesa della razza», appare estremamente esplicito a questo proposito:
I giudei vivono, commerciano, prosperano, mormorano, malignano, non vanno alla guerra, violano le leggi, si infischiano del servizio del lavoro, tramano contro l’Italia, pregano per l’Inghilterra, fanno le spie, i disfattisti, gli allarmisti, i calunniatori, i trafficatori di valuta e di oggetti preziosi, minacciano, insidiano, congiurano. Gli ebrei fanno questo ed altro, e ancora il loro sporco quartiere non è stato cosparso di liquido insetticida. […] Quale dunque sarebbe il movente per un «pietismo» filo-giudaico? Non si vede; non può trattarsi che di affinità elettive, di simpatie fra canaglie. La nostra domanda iniziale, se è lecito essere filo-giudei, non ha bisogno di risposta356
A giugno, la denuncia interlandiana ritorna in toni più aggressivi e drammatici. Le leggi razziali non sono state sufficienti; la società e la burocrazia italiane sono ancora ebraizzate, il «nemico interno» è ancora ben attivo, lo «spirito rivoluzionario» del fascismo gira a vuoto:
La Massoneria fu sciolta e bandita dalle leggi fasciste; l’ebraismo ridotto a una tribù estranea all’Italia e vigilata. Dunque, noi dobbiamo e possiamo documentare l’identità tra il nemico esterno e l’ex-nemico interno; perché il nemico interno è ex, vale a dire ha subito la sorte che si meritava, quella stessa che merita e che avrà il suo complice esterno. Non è così? Non abbiamo ripetuto fino alla nausea che la sconfitta dell’antifascismo interno fu l’anticipazione della più grande sconfitta da infliggere all’antifascismo da fuori? Questa è la logica rivoluzionaria; ma gira a vuoto.
Non avete sentito che ebrei sono stati arianizzati in camera charitatis, per aver detto che la mamma s’era, una notte, sbagliata di prepuzio? Non avete visto ebrei, con tanto di nome da ghetto, esibire imperterriti per i salotti e i marciapiedi la divisa dell’Esercito italiano, cioè del nostro esercito e non del loro? Non avete sentito di Tizio che ha l’amante ebrea e di Caio che non parla di politica con gli ebrei, ma li stima assai? Non vi hanno detto che uomini strepitosamente ricchi, il cui nome figura nell’elenco delle 200 famiglie plutocratiche che governavano l’Europa, sposano impunemente delle ebree straniere, legittimano figliuoli mezzo-sangue, consolidano dunque per l’avvenire la dittatura del denaro in mani ebraiche? Non avete sentito nulla di tutto questo?357
Se, dunque, da un lato, l’ebreo deve essere privato formalmente di qualsiasi riferimento alla cittadinanza italiana ed essere di-
Contra Judaeos: antisemitismo e cospirazionismo175 chiarato soltanto «abitante» in Italia358, dall’altro lato la guerra contro il nemico interno deve essere spietata.
Non a caso l’accusa di «disfattismo» diviene – nelle pagine del «Tevere» e della «Difesa della razza» – l’arma principale puntata contro l’intera società italiana, vittima di una progressiva ebreizzazione. Si è visto come «La Difesa della razza» avesse già dedicato, nel novembre 1938, numerosi articoli alla descrizione degli ebrei come «razza di disfattisti». Nel febbraio 1939, è Carlo Barduzzi a individuare nel «pessimismo» e nello «scetticismo» ebraici le radici psicologico-razziali del «disfattismo»359. Nell’agosto 1940, dopo l’ingresso in guerra dell’Italia, Gino Sottochiesa alza il tiro: a essere stigmatizzato è il «pessimismo del tempo di guerra», assimilato ad un «morbo ebraico disfattista», capace di contagiare i «filoebrei», nel cui spirito alberga «la nostalgia del perduto dominio e della debellata demagogia liberal-democratica»360 . «Occhio ai disfattisti» è il monito di Interlandi, nel novembre 1942, e il «disfattismo» consiste nel considerare «incivile» il ricorso alla violenza contro gli ebrei:
L’ebreo va al caffè, a teatro, al cinema, traffica, chiacchiera, mormora, irride; ma che fare? Si possono bastonare gli ebrei sulla strada? Ohibò; non sarebbe civile. Civile è invece lasciarsi beffare dall’ebreo, subirne la provocazione, assistere alla sua quotidiana pacifica digestione di parassita. Vedere un ebreo comodamente a sedere in un autobus strapieno e non gettarlo dal finestrino per offrire il suo posto a una vecchia che non si regge in piedi, è prova di civiltà361
L’«odio verso il nemico» – dichiara Interlandi, nel marzo 1943, in un suo progetto di trasmissioni radiofoniche sulla guerra – è un sintomo di purezza «razziale»:
Sulla necessità di odiare profondamente il nemico. Prenderei occasione dalla imminente commemorazione dei Vespri, per rievocare il dimenticato particolare di Sperlinga, piccolo borgo che solo si rifiutò d’ammazzare i Francesi. Ebbene, quel borgo non era razzialmente siciliano, è una colonia estranea alla Sicilia, addirittura con un parlare non siciliano. Perciò, concluderei, chi non odia profondamente non è razzialmente a posto. Il vero Italiano sa odiare il nemico, e lo odia senza che gli sia comandato362
Tra il 1942 e il 1943, Interlandi alimenta provocatoriamente alcuni casi giornalistici con il preciso intento di denunciare un «fronte interno», che appare sempre più ebreizzato. Nel gennaio 1942, sono i giornalisti – e in particolare i responsabili delle cro-
176Capitolo terzo nache teatrali – al centro del mirino interlandiano, per la loro colpevole e disonorante «neutralità» in materia «antigiudaica»363. A settembre, il caso dell’«ebreo» Tullio Spizzichino, colpevole di essersi difeso in tribunale dall’accusa di aver falsificato la tessera del tram, offre al direttore del «Tevere» il pretesto per dimostrare l’indifferenza della società italiana di fronte al «segreto giuoco dell’ebraismo»:
Quali giudici (ariani) si sono prestati a dar solennità di trattazione giuridica suprema al caso Spizzichino, falsificatore di tessere? E quali avvocati (ebrei?) hanno fatto riecheggiare per le solenni aule del Palazzo di Giustizia il lamento di Spizzichino, cui si contestava il diritto di far carte false? […] Nessuno ha chiesto se dietro il povero Spizzichino che vuole viaggiare senza spese, non ci sia una solidarietà giudaica, una specie di gratuito patrocinio giudaico; e, anche, il disegno di crear precedenti giuridici in materia di reati compiuti da ebrei, essendo in vigore una legislazione particolare per gli ebrei364 .
Nel luglio 1943, alla vigilia del crollo del regime, le invettive cospirazioniste di Interlandi raggiungono paradossalmente l’apice e si concentrano, in particolare, sull’«infiltrazione ebraica» nella gestione italiana della guerra. Nell’articolo intitolato Setta e razza, Interlandi lancia il sospetto che dei «mezzo-sangue» si trovino fra gli «elementi direttivi» dell’Amministrazione della guerra365. Di fronte a quella che definisce come una «pseudoazione moralizzatrice», il gabinetto del ministero della Guerra reagisce, chiedendo al ministro della Cultura Popolare «provvedimenti esemplari» contro il direttore del «Tevere», prima di «procedere alla denuncia dello stesso al tribunale militare di guerra»366 .
Sempre legato al clima bellico e alla debolezza del fronte interno è anche il «caso Cramer», le cui dinamiche meritano di essere approfondite, poiché forniscono un esempio rilevante della macchina persecutoria innescata da Interlandi contro l’ebreo «disfattista» e «traditore». In un editoriale dal titolo Nessun occhio guarda questo volto, apparso sul «Tevere» del 7-8 luglio 1943, nel mirino del direttore del quotidiano incappa l’annunciatore del bollettino di guerra dell’eiar, Vittorio Cramer. La fotografia del giornalista, pubblicata insieme all’editoriale, è un libro aperto per lo sguardo antisemita di Interlandi: «Capelli, occhi, naso, labbra, tutti i più facilmente riconoscibili caratteri somatici dell’ebreo, sono collocati al loro posto – in questa facies – con una cura e una fedeltà meticolosa, quasi si fosse trattato di stabilire un prototipo, di of-
Contra Judaeos: antisemitismo e cospirazionismo177 frire un esemplare razziale da manuale d’antropologia»367. Per il direttore del «Tevere», non solo è inammissibile che a celebrare il «rito» del bollettino di guerra non sia un esponente «della nostra razza al mille per mille». Se poi la «voce stessa della Patria» coincide con quella di un ebreo, la possibilità del tradimento è ben più che un sospetto: «In una parola, e molto brusca: chi mi assicura che attraverso l’etere non si faccia del tradimento? Occorre avere il coraggio di parlar chiaro; e in questo foglio si parla chiaro da sempre. Un cifrario può esser fatto anche di pause; cioè, apparentemente, di nulla»368. Nella stessa giornata del 7 luglio, Giancarlo Vallauri, presidente dell’eiar, protesta all’indirizzo del ministro della Cultura Popolare, Gaetano Polverelli. Oltre ad avere «i nonni sia paterni che materni battezzati e cattolici», Cramer è capo nucleo del gruppo Ugo Pepe del pnf. Il «deprecato articolo» di Interlandi, dunque, non solo contribuisce a fornire «alla propaganda nemica dei motivi per mettere in dubbio la coesione e l’unità» del popolo italiano, ma offende «l’opera stessa del Ministero della Cultura Popolare e lo stesso Partito che consentirebbe l’appartenenza abusiva di un ebreo al Partito stesso». In conclusione, Vallauri chiede a Polverelli quali «misure» il ministero della Cultura Popolare intenda adottare nei confronti del «Tevere» e «a tutela del buon nome» dell’eiar369. Alla richiesta di precisazioni proveniente da Fernando Mezzasoma, direttore generale per il servizio della Stampa italiana, Interlandi risponde attaccando e rivendicando il suo ruolo di patriota:
L’intervento d’un patriotta come me serve appunto a correggere l’impressione disastrosa che in Italia e all’Estero può insorgere – ed è insorta –in conseguenza della scandalosa divulgazione della identità razziale di colui al quale è affidato il delicato incarico di trasmettere il Bollettino di guerra. Non a me le tue considerazioni andavano indirizzate, sibbene ai dirigenti dell’eiar, che non hanno scuse al loro operato370
A supportare le accuse di Interlandi interviene, l’8 luglio, l’Ufficio Razza di Alberto Luchini, il quale dichiara di aver già preso contatto, per il tramite del prefetto di Trieste Tullio Tamburini, coi «dirigenti del Centro triestino per lo studio del problema ebraico», al fine di raccogliere informazioni sul conto di Vittorio Cramer. Il punto di vista di Luchini emerge, tuttavia, chiaramente dalla seconda parte della lettera, orientata a dipingere l’eiar come un covo di «ebrei o mezzi ebrei, più o meno arianizzati o discriminati»:
178Capitolo terzo
Il sottoscritto, fino da quando era Ispettore Generale per la Radiodiffusione e la Televisione l’Ecc. Pession, offrì, anche attraverso una visita personale, la collaborazione dell’Ufficio Razza a codesto importante servizio del Ministero. Come in altri casi, per altro non relativi al nostro Ministero, codesta auspicata collaborazione non si è mai tradotta in realtà. Sussistono motivi per ritenere che non fosse gradita.
Il sottoscritto non dimentica che, per fare eseguire la radiosintesi Giuda alla sbarra, occorsero mesi e mesi e mesi di pratiche laboriose. E che, all’e.i.a.r., perché si accorgessero che Waldteufel era un ebreo, occorse un appunto speciale di quest’Ufficio, consecutivo ad un attacco della Vita Italiana371 .
Il rapporto del prefetto Tamburini arriva il 9 luglio ed è decisivo nella risoluzione della vicenda. Per quanto, agli atti anagrafici, Cramer risulti un «ariano cattolico», sulla sua vita si proiettano, infatti, ombre e sospetti. Nel dicembre 1936 si è sposato con Hedwig Betty Crsellitzer, di «razza ebraica». Capomanipolo, nel 1927, dell’Avanguardia Giovanile Fascista e successivamente della mvsn, Cramer non gode tuttavia di buona fama, poiché ha tentato, a dodici anni, di suicidarsi sparandosi un colpo di pistola alla tempia destra, restandone «alquanto scosso nella facoltà mentale». Nel 1930, Cramer è stato inoltre radiato dal pnf e dalla mvsn a causa della «cattiva condotta morale della sorella», la quale, sposata «ad un funzionario del Lloyd triestino, residente in Alessandria di Egitto», conduce a Trieste «vita piuttosto galante». Due anni dopo, con l’amnistia legata al decennale della marcia su Roma, viene riammesso nel partito ma non nella milizia, in quanto giudicato un «neuropatico» e un «esaltato»372. È questa relazione – compilata, come si è visto, grazie alle informazioni fornite dal Centro per lo Studio del problema ebraico di Trieste – a tradurre in pratica l’offensiva persecutoria avviata dal «Tevere»: il 14 luglio, a distanza di una sola settimana dall’articolo di Interlandi, Cramer viene espulso dal pnf per «motivi di carattere privato, indipendenti dalla questione razziale» e licenziato dall’eiar373 .
La costruzione dell’ebreo non solo come pericolo razziale, ma come nemico politico-ideologico razzialmente definito è la premessa teorica di una logica di razzizzazione nella quale violenza, pogrom, annientamento appaiono misure necessarie in un’escalation giustificata dalla situazione bellica in corso. Provocata dal «vampirismo giudaico», al pari della prima Guerra mondiale, la seconda conflagrazione bellica sintetizza fin dal settembre 1939, nel di- scorso di Carlo Barduzzi, la speranza millenaristica di una rigenerazione salvifica dell’Europa, di una purificazione dalla «piaga giudaica», e, al tempo stesso, l’immagine chirurgica di un’operazione medica, che libererà il mondo dalla «cisti giudaica» e dai suoi «pestiferi bacilli»:
Con la guerra milioni di uomini vanno incontro alla morte e ad irreparabili sofferenze, ma poiché il mondo sortirà mondo dalla piaga giudaica, avrà con ciò allontanato per sempre l’origine prima delle sue sciagure e ne conseguirà sicuramente un periodo di operosa e serena tranquillità. La cisti giudaica che è esplosa con la Rivoluzione Francese dopo secoli che era come incapsulata ed ha sparso per tutto l’orbe i suoi pestiferi bacilli, sarà curata alla radice dalla grande operazione chirurgica della guerra. […] La nuova pace sarà edificata sulle rovine del mondo giudaico vero responsabile di così immani catastrofi374 domanda Johann von Leers sulle pagine della «Difesa della razza», nel dicembre 1939. E a fornire la risposta sono gli stessi Protocolli dei Savi di Sion: dietro «le marionette della grande politica», si cela la solita mano, quella di «Satana stesso: Israele». Ma questa volta, la nuova offensiva «giudaica» dovrà essere espiata con la morte375. Al momento dell’ingresso dell’Italia nel conflitto, nel giugno 1940, è di nuovo Barduzzi a dichiarare, sulla «Difesa della razza», che la guerra porterà all’«eliminazione radicale degli influssi semitici in Europa»376. Alcuni mesi dopo, in un articolo dedicato al «problema ebraico» in Romania, Berlindo Giannetti affianca alla tradizionale giustificazione dell’antiebraismo come «legittima difesa» di fronte all’«attacco non provocato» degli ebrei, l’identificazione fra ebreo e «nemico di guerra». L’ebraismo, legato per «essenza» e «per istinto» alla democrazia e al comunismo, si trova necessariamente «dall’altra parte della barricata» rispetto alle forze dell’Asse: «Da per tutto, sotto qualsiasi imperio e in qualsiasi regione, – scrive Landra sulla “Difesa della razza”, – gli ebrei perseguono ideali, finalità, programmi economico-politico-sociali in netto contrasto coll’etica e la politica del Fascismo. Inoltre la nostra politica islamica, la lotta per l’autarchia, l’amicizia per la Germania e il Giappone, non potranno non mettere gli ebrei dall’altra parte della barricata»377. «L’odio secolare di razza» degli ebrei e il loro «spirito aggressivo di conquista» rivelano, inoltre, la fallacia di qualsiasi tentativo di risoluzione pacifica del con-
180Capitolo terzo flitto. Presto o tardi – sentenzia Giannetti – «tutti i popoli si metteranno sulla stessa strada» e allora «gli eccessi saranno inevitabili»378. La guerra – afferma Interlandi nel marzo 1941 – dovrà essere condotta «fino alla fine, cioè fino all’annientamento della “plutocrazia capitalistica internazionale”»379. La conclusione del conflitto porterà con sé «una benefica crisi di chiarificazione e di liberazione: finalmente il veleno giudaico sarà identificato, paralizzato ed espulso dalla vivente collettività dei popoli ariani»380. Nel settembre 1941, sulla «Difesa della razza», Giorgio Piceno prospetta l’abbandono della legge in nome della violenza: «Molta gente, – afferma in queste pagine, – si sta persuadendo che contro gli ebrei le leggi servono a ben poco; si è diffusa l’opinione che l’azione violenta alla quale sono giunti certi paesi, sia l’unico mezzo per ridurre alla ragione gli ebrei»381. Contro gli ebrei – scrive ancora Interlandi nel maggio 1942 – va organizzato «un piccolo, ma ben fatto pogroom, tempestivo e risolutivo»382 .
Nella rubrica Appunti di viaggio di un razzista, pubblicata sul «Tevere», Guido Landra, nel resoconto della sua attività di propagandista in Europa orientale, assimila l’ebreo romeno al nemico politico-ideologico (in quanto «filo-russo» e «disfattista»), legittimando in questo modo la politica di sterminio attuata dai militari di Antonescu e dalle forze naziste in Bessarabia e Bucovina. Scrive, infatti, Landra nell’agosto 1941:
È noto che tutta la propaganda bolscevica e filo-russa, svoltasi nei passati anni in Bessarabia e in Bucovina, fu opera dell’elemento ebraico locale, numerosissimo e infiltratosi in tutti gli strati della popolazione. È noto pure che questi ebrei hanno costituito nell’anno decorso i quadri con i quali i sovietici hanno potuto dominare queste regioni. Date queste premesse, è facilmente prevedibile che, all’azione liberatrice delle armate romeno-germaniche, dovrà seguire un’intensa opera per la soluzione definitiva del problema ebraico in queste terre, tanto ricche e tanto disgraziate, per essere state destinate alle concupiscenze di tutti i barbari che nel corso dei secoli sono venuti dall’oriente383 .
Il governo del generale Antonescu, il quale «con leggi draconiane ha avviato a soluzione la questione ebraica nelle altre terre di Romania» e ha ordinato «l’allontanamento degli ebrei dalle zone dove si è svolto il conflitto attuale», è, secondo Landra, «perfettamente preparato per eliminare definitivamente dalla Bessarabia e dalla Bucovina liberate, il pericolo ebraico»384. È interessante notare come gli Appunti di viaggio di un razzista non si limitino ad approvare e a indicare come modello i provvedimenti legislativi antisemiti del governo romeno, dall’introduzione del distintivo per gli ebrei fino al concentramento e al lavoro obbligatorio385. Al contrario, una volta descritto il complotto ebraico nei termini di una macchinazione finalizzata a indebolire il «popolo romeno» attraverso il monopolio degli alcolici e degli alimenti e la corruzione culturale e politico-economica386, in vista della costruzione in Europa orientale di uno Stato ebraico «sotto l’egida del bolscevismo»387, Landra fa presto a invocare l’«eliminazione totale» degli ebrei in quanto avversari politici filosovietici, responsabili dello scatenamento del conflitto in corso: «Il problema ebraico non conosce che una soluzione: eliminazione totale degli ebrei. Gli avvenimenti degli ultimi tempi hanno dimostrato come qualsiasi concessione o tergiversazione su questo punto fondamentale venga sempre, presto o tardi, negata amaramente dal popolo che non ha saputo prendere in tempo le misure necessarie»388. L’analogia fra «ebraismo» e «bolscevismo» giustifica, secondo Landra, anche la «missione antigiudaica» del movimento Ustascia in Croazia: «Il movimento degli Ustasci, – scrive l’antropologo, – è veramente benemerito per l’azione energica intrapresa contro gli ebrei. La lotta antigiudaica in Croazia, come in Romania, è la condizione sine qua non per la debellazione definitiva del bolscevismo dall’Europa sud-orientale»389
Nel febbraio 1943, lo stesso Landra, sulla «Difesa della razza», chiama a raccolta tutti i «razzisti della prima ora», affinché uniscano le forze contro il «giudaismo internazionale», da considerarsi come il «nemico numero uno dell’Italia»: «Non dimenticare mai, –scrive Landra, – che gli aeroplani che distruggono le nostre case sono stati pagati con l’oro dei ghetti e che la guerra sarebbe finita da molto tempo se Israele non avesse avuto l’interesse nel vedere dissanguata e immiserita la vecchia Europa, anzi, non dimentichiamo che, senza l’azione giudaica, non ci sarebbe stata la guerra»390
La profezia cospirazionista della storia come disperazione, come pianto dell’ariano, si autoadempie alcuni mesi dopo, nel luglio 1943, quando l’occupazione anglo-americana in Sicilia porta con sé l’abrogazione delle leggi razziali. Alla notizia, l’editoriale di Interlandi reagisce parlando di «vendetta degli ebrei»:
Succedono cose strane. Un ufficiale nemico viene nominato governatore di Pantelleria; quest’ufficiale è un ebreo. Le formazioni aeree che bom-
182Capitolo terzo bardano Roma sono al comando d’un ebreo. In Sicilia non c’erano molti ebrei, ma gran numero di inglesi imparentati ad ebrei. Roma è piena di ebrei e di mezzi-ebrei; discriminati e non. Si dice che molta gente si sia iersera accampata intorno alla Sinagoga di Roma nella certezza che quell’insigne monumento sarà rispettato dai banditi volanti più delle basiliche cristiane. L’idea che tra ebrei ed anglo-americani l’intesa sia perfetta è diffusa ovunque e non solleva dubbi391
La «logica delle cose strane», nel luglio 1943, è la logica degli ebrei che consegnano l’Italia agli anglo-americani, è la «logica del nemico». E Interlandi si scaglia contro la «dolce e paziente Italia», per l’ennesima volta accusata di comportarsi in modo troppo «civile» di fronte alla «guerra occulta» degli ebrei.
Nella disperazione antisemita del direttore del «Tevere» precipita l’immaginario cospirazionista elaborato negli anni precedenti, ma sembra annunciarsi anche il drammatico futuro della Repubblica di Salò: in particolare, quel punto sette della Carta di Verona («gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica»), che spianerà la strada alle deportazioni e agli eccidi.
1 e. nolte, Il fascismo nella sua epoca. I tre volti del fascismo, Sugarco, Varese 1993 (ed. or. 1963), p. 546.
2 Per un quadro generale di riferimento, cfr. r. s. wistrich, Antisemitism: The Longest Hatred, Pantheon Books, New York 1991; j. katz, From Prejudice to Destruction: Antisemitism, 1700-1933, Harvard University Press, Cambridge 1980.
3 p.-a. taguieff (a cura di), L’antisémitisme de plume 1940-1944, études et documents, Berg International, Paris 1999, pp. 30-37.
4 Cfr. h. arvon, Les juifs et l’idéologie, puf, Paris 1978; a. hertzberg, The French Enlightenment and the Jews, Columbia University Press, New York - London 1968; p. pluchon, Nègres et juifs au xviii siècle: le racisme au siècle des Lumières, Tallandier, Paris 1984.
5 Cfr. p. sorlin, «La Croix» et les Juifs (1880-1899): contribution à l’histoire de l’antisémitisme contemporain, Grasset, Paris 1967; p. pierrard, Juifs et catholiques français: de Drumont à Jules Isaac, 1886-1945, Fayard, Paris 1970; y. chevalier, L’antisemitismo: l’ebreo come capro espiatorio, Istituto propaganda libraria, Milano 1991.
6 Cfr. m. crapez, La gauche réactionnaire: mythes de la plèbe et de la race dans le sillage des Lumières, Berg International, Paris 1997; id., L’antisémitisme de gauche au xix siècle, Berg International, Paris 2002; r. f. byrnes, Antisemitism in Modern France, Rutgers University Press, New Brunswick 1950.
7 Cfr. m. winock, Nationalisme, antisémitisme et fascisme en France, Seuil, Paris 1990; p. birnbaum, Un mythe politique: la République Juive: de Léon Blum à Pierre Mendès France, Fayard, Paris 1988.
8 Per un’analisi e una bibliografia approfondita sulle teorie complottistiche della storia, cfr. p.-a. taguieff, La Foire aux «Illuminés». Ésotérisme, théorie du complot, extrémisme,
Mille et une nuits, Paris 2005; id., L’imaginaire du complot mondial. Aspects d’un mythe moderne, Mille et une nuits, Paris 2006. Sul rapporto fra antisemitismo e cospirazionismo, con particolare riferimento alla storia dei Protocolli dei Savi di Sion, cfr. n. cohn, Licenza per un genocidio. I «Protocolli degli Anziani di Sion». Storia di un falso, Einaudi, Torino 1969; c. g. de michelis, La giudeofobia in Russia. Dal Libro del «kahal» ai Protocolli dei savi di Sion, Bollati Boringhieri, Torino 2001; p.-a. taguieff, Les Protocoles des Sages de Sion. Faux et usages d’un faux, Berg International, Paris 1992: 2 voll. I, Un faux et ses usages dans le siècle (nuova edizione rivista Berg International - Fayard, Paris 2004); II, Études et documents; m. hagemeister, Protocols of the Elders of Sion, in r. s. levy (a cura di), Antisemitism: A Historical Encyclopedia of Prejudice and Persecution, abc-clio, Santa Barbara (Ca.) 2005, vol. II, pp. 567-69; h. ben-itto, The Lie that wouldn’t die: The Protocols of the Elders of Zion, Vallentine Mitchell, London-Portland (Or.) 2005; l. poliakov, La Causalité diabolique, Calmann-Lévy / Mémorial de la Shoah, Paris 2006 (nuova edizione con prefazione di Pierre-André Taguieff).
9 Si condivide, in questa interpretazione, la posizione dello storico Giovanni Miccoli. Cfr. g. miccoli, Santa Sede e Chiesa italiana di fronte alle leggi antiebraiche del 1938 cit., p. 220.
10 Anche qui si segue l’interpretazione sviluppata da Miccoli, in contrapposizione ad alcune tesi di Renzo De Felice. Cfr. ibid., p. 221.
11 m. de’ bagni, Paolo IV e la Carta dei giudei, in «La Difesa della razza», II, n. 10, 20 marzo 1939, pp. 27-28; p. guidotti, Bolle pontificie contro gli ebrei, ivi, n. 16, 20 giugno 1939, pp. 27-29.
12 g. piceno, Un santo antisemita. Fra Giacomo della Marca, ivi, n. 7, 5 febbraio 1939, p. 41; m. borretti, Un santo antisemita. Nilo da Rossano, ivi, n. 22, 20 settembre 1939, pp. 24-25; m. cioli, Bernardino da Feltre, ivi, n. 23, 5 ottobre 1939, pp. 12-14; f. porfiri, San Tommaso e gli ebrei, ivi, III, n. 14, 20 maggio 1940, pp. 35-39; a. petri, Il beato Cherubino da Spoleto, ivi, n. 17, 5 luglio 1940, pp. 28-29; o. gurrieri, L’Umbria contro gli ebrei, ivi, n. 21-22, 5-20 settembre 1940,pp. 40-44; id., San Paolo e i giudei, ivi, IV, n. 17, 5 luglio 1941,pp. 10-11; g. silvestri, Due santi contro un antipapa giudeo, ivi, V, n. 2, 20 novembre 1941, pp. 13-15; encolpius [pseud. di mario stigliani], Il giudeo nelle lettere di S. Caterina da Siena, ivi, VI, n. 2, 20 novembre 1942, p. 17.
13 r. moro, Propagandisti cattolici cit., p. 345.
14 Per le recensioni del volume, cfr. g. podaliri, Sotto la maschera di Israele, in «Quadrivio», VI, n. 9, 26 dicembre 1937, p. 7; g. pensabene, Sotto la maschera d’Israele, in «Il Tevere», 30-31 dicembre 1937, p. 3.
15 g. sottochiesa, La nazione ebraica, in «Quadrivio», V, n. 26, 25 aprile 1937, p. 7.
16 id., Cattolici e convertiti, ivi, n. 35, 27 giugno 1937, p. 2. Per il proseguimento della polemica con «Civiltà Cattolica» sul problema delle conversioni degli ebrei al protestantesimo anglicano, cfr. id., Tentativi di conversione, in «Quadrivio», n. 38, 18 luglio 1937, pp. 1 e 7.
17 g. sottochiesa, Tutti gli ebrei sono sionisti, ivi, n. 25, 18 aprile 1937, p. 6.
18 Per una polemica nei confronti del libro di a. levi, Noi ebrei. In risposta a Paolo Orano (Pinciana, Roma 1937), attorno al concetto di sionismo, cfr. g. sottochiesa, Voi ebrei, in «Quadrivio», VI, n. 2, 7 novembre 1937, pp. 1-2. Cfr. anche [t. interlandi], Gli ebrei bárano, in «Il Tevere», 22-23 novembre 1937, p. 1. Dietro lo pseudonimo di Abramo Levi, si nasconde il non ebreo (e collaboratore di Orano) Alfredo Di Donno. La «risposta» si risolve in un’ampia raccolta degli articoli suscitati dal libro di Orano, ovvero nell’esibizione di un’interminabile serie di dichiarazioni di italianità da parte degli ebrei.
19 g. sottochiesa, I cattolico filo-ebrei, in «Quadrivio», V, n. 32, 6 giugno 1937, p. 6.
20 Ibid
21 id., Ebrei filo-cattolici, ivi, n. 29, 16 maggio 1937, p. 1.
22 id., Il razzismo e la cultura cattolica, ivi, VI, n. 43, 21 agosto 1938, p. 1.
184Capitolo terzo
23 id., La razza e i polemisti d’occasione, ivi, n. 45, 4 settembre 1938, p. 1. Cfr. anche id., La nozione di razza, ivi, VII, n. 6, 4 dicembre 1938, p. 6.
24 id., La razza e i polemisti d’occasione cit., p. 1.
25 id., L’ora è venuta per i cattolici di conoscere la verità sul razzismo, in «Quadrivio», VI, n. 51, 16 ottobre 1938, p. 2.
26 id., La genesi delle razze dopo il Diluvio universale, ivi, IX, n. 10, 5 gennaio 1941, pp. 1 e 5.
27 id., Classici del razzismo, ivi, VII, n. 22, 23 aprile 1939, p. 4.
28 id., Come i tedeschi concepiscono il razzismo, ivi, n. 28, 7 maggio 1939, p. 8.
29 id., Gli intellettuali cattolici e la razza, ivi, n. 35, 25 giugno 1939, pp. 1-2.
30 id., Il razzismo come difesa del Cattolicesimo, ivi, VIII, n. 21, 17 marzo 1940, p. 2.
31 Cfr. g. l. mosse, Il razzismo in Europa. Dalle origini all’Olocausto, Laterza, Roma-Bari 1980 (ed. consultata 1992), pp. 150 sg. Per un profilo biografico di Rohling, p. airiau, L’antisémitisme catholique aux xixe et xxe siècles, Berg International, Paris 2002, p. 72.
32 m. de’ bagni, L’educazione degli ebrei, in «Il Tevere», 10-11 gennaio 1939, p. 3. Cfr., inoltre, id., I giudei e Napoleone, ivi, 15-16 ottobre 1938, p. 3; id., Come gli ebrei tentarono di far riconoscere il Talmudismo quale religione ufficiale in Italia, ivi, 19-20 novembre 1938, p. 3.
33 id., La preghiera dei giudei, ivi, 24-25 febbraio 1939, p. 3. Sulla stessa linea, cfr. id., L’usura dovere religioso per i giudei, ivi, 28 febbraio - 1º marzo 1939, p. 3.
34 m. de’ bagni, Tradizione e Talmud, ivi, 10-11 dicembre 1938, p. 3.
35 l. poliakov, Storia dell’antisemitismo, vol. IV, L’Europa suicida (1870-1933), La Nuova Italia, Firenze 1997, pp. 151 sg.
36 m. de’ bagni, Introduzione a j. e. pranaitis, Cristo e i cristiani nel Talmud, Tumminelli, Roma 1939, p. 15.
37 Ibid., pp. 20-38.
38 Ibid., p. 34.
39 Ibid., p. 8.
40 t. interlandi, Una perfida lacrima, in «Il Tevere», 16-17 febbraio 1939, p. 1.
41 s. a., Talmud, in «La Difesa della razza», I, n. 4, 20 settembre 1938, p. 9; id., Le due bocche d’Israele, ivi, n. 5, 5 ottobre 1938, pp. 15-16.
42 m de’ bagni, Cristo e i Cristiani nel Talmud, ivi, I, n. 14, 20 maggio 1939, p. 8.
43 acs, mcp, Gabinetto, II versamento, b. 7, fasc. Telesio Interlandi: lettera di T. Interlandi a D. Alfieri, 4 luglio 1939.
44 k. 41 [pseud. di Rocchi, direttore del «Corriere Adriatico»], Conoscere i giudei. Apparenza e realtà d’Israele, in «Il Tevere», 22-23 luglio 1939, p. 3.
45 r. mastrostefano, Cristo e i Cristiani nel «Talmud», ivi, 31 luglio 1939 - 1º agosto 1939, p. 3.
46 s. a., Cristo e i Cristiani nel Talmud, ivi, 8-9 agosto 1939, p. 3.
47 m. de’ bagni, Il Talmud codice segreto degli ebrei, in «Quadrivio», VII, n. 45, 3 settembre 1939, p. 4.
48 g. sottochiesa, Il razzismo dei profeti, ivi, n. 2, 6 novembre 1938, p. 1. Sottochiesa accomuna in realtà nella sua accusa sia il Talmud che l’Antico Testamento.
49 m. de’ bagni, L’educazione degli ebrei cit., p. 3.
50 L’uccisione avvenuta a Parigi del consigliere dell’ambasciata tedesca Ernst von Rath, per mano di un giovane ebreo tedesco-polacco, Herschel Grunspan, fu il pretesto per il pogrom del 9 novembre 1938 (la cosiddetta «Notte dei cristalli»).
51 [t. interlandi], L’ebreo odia, in «Il Tevere», 12-13 novembre 1938, p. 1.
52 a. tosti, L’ebraismo non è una religione, in «La Difesa della razza», III, n. 23, 5 ottobre 1940, p. 29.
Contra Judaeos: antisemitismo e cospirazionismo185
Il tema è stato oggetto di una larga discussione pubblica nel 2007, in seguito alla pubblicazione del saggio di a. toaff, Pasque di sangue. Ebrei d’Europa e omicidi rituali, il Mulino, Bologna 2007. Per un’ampia rassegna critica dei problemi storiografici sollevati dal volume di Toaff, cfr. in particolare, g. miccoli, «Pasque di sangue». La discussa ricerca di Ariel Toaff, in «Studi Storici», XLVIII, n. 2, aprile-giugno 2007, pp. 323339; j. stuart woolf, d. bidussa, m. caffiero e a. laterza, Il caso Ariel Toaff: libertà di ricerca e responsabilità di storico, in «Contemporanea», XXV, n. 72, settembre-dicembre 2007, pp. 19-41.
54 Cfr. t. caliò, La leggenda dell’ebreo assassino. Percorsi di un racconto antiebraico dal medioevo ad oggi, Viella, Roma 2007; r. taradel, L’accusa del sangue. Storia politica di un mito antisemita, Editori Riuniti, Roma 2002; a. dundes (a cura di), The Blood Libel Legend: A Casebook in Anti-Semitic Folklore, University of Wisconsin Press, Madison 1991; r. po-chia hsia, The Myth of Ritual Murder: Jews and Magic in Reformation Germany, Yale University Press, New Haven 1988. Sul caso di Damasco, j. frankel, The Damascus Affair: «Ritual Murder», Politics and the Jews in 1840,Cambridge University Press, Cambridge 1997. Sull’accusa in età contemporanea: r. ladous, Alle origini cristiane dell’antisemitismo politico: le accuse di omicidio rituale, in «Studi Storici», XXXIX (1998), n. 3, pp. 725-38; h. j. kieval, Representation and Knowledge in Medieval and Modern Account of Jewish Ritual Murder, in «Jewish Social Studies», 1994, n. 1, pp. 52-72; id., Antisémitisme ou savoir social? Sur la genèse du procès moderne pour meurtre rituel, in «Annales», XLIX (1994), n. 5, pp. 1091-105; id., Middleman Minorities and Blood: Is there a Natural Economy of the Ritual Murder Accusation in Europe?, in d. chirot e a. reid (a cura di), Essential Outsiders: Chinese and Jews in the Modern Transformation of Southeast Asia and Central Europe, University of Washington Press, Seattle-London 1997, pp. 208-33.
55 l. servolini, L’antico rito ebraico della circoncisione, in «La Difesa della razza», V, n. 6, 20 gennaio 1942, pp. 26-27; b. biancini, Riti e superstizioni degli ebrei, ivi, II, n. 11, 5 aprile 1939, pp. 24-25.
56 Ibid., p. 27.
57 id., Riti e superstizioni degli ebrei, ivi, III, n. 2, 20 novembre 1939, pp. 39-41. Nel settembre 1941, un fotomontaggio nelle pagine centrali del fascicolo descrive la macellazione come «un lungo martirio», operato da ebrei «sadici e inumani» che «dissanguano lentissimamente i poveri animali»: cfr. ivi, IV, n. 21, 5 settembre 1941, pp. 16-17.
58 g. piceno, La cucina degli ebrei, ivi, n. 5, 5 gennaio 1941, pp. 28-30.
59 c. zumaglini, Il sacrilegio dell’ostia, ivi, II, n. 5, 5, gennaio 1939, pp. 24-25.
60 c. a. masini, Riti ebraici, ivi, n. 22, 20 settembre 1939, pp. 12-14; l. servolini, Il martirio di San Simonino, ivi, III, n. 9, 5 marzo 1940, pp. 26-28. Cfr. anche Riti ebraici, ivi, II, n. 24, 20 ottobre 1939, pp. 38-40.
61 a. tosti, La razza giudaica. Amoralità e criminalità dei giudei, ivi, IV, n. 23, 5 ottobre 1941, pp. 10-11.
62 Cfr. Questionario, ivi, III, n. 23, 5 ottobre 1940, pp. 46-47.
63 Cfr. Questionario, ivi, II, n. 2, 20 novembre 1938, pp. 46-47.
64 Ibid
65 Cfr. Questionario, ivi, n. 4, 20 dicembre 1938, p. 45.
66 Cfr. Questionario, ivi, n. 5, 5 gennaio 1939, p. 46.
67 Cfr. Questionario, ivi, p. 47.
68 Cfr. Questionario, ivi, n. 6, 20 gennaio 1939, p. 43.
69 Cfr. Questionario, ivi, n. 7, 5 febbraio 1939, pp. 46-47.
70 Sulla figura di Pasquale Pennisi, cfr. r. moro, Propagandisti cattolici cit., pp. 324331.
71 acs, pcm, Gabinetto, b. 2370, fasc. 3.2-6.7187: nota della Segreteria di Stato di Sua Santità, 20 marzo 1939, n. 1057/39.
186Capitolo terzo
72 Cfr. Questionario, in «La Difesa della razza», II, n. 19, 5 agosto 1939, p. 41.
73 Cfr. Questionario, ivi, n. 21, 5 settembre 1939, p. 49.
74 Cfr. Questionario, ivi, V, n. 4, 20 dicembre 1941, p. 31.
75 g. sottochiesa, Niente «marrani»!, in «Il Tevere», 2-3 settembre 1938, p. 3. Cfr. anche id., Un meticciato religioso, in «Quadrivio», VII, n. 21, 19 marzo 1939, p. 2. Sul «marranismo» come elemento della strategia cospirazionista ebraica, cfr. g. dell’isola [pseud. di G. Pensabene], I «Marrani» storia di tutti i tempi, ivi, IX, n. 31, 1 giugno 1941, pp. 1-2.
76 f. callari, L’ebreo non si assimila, in «La Difesa della razza», I, n. 6, 20 ottobre 1938, pp. 20-21.
77 n. salvati, Conversioni giudaiche, ivi, p. 22.
78 a. trizzino, Battesimi e conversioni di ebrei, ivi, II, n. 9, 5 marzo 1939, p. 27.
79 f. callari, L’ebreo non si assimila cit., p. 21.
80 b. giannetti, I falsi convertiti, in «La Difesa della razza», II, n. 9, 5 marzo 1939, p. 30.
81 g. sottochiesa, Ebrei convertiti, ivi, III, n. 19, 5 agosto 1940, p. 22.
82 id., Meticciato religioso, in «Quadrivio», VI, n. 12, 16 gennaio 1938, p. 1. Cfr. anche id., Razzismo e matrimoni misti, in «Il Tevere», 14-15 ottobre 1938, p. 3; id., Un meticciato religioso, in «Quadrivio», VII, 21, 19 marzo 1939, p. 2.
83 id., Il divieto dei matrimoni fra ariani e non-ariani e il Concordato con la Chiesa, in «Il Tevere», 14-15 novembre 1938, p. 3. Su questo tema, cfr. anche b. damiani, I giudei nel pensiero cattolico, ivi, 15-16 novembre 1938, p. 3.
84 g. almirante, Roma antica e i giudei, in «La Difesa della razza», I, n. 3, 5 settembre 1938, p. 27.
85 Ibid., p. 28. Per uno studio dei riferimenti alla giudefobia della romanità contenuti nella «Difesa della razza», cfr.: p. foro, Racisme fasciste et antiquité. L’exemple de la revue «La Difesa della razza» (1938-1943), in «Vingtième Siècle», n. 78, aprile-giugno 2003, pp. 121-31.
86 r. bartolozzi, Il razzismo di Cesare e la teoria analogica della lingua, in «La Difesa della razza», I, n. 4, 20 settembre 1938, pp. 21-22.
87 m. baccigalupi, La dottrina della razza in Tito Livio, ivi, IV, n. 8, 20 febbraio 1941, pp. 28-30.
88 i. marimpietri, Razza e romanità nella poesia di Orazio, ivi, II, n. 14, 20 maggio 1939, pp. 12-13.
89 o. costanzi, Tacito e il problema della razza, ivi, pp. 15-16.
90 t. salvotti, L’antiebraismo in Italia attraverso i secoli, ivi, III, n. 18, 20 luglio 1940, p. 6.
91 a. gurrieri, Ariani e semiti nel Mediterraneo, ivi, n. 6, 20 gennaio 1940, pp. 20-23; id., Il Mediterraneo e la civiltà ariana, ivi, IV, n. 15, 5 giugno 1941, pp. 11-15.
92 a. trizzino, Rivolte e sedizioni di ebrei nell’Impero romano, ivi, II, n. 10, 20 marzo 1939, pp. 23-26.
93 g. savelli, La Giudea contro Roma, ivi, V, n. 8, 20 febbraio 1942, p. 23.
94 p. guidotti, Il popolo più antisociale dell’impero romano, ivi, IV, n. 4, 20 dicembre 1940, p. 21.
95 o. gurrieri, Vespasiano e Tito distruttori d’Israele, ivi, n. 22, 20 settembre 1941, pp. 22-23.
96 a. m. de giglio, Il giudaismo e l’impero romano, ivi, II, n. 23, 5 ottobre 1939, p. 7.
97 Cfr., ad esempio, b. biancini, Usura, sacrilegi e frodi a Bologna e il bando degli ebrei dagli Stati della Chiesa, ivi, n. 8, 20 febbraio 1939, pp. 16-17; c. zumaglini, Gli strozzini di Vercelli, ivi, n. 16, 20 giugno 1939, pp. 21-22; p. ficai-veltroni, Usurai giudei a Cortona, ivi, p. 31; o. g. [Ottorino Gurrieri], Usurai e banchieri nella Repubblica di San Marino, ivi, III, n. 17, 5 luglio 1940,pp. 24-27; o. gurrieri, L’Umbria contro gli ebrei, ivi, n. 21-22, 5-20 settembre 1940, pp. 40-44; u. soriti, Gli ebrei nelle Marche nei se- coli xii e xvi, ivi, V, n. 6, 20 gennaio 1942, pp. 12-15. Sullo stereotipo usurario nella tradizione antiebraica, cfr., in particolare, g. todeschini, Dalla carnalitas all’infamia: l’evoluzione degli stereotipi antiebraici fra Medioevo ed Età Moderna, in u. fortis (a cura di), Dall’antigiudaismo all’antisemitismo. L’antigiudaismo antico e moderno, Zamorani, Torino 2004, pp. 59-71.
98 o. gurrieri, Gli ebrei in Francia e l’Inquisizione, in «La Difesa della razza», V, n. 4, 20 dicembre 1941, pp. 25-27.
99 a. trizzino, La cacciata degli ebrei dalla Sicilia, ivi, II, n. 2, 20 novembre 1938, pp. 26-28; r. c. storti, Medioevo ebraico a Trapani ivi, n. 8, 20 febbraio 1939, pp. 7-9; e. stancampiano, Gli ebrei nel Regno di Napoli, ivi, pp. 10-11; m. borretti, Gli ebrei in Cosenza e nella Calabria citra, ivi, pp. 12-13; a. gurrieri, Politica razzista di Ferdinando d’Aragona, ivi, III, n. 17, 5 luglio 1940, pp. 30-33; o. gurrieri, Gli ebrei contro la Spagna nel Medio-Evo, ivi, pp. 24-26; id., Gli ebrei contro la Spagna, ivi, V, n. 6, 20 gennaio 1942,pp. 6-9.
100 g. gaspari, Ebrei nel Trentino, ivi, II, n. 16, 20 giugno 1939, pp. 14-16.
101 m de’ bagni, Le fonti dell’antigiudaismo italiano. Paolo IV e la carta dei giudei, ivi, n. 10, 20 marzo 1939, pp. 27-28; p. guidotti, Bolle pontificie contro gli ebrei cit.; id., Gli ebrei sotto le due torri, ivi, III, n. 23, 5 ottobre 1940, pp. 40-43.
102 s. costanza, Gli eterni nemici di Roma, ivi, II, n. 16, 20 giugno 1939, p. 30.
103 m. c. tentoni, Gli ebrei nello Stato Pontificio al tempo della restaurazione, ivi, IV, n. 23, 5 ottobre 1941, pp. 27-29.
104 [t. interlandi], Roma e gli ebrei, in «Il Tevere», 19-20 luglio 1938, p. 1.
105 Ibid., p. 3.
106 g. almirante, Roma antica e i giudei cit., p. 30.
107 f. matarrese, Gli ebrei in Puglia, in «La Difesa della razza», II, n. 16, 20 giugno 1939, p. 25.
108 t. i.[telesio interlandi], Conoscere gli ebrei, ivi, I, n. 2, 20 agosto 1938, p. 8.
109 Ibid.
110 Ibid
111 Ibid.
112 [t. interlandi], Il metodo con gli ebrei, in «Il Tevere», 22-23 agosto 1938, p. 1.
113 id., Primo: gli ebrei stranieri, ivi, 2-3 settembre 1938, p. 1.
114 id., Essi lo vogliono, ivi, 18-19 ottobre 1938, p. 1.
115 Ibid.
116 t. i. [telesio interlandi], Al principio, in «La Difesa della razza», I, n. 4, 20 settembre 1938, p. 8.
117 id., Che si fa per chiarire il problema degli ebrei?, in «Il Tevere», 29-30 novembre 1938, p. 1.
118 Ibid
119 Ibid.
120 Ibid
121 Ibid.
122 Lelj rivela di essere l’autore in Questionario-Rinascimento e Risorgimento, in «La Difesa della razza», II, n. 11, 5 aprile 1939, p. 44.
123 s. a. [ma m. lelj], Le carte degli ebrei, ivi, n. 8, 20 febbraio 1939, p. 5.
124 Ibid., p. 6.
125 Ibid.
126 m. de’ bagni, Trasteverini contro ebrei e francesi, ivi, n. 21, 5 settembre 1939, p. 32.
127 g. piceno, Ebrei e francesi in Ancona, ivi, n. 16, 20 giugno 1939, pp. 17-18.
128 s. la sorsa, Gli ebrei per Napoleone, ivi, III, n. 20, 20 agosto 1940, pp. 40-41. Sulla
188Capitolo terzo
comunità ebraica di Ancona, si veda anche g. piceno, Tramonto della «Repubblica degli ebrei», ivi, IV, n. 4, 20 dicembre 1940, pp. 24-27.
129 t. salvotti, Villa Medici venduta per 550 scudi, ivi, III, n. 21-22, 5-20 settembre 1940, pp. 11-14. Sui «nefasti effetti della rivoluzione francese» per la situazione degli ebrei nello Stato Pontificio, cfr. m. c. tentoni, Gli ebrei nello Stato Pontificio al tempo della restaurazione cit.
130 [t. interlandi], Primo: gli ebrei stranieri cit., p. 1.
131 g. sottochiesa, 27 settembre 1791 data internazionale della dominazione ebraica, in «Quadrivio», VI, n. 48, 25 settembre 1938, p. 1.
132 g. piceno, L’ebreo che tradì Felice Orsini, in «La Difesa della razza», I, n. 4, 20 settembre 1938, pp. 16-17.
133 m. de’ bagni, Gli ebrei «patriotti» nel Veneto, ivi, II, n. 9, 5 marzo 1939, pp. 38-39.
134 u. angeli, Tipo fisico e carattere morale dei veri e dei falsi italiani, ivi, n. 14, 20 maggio 1939, p. 25.
135 t. salvotti, I giudei contro Roma, ivi, n. 18, 20 luglio 1939, p. 36.
136 g. almirante, Un «patriota» ebreo, ivi, pp. 18-21.
137 r. miceli, Una manovra giudaica contro Vincenzo Gioberti, ivi, pp. 22-23.
138 g. savelli, Sintesi storica dei giudei in Italia, ivi, V, n. 15, 5 giugno 1942, p. 13.
139 Sulla figura di Gino Lupi, giornalista, insegnante di lingue straniere al Liceo Manzoni di Milano e lettore di lingua romena all’Università di Milano, cfr. acs, mcp, Gabinetto, b. 141, fasc. «Lupi Gino».
140 g. lupi, Il ministro degli ebrei, in «La Difesa della razza», III, n. 5, 5 gennaio 1940, pp. 38-40. Ma si veda anche [t. interlandi], Quando gli ebrei dominavano, in «Il Tevere», 30-31 luglio 1938, p. 1.
141 s. a. [ma m. lelj], La manomissione ebraica della nazione italiana, in «La Difesa della razza», II, n. 17, 5 luglio 1939, p. 11.
142 m. lelj, La borghesia e l’immigrazione, ivi, n. 3, 5 dicembre 1938, p. 15.
143 f. callari, Banca, ivi, n. 17, 5 luglio 1939, pp. 30-33.
144 s. a., Disfattismo ebraico, ivi, I, n. 6, 20 ottobre 1938, p. 14.
145 g. forteguerri, Finanza, ivi, II, n. 17, 5 luglio 1939, p. 39.
146 a. trizzino, La pace ebraica tradì la vittoria, ivi, n. 1, 5 novembre 1938, p. 44.
147 s. a., Gli ebrei e la rivoluzione fascista, ivi, I, n. 6, 20 ottobre 1938, p. 16; s. a., La congiura ebraica nel 1924, ivi, p. 23.
148 t. i. [telesio interlandi], Premessa, ivi, n. 6, 20 ottobre 1938, p. 8.
149 Ibid.
150 t. i.[t. interlandi], Eroica, ivi, II, n. 1, 5 novembre 1938, p. 7.
151 Ibid., p. 8.
152 Ibid
153 Cfr. s. a., I «Protocolli dei Savi di Sion» sono falsi?, in «Il Tevere», 8-9 febbraio 1939, p. 3; id., La definitiva disfatta di Giuda a Berna, ivi, 10-11 febbraio 1938, p. 3.
154 g. pensabene, L’anima dannata della borghesia, in «Quadrivio», VII, n. 44, 28 agosto 1938, p. 1.
155 Con il titolo Storia del giudaismo, compaiono i seguenti articoli: g. savelli, Premesse semplici di una vicenda complessa, in «La Difesa della razza», IV, n. 9, 5 marzo 1941, pp. 28-30; id., L’avventura delle Tribù, ivi, n. 12, 20 aprile 1941, pp. 10-13; id., La negazione dello spirito e della patria, ivi, n. 17, 5 luglio 1941, pp. 25-27; id., Thora e Sinagoga, ivi, n. 21, 5 settembre 1941, pp. 10-11; id., La Giudea contro la Grecia, ivi, V, n. 3, 5 dicembre 1941, pp. 10-12; id., La Giudea contro Roma, ivi, n. 8, 20 febbraio 1942, pp. 21-24.
156 Con il titolo Razza giudaica, compaiono i seguenti articoli: a. tosti, Ebraismo e cristianesimo, ivi, n. 13, 5 maggio 1941, pp. 6-9; id., Superstizione e ritualismo ebraico, ivi,
IV, n. 15, 5 giugno 1941, pp. 27-29; id., Ebraismo e anarchismo, ivi, n. 22, 20 settembre 1941, pp. 28-29; id., Il messianismo russo, ivi, V, n. 6, 20 gennaio 1942, pp. 2123; id., Ebraismo e panslavismo, ivi, n. 20, 20 agosto 1942, pp. 12-14.
157 g. savelli, Storia del giudaismo. Premesse semplici di una vicenda complessa cit., p. 30.
158 a. tosti, La razza giudaica. Ebraismo e anarchismo cit., p. 28.
159 Ibid., p. 29.
160 [t. interlandi], L’onorata società ebraica, in «Il Tevere», 21-22 novembre 1938, p. 1.
161 a. m. de giglio, Il giudaismo fomentatore del protestantesimo, in «La Difesa della razza», III, n. 17, 5 luglio 1940, pp. 42-44. Numerosi e ripetuti, soprattutto nel 1939-1940, saranno gli attacchi della rubrica dei lettori della «Difesa della razza» contro il protestantesimo, tanto da suscitare l’indignata reazione dello «squadrista» (ma evangelico) Italo Balma: cfr. Questionario – Chi lo può negare?, ivi, 5 aprile 1940, pp. 45-46.
162 id., Il giudaismo e l’impero romano cit., p. 7.
163 g. dell’isola [pseud. di g. pensabene], Somiglianze tra il giudaismo e la religione degli inglesi, in «La Difesa della razza», IV, n. 2, 20 novembre 1940, p. 29.
164 a. scucchia, Alle origini dell’alleanza anglo-giudaica, ivi, n. 21, 5 settembre 1942, p. 17.
165 Ibid., p. 19.
166 g. sottochiesa, Lo spirito ebraico del puritanesimo, ivi, III, n. 24, 20 ottobre 1940,p. 36.
167 Ibid., pp. 37-38.
168 c. barduzzi, Cattolici e giudei in Francia, ivi, II, n. 14, 20 maggio 1939,p. 28.
169 r. natoli, 14 luglio 1789, in «Il Tevere», 26-27 luglio 1939, p. 3.
170 f. scardaoni, L’ombra giudaica sulla Francia, in «La Difesa della razza», I, n. 3, 5 settembre 1938, p. 34. Sull’«assemblea massonica» di Wilhelmsbad, cfr. anche m. de’ bagni, Luigi XVI e gli ebrei, in «Il Tevere», 30 novembre – 1º dicembre 1938, p. 3.
171 c. barduzzi, Come i giudei sono divenuti i padroni della Francia, in «La Difesa della razza», II, n. 9, 5 marzo 1939, p. 33.
172 Ibid. Cfr. anche, su questi temi, id., Rue Cadet, ivi, III, n. 18, 20 luglio 1940, pp. 4144.
173 a. m. de giglio, La penetrazione giudaica in Europa nel secolo xix, ivi, n. 20, 20 agosto 1940, pp. 16-18.
174 a. tosti, I giudei contro la giustizia sociale, ivi, II, n. 11, 5 aprile 1939, p. 37.
175 id., Formazione neogiudaica della borghesia, ivi, n. 20, 20 agosto 1939, p. 23.
176 a. scucchia, Israele in Inghilterra, ivi, V, n. 22, 20 settembre 1942, pp. 19-20. Si veda anche la prima puntata della rassegna di Scucchia: id., Israele in Inghilterra, ivi, n. 20, 20 agosto 1942, pp. 18-20.
177 c. barduzzi, Un secolo di soprusi giudeo-britannici in Egitto, ivi, III, n. 19, 5 agosto 1940, pp. 12-17. Cfr. anche a. attili, Come gli ebrei penetrarono nella vita politica britannica, ivi, II, n. 7, 5 febbraio 1939, pp. 38-39;f. cat. [franco catalano], Disraeli e il Canale di Suez, ivi, V, n. 22, 20 settembre 1942, pp. 14-16.
178 g. dell’isola [pseud. di g. pensabene], Gli ebrei, gli inglesi e la guerra dell’oppio, ivi, III, n. 23, 5 ottobre 1940, pp. 34-36; f. cat. [franco catalano], Gli ebrei e l’India, ivi, V, n. 23, 5 ottobre 1942, pp. 17-18.
179 c. a. cremonini, Gli ebrei e la guerra anglo-boera, ivi, III, n. 5, 5 gennaio 1940, pp. 20-22. Cfr. anche f. catalano, La potenza giudaica nell’Unione Sudafricana, ivi, V, n. 11, 5 aprile 1942, pp. 10-11; g. dell’isola [pseud. di g. pensabene], Dove Israele è re, ivi, IV, n. 33, 15 giugno 1941, p. 1.
180 g. forteguerri, Ubi aurum ibi patria, ivi, II, n. 6, 20 gennaio 1939, p. 38.
181 f. callari, La stampa ebraica e la guerra, ivi, n. 1, 5 novembre 1938, p. 43.
182 o. gurrieri, Gli ebrei contro la Spagna, ivi, V, n. 6, 20 gennaio 1942,p. 9.
183 c. barduzzi, I sadici della sconfitta, ivi, II, n. 1, 5 novembre 1938, p. 38.
190Capitolo terzo
184 e. gasteiner, Gli eterni imboscati, ivi, n. 1, 5 novembre 1938, p. 39.
185 g. cogni, Una gente senza eroi, ivi, p. 14.
186 c. m., Un popolo senza eserciti, ivi, p. 32.
187 Ibid., p. 33.
188 f. callari, La stampa ebraica e la guerra, ivi, p. 43.
189 a. attili, Il dilagare dell’influsso ebraico in Inghilterra, ivi, n. 11, 5 aprile 1939,p. 30.
190 e. gasteiner, Come gli ebrei derubarono la Germania durante la Grande Guerra, ivi, I, n. 6, 20 ottobre 1938,p. 19.
191 s. a., Ebraismo e fascismo, ivi, pp. 58-59.
192 c. barduzzi, Criminalità giudaica, ivi, II, n. 5, 5 gennaio 1939,p. 42.
193 Ivi, IV, n. 19, 5 agosto 1941.
194 Ivi, V, n. 14, 20 maggio 1942.
195 a. bomba, Bolscevismo di marca ebraica, ivi, I, n. 6, 20 ottobre 1938, p. 52.
196 c. barduzzi, I giudei e le quattro internazionali, ivi, II, n. 20, 20 agosto 1939, pp. 25-27.
197 a. tosti, Marxismo e semitismo, ivi, IV, n. 7, 5 febbraio 1941, pp. 24-27.
198 a. bomba, Bolscevismo di marca ebraica cit., p. 53. Ma si vedano anche i numeri monografici citati.
199 t. salvotti, Fatti e misfatti di un giudeo, in «La Difesa della razza», II, n. 21, 5 settembre 1939, pp. 22-24.
200 o. samengo, Bela Kun la belva di Mosca, ivi, IV, n. 21, 5 settembre 1941, pp. 24-26.
201 a. lancellotti, La Francia e l’invasione giudaica, ivi, II, n. 7, 5 febbraio 1939, pp. 3234.
202 [t. interlandi], Un francese piange, in «Il Tevere», 22-23 novembre 1938, p. 1.
203 a. trizzino, Gli ebrei contro l’Italia nel periodo delle sanzioni, in «La Difesa della razza», I, n. 6, 20 ottobre 1938, p. 26.
204 c. a. cremonini, Gli ebrei contro la Spagna, ivi, II, n. 19, 5 agosto 1939,p. 24. Cfr. anche g. podaliri, L’ebreo nella guerra di Spagna, in «Quadrivio», VII, n. 19, 5 marzo 1939, p. 2.
205 o. gurrieri, Gli ebrei contro la Spagna cit., p. 9.
206 a. mezio, L’utopia sionista, in «La Difesa della razza», III, n. 24, 20 ottobre 1940, p. 28. Le medesime argomentazioni si ritrovano in id., Gli ebrei contro il sionismo, ivi, II, n. 2, 20 novembre 1938, pp. 43-44.
207 id., L’utopia sionista cit., p. 28.
208 Ibid
209 b. giannetti, Sionismo e sionisti, in «La Difesa della razza», III, n. 23, 5 ottobre 1940, p. 20.
210 [t. interlandi], Sionismo a doppio uso, in «Il Tevere», 6-7 novembre 1942, p. 1.
211 f. catalano, Come l’Inghilterra ha favorito l’immigrazione clandestina dei giudei in Palestina, in «La Difesa della razza», V, n. 10, 20 marzo 1942, p. 17.
212 g. savelli, Sionismo di guerra, ivi, n. 21, 5 settembre 1942, p. 13. Cfr. anche id., La conferenza sionista di Cincinnati, ivi, n. 1, 5 novembre 1941, pp. 10-12; id., Nasce la repubblica sionista, ivi, VI, n. 4, 20 dicembre 1942, pp. 12-13.
213 b. giannetti, Sionismo e sionisti cit., p. 21.
214 t. salvotti, Capi sionisti, in «La Difesa della razza», II, n. 23, 5 ottobre 1939, p. 17: l’articolo è dedicato, in particolare, alla figura di Jabotinskij.
215 h. de vries de heekelingen, L’eterna questione ebraica e la sua soluzione, ivi, III, n. 1, 5 novembre 1939, p. 30. Per una recensione dell’Orgueil juif di De Vries, cfr. g. podaliri, Orgoglio ebreo, ivi, II, n. 5, 5 gennaio 1939, pp. 29-31. Sull’antisemitismo di De Vries, studioso di storia religiosa, professore presso l’università cattolica di Nimega, cfr. r. moro, Propagandisti cattolici cit., pp. 285-86.
216 g. sottochiesa, Gli ebrei nella Nuova Europa e il problema dell’isolamento, in «La Difesa della razza», III, n. 21-22, 5-20 settembre 1940, p. 47.
217 c. barduzzi, La soluzione della questione giudaica. Il Madagascar, ivi, n. 16, 20 giugno 1940, p. 27.
218 Per un breve profilo biografico di Leers, cfr. r. wistrich, Who’s who in Nazi Germany, Weidenfeld and Nicolson, London 1982,pp. 187-88.
219 j. von leers, Madagascar terra promessa?, in «La Difesa della razza», IV, n. 6, 20 gennaio 1941, p. 25.
220 Cfr. la didascalia, ivi, I, n. 1, 5 agosto 1938, p. 4. I crimini nei quali «gli ebrei concorrono in quota più alta» sarebbero l’usura, la bancarotta, la frode, la diffusione della letteratura oscena e l’oltraggio al pudore, il ricatto, la renitenza agli obblighi militari, le trasgressioni agli obblighi derivanti da sentenze giuridiche, la falsificazione di documenti, l’offesa e la calunnia.
221 j. evola, Psicologia criminale ebraica, ivi, II, n. 18, 20 luglio 1939, p. 35.
222 g. l. [guido landra], Considerazioni sulla criminalità degli ebrei, ivi, IV, n. 5, 5 gennaio 1941,p. 24.
223 Sulla figura di G. Montandon, cfr. m. knobel, Georges Montandon et l’ethno-racisme, in p.-a. taguieff (a cura di), L’antisémitisme de plume 1940-1944 cit., pp. 277293.
224 La fotografia di Hirschfeld verrà riprodotta sulla «Difesa della razza» con la didascalia «apostolo della pseudo-scienza sessuale ebraica»: cfr. ivi, II, n. 17, 5 luglio 1939, p. 21.
225 g. montandon, Determinazione psicologica dell’etnia giudaica: «l’ethnie putaine», ivi, III, n. 1, 5 novembre 1939, p. 21.
226 Ibid., p. 22.
227 Ibid
228 Ibid
229 t. gatti, Libidine, cupidigia e odio di razza degli ebrei, ivi, II, n. 9, 5 marzo 1939, p. 24.
230 g. marro, Giuda ebreo Giuda negroide, ivi, V, n. 4, 20 dicembre 1941, pp. 17-18.
231 f. ferroni, Il «liscio» delle giudee. Una satira di Ariosto sull’arte di prender moglie, ivi, III, n. 8, 20 febbraio 1940, p. 37.
232 o. samengo, Mito e realtà della donna ebrea, ivi, IV, n. 15, 5 giugno 1941, p. 22.
233 Ibid
234 g. lupi, Ebrei in Romania, ivi, II, n. 22, 20 settembre 1939, p. 23.
235 n. marchitto, Gli ebrei nell’Africa francese, ivi, n. 20, 20 agosto 1939, p. 17.
236 Ibid., p. 18.
237 Sull’antisemitismo di Henry Ford, cfr. n. baldwin, Henry Ford and the Jews: The Mass Production of Hate, PublicAffairs, New York 2001;su Céline, in particolare, cfr. a. duraffour, Céline, un antijuif fanatique, in p.-a. taguieff (a cura di), L’antisémitisme de plume 1940-1944 cit., pp. 147-97.
238 d. paolella, Madri sullo schermo, in «La Difesa della razza», II, n. 4, 20 dicembre 1938, p. 16.
239 a. petrucci, Cinema, ivi, n. 17, 5 luglio 1939, p. 29.
240 f. scardaoni, Scandali ebraici a Parigi, ivi, n. 9, 5 marzo 1939, p. 21. Cfr. anche id., L’ombra giudaica sulla Francia, ivi, I, n. 3, 5 settembre 1938, pp. 33-34.
241 id., I disgregatori, ivi, II, n. 21, 5 settembre 1939, p. 18.
242 j. evola, Psicologia criminale ebraica cit., p. 32.
243 g. genna, Gli ebrei come razza, in «La Difesa della razza», I, n. 3, 5 settembre 1938, p. 15.
244 Ibid., p. 14.
192Capitolo terzo
245 g. montandon, Da che cosa si riconoscono gli ebrei?, ivi, III, n. 21-22, 5-20 settembre 1940, p. 6.
246 id., I caratteri del tipo giudaico, ivi, IV, n. 16, 20 giugno 1941, pp. 18-19.
247 Ibid., p. 19.
248 Cfr. s. l. gilman, Jews and mental Illness: medical metaphors, antisemitism and the Jews Response, in «Journal of the History of the Behavioural Sciences», n. 20, aprile 1984, pp. 153-56.
249 g. montandon, I caratteri del tipo giudaico cit., p. 20.
250 g. lucidi, Giudeo e soldato: un’antitesi, in «La Difesa della razza», II, n. 1, 5 novembre 1938, p. 37.
251 b. della maggiore, La patologia circolatoria, ivi, n. 17, 5 luglio 1939, p. 46.
252 Cfr. Questionario, ivi, III, n. 18, 20 luglio 1940, p. 45.
253 g. landra, Considerazioni sulla patologia degli ebrei, ivi, n. 23, 5 ottobre 1940, pp. 3033.
254 id., Gli ebrei e i manicomi, in «Il Tevere», 28-29 novembre 1941, p. 3.
255 t. i. [telesio interlandi], I-tal-jia, in «Quadrivio», VI, n. 47, 18 settembre 1938, p. 1: l’articolo riprende e amplia id., Israele nei libri di testo, in «Il Tevere», 10-11 settembre 1938, p. 1.
256 s. a. [ma telesio interlandi], Il censimento degli ebrei, in «La Difesa della razza», I, n. 1, 20 settembre 1938, p. 7.
257 g. preziosi, Centomila?, ivi, n. 5, 5 ottobre 1938, p. 8.
258 Dall’A alla Zeta, in «Il Tevere», 8 aprile 1937, p. 3 e in «Quadrivio», V, n. 24, 11 aprile 1937, pp. 1 e 4-5.
259 g. preziosi, Centomila? cit., p. 8.
260 Ibid
261 Ibid.
262 g. podaliri, Quanti sono gli ebrei in Italia?, in «Quadrivio», VI, n. 11, 9 gennaio 1938, p. 1. Podaliri aveva già sottolineato, in precedenza, la «sproporzione» statistica della presenza ebraica nelle aree urbane in Italia: cfr. id., Considerazioni statistiche sugli ebrei in Italia, ivi, n. 4, 21 novembre 1937, pp. 1-2. Sulla «sproporzione» degli ebrei nella pubblica amministrazione, cfr. id., Gli ebrei e la vita politica in Italia, in «Il Tevere», 20-21 dicembre 1937, pp. 1 e 3.
263 c. barduzzi, Il numero degli ebrei in Italia e nel mondo, ivi, 2-3 novembre 1938, p. 3.
264 u. angeli, Gli ebrei manifesti e i clandestini, in «La Difesa della razza», II, n. 7, 5 febbraio 1939, p. 31.
265 Ibid.
266 Ibid.
267 Ibid
268 u. angeli, Tipo fisico e carattere morale dei veri e dei falsi Italiani, ivi, n. 14, 20 maggio 1939, p. 26.
269 id., Veniamo al pratico, in «Il Tevere», 26-27 settembre 1939, pp. 1 e 3.
270 id., Per le donne, ivi, 2-3 ottobre 1939, p. 3.
271 [t. interlandi], Il Mazzal, ivi, 30-31 agosto 1938, p. 1.
272 id., Sciocchezze intorno agli ebrei, ivi, 6-7 settembre 1938, p. 1.
273 m. de’ bagni, La terza razza, in «La Difesa della razza», II, n. 5, 5 gennaio 1939, p. 38.
274 Il R.d.l. 1728/1938, del 17 novembre 1938, regolamentò la concessione di una parziale esenzione della persecuzione (nota col nome di «discriminazione» e notevolmente ridotta rispetto a quanto indicato nella Dichiarazione sulla razza del 6 ottobre) a quei nuclei familiari un cui componente fosse caduto in guerra o per la causa fascista o (anche se deceduto prima del novembre 1938) avesse acquisito particolari «benemeren- ze» di ordine bellico (volontario, ferito, decorato), politico (iscrizione al pnf prima del 1923 o del secondo semestre 1924, cioè prima della costituzione del governo Mussolini o subito dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti), o di altro «eccezionale» tipo. Cfr. m. sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista cit., p. 177.
275 [t. interlandi], L’ebreo benemerito ovvero l’esemplare storia di Ballin, in «Il Tevere», 4-5 gennaio 1939, pp. 1-3.
276 g. sottochiesa, La nuova maschera dell’astuzia giudaica, ivi, 30-31 gennaio 1939, p. 3.
277 id., Ebrei discriminati, ivi, 13-14 maggio 1939, p. 3.
278 id., Come deve essere stroncata la manovra degli ebrei nelle Società Anonime, ivi, 17-18 settembre 1940, p. 3.
279 Ibid
280 g. sottochiesa, Ebrei in libreria, in «Quadrivio», IX, n. 16, 16 febbraio 1941, p. 1. Sul ruolo di Sottochiesa nella «bonifica libraria», cfr. g. fabre, L’elenco cit., pp. 102, 201.
281 La procedura rimasta nota come «arianizzazione», introdotta con la legge 1024/1939, del 13 luglio 1939, prevedeva che una persona potesse dimostrare di avere un genitore (o un altro ascendente) biologico diverso da quello registrato negli atti ufficiali di nascita. Date le sue caratteristiche, questa procedura fu di fatto utilizzata solo da persone di religione cristiana inizialmente classificate «di razza ebraica», le quali volevano essere riconosciute miste per poter poi essere riclassificate «di razza ariana». Cfr. m. sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista cit., pp. 173-75.
282 g. pensabene, Perché nel passato non è stata mai risolta la questione ebraica, in «Il Tevere», 4-5 giugno 1941, p. 3.
283 id., La rete giudaica, ivi, 16-17 giugno 1941, p. 3.
284 id., Gli ebrei in Italia, in «La Difesa della razza», V, n. 12, 20 aprile 1942, pp. 18-19.
285 a. a. monti della corte, Il problema dei nomi ebraici, ivi, II, n. 22, 20 settembre 1939, pp. 10-11. L’articolo era, in realtà, già stato anticipato da alcune lettere ospitate dalla rubrica dei lettori: cfr. in particolare Questionario. A proposito di cognomi, ivi, 5 agosto 1939, p. 42. Sui cognomi ebraici, cfr. anche s. a., Cohn, Meyer & Salomon, ditta ariana, ivi, n. 6, 20 gennaio 1939, pp. 30-31.
286 id., Il problema dei nomi ebraici cit., p. 11.
287 [t. interlandi], La satira e la razza, in «Il Tevere», 5-6 giugno 1941, p. 1.
288 id., Il pietismo e gli ebrei, ivi, 26-27 novembre 1938, p. 1.
289 id., I-tal-jia cit., p. 1.
290 g. pensabene, La Borghesia e la Razza, in «La Difesa della razza», I, n. 1, 5 agosto 1939, p. 31.
291 id., L’anima dannata della borghesia cit., p. 1.
292 g. landra, La razza dei borghesi, in «La Difesa della razza», II, n. 24, 20 ottobre 1939, p. 19.
293 a. tosti, L’irreligione del giudaismo borghese, ivi, n. 22, 20 settembre 1939,p. 9.
294 m. lelj, Ebrei e borghesi, in «Il Tevere», 17-18 settembre 1938, p. 5. Ma si veda anche id., Disarmiamo i borghesi, in «La Difesa della razza», I, n. 5,5 ottobre 1938, p. 39.
295 Cfr. Questionario-Parigi e Roma, ivi, II, n. 10, 20 marzo 1939, pp. 42-43.
296 Ibid., p. 43.
297 Cfr. Questionario-Stato di servizio della borghesia, ivi, p. 44.
298 Cfr. Questionario – Parigi e Roma cit., p. 43.
299 Cfr. Questionario – Umanesimo e commercio, ivi, n. 13, 5 maggio 1939, p. 59.
300 Cfr. Questionario, ivi, I, n. 6, 20 ottobre 1938, p. 62.
301 m. lelj, Disarmiamo i borghesi, ivi, n. 5, 5 ottobre 1938, p. 39.
302 Cfr. g. landra, Quattro anni di razzismo, ivi, V, n. 18, 20 luglio 1942, pp. 12-13.
303 j. herf, The Jewish enemy: the Nazi propaganda during World War 2 and the Holocaust, Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge-London 2006.
194Capitolo terzo
304 Ibid., p. 265.
305 Ibid., p. 264.
306 [t. interlandi], Chi prepara la guerra, in «Il Tevere», 28-29 settembre 1938, p. 1.
307 c. barduzzi, L’ultimo messia giudaico, ivi, 19-20 dicembre 1938, p. 3.
308 id., Il giudaismo ha vibrato il colpo, ivi, 5-6 settembre 1939, p. 3.
309 Ibid.Sul ruolo della Polonia nella cospirazione della «massoneria giudaico-internazionale», cfr. anche g. sottochiesa, La Polonia polveriera ebraica, in «Quadrivio», VII, n. 33, 11 giugno 1939, p. 6.
310 c. barduzzi, Il giudaismo ha vibrato il colpo cit., p. 3.
311 a. trizzino, Nemico N. 1, in «Il Tevere», 8-9 gennaio 1940, p. 1.
312 id., Scopi e profitti, ivi, 11-12 gennaio 1940, p. 1. Cfr. anche id., Hore Belisha e l’energia, ivi, 12-13 gennaio 1940, p. 1. Sulla figura di Belisha, cfr. anche s. a., Un impostore, ivi, 27-28 marzo 1940, p. 1.
313 a. trizzino, Il caso Belisha. Storia di un giudeo marocchino, in «La Difesa della razza», III, n. 6, 20 gennaio 1940, p. 9.
314 [t. interlandi], Gli ebrei si confessano, in «Il Tevere», 7-8 marzo 1940, p. 1.
315 id., Il nuovo destino del mondo, ivi, 20-21 maggio 1940, p. 1.
316 g. sottochiesa, Il mito degli impunibili, in «Quadrivio», VIII, n. 33, 9 giugno 1940, p. 3.
317 [t. interlandi], Guerra popolare, in «Il Tevere», 12-13 giugno 1940, p. 1.
318 g. dell’isola [pseud. di g. pensabene], Guerra popolare, in «La Difesa della razza», III, n. 16, 20 giugno 1940, p. 23.
319 id., Gli scopi della guerra dichiarati dagli ebrei, ivi, n. 24, 20 ottobre 1940, p. 17.
320 [t. interlandi], Al centro, in «Il Tevere», 17-18 maggio 1941, p. 1.
321 id., Il senso della guerra, ivi, 27-28 aprile 1942, p. 1.
322 id., Guerra d’acciaio, ivi, 21-22 dicembre 1942, p. 1. Cfr. anche id., Memento ebraico,ivi, 20-21 maggio 1942, p. 1.
323 g. piceno, Lo spionaggio ebraico, in «La Difesa della razza», IV, n. 11, 5 aprile 1941, p. 29.
324 [t. interlandi], L’ebreo vorrebbe…, in «Il Tevere», 27-28 maggio 1941, p. 1.
325 g. sottochiesa, Gli anglo-ebrei, in «Quadrivio», VIII, n. 43, 18 agosto 1940, p. 2.
326 id., Il trionfo del Vitello d’oro, ivi, n. 50, 6 ottobre 1940, pp. 1-2.
327 [t. interlandi], I due popoli «eletti», in «La Difesa della razza», IV, n. 7, 5 febbraio 1941, pp. 6-7.
328 id., La parte del giudaismo, in «Il Tevere», 1-2 febbraio 1941, p. 1.
329 id., Uomo e superuomo, ivi, 23-24 ottobre 1942, p. 1.
330 a. scucchia, Israele in Inghilterra, in «La Difesa della razza», V, n. 20, 20 agosto 1942, p. 20.
331 f. cat. [franco catalano], Alle origini dell’alleanza anglo-giudaica, ivi, n. 21, 5 settembre 1942,p. 20.
332 L’ebraismo nella politica e nella diplomazia britannica, ivi, VI, n. 1, 5 novembre 1942, p. 19.
333 g. pensabene, Il servizio segreto inglese, ivi, III, n. 21-22, 5-20 settembre 1940, pp. 37-39.
334 f. gismondi, Nobiltà ebraica, in «Quadrivio», IX, n. 37, 13 luglio 1941, p. 2.
335 g. lupi, Nobiltà anglosassone o nobiltà anglo-giudaica?, in «La Difesa della razza», IV, n. 7, 5 febbraio 1941, p. 30.
336 [t. interlandi], Prediche da galera, in «Il Tevere», 26-27 dicembre 1941, p. 1.
337 f. cat. [franco catalano], Churchill agente del giudaismo, in «La Difesa della razza», V, n. 18, 20 luglio 1942, p. 18.
338 [s. a.], La razza di Churchill, in «Il Tevere», 19-20 maggio 1942, p. 1.
340 Ibid.«La Difesa della razza» non esitava, per contro, a pubblicare le parole con cui il giovane Churchill, allora ministro della Guerra, aveva accolto, nel febbraio 1920, la visione cospirazionista della rivoluzione bolscevica diffusa dagli emigranti russi antisemiti, antimassoni e antibolscevichi: cfr. s. a., Churchill e gli ebrei, in «La Difesa della razza», IV, n. 19, 5 agosto 1941, pp. 28-29.
341 [t. interlandi], Questa storia la conosciamo… Ma finirà in un altro modo, in «Il Tevere», 23-24 novembre 1938, p. 1. Cfr. anche id., La maschera panamericana, ivi, 10-11 dicembre 1938, p. 1.
342 id., Il patrono della guerra, ivi, 11-12 dicembre 1942, p. 1. Cfr. anche id., La guerra all’americana, ivi, 23-24 aprile 1942, p. 1.
343 id., Pirati e gangsters, ivi, 12-13 dicembre 1941, p. 1.
344 id., Relitti di una crociera, ivi, 18-19 agosto 1941, p. 1.
345 id., Per esempio, ivi, 27-28 agosto 1941, p. 1.
346 g. almirante, Il «periodo ebraico» della storia americana, ivi, 14-15 marzo 1941, pp. 1 e 4.
347 id., Sulle orme di Churchill, ivi, 11-12 dicembre 1941, p. 1.
348 j. von leers, Come i giudei hanno trascinato gli Stati Uniti in guerra, in «La Difesa della razza», V, n. 7, 5 febbraio 1942, p. 43.
349 f. graziani, Storia razziale degli Stati Uniti. Superbia razzista, ipocrisia antirazzista, ivi, n. 11, 5 aprile 1942, p. 9.
350 [t. interlandi], L’ultimo disegno ebraico, in «Il Tevere», 15-16 maggio 1941, p. 1.
351 o. guido, L’avventuroso Salomone Bloom, in «La Difesa della razza», IV, n. 23, 5 ottobre 1941, pp. 23-24.
352 [t. interlandi], Documenti della guerra giudaica, in «Il Tevere», 17-18 febbraio 1943, p. 1.
353 u. angeli, «Judeoscopia», in «La Difesa della razza», IV, n. 6, 20 gennaio 1941, p. 26.
354 Ibid
355 id., Meglio del pogrom, ivi, V, n. 16, 20 giugno 1942, p. 19.
356 [t. interlandi], Inintelligenza col nemico, in «Il Tevere», 18-19 maggio 1943, p. 1; «La Difesa della razza», VI, n. 15, 5 giugno 1943, pp. 3-5.
357 id., La guerra contro chiunque per vincere la guerra, in «Il Tevere», 15-16 giugno 1943, p. 1.
358 id., L’abitante ebreo, ivi, 22-23 giugno 1943, p. 1.
359 c. barduzzi, Pessimismo e scetticismo. Armi giudaiche, in «La Difesa della razza», II, n. 7, 5 febbraio 1939, p. 37.
360 g. sottochiesa, Del pessimismo: morbo ebraico disfattista, in «Il Tevere», 7-8 agosto 1940, p. 3.
361 t. interlandi, Occhio ai disfattisti e ad altre canaglie, ivi, 9-10 novembre 1942, p. 1.
362 acs, mcp, Gabinetto, II versamento, b. 7, fasc. Telesio Interlandi, lettera di T. Interlandi a G. Polverelli, ministro della Cultura Popolare, 27 marzo 1943.
363 t. interlandi, Hanno paura degli ebrei?, in «Il Tevere», 31 dicembre 1941 - 1º gennaio 1942, p. 1.
364 id., Gli ebrei e l’ebreo ovvero: Spizzichino in Cassazione, ivi, 10-11 settembre 1942, p. 1.
365 t. interlandi, Setta e razza, ivi, 6-7 luglio 1943, p. 1.
366 acs, mcp, Gabinetto, II versamento, b. 7, fasc. Telesio Interlandi: lettera del Gabinetto del ministero della Guerra al ministro della Cultura Popolare e p.c. al Comando Supremo, 7 luglio 1943.
367 t. interlandi, Nessun occhio guarda questo volto, in «Il Tevere», 7-8 luglio 1943, p. 1.
368 Ibid
196Capitolo terzo
369 acs, mcp, Gabinetto, II versamento, b. 7, fasc. Telesio Interlandi: lettera di G. Vallauri a G. Polverelli, 7 luglio 1943.
370 Ibid., lettera di T. Interlandi a F. Mezzasoma, 7 luglio 1943.
371 Ibid., lettera di A. Luchini a G. Polverelli, 8 luglio 1943.
372 Ibid., rapporti di T. Tamburini al ministro della Cultura Popolare, 9 luglio 1943.
373 Ibid., lettera di R. Chiodelli a G. Polverelli, 14 luglio 1943.
374 c. barduzzi, Il giudaismo ha vibrato il colpo cit., p. 3.
375 j. von leers, Come è stata preparata la guerra, in «La Difesa della razza», III, n. 3, 5 dicembre 1939, p. 40.
376 c. b. [carlo barduzzi], Giudei ed arabi nella Spagna medioevale, ivi, n. 16, 20 giugno 1940,p. 43.
377 b. giannetti, Ebrei ed ebraismo nella vecchia Romania, ivi, IV, n. 2, 20 novembre 1940, p. 23.
378 Ibid., p. 26.
379 [t. interlandi], Un linguaggio, in «Il Tevere», 18-19 marzo 1941, p. 1.
380 id., La parte del giudaismo cit. Per l’identificazione della «cattiva coscienza» dell’Inghilterra nel «giudaismo», cfr. anche id., Sola, ivi, 1-2 febbraio 1941 p. 1.
381 g. piceno, Leggi ariane trucchi giudaici, in «La Difesa della razza», IV, n. 21, 5 settembre 1941, p. 21.
382 [t. interlandi], Memento ebraico cit.
383 g. landra, Gli ebrei della Bessarabia e della Bucovina, in «Il Tevere», 21-22 agosto 1941, p. 3.
384 Ibid
385 id., L’allontanamento degli ebrei dai comuni rurali della Moldavia, ivi, 20-21 agosto 1941, p. 3; id., Gli ebrei della Transilvania, ivi, 23-24 agosto 1941, p. 3; id., Nella Transilvania Romena, ivi, 3-4 settembre 1941, p. 3; id., Nella Moldavia del Nord, ivi, 2021 ottobre 1941, p. 3.
386 id., Giudaismo e comunismo contro la Romania, ivi, 25-26 agosto 1941, p. 3.
387 Ibid.
388 Ibid. Si veda anche g. landra, Sovversivismo giudaico in Romania, in «La Difesa della razza», V, n. 8, 20 febbraio 1942, pp. 6-8.
389 id., Giudei nella ex-Jugoslavia, ivi, n. 20, 20 agosto 1942, p. 17.
390 id., Fronte unico del razzismo italiano, ivi, VI, n. 8, 20 febbraio 1943, p. 13.
391 t. interlandi, La logica delle cose strane, in «Il Tevere», 21-22 luglio 1943, p. 1.
Capitolo quarto
Nature o Nurture?: «La Difesa della razza» e l’eugenica
Nel giugno 1940, un lettore della «Difesa della razza», tal Alfredo Andreini, da Lucca, scrive alla redazione del quindicinale, segnalando un «contrasto» fra le argomentazioni di «due delle migliori penne» della rivista, Guido Landra ed Edoardo Zavattari: per il primo, infatti, «le modificazioni più o meno portate dalle condizioni ambientali» non sono ereditarie; per il secondo, invece, l’ambiente ha «un’importanza fondamentale sui caratteri razziali»1. L’«incompatibilità» fra le due teorie è evidente – afferma ancora Andreini – e da esse derivano, sul «piano pratico di difesa della razza», «provvedimenti e direttive difformi»: «Non è possibile, – è la conclusione del lettore, – che possano ragionevolmente essere propugnate entrambe su queste colonne: una sola deve essere quella ufficiale».
Massimo Lelj, responsabile della rubrica Questionario, non fornisce una risposta alle perplessità di Andreini, limitandosi ad affidare ai diretti interessati – Landra e Zavattari – il compito di «risolvere la questione». Nessuno, tuttavia, raccoglierà la sollecitazione del lettore. Di fronte alla domanda capitale dell’eugenica – sintetizzata, fin dai tempi di Francis Galton, nel binomio nature o nurture (natura o cultura, eredità o ambiente) – il quindicinale interlandiano non esprime un’effettiva «linea ufficiale», mantenendo di fatto una posizione oscillante fra ereditarismo e ambientalismo2 .
1 La razza è ereditarietà.
Demonizzare Lamarck e smantellare, sul piano teorico, il lamarckismo – paradigma dominante nella medicina politica, nell’i-
198Capitolo quarto giene sociale e in larghi settori dell’eugenica italiana di quel periodo – appare, fin dai primi numeri del 1938, l’obiettivo prioritario degli eugenisti ereditaristi della «Difesa della razza».
A guidare l’offensiva anti-Lamarck è, primo fra tutti, Guido Landra. Razza – dichiara l’antropologo, nel dicembre 1938 – vuol dire essenzialmente ereditarietà. L’ambiente non esercita alcuna influenza sui tipi etnici, descritti sostanzialmente come immutabili e immortali: «Le qualità razziali hanno realmente il carattere dell’immortalità, e si mantengono tali finché vivono puri gli uomini di una determinata razza»3. L’eredità è un destino, dichiara Willi Nix nel maggio 1940: «avo e discendente sono inseparabilmente legati uno all’altro, l’uno è soltanto un anello della catena, e completa l’altro come un nuovo anello»4. All’inizio del 1941, in riferimento alle diverse attitudini professionali delle razze, il fratello di Guido, Silvio Landra, insiste sul paradigma ereditarista:
«Si verifica tra gli uomini quello che si verifica, del resto, in tutto il mondo animale. Un bracco sarà sempre un bracco, un levriere sarà sempre un levriere, un bassotto sarà sempre un bassotto, non solo nelle sue forme esteriori, ma nelle sue diverse attitudini di presa e di caccia, che non possono essere modificate dal padrone»5. Per il medico Giuseppe Lucidi, la purezza biologica della razza consiste nell’«identità di sangue», trasmessa ereditariamente6 .
I gruppi sanguigni devono essere, infatti, considerati come «fattori costituzionali»: «scientificamente è provato che se un individuo ha un gruppo sanguigno, un sangue diverso è perché ha una carne differente, diversa da un altro»7. E se Lino Businco sottolinea la necessità di approfondire l’eziologia ereditaria delle malattie8, alla «legge di Galton» si rifà Luigi Castaldi, direttore dell’Istituto anatomico di Cagliari, nel novembre 1938, per dimostrare l’ereditarietà dell’indice cefalico: «Attraverso il plasma germinativo passa nei nostri discendenti qualcosa della nostra stessa sostanza, onde si riproducono in loro la nostra immagine, le nostre attitudini e capacità, le nostre virtù, le nostre debolezze»9. Nell’agosto 1938, l’attacco al neolamarckismo assume i contorni di un vero e proprio «ritorno a Galton», alimentato dalla preoccupazione per la progressiva «decadenza dei ceti superiori». Sfogliando riviste e giornali – afferma Gasteiner – si può constatare «il larghissimo posto dedicato ai vari generi di sport», tanto da essere indotti a credere che «si faccia per l’avvenire della Nazione un
Nature o Nurture?: «La Difesa della razza» e l’eugenica199 massimo di sforzo». In realtà, secondo il giornalista atesino, «tutto questo gigantesco lavoro per la educazione fisica della gioventù non ha alcun effetto sulla qualità o su un desiderato miglioramento razziale ereditario», in quanto «il singolo avrà di certo vantaggi per la sua costituzione, ma questi miglioramenti sono paratipici, cioè non ereditari e quindi non cambiano la razza»10. In un contesto ideologico, nel quale Giuseppe Pensabene non esita a rievocare le critiche mosse dalla «Civiltà Cattolica» alle teorie lamarckiane11, anche Lino Businco, in altri casi sensibile al problema delle influenze ambientali, giunge a collocare Francis Galton alle origini dell’eugenica fascista12 .
Quanto alle leggi di Mendel, perno teorico dell’eugenica ereditarista, è Marcello Ricci, assistente di zoologia all’Università di Roma, a sottolinearne la specifica validità, non solo a livello generale13 , ma anche in riferimento alla specie umana, tanto per i caratteri normali, come il colore degli occhi o dei capelli, quanto per quelli anomali o patologici: «Si può […] concludere – afferma Ricci – che tutta l’eredità umana si esplichi anch’essa come quella degli animali e delle piante in dipendenza delle leggi di Mendel»14. Anzi, soprattutto l’evidente validità dei meccanismi mendeliani nella trasmissione ereditaria dei caratteri patologici può far sperare, secondo Ricci, in «opportune applicazioni nel campo della eugenica razziale»15 .
Galton e Mendel non sono gli unici nomi illustri chiamati a popolare il pantheon del paradigma ereditarista eugenetico della «Difesa della razza». Guido Landra recupera, ad esempio, la teoria ologenetica di Daniele Rosa e la sua applicazione all’uomo elaborata da Georges Montandon nel 1928, sottolineandone i due aspetti funzionali all’ideologia razzista italiana:
1)La comunanza di origine degli elementi razziali che hanno contribuito a formare il substrato antropologico dell’Italia con quelli degli altri popoli europei, la quale ci si rivela oggi con l’affinità fisica e psicologica che in grado maggiore o minore tali popoli presentano con il nostro;
2)La formazione sul suolo della nostra patria di una razza particolare, formazione iniziatasi in era remotissima, e accompagnata da una continua evoluzione per cui nel corso dei secoli la razza italiana si è sempre più differenziata dalle altre razze affini, accentuando e sviluppando determinate caratteristiche fisiche e psicologiche16 .
E se l’ologenesi di Rosa-Montandon viene assunta per dimostrare, contro l’ambientalismo lamarckiano, l’evoluzione delle spe-
200Capitolo quarto cie «per forze interne», fra i capisaldi dell’eugenica ereditarista vengono individuate anche le narrazioni utopiche di Tommaso Campanella17 e Leon Battista Alberti18; il «monogenismo» di Vincenzo Giuffrida-Ruggeri19, il costituzionalismo, con i suoi contributi sul rapporto fra biotipi e fecondità20; le tesi di Georges Vacher de Lapouge, «pioniere del razzismo» ricordato da un articolo dello stesso Montandon21; e le ricerche genealogiche, prima fra tutte quella del medico socialista Gaetano Pieraccini sulla stirpe dei Medici di Cafaggiolo22 .
Ma sono soprattutto i contributi tedeschi e statunitensi a fornire i più solidi supporti scientifici agli eugenisti della «Difesa della razza». Ne è una riprova, ancora una volta, il percorso intellettuale di Guido Landra. Volendo rintracciare, infatti, una sorta di filo rosso negli articoli pubblicati dall’antropologo sul quindicinale interlandiano, esso andrebbe probabilmente individuato nella critica dell’antropologia classica ottocentesca, mossa alla luce dei recenti sviluppi della «scienza dell’ereditarietà», con il suo approccio di tipo genetico allo studio dei caratteri morfologici. Pur non disdegnando l’esposizione dei metodi antropometrici tradizionali23 o la descrizione delle differenti tassonomie elaborate dagli «studi razziali» europei ed extra-europei24, gli apporti più significativi di Landra privilegiano l’analisi dei processi ereditari che caratterizzano i singoli fattori razziali: dalle impronte digitali e palmari25 alla forma del viso26, dal «sistema tegumentario»27 ai gruppi sanguigni28, dall’ereditarietà delle malattie29 ai fattori dell’accrescimento corporeo30. La ricostruzione dei riferimenti citazionali di questi articoli dimostra esplicitamente l’influenza esercitata su Landra dall’eugenica nazionalsocialista. Fin dall’aprile 1938, Landra è infatti in diretto contatto con Eugen Fischer, direttore dal 1927 al 1942 del Kaiser Wilhelm Institute für Anthropologie, menschliche Erblehre und Eugenik31. Nel dicembre dello stesso anno, in qualità di direttore dell’Ufficio Razza, visita i principali istituti di antropologia tedeschi32, stabilendo contatti scientifici che si riveleranno preziosi. Nel 1940, in occasione del concorso per la cattedra di antropologia di Palermo, Landra può infatti contare sul parere positivo di Eugen Fischer:
Il Dr. Landra è quell’antropologo italiano che, quasi solo, riconosce il nuovo indirizzo dell’antropologia e combatte per il nuovo sviluppo di questa scienza nel modo più deciso.
Egli non manca mai di ripetere che al posto della vecchia antropologia descrittiva deve subentrare una scienza della razza, basata sui riconosciuti insegnamenti dell’ereditarietà e che metta in prima linea la questione come razza ed ereditarietà influiscano in modo basilare sulla vita dell’uomo, sulla cultura e sulla storia della cultura; in ciò, a ragione, egli si sente mio figlio spirituale.
Il Dr. Landra si riallaccia alle mie ricerche sul meticciato e alle mie nuove dimostrazioni che le razze sono esclusivamente gruppi di comuni qualità ereditarie33
Per l’occasione, anche Othmar von Verschuer, direttore del dipartimento di genetica umana del Kaiser Wilhelm Institute di Berlino, coglie nei lavori di Landra «un vasto sapere e profondità e solide cognizioni scientifiche», riconoscendo all’antropologo il «merito di aver saputo sviluppare l’antropologia dalla craniologia e dalla morfologia un tempo così ristrette, fino a giungere alla biologia delle razza oggi così importante per la politica della popolazione»34. Ancora nel gennaio-febbraio 1941, Landra visita e prende contatti con alcuni dei nuclei più attivi e rilevanti della Rassenhygiene tedesca: in particolare, i laboratori di Eugen Fischer35 e di Othmar von Verschuer36; l’Istituto di antropologia ed etnologia di Breslau, guidato da Egon von Eickstedt37; l’Istituto per il potenziamento razziale, diretto da Heinrich Wilhelm Kranz presso la Facoltà di medicina dell’Università di Giessen38 .
Su tali connessioni teoriche si basa la ferma approvazione, da parte dell’eugenica ereditarista della «Difesa della razza», di misure «negative» miranti al controllo «qualitativo» della popolazione. È, innanzitutto, il progetto di una schedatura nazionale delle caratteristiche biologiche degli italiani a essere suggerita con frequenza da parecchi collaboratori del quindicinale interlandiano. Fin dal primo numero, il presidente dell’istat, Franco Savorgnan, auspica un aggiornamento dell’inchiesta antropometrica, realizzata da Ridolfo Livi nel 189639. Qualche mese più tardi, Giuseppe
Lucidi propone un «censimento del sangue», finalizzato al raggiungimento di un importante obiettivo «scientifico-razziale»:
«una esatta ricerca dei gruppi sanguigni, – scrive infatti polemicamente Lucidi, – oltre a dare sostanza documentale al nostro razzismo, determinando le caratteristiche biologiche della nostra razza, porrebbe la nostra scienza all’avanguardia di ogni ricerca al riguardo, considerando che all’estero si sta attivamente lavoran-
202Capitolo quarto do, mentre qui quasi nulla si è fatto, né si ha in animo di fare, per gettare su solide basi una scienza della razza»40. Nel marzo 1941, è la volta dell’«archivio razzistico nazionale, ricco di tutti gli alberi genealogici», patrocinato da Giulio Silvestri. Ricostruire «gli alberi genealogici delle singole famiglie, o meglio dei singoli individui» darebbe, secondo Silvestri, «la misura esatta della composizione razziale della Nazione» e contribuirebbe a chiarire «maggiormente nel pubblico il concetto di razza, giacché ognuno vi scoprirebbe chiaramente la propria posizione attraverso una fitta rete di parentele e consanguineità»41 .
Nell’ambito di questa antica aspirazione dell’eugenica italiana alla schedatura totale della popolazione42, si innestano le parole d’ordine più radicali e tranchant della «Difesa della razza»: proibizione dell’«incrocio razziale» ed «eliminazione dei tarati». Per quanto riguarda il primo aspetto, indubbiamente la mixofobia e la denuncia del meticciato è un tema ricorrente nelle pagine del quindicinale. Fin dal primo numero, Guido Landra attinge ai dati di Eugen Fischer sui cosiddetti «bastardi di Rehoboth»43 e sui «bastardi del Reno»44 per dimostrare gli effetti degenerativi degli incroci razziali45. Per Leone Franzì, la «disaffinità costituzionale dei plasmi materno e paterno», alla base dell’ibridismo, produce nella razza danni di carattere sia quantitativo (aumento dell’aborto e della sterilità), sia qualitativo (le «disarmonie biologiche» che determinano una maggior frequenza delle malattie e dei disturbi mentali)46. Se tutta la letteratura eugenetica – e Franzì cita i lavori dell’eugenista statunitense Charles B. Davenport, dello svedese Herman Lundborg e del norvegese Alfred Mj°en – dimostra la negatività dell’ibridismo, la politica è chiamata a intervenire per «evitare qualsiasi tipo di incrocio che provocando quello che molto efficacemente è stato denominato un “caos razziale” insidia pericolosamente quella che deve essere la igiene sia fisica che morale delle popolazioni»47. Ciò diviene tanto più evidente e legittimo – continua Franzì – in quanto «già esistono norme non solo civili ma anche religiose che ostacolano le unioni di consanguinei e ciò a scopo unicamente eugenico, quando poi gli incroci presentano pericoli e danni non certo minori, anzi sicuramente maggiori della consanguineità»48. Non bisogna, dunque, impedire soltanto la «consanguineità», ma anche l’«imbastardimento», estendendo il divieto di matrimonio alle unioni fra «elementi di razze diverse,
Nature o Nurture?: «La Difesa della razza» e l’eugenica203 specie se inferiori»49. Nell’articolo intitolato Il meticciato morte degli imperi, firmato da Giuseppe Lucidi, l’ibridismo diviene sinonimo, da un lato, di sterilità e, dall’altro, di «disarmonie fisiche e spirituali»50. Dello stesso parere è il medico siciliano Raffaele D’Anna Botta51, per il quale «gli incroci misti sono disastrosi, specialmente per le razze superiori che perdono immediatamente le loro eccezionali qualità psichico-fisiche e le doti intellettuali»52 .
Il tema è affrontato anche sul piano giuridico. A più riprese, infatti, il magistrato Mario Baccigalupi – giudice del Tribunale di Milano, responsabile delle pagine di «legislazione del razzismo» sulla «Difesa della razza»53 – interviene per precisare la portata e le conseguenze del «reato di madamato». In particolare, nel 1939, Baccigalupi partecipa a una campagna orchestrata da Interlandi contro una sentenza, erroneamente attribuita alla Corte d’Appello di Tripoli54, che avrebbe assolto un’imputata dall’accusa di aver avuto relazioni d’indole coniugale con un tripolino, ritenendo quest’ultimo, in quanto cittadino di una provincia libica del regno d’Italia, non assimilabile ai sudditi dell’aoi. Ciò basta per far insorgere Baccigalupi contro il mancato rispetto del «criterio razziale», previsto dalla legge del dicembre 193755 .
Un intero numero speciale della «Difesa della razza» – quello del 20 marzo 1940 – è dedicato al problema del meticciato, «allo scopo, – afferma Landra, – di divulgare sempre più tra gli italiani tali studi e di contribuire alla formazione dell’orgoglio di razza»56 . Gli articoli, firmati da «specialisti in materia di indiscussa autorità e serietà scientifica»57, racchiudono un significativo repertorio di «classici» del movimento eugenetico internazionale58: Eugen Fischer sui «bastardi di Rehoboth»59, Charles Davenport e Morris Steggerda sui «mulatti della Jamaica»60, Wolfgang Abel sui «meticci della Renania»61, Y. K. Tao sugli incroci fra europei e cinesi62, Johann Schaeuble sul meticciato nell’America del Sud63, Rita Hauschild sugli incroci «negro-cinesi»64. Non sono pochi, inoltre, i passaggi in cui «La Difesa della razza» presta attenzione all’eugenica statunitense65 e al suo timore di un racial suicide provocato dal diffondersi dell’ibridismo: le tesi di Madison Grant e di Lothrop Stoddard vengono citate, in questo caso, come la conferma di un pericolo biologico tanto reale da non poter essere negato nemmeno dalla «tollerante e liberissima America»66. Anche per Giuseppe Pensabene, responsabile dal 20 febbraio 1941 di una rubrica
204Capitolo quarto speciale sul meticciato, la «mescolanza» è un «delitto contro Dio» e coloro che non posseggono questo «sentimento di natura religiosa» devono essere giudicati e condannati come «anormali»67. Contro l’«impressionante» numero di meticci nel mondo, calcolati da Pensabene nell’ordine dei sessantacinque milioni – «un ottavo della popolazione aria» – occorre da un lato esercitare un rigido controllo dei flussi migratori, dall’altro, mantenere sempre alto il livello di guardia, combattendo quel meticciato «morale», che è l’anticamera del meticciato biologico68. Ad aggravare ulteriormente il problema contribuisce il conflitto in corso, con la presenza di «truppe di colore che l’incoscienza delle democrazie ha portato a combattere sul nostro continente»69. Di qui la necessità, particolarmente sentita da Landra, che «a tempo vengano individuati i meticci e siano presi i provvedimenti necessari onde impedire che il sangue della vecchia Europa non ne resti irrimediabilmente avvelenato»70. Intorno al problema eugenetico del meticciato si delinea, pertanto, la netta contrapposizione tra l’egualitarismo democratico e il fascismo razzista: all’«umanità di bastardi» favorita dal primo, il secondo contrappone, invece, un «programma di difesa e di potenziamento»71. Se il liberalismo e la democrazia aprono la strada all’ibridismo e alla confusione biologica, determinando – come i casi della Francia e dell’America Latina dimostrerebbero – quel caos razziale da cui hanno origine i fenomeni di crisi sociale e politica72, il fascismo si configura come un ritorno all’ordine naturale (e divino) della separazione razziale, fonte di salute biologica, nonché di stabilità e sicurezza sociale e politica.
Anche per quanto riguarda il problema dell’«eliminazione dei tarati» attraverso misure quali il certificato prematrimoniale obbligatorio e la sterilizzazione, il modello di riferimento è chiaramente l’eugenica «negativa» di matrice tedesca e statunitense. Nell’agosto 1938, Landra respinge, ad esempio, con queste parole la proposta di collaborazione alla «Difesa della razza», avanzata da Germana Maulini (direttrice, prima della guerra civile spagnola, dell’Instituto Meomenista di Barcellona e successivamente a capo dello Studio di fisioterapia e rieducazione fisica di Borgomanero) e dal suo segretario, il medico Carlo Cosimo Borromeo, cultore di «estetica antropobiologica»:
Scopo del razzismo non è quello di portare degli individui anormali ad un livello normale o di correggere delle imperfezioni fisiche, ma di difende-
Nature o Nurture?: «La Difesa della razza» e l’eugenica205 re e potenziare sempre più gli elementi migliori della razza. Mi pare quindi che l’opera della Prof.ssa Maulini – pur altissima dal punto di vista umanitario – non possa trovare sede di divulgazione nella «Difesa della Razza» che ha altri precisi obiettivi 73
In effetti, pochi mesi dopo questa lettera, Marcello Ricci, sulle colonne della «Difesa della razza», dopo essersi soffermato sul problema della trasmissione mendeliana delle malattie ereditarie, ne approfondisce le conseguenze dal punto di vista pratico, suggerendo un’adeguata «limitazione dell’attività riproduttiva degli individui nocivi alla razza»:
Occorre quindi riconoscere che in ultima analisi l’unico grande beneficio al miglioramento di una razza può essere dato dalla eliminazione dei tarati, se razionalmente condotta per più generazioni successive […]. Quanto alla opportunità allora, ai fini di un vero miglioramento della razza, basato cioè sulla effettiva diminuzione delle tare genetiche, dell’applicazione di opportune provvidenze tendenti alla limitazione dell’attività riproduttiva degli individui nocivi alla razza, ci appare che essa debba essere il giusto corollario di una semplice e serena riflessione su quanto abbiamo scritto74
E a chiusura dell’articolo compare, non a caso, il riferimento a uno dei casi più celebri della letteratura eugenetica internazionale, quello di Ada Jukes e della sua discendenza «degenerata»75 .
Tra i collaboratori della «Difesa della razza», l’antropologo Lidio Cipriani è fra i più attivi sostenitori del modello eugenetico nazionalsocialista. Pur sottolineando che «l’unità spirituale degli italiani» presenta una sua «base biologica»76, Cipriani ritiene, tuttavia, che la razza-nazione scaturisca da un «miscuglio» di tipi umani differenti e che, al suo interno, le élite rappresentino l’espressione dell’«elemento etnico meglio dotato», identificato in particolare nel nordico biondo77: un articolo dedicato a queste tematiche, dal titolo Miscugli di razza, viene non a caso censurato dal ministero della Cultura Popolare, in quanto – come scrive Landra a Cipriani, nell’agosto 1938 – «per la nostra politica esiste in Italia una sola unica razza»78. Poiché, sulla base della teoria della fertilità differenziale, «la fecondità è in ragione inversa all’elevatezza delle doti fisiche e mentali nonché delle condizioni economiche»79, compito fondamentale del razzismo fascista deve essere, secondo Cipriani, quello di «stimolare […] la riproduzione dei migliori con la divulgazione dei principi eugenetici, coi provvedimenti economici e con una appropriata esaltazione dei sentimenti pa-
206Capitolo quarto triottici»80. Al fine di proteggere e favorire «la diffusione dei tipi meglio dotati», nell’ambito dello stesso corpo nazionale, l’antropologo fiorentino propone – in un memoranduminviato al ministero della Cultura Popolare il 15 luglio 1938 – un vero e proprio progetto di «sorveglianza» delle migrazioni interne alla penisola, finalizzato a impedire il più possibile l’«imbrunimento» dei «tipi razziali» italiani:
Non si può mettere in dubbio l’esistenza di vari tipi etnici in Italia. Alcuni di essi sono da considerarsi dotati bene, altri meno bene, dal punto di vista delle attitudini mentali. Interesse nazionale sarebbe naturalmente quello di favorire la diffusione dei tipi meglio dotati in tal senso. Frattanto è certo che l’Italia, al pari di altre regioni europee – la Grecia ad esempio – ha soggiaciuto attraverso i tempi ad un processo, si può dire, di imbrunimento dei propri tipi razziali. In altri termini è da ammettersi che i biondi siano stati più numerosi nel passato. A meno di provvidenze, in ogni caso però molto difficili a prendersi, il numero dei biondi sembra destinato a diminuire ancora nelle generazioni future. Motivi antropologici inducono a ritenere che la Grecia non potrà più assurgere all’antico splendore appunto per l’imbrunimento eccessivamente protrattosi della popolazione. Nei limiti del possibile sarebbe da ostacolare, o meglio ancora da allontanare, una tale sorte all’Italia81 .
Nello specifico, Cipriani suggerisce «una oculata quanto segreta politica degli spostamenti dei tipi etnici sul suolo italiano», spingendosi fino a ipotizzare la possibilità di un potenziamento di quelli biologicamente più favorevoli, accompagnato dall’«eliminazione di alcuni tipi etnici giudicati indesiderabili». Il riferimento alla Germania, e al programma di sterilizzazione dei Rheinlandbastarde 82, è esplicito:
Un analogo problema, riguardante addirittura il proposito di eliminazione di alcuni tipi etnici giudicati indesiderabili, si cerca di risolvere segretamente in Germania: ove appunto sarebbe utile informarsi sui mezzi adottati. D’altra parte, però, favorire da noi il miscuglio di alcuni dei nostri tipi etnici può significare la creazione di nuove energie favorevoli allo sviluppo del Paese; ma anche su questo occorrerebbe cercare di vedere chiaro per disciplinare nella maniera più utile il fenomeno83
In quest’ottica non stupisce che Cipriani consideri la legislazione eugenetica nazionalsocialista un modello da imitare. Un suo articolo – pubblicato su «Gerarchia», nel dicembre 1939, e ripreso sulla «Difesa della razza», nel gennaio 1942 – contiene un’esaltazione della Rassenhygiene tedesca, tanto sul piano teorico-scien-
Nature o Nurture?: «La Difesa della razza» e l’eugenica207 tifico, quanto su quello pratico-politico: la sterilizzazione, in particolare, comporterebbe, secondo l’antropologo, un «indubbio guadagno sociale per la ridotta generazione dei tarati»84 .
I metodi dell’eugenica «negativa», che suscitano l’ammirazione di Cipriani, sono condivisi e invocati, all’interno della redazione della «Difesa della razza», anche da Marcello Ricci e da Guido Landra. Il primo, nel gennaio 1939, dedica al problema del certificato prematrimoniale una lunga rassegna, in cui analizza le situazioni legislative di Stati Uniti, Germania, Francia, Svezia, Norvegia, Olanda, Russia, Messico, Argentina e Turchia85; il secondo, nel giugno 1941, dopo aver anch’egli esposto nel dettaglio le legislazioni eugenetiche europee e americane, auspica che anche il fascismo affronti presto il «problema della razza» sotto «l’aspetto eminentemente qualitativo»:
Noi sappiamo che una azione nel campo prematrimoniale sarebbe accolta con favore specie dalla gioventù italiana. Del resto abbiamo potuto constatare che in Germania l’idea della necessità della visita prematrimoniale e della sterilizzazione è ora compresa anche da quegli ambienti, che si erano dimostrati in passato più ostili ad essa. […]
Il numero ha valore unicamente quando sia accompagnato dalla qualità e noi siamo certi che la meravigliosa affermazione mussoliniana, «il numero è potenza», non può essere intesa in altro senso86 .
Alla fine del 1941, il medico Aldo Modica ribadisce che il controllo eugenetico prematrimoniale si fonda su «una larga base acquisitiva», ovvero sulla «comprovata trasmissibilità» delle «malattie ereditarie» e dei «caratteri psichici degenerativi», sui «danni accertati dalla presenza nei genitori di gravi malattie costituzionali», sulle «lesioni che la malattia di uno dei coniugi può portare all’organismo dell’altro, od alla sua capacità generativa», sulla «dominanza che hanno i caratteri di una razza deteriorata od inferiore rispetto ai caratteri della razza in cui l’evoluzione fisiopsichica ha raggiunto un superiore affinamento»87. Nel marzo 1942, è ancora Landra ad attaccare la «politica demografica puramente quantitativa» del regime fascista, richiedendo a gran voce un intervento politico finalizzato a «migliorare geneticamente il popolo italiano, impedendo l’aumento dei peggiori e favorendo invece quello dei migliori»88 .
Come in altre situazioni, è tuttavia la rubrica dei lettori – il Questionario – la sede privilegiata della campagna promossa dalla
208Capitolo quarto
«Difesa della razza» a sostegno di un’eugenica «negativa» basata su sterilizzazioni e certificati prematrimoniali obbligatori. A inaugurarla è la contrapposizione fra due «camerati» lettori non meglio identificati, di nome Vassetti e Falanga: se, per Vassetti, la sterilizzazione, per essere efficace, deve essere obbligatoria, per Falanga l’«abbinamento» fra sterilizzazione volontaria e certificato prematrimoniale obbligatorio può essere assunto come forma di mediazione fra Stato fascista e Chiesa cattolica89. L’invito della redazione a discutere di sterilizzazione e di certificato prematrimoniale, senza «ignorare» né «sottovalutare» la questione90, viene immediatamente assecondato e il Questionario si affolla di pareri entusiasti dei lettori: Eleonora Villani sottolinea il «lato umano della sterilizzazione», citando il pietoso caso di due genitori e del loro figlio affetto da una «terribile tara»; Giambattista Volta propone di «accoppiare gli individui aventi tare di carattere antitetico, per cui ci sarebbe da sperare che nel prodotto il difetto dell’uno fosse compensato dal difetto opposto dell’altro»; Aurelio Migotto sostiene che l’uomo «deve essere reso innocuo» con la sterilizzazione, ma ribadisce l’importanza eugenica delle politiche sociali atte a favorire la natalità e a combattere lo sviluppo delle grandi città, «focolai di infezione che intaccano le doti morali della razza»; e Lorenzo Falanga torna a invocare un maggior spirito di collaborazione da parte della Chiesa cattolica91
Le prime note critiche provengono, nel dicembre 1941, da Claudio Del Bo: la scarsa diffusione in Italia del tema della sterilizzazione non dipende dall’impreparazione degli scienziati italiani, ma «dall’aspetto “italiano” che il problema assume nella nostra patria, dal carattere mediterraneo-romano della nostra gente sempre ricca di equilibrio e dal sentimento religioso rappresentato direttamente o indirettamente dalla Chiesa romana»; l’eredità patologica rimane un problema tutt’altro che definito e chiaro dal punto di vista scientifico; la Chiesa cattolica ha già espresso il suo netto rifiuto nell’enciclica Casti Connubii; l’introduzione del certificato prematrimoniale favorirebbe le unioni illegittime, minando così il «costume morale della famiglia […] alla base dell’organismo sociale». In più, occorre non dimenticare l’influenza del «fattore ambiente» e l’efficacia di una politica «quantitativa», oltre che «qualitativa». La ricetta di Del Bo è quella ormai consolidata, almeno in Italia: «perseverare […] nei provvedimenti già pre- si dal Fascismo, intensificare la lotta contro le malattie sociali; incoraggiare la procreazione di persone sane e robuste; promuovere, specialmente fra i giovani, una vita sana e sportiva, creare insomma un ambiente eugenico tale da eliminare o almeno limitare tare ritenute ereditarie»92. Una posizione «ambientalista», dunque, che provoca subito l’immediato ammonimento della redazione: «Vogliamo ammonire il camerata Del Bo a studiare con maggiore attenzione il problema dell’ereditarietà. Giacché se a questo fattore egli vuol dare un’importanza assai relativa e in ogni caso tutt’altro che categorica, egli dovrebbe accorgersi che – caduta l’ereditarietà – cade con essa uno dei pilastri del razzismo: del razzismo vero, scientifico, e non di quello che si pasce di fini spiritualistici»93 .
Il 1942 si apre, tuttavia, con la lettera di Massimiliano Uda, da Cagliari, il quale dichiara anch’egli di preferire, in materia di eugenica, la «persuasione» alla «costrizione»: «Occorre nel campo dell’eugenica, come in ogni altra attività fascista, educare il popolo al sentimento dei suoi doveri verso la comunità»94. Tocca quindi nuovamente a Vassetti il compito di difendere le ragioni dell’eugenica negativa contro le perplessità di Del Bo: la sterilizzazione non può essere «italiana», dichiara Vassetti, perché la tara biologica non muta con le differenze razziali; l’eredità patologica segue i meccanismi mendeliani della trasmissione dei caratteri, come dimostrano «le leggi naziste sulle tare ereditarie e degenerative», frutto non di «fanatismo politico o razziale», ma di «elementi controllati» scientificamente; l’ambiente è «fattore concomitante e non determinante» nello sviluppo dei «germi ereditari»95. Se la trasmissione dei caratteri è provata – risponde Del Bo – non è, tuttavia, dimostrato che essa rispetti leggi fisse: «l’eredità esiste ma non è comprovabile caso per caso». E poi, che senso avrebbe sterilizzare il portatore di una malattia come la sifilide, non trasmissibile solo con l’atto sessuale? Non sarebbe meglio isolarlo?
«Credere nel programma scientifico, – conclude Del Bo, – non è un puro atto di fede ma un dovere verso la evoluzione dell’individuo e della civiltà». Con la pratica della sterilizzazione verrebbe proprio a mancare «quell’accanimento della lotta contro il male che fa della medicina un apostolato»96 .
Al di là della consueta diatriba eredità-ambiente, il dibattito aperto sulla rubrica Questionario finisce, però, per avvitarsi pre-
210Capitolo quarto sto attorno a un secondo argomento critico, avanzato da Raffaele
D’Anna Botta nel febbraio 1942. Il rifiuto della sterilizzazione viene qui motivato adottando l’armamentario fornito dall’antisemitismo cospirazionista:
La «sterilizzazione» – arma insidiosa di decadenza scientifica – non è altro che una pratica che … ogni giorno pratica, sotto forma di scienza, il giudaismo cattedratico e professionale. La prova ce la danno quotidianamente i ginecologi ebrei e i ginecologi giudeizzati, i quali, con la scusa di intervenire per estirpare un male … ipoteticamente grave, isterectomizzano, indistintamente, tutte le donne che capitano nelle loro mani, facendole restare più ammalate di prima, oltre che sterili ed infeconde per tutta la vita.
Meglio di così non si potrebbe servire Israele! In altri termini, applicando la «sterilizzazione» si finirebbe col favorire il grande piano distruttivo del messianismo ebraico il quale consiste nell’estinzione totale dei Nazzareni97 .
Alla sterilizzazione, strumento omicida nelle mani del complotto ebraico mondiale, D’Anna Botta contrappone la «desaprofitizzazione», ovvero l’eliminazione dell’inquinamento patologico interno ereditario alla base di malattie come la tubercolosi o il cancro, inventata dall’«italianissimo» Pier Nicola Gregoraci: pratica costituzionalistica introdotta alla fine dell’Ottocento e, non a caso, «combattuta con la congiura del silenzio dal settarismo ebraico-massonico»98. Già al centro, nel 1935, delle campagne antisemite di Farinacci e di Preziosi99, le teorie neoippocratiche ed olistiche di Gregoraci – fondatore della Società italiana di medicina costituzionalistica e accanito sostenitore di una fumosa terapia diretta esclusivamente al «riequilibrio fisiologico del plasma e degli elementi sanguigni»100 – erano state esaltate dallo stesso D’Anna Botta nel marzo 1939, sulle pagine del «Tevere», in polemica con la batteriologia, etichettata come «pseudo-scienza internazionale, ebraico-massonica»101. Nella rubrica della «Difesa della razza», la campagna a favore della «dottrina gregoraciana» e contro l’«ebraica» sterilizzazione non sembra, tuttavia, trovare un terreno favorevole. Che cos’è questa «desaprofitizzazione»?, esclama, infatti, Carlo Vassetti, nel marzo 1942, rispedendo al mittente la tesi della «giudaizzazione» della sterilizzazione: «A quella scienza medica predominante, dal nostro contraddittore duramente anatemata, appartengono tuttora ed hanno appartenuto luminari e scienziati di purissima ed insospettabile italianità oltre che di adamantina fede scientifica»102. E anche Falanga è per una volta d’accordo, in
Nature o Nurture?: «La Difesa della razza» e l’eugenica211 questo caso, con Vassetti. Dichiarando la propria sincera ignoranza sulla natura e sulla stessa etimologia della «desaprofitizzazione», egli sostiene, infatti, esplicitamente la neutralità della metodologia medica rispetto all’appartenenza razziale di chi ne fa uso: «Il fatto che mediante la sterilizzazione la medicina ebraica pretenda di sterminare la schiatta dei goim o un giudeo inviti alla distruzione del popolo tedesco, non deve indurre i gentili a ripudiare quel metodo per raggiungere finalità ben più alte»103. Se si escludono le note di tali Giuseppe Chiesa104, Gino Valisfanio105 e del «camerata» Giviani106, tutte tese a documentare la «congiura del silenzio» tramata dalla medicina «giudaizzata» contro Gregoraci, l’assenza di una replica da parte di D’Anna Botta circa l’effettiva «bontà del metodo desaprofitizzante»107 conduce il dibattito della «Difesa della razza» a un punto morto. Un tentativo di rilancio viene mosso, nell’agosto 1942, dal solito camerata Falanga, il quale, dopo una breve sintesi delle fasi della discussione e delle conclusioni raggiunte, ribadisce l’importanza della sterilizzazione e del certificato prematrimoniale negli ambiti della politica, della morale, della religione e della scienza:
Per la politica si tratta della necessità di difendere la sanità della razza […].
Per la morale è questione di non offendere quel senso di umana dignità, che è in ciascuno, di volersi sapere continuato nei figli, oltre la fugace parentesi della vita individuale.
Per la religione interessa tutelare il diritto alla prole ed evitare all’uomo un conflitto fra la sua coscienza di cittadino e quella di credente.
Per la scienza, infine, è necessario oltre che tentare di prevenire il propagarsi dei mali ereditari, il curarli negli individui con i mezzi più efficaci, in modo da poter loro garantire una sana figliolanza108 .
Del tutta isolata appare ormai, nell’aprile 1943, la lettera del dottor Giovanni De Santis, medico condotto a Rapagnano (Ascoli), il quale, nonostante alcune riserve della redazione della «Difesa della razza», torna a sostenere l’italianità della «desaprofitizzazione» e l’«ebraicità» della sterilizzazione coatta109 .
Il dibattito sui problemi della trasmissione dei caratteri ereditari sembra piuttosto trovare una nuova sede nella rubrica Genetica, curata (con lo pseudonimo Mod), fra l’agosto 1942 e il giugno 1943, da Aldo Modica, di cui in quegli stessi anni «La Difesa della razza» pubblica vari articoli volti a dimostrare l’inferiorità biologica della «razza anglosassone»110. Il tono delle «lezioni» si man-
212Capitolo quarto tiene per lo più su un piano teorico pseudoscientifico, ma l’impostazione rigidamente «mendeliano-weissmanniana», adottata per descrivere «l’immortalità nel corpo della specie delle sue cellule germinali»111, giustifica implicitamente la fondatezza delle misure eugenetiche negative. Né la preghiera al Santo protettore, né eventuali «norme profilattiche post-natali» – afferma Modica nel febbraio 1943 – possono, infatti, risultare efficaci di fronte al «ferreo determinismo genetico»112 .
Se la biologia è un destino, l’unica soluzione possibile è dunque quella di un’eugenica che consenta di eliminare i «geni» difettosi.
Se il paradigma ereditarista costituisce indubbiamente l’asse portantedel discorso eugenetico della «Difesa della razza», i riferimenti all’influenza dell’ambiente sull’ereditarietà umana certo non mancano.
L’immagine di un’eugenica intesa come prolungamento e completamento, in sede razziale, della politica sociale, igienica e demografica del regime fascista è, infatti, al centro dei contributi dei medici che collaborano al quindicinale, in particolare Lino Businco e Renato Semizzi, oltre che del giurista Ferdinando Loffredo.
Per il primo, basterebbe una diffusa azione preventiva e informativa sui pericoli delle malattie sociali – alcolismo, sifilide e tubercolosi in primis – a trasformare effettivamente un «seminatore di infelici in un padre normale»113. Fin dall’ottobre 1938, Businco celebra la «fitta rete assistenziale e previdenziale» del regime finalizzata all’«efficienza qualitativa e quantitativa» della «razza italiana»114. Gli fa eco, a breve distanza, Paolo Trizzino, il quale esalta a più riprese la politica previdenziale fascista a tutela della «sanità della razza»115. Nel marzo 1939, è di nuovo Businco a suonare il campanello d’allarme, invocando la «tutela biologica» di fronte alle «malattie razziali», il cui «agente eziologico» risiede nelle condizioni ambientali116 .
In una serie di contributi sulla «politica della famiglia e della razza», apparsi tra l’ottobre e il dicembre 1939, Ferdinando Loffredo esordisce escludendo qualsiasi forma di eugenica a carattere negativo: «Dell’eugenica il Fascismo fa suo il principio del
Nature o Nurture?: «La Difesa della razza» e l’eugenica213 rafforzamento della razza, ma entro quei limiti e con quei mezzi che non contrastano con la sua concezione della personalità umana. Così, ad esempio, non ammette la sterilizzazione coattiva»117 . Condannata formalmente l’eugenica «qualitativa», ben altri appaiono i «mezzi» utili al potenziamento biologico della razza: «L’uso contemporaneo, armonico e soprattutto preventivo di misure di contenuto spirituale e di misure di contenuto economico, le seconde concepite sempre su un piano subordinato rispetto alle prime; l’intervento igienico, sanitario e biologico, ma contenuto entro limiti tali da evitare qualunque affronto della personalità umana»118
Nell’eugenica espressa da Loffredo, sono tre le argomentazioni ricorrenti. Innanzitutto, l’identificazione di «politica della razza» e «politica della famiglia»: «Le misure intese a potenziare l’efficienza fisica della razza, – precisa Loffredo, – sono al tempo stesso misure di politica della razza e misure di politica della famiglia; comprese quelle che più specialmente influiscono sulla fertilità familiare: lotta contro la diffusione delle malattie veneree, prevenzione della sterilità, assistenza alle madri»119. In secondo luogo, la valorizzazione della medicina sociale e politica di contro alla «concezione privatistica della funzione del medico»120. Da ultimo, il recupero e la valorizzazione dell’«istintiva tendenza alla differenziazione e alla gerarchia fra i sessi» propria della «razza italiana», dalla quale discende la condanna di qualsiasi forma – sessuale, culturale o economica – di emancipazione della donna: Non basta operare soltanto sul terreno biologico cioè volgersi soltanto a rafforzare la razza, e per essa la donna, nel fisico. Non basta operare soltanto nel campo spirituale, cioè far rinascere atteggiamenti che siano in armonia con la concezione totalitaria della famiglia e dei compiti della donna. E non è nemmeno sufficiente operare sul solo terreno economico, cioè eliminare tutte le determinanti e le giustificanti economiche dell’emancipazione femminile. Bisogna agire contemporaneamente da ogni lato: gradualmente ma decisamente sopprimere ogni pretesto della emancipazione intellettuale, di quella economico-professionale e di quella morale121
Responsabile di una rubrica di medicina sociale dal titolo Salute della razza, Renato Semizzi, docente di medicina sociale presso le Università di Padova e Trieste, sembra preferire, al pari di Loffredo, l’«eutenica» all’eugenica, e per «eutenica» s’intende il «miglioramento dell’ambiente», l’incoraggiamento a «matrimoni prolifici», la «lotta contro tutte le malattie sociali»122. Lo stesso auto-
214Capitolo quarto re giunge a ipotizzare un’influenza generica della «civiltà», ovvero di una «perfezionata organizzazione sociale», sulle leggi dell’ereditarietà: l’«ambiente civile» altererebbe, infatti, il «congegno dei genidi», creando «delle modificazioni ereditarie, delle nuove costruzioni psicologiche, dei ritocchi somatici»123 .
Quelle offerte da Businco, Loffredo e Semizzi non sono le uniche ricette eugenetiche «positive» presenti sulla «Difesa della razza». Per Edmondo Vercellesi, ad esempio, sport e ginnastica consentono di eliminare «molte deformazioni fisiche» e di ricondurre alla «normalità» corpi «gracili e poco sviluppati»124. Secondo il pediatra e igienista Marcello Bolletti, è lo «sport femminile» – ovvero «la ginnastica leggera, gli esercizi a corpo libero, il lancio del disco e del giavellotto, le corse di breve tratto, la scherma, il nuoto, il tennis, lo ski, il canottaggio» – a preparare la donna alla maternità, divenendo così «fattore di sanità fisica e morale della razza»: «Nelle palestre, negli agonali, là dove c’è aria pura, luce, sole, non c’è posto per il vizio, per la giudaica falsità, per i malanni del corpo e dell’anima. Ci sono invece salute, allegria, vivacità, e tutte le prerogative della razza italiana»125. E lo studioso riminese Nevio Matteini giunge a scomodare il Cortegiano di Baldassarre Castiglione per illustrare i precedenti pedagogici dell’«educazione fisica muliebre»126. Sull’importanza dell’alimentazione si concentrano, invece, alcuni articoli di Giuseppe Lucidi: il «suolo» plasma gli individui – afferma il medico – «sia fisicamente che spiritualmente»127. E anche a Vercellesi appare evidente che «i figli sani e robusti sono la diretta risultante dell’alimentazione materna, come pure le razze forti e robuste sono figlie dei popoli meglio alimentati»128 .
Gli stessi reportage di Giorgio Almirante sulle città «mussoliniane» di Littoria, Arsia e Carbonia, raccolti sotto il titolo di Viaggio razziale per l’Italia, possono essere inquadrati nella cornice dell’eugenica «positiva» sostenuta dal quindicinale di Interlandi. La serie almirantiana è inaugurata da un duro affondo nei confronti del razzismo «spiritualistico» e della teoria della «razza-volontà»: Attenzione, dunque, alla volontà. Attenzione, perché i suoi sostenitori – sappiano o non sappiano qual è l’inevitabile conclusione del discorso – sanno ben presentare i loro trattatuzzi; e vi parlano della necessità di tenersi lontani dal materialismo, del pericolo che il razzismo degeneri in zoologia, dell’opportunità di valutare adeguatamente i fattori spirituali. Vi parlano tan-
Nature o Nurture?: «La Difesa della razza» e l’eugenica215 to bene, da farvi dimenticare che siete fatti di sangue e di ossa e di carne e di tradizioni e di costumi acquisiti nei secoli; e da convertirvi in puri spiriti amorfi, folleggianti di razza in razza come le farfallette sui fiori129 .
Ma il sorgere di una «nuova razza» nell’Agro Pontino non è forse l’espressione più evidente di un «fenomeno di volontà collettiva»? In realtà, risponde Almirante, l’equivoco «spiritualistico» è facilmente risolvibile: non è la volontà dei singoli, ma quella di «un Uomo», di Mussolini, a produrre il «miracolo di Littoria». Ed ecco, dunque, che la politica di bonifica e di incremento demografico nelle Paludi pontine determina «salutari riflessi razziali»130 sulla popolazione. Se «essere razzisti significa essere Italiani» in contrapposizione a qualsiasi «pregiudizio universalistico», i «migliori razzisti» sono i coloni e gli abitanti delle città mussoliniane131. Non stupisce a questo punto il fatto che nemmeno il lavoro in miniera possa intaccare, nel discorso almirantiano, la solidità biologica degli operai di Arsia: i minatori costituiscono, infatti, «una categoria razziale moralmente e fisicamente selezionata»132 e in più, a lavoro finito, essi possono «recuperare almeno in parte, in un ambiente sano, le energie perdute»133. Lo stesso discorso vale ovviamente anche per Carbonia, il cui impegno nella «lotta per la difesa sanitaria dei minatori»134 viene attentamente celebrato da Almirante.
In un quadro complessivo in cui persino la prevenzione della carie viene descritta nei termini di una «bonifica orale» fondamentale per il «divenire fisico, intellettuale e morale delle generazioni future»135, gli apporti teorici più significativi dell’eugenica ambientalista espressa dalla «Difesa della razza» sembrano, tuttavia, rappresentati dall’antropogeografia razzista del medico Aldo Modica e dello zoologo Edoardo Zavattari.
Negli scritti di Modica, la differenziazione razziale si basa sul principio della «reattività» dell’organismo agli stimoli ambientali136. Inteso l’«ambiente» come una pluralità di fattori «cosmici» (clima, caratteristiche del suolo ecc.), «organici» (alimentazione, malattie, ecc.), sociali e psicologici137, Modica sviluppa una sorta di spiegazione «biochimico-endocrinologica» della «plasticità» delle razze: «In pratica avviene che una data sollecitazione ambientale o dovuta all’ambiente umorale interno di una forma razziale dia luogo ad una reazione negli organismi e tale reazione provochi
216Capitolo quarto modifiche organiche che si fissano poi nel tessuto germinale trasmettendosi per eredità mendeliana e stabilizzandosi nel tempo dando luogo ad una nuova forma»138. Il «solo ambiente» – precisa Modica – non può produrre «alcuna incidenza sulla razza»139; ciò che conta è piuttosto la «reazione delle razze e degli individui, secondo la loro costituzione, all’essere biosferico» circostante140 . Le «modificazioni» sono, dunque, condizionate dal «tessuto stesso della razza»141. Di conseguenza, non è vero, secondo Modica, che «il variare all’infinito dell’ambiente» possa «dar luogo a variazioni sino all’infinito di una determinata forma vitale di un gruppo determinato di forme»142. Al pari del determinismo genetico, il principio della «reattività organico-razziale» costituisce, infatti, un rigido baluardo teorico a protezione dei confini razziali. Il riconoscimento della «plasticità» dei tipi umani in rapporto alla «reattività» razziale si configura, pertanto, nel discorso di Modica, come un’arma polemica a doppio taglio: se, da un lato, esso appare funzionale nell’attribuire al «relativismo giudaico» la responsabilità «biologica» della crisi dell’Occidente143 e nel sostenere la politica fascista contro il latifondo in Sicilia144 o contro il controllo delle nascite145, dall’altro contribuisce a negare la possibilità di una «trasformazione biocenotica di un ebreo in ariano»:
Infatti gli ebrei reagiscono solo a determinati stimoli e non a quelli che possono indurre in essi una modificazione razziale apprezzabile. Anzi avviene spesso per loro, […] che certi stimoli anziché diminuire o trasformare quel certo gruppo di caratteri, per una forma di reazione antagonista li potenzia al massimo grado. Ciò può essere avvenuto nell’urto tra l’etnia ebraica nel mondo e le altre etnie razziali che l’hanno circondata146 .
Anche per Edoardo Zavattari, direttore dell’Istituto di zoologia dell’Università di Roma, il rapporto fra l’essere umano e l’habitat che lo circonda rappresenta la chiave d’interpretazione della storia e dei fenomeni sociali. Zavattari parla, a tal proposito, di «elemento fauna»: «Le grandi migrazioni dei popoli, l’insediamento di gruppi etnici in determinate regioni, l’abbandono di alcune contrade dapprima densamente popolate, l’adozione di consuetudini che hanno assunto il valore di vere caratteristiche razziali, sono state ben sovente provocate da questo fattore di così essenziale importanza»147. La gerarchia razziale dipende, secondo lo zoologo, dal legame infrangibile e necessario fra l’ambiente e gli organismi, una «fatalità, implicita nella natura stessa del vivente, che impone una categorica e assiomatica rispondenza fra essere e fattori naturali»148. Proprio da questa interpretazione razziale del concetto di habitat procede, nel discorso di Zavattari, la legittimazione scientifica dell’espansionismo fascista: «Il problema degli spazi vitali, interpretato perciò da un punto di vista strettamente biologico, è tutto imperniato su questi principî essenziali: necessità che ogni specie, sia vegetale che animale, ha di possedere un’area nella quale trovare tutto quanto occorre per la vita e la perpetuazione della specie»149. Più che su ragioni di carattere politico o economico, la dottrina degli spazi vitali si fonderebbe, pertanto, su un «principio generale di biologia», ovvero sulla «necessità categorica perentoria assoluta che ogni organismo ha di disporre di un’area in cui vivere, in cui svilupparsi, in cui riprodursi»150 . Oltre alla giustificazione biologica del Lebensraum, una seconda conseguenza del rigido differenzialismo razzista di Zavattari è la denuncia del pericolo biologico del meticciato. Il legislatore e il colono non devono, infatti, ignorare che la «plasticità» ambientale dell’uomo di colore è di gran lunga inferiore di quella posseduta dal bianco. Il grado di «plasticità», che contraddistingue il legame fra genotipo e habitat, si configura qui come criterio di gerarchizzazione razziale e, conseguentemente, di discriminazione:
La razza bianca, e la nostra razza italiana in maniera maggiormente spiccata, nel corso di qualche millennio di civiltà, è divenuta altamente plasmabile, si è resa capace di trasferirsi in ambienti profondamente diversi e di non venire da ciò fortemente colpita. […] I popoli di colore sono assai meno plastici e assai meno passibili di adattamento; quanto più si discende verso le razze primitive, tanto più questa plasticità si va riducendo; le razze inferiori sono destinate a venire sopraffatte, le altre non hanno questo triste destino, ma non debbono però essere sospinte oltre i loro limiti estremi. Un popolo nomade non si trasformerà mai in sedentario, un popolo della foresta non diventerà mai abitatore della savana; un popolo navigatore non si tramuterà mai in pastore; nessuno di questi si potrà mai acconciare ad assumere quella forma sociale, che spesso il bianco si illude di potergli fare abbracciare151 .
Se la «plasticità» ambientale produce un «abisso incolmabile» fra le razze, il meticcio non può che apparire come una sorta di errore biologico, il cui disadattamento naturale si traduce ben presto in minaccia sociale e politica: «Al di fuori della sua terra o non può vivere o se vive, vive a disagio, vive come uno straniero, come un intruso, vive come una incrostazione, che si è abbarbicata, ma che non ha messo radici»152 .
Da questo stesso assioma ecologico-razzista scaturisce, negli scritti di Zavattari, la giustificazione della discriminazione antisemita. Anche l’ebreo, infatti, porta con sé, sempre, in ogni luogo e in ogni tempo, le stimmate della propria origine ambientale, «desertica e nomade». L’ebreo è eterno, al di là di qualsiasi forma di integrazione o di assimilazione, perché il suo «patrimonio razziale» è stato irrimediabilmente plasmato dall’habitat. Anche l’eugenica ambientalista, al pari di quella ereditarista, sembra condurre, dunque, a forme di antisemitismo particolarmente radicali, che individuano nell’ebreo l’«anti-razza» per definizione, la differenza assoluta, l’Altro totalmente inassimilabile:
L’ebreo rimane sempre tale, in quanto non si può spogliare di questa sua caratteristica cerebrale, come non si può spogliare delle sue caratteristiche strutturali, non si può amalgamare, non si può fondere, perché sarà sempre il popolo nato e vissuto al di là del mare tra la pietraia della Transgiordania e la profondità del Mar Morto, perché è il popolo che ha avuto le sue leggi dettate sulle cime di un monte, fra folgori e tempeste, da un Dio severo, senza pietà e senza amore, perché è il popolo che ha impressi nel suo animo una immutabile aridità e un disprezzo per le altre genti, perché è il popolo che ha sempre cercato di conquistare la terra promessa, né mai l’ha conquistata, né mai la potrà conquistare, perché non si potrà giammai arrestare, ma sempre dovrà andare in cerca di un nuovo miraggio, così come ancora attende il nuovo Messia, perché il deserto, che sta in fondo all’animo suo, lo sospinge ad essere nemico, lo sospinge ad essere ribelle, lo sospinge ad essere errante153 .
A partire da queste premesse, immediata è l’adesione di Zavattari alle misure introdotte dal fascismo per eliminare l’«inquinamento» ebraico: «La purezza della razza presuppone l’eliminazione di ogni inquinamento, qualunque ne sia la natura e la provenienza; deve essere raggiunta in forma totalitaria, senza concessioni e senza tentennamenti»154. Se per i neri, i meticci e gli ebrei, l’influenza ambientale ha inevitabilmente prodotto un impatto genetico negativo, ben altra è stata, invece, la sorte della «razza italiana», meravigliosamente plasmata dalla bellezza del Mediterraneo. L’italiano, infatti, è «saldo e ferrigno come le sue montagne, volitivo e ardito come le cime che svettano verso il cielo, ardimentoso e animoso di nuove vie come gli additano il corso dei suoi fiumi e degli orizzonti del suo mare, plastico delle sue capacità intellettive e fattive, come richiedono aspetti naturali così mutevoli e così differenti»155. Al di là dell’aspetto somatico, le armonie di luci, di suoni, di forme proprie del paesaggio mediterra- neo hanno forgiato, nell’Italiano, «le più perfette, le più complete capacità cerebrali»: «Il culto della bellezza, la gioia della vita, la ricerca dell’armonia della forma e degli atti, la dedizione profonda alla natura, come esaltazione del proprio io, il profondo senso di solidarietà dell’italiano trovano la loro origine in questa costituzione dell’ambiente naturale»156 .
In sintesi: antisemitismo, antimeticciato e affermazione della superiorità della razza italiana. L’eugenica ambientalista e antropogeografica, pur nel suo antagonismo con la corrente ereditarista, giungeva così ad alimentare, per vie differenti, il medesimo discorso razzizzante.
1 Questionario – Eredità ed evoluzione, in «La Difesa della razza», III, n. 15, 5 giugno 1940, p. 46.
2 Il presente capitolo sviluppa e approfondisce le considerazioni contenute in f. cassata, Molti, sani e forti. L’eugenetica in Italia, Bollati Boringhieri, Torino 2006, pp. 220252. Sull’eugenica in Italia, cfr. anche c. mantovani, Rigenerare la stirpe. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004.
3 g. landra, L’ambiente non snatura la razza, in «La Difesa della razza», II, n. 3, 5 dicembre 1938, p. 17.
4 w. nix, Eredità e destino, ivi, III, n. 13, 5 maggio 1940, p. 14.
5 l. s. [landra silvio], Ambiente razza e attitudini professionali, ivi, IV, n. 5, 5 gennaio 1941, pp. 13-14.
6 g. lucidi, Purezza ed unità di sangue della razza italiana, ivi, I, n. 5, 5 ottobre 1938, pp. 36-38.
7 id., Rapporti fra gruppi sanguigni e caratteri antropologici, ivi, II, n. 7, 5 febbraio 1939, p. 8.
8 l. businco, Individuazione e difesa dei caratteri razziali, ivi, n. 10, 20 marzo 1939, pp. 15-17.
9 l. castaldi, Nonni, figli e nipoti. Eredità dell’indice cefalico, ivi, n. 2, 20 novembre 1938, p. 12.
10 e. gasteiner, Un pericolo per la razza. La decadenza dei ceti superiori, ivi, I, n. 2, 20 agosto 1938, p. 26; corsivo nel testo.
11 g. pensabene, L’evoluzione e la razza. Cinquant’anni di polemiche ne «La Civiltà Cattolica», ivi, pp. 31-33.
12 l. businco, Salute della famiglia, forza della razza, ivi, II, n. 4, 20 dicembre 1938.
13 m. ricci, Le leggi di Mendel, ivi, I, n. 2, 20 agosto 1938, pp. 16-17.
14 id., Il mendelismo nell’uomo, ivi, n. 3, 5 settembre 1938, p. 19.
15 Ibid
16 g. landra, La razza italiana nella teoria dell’ologenesi, ivi, II, n. 11, 5 aprile 1939, p. 11. Si veda anche: id., L’ologenesi del Rosa, ivi, n. 10, 20 marzo 1939, pp. 11-14. Sull’ologenesi di Montandon: cfr. g. montandon, La formazione delle razze umane, ivi, IV, n. 22, 20 settembre 1941, pp. 9-12.
17 f. matarrese, Demografia ed eugenica di Tommaso Campanella, ivi, III, n. 15, 5 giu- gno 1940, pp. 40-41; p. nullo, Il razzismo nella «Città del Sole» di Tommaso Campanella, ivi, IV, n. 14, 20 maggio 1941, pp. 13-15.
18 f. matarrese, Leon Battista Alberti, studioso di problemi razziali, ivi, III, n. 9, 5 marzo 1940, pp. 37-41.
19 g. landra, Poligenismo e monogenismo, ivi, n. 21, 5 settembre 1941, pp. 27-29.
20 g. lucidi, Costituzione e natalità, ivi, II, n. 9, 5 marzo 1939; g. landra, Le razze europee e il problema delle aristocrazie, ivi, IV, n. 13, 5 maggio 1941, pp. 12-15.
21 g. montandon, Vita e opere di Vacher de Lapouge, ivi, n. 12, 20 aprile 1941, pp. 2426.
22 l. castaldi, Eredità delle attitudini psichiche, ivi, III, n. 3, 5 dicembre 1939, pp. 2631. Sulla figura di Gaetano Pieraccini, cfr. m. degl’innocenti, Gaetano Pieraccini. Socialismo, medicina sociale e previdenza obbligatoria, Lacaita, Manduria-Roma-Bari 2003. Sul suo ruolo di eugenista, cfr. c. mantovani, Rigenerare la stirpe cit., pp. 98-99 e 212213; f. cassata, Molti, sani e forti cit., pp. 117-21.
23 Cfr. g. landra, I metodi per lo studio delle razze umane, in «La Difesa della razza», III, n. 20, 20 agosto 1940, pp. 29-35; id., Antropologia – Forme esterne del corpo umano, variazioni nel sesso e nell’età, ivi, IV, n. 12, 20 aprile 1941, pp. 18-20; id., Antropologia – Ricerche e dottrine craniologiche, ivi, n. 14, 20 maggio 1941, pp. 26-29; id., Lo scheletro facciale nelle razze umane, ivi, n. 15, 5 giugno 1941, pp. 24-26; id., Antropologia – Ricerche craniologiche, ivi, V, n. 3, 5 dicembre 1941, pp. 24-26; id., Antropologia – Studi razziali sulle differenze razziali della faccia, ivi, n. 5, 5 gennaio 1942, pp. 2223; id., Antropologia – Morfologia facciale, ivi, n. 6, 20 gennaio 1942, pp. 28-29.
24 Una rassegna di «studi razziali» è curata da Landra tra il giugno 1939 e il giugno 1940: cfr. g. landra, Gli studi razziali nell’Europa balcanica, ivi, II, n. 16, 20 giugno 1939, pp. 32-34; id., Gli studi razziali in Polonia e in Russia, ivi, n. 18, 20 luglio 1939, pp. 14-17; id., Studiosi americani di problemi razziali, ivi, n. 20, 20 agosto 1939, pp. 1316; id., Razza e nazionalità in Romania, ivi, n. 21, 5 settembre 1939, pp. 10-13; id., Studi razziali in continenti extraeuropei, ivi, n. 23, 5 ottobre 1939, pp. 34-37; id., Gli studi razziali in Ungheria e in Bulgaria, ivi, III, n. 3, 5 dicembre 1939, pp. 32-33; id., Studi razziali in Transilvania, ivi, n. 14, 20 maggio 1940, pp. 16-19; id., Studi sulle mescolanze etniche della popolazione, ivi, n. 15, 5 giugno 1940, pp. 12-13. Sulle tassonomie antropologiche, cfr. id., Sistematica antica e moderna delle razze umane, ivi, n. 19, 5 agosto 1940, pp. 23-28; id., La classificazione delle razze umane secondo von Eickstedt,ivi, IV, n. 6, 20 gennaio 1941, pp. 12-15; id., Antropologia – Problemi di metodo per la definizione dei tipi razziali, ivi, n. 10, 20 marzo 1941, pp. 22-25; id., Le razze dell’Asia meridionale e orientale, ivi, n. 11, 5 aprile 1941, pp. 18-20.
25 g. landra, Studio razziale delle impronte digitali, ivi, III, n. 12, 20 aprile 1940, pp. 4041; id., Studio razziale delle impronte palmari, ivi, n. 20, 20 agosto 1940, pp. 36-37.
26 id., La forma del viso nelle razze umane, ivi, n. 21-22, 5-20 settembre 1940, pp. 51-54; id., Caratteri fisionomici identità razziale, ivi, IV, n. 9, 5 marzo 1941, pp. 18-20.
27 id., Le variazioni del sistema tegumentario nelle razze umane, ivi, III, n. 23, 5 ottobre 1940, pp. 11-16.
28 id., Ricerche moderne sui gruppi sanguigni, ivi, IV, n. 2, 20 novembre 1940, pp. 34-37.
29 id., Gli studi di patologia ereditaria in Germania, ivi, III, n. 17, 5 luglio 1940, pp. 1822.
30 id., I fattori ereditari dell’accrescimento, ivi, n. 19, 5 agosto 1940, pp. 36-39; id., Studi sull’aumento della statura in Scandinavia, ivi, IV, n. 5, 5 gennaio 1941, pp. 10-12.
31 a. gillette, The origins of the «Manifesto of racial scientists» cit., p. 311.
32 Cfr. il documento Visita del prof. Landra in Germania, riportato in r. de felice, Storia degli ebrei italiani cit., p. 595. Si veda anche centro studi «f. jesi», La menzogna della razza cit., p. 229.
33 acs, mpi, dgis, Div. I, Concorsi a cattedre nelle università (1924-54), b. 232, concorso per la cattedra di Antropologia nella Regia Università di Palermo, giudizio di E. Fischer, 20 aprile 1940.
Nature o Nurture?: «La Difesa della razza» e l’eugenica221
34 Ibid., giudizio di O. von Verschuer, 29 aprile 1940.
35 id., A colloquio con E. Fischer, in «Il Tevere», 4-5 febbraio 1941, p. 3. Sulla figura di Eugen Fischer, cfr. r. proctor, Racial Hygiene. Medicine under the Nazis, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) - London 1988, pp. 40-44.
36 g. landra, Biologia ereditaria e igiene razziale, in «Il Tevere», 2-3 gennaio 1941, p. 3.
37 id., Gli studi razziali nella Slesia, ivi, 14-15 febbraio 1941, p. 3.
38 id., Il problema degli asociali in Germania, ivi, 7-8 febbraio 1941, p. 3.
39 f. savorgnan, I problemi della razza e l’opportunità di un’inchiesta antropometrica sulla popolazione italiana cit., p. 18.
40 g. lucidi, Gruppi sanguigni e nuclei razziali. Necessità di un censimento del sangue, in «La Difesa della razza», II, n. 5, 5 gennaio 1939, p. 15.
41 g. silvestri, Per un archivio genealogico nazionale, ivi, IV, n. 9, 5 marzo 1941, pp. 2427.
42 Cfr. c. mantovani, Rigenerare la stirpe cit., pp. 50-51.
43 Fra il luglio e l’ottobre 1908, Fischer aveva soggiornato in Africa sudoccidentale, possesso germanico, per studiarvi i cosiddetti «bastardi di Rehoboth», una popolazione meticcia discesa dal riprodursi dei coloni boeri con donne ottentotte. L’indagine antropologica, pubblicata nel 1913 e destinata a un enorme successo internazionale, aveva rivelato l’esistenza di un gruppo umano ben caratterizzato, ancorché piuttosto variabile. I tratti principali delle due razze d’origine, europea e ottentotta, vi si trovavano combinati nel modo più vario, e generalmente gli incroci si situavano a metà degli estremi. Il gruppo mostrava di essere sano, vigoroso e molto fertile. Dal punto di vista dell’economia e del diritto coloniali, i «bastardi», oltreché eccellenti lavoratori manuali, si sarebbero prestati assai bene, secondo Fischer, a servire nelle forze di polizia, per la loro convinzione d’occupare nella scala razziale un gradino al di sopra degli indigeni. Tutto ciò non toglieva che, senza alcuna eccezione, ogni qualvolta un popolo europeo avesse accolto il sangue di una razza di inferiore qualità, sarebbe andato incontro a un regresso spirituale e culturale. Cfr. c. pogliano, L’ossessione della razza. Antropologia e genetica nel xx secolo, Edizioni della Normale, Pisa 2005, pp. 218-22.
44 I «bastardi del Reno» erano figli di donne tedesche e di soldati neri che avevano fatto parte delle truppe di occupazione francese della riva sinistra del Reno e della Ruhr negli anni seguenti la fine della prima Guerra mondiale.
45 g. l. [guido landra], I bastardi, in «La Difesa della razza», I, n. 1, 5 agosto 1938, pp. 16-17. Per un’analisi degli studi eugenetici sugli incroci, cfr. c. pogliano, L’ossessione della razza cit., pp. 211-67.
46 l. franzí, Il meticciato. Insidia contro la salute morale e fisica dei popoli, in «La Difesa della razza», I, n. 4, 20 settembre 1938, pp. 29-30. Si veda anche a. de blasio, Frenastenie e meticciato, ivi, VI, n. 1, 5 novembre 1942, p. 17.
47 l. franzí, Il meticciato. Insidia contro la salute morale e fisica dei popoli cit., p. 33.
48 Ibid
49 Ibid
50 g. lucidi, Il meticciato, morte degli imperi, in «La Difesa della razza», II, n. 13, 5 maggio 1939, p. 18.
51 Nato a Cefalù nel 1898, Raffaele D’Anna Botta si laurea in medicina e chirurgia, esordendo come giornalista nel 1926, in qualità di condirettore della rivista «La Valanga». Collabora poi con «Il Popolo di Sicilia», «Il Tevere», «L’Ora», «L’araldo della salute». Cfr. Annuario della stampa italiana, 1939-1940 cit., p. 328.
52 r. d’anna botta, Meticciato cit., p. 22.
53 Sui rapporti tra diritto e razzismo, cfr. in particolare, g. speciale, Giudici e razza nell’Italia fascista, Giappichelli, Torino 2007; i. pavan, Prime note su razzismo e diritto in Italia. L’esperienza della rivista «Il Diritto razzista» (1939-1942), in d. menozzi, m. moretti e r. pertici, Culture e libertà. Studi di storia in onore di Roberto Vivarelli,
Edizioni della Normale, Pisa 2006, pp. 371-418; o. de napoli, Razzismo e diritto romano. Una polemica degli anni Trenta, in «Contemporanea», IX, n. 1, gennaio 2006, pp. 35-63.
54 Si veda la lettera di rettifica del Presidente della Corte d’Appello di Tripoli, in Questionario – Rettifica, in «La Difesa della razza», III, n. 6, 20 gennaio 1940, p. 46.
55 m. baccigalupi, I delitti contro il prestigio di razza, ivi, n. 4, 20 dicembre 1939, pp. 3031.
56 g. landra, Studi italiani sul meticciato, ivi, n. 10, 20 marzo 1940, p. 8.
57 Ibid.
58 Cfr. c. pogliano, L’ossessione della razza cit., pp. 211-67.
59 e. fischer, I bastardi di Reoboth, in «La Difesa della razza», III, n. 10, 20 marzo 1940, pp. 12-17.
60 c. davenport e m. steggerda, Mulatti di Giamaica, ivi, pp. 18-24.
61 w. abel, Meticci di Renania, ivi, pp. 26-30.
62 y. k. tao, Incroci fra cinesi ed europee, ivi, pp. 33-38.
63 j. schaeuble, Il meticciato nell’America del Sud, ivi, pp. 46-49.
64 r. hauschild, Gli incroci negro-cinesi, ivi, pp. 52-53. Sugli studi di R. Hauschild, cfr. anche g. landra, Il problema degli incroci a Trinidad e nel Venezuela, ivi, VI, n. 2, 20 novembre 1942, pp. 14-16.
65 Sul movimento eugenetico nordamericano, cfr. d. kevles, In the Name of Eugenics. Genetics and the Uses of Human Heredity, Harvard University Press, Cambridge-London 1995; g. e. allen, The misuse of biological hierarchies: the american eugenics movement, 1900-1940, in «History and Philosophy of the Life Sciences», 2, 1983, pp. 10528; m. h. haller, Eugenics: Hereditarian Attitudes in American Thought, Rutgers University Press, New Brunswick 1984; i. dowbiggin, Keeping America Sane: Psychiatry and Eugenics in the US and Canada, Cornell University Press, Ithaca 1997; p. reilly, The Surgical Solution: A History of Involuntary Sterilization in the U. S., Johns Opkins University Press, Baltimore 1991; e. black, War against the weak. Eugenics and America’s Campaign to create a Master Race, Four Walls Eight Windows, New York 2003.
66 l. rocchi, Razzismo nel Nord-America, in «La Difesa della razza», III, n. 8, 20 febbraio 1940, p. 30. Cfr. anche a. l., Il razzismo nord-americano, ivi, II, n. 1, 5 novembre 1938, pp. 22-23; g. ficai, S.O.S. degli antirazzisti, ivi, n. 11, 5 aprile 1939, pp. 3839.
67 g. pensabene, Il meticciato delitto contro Dio, ivi, IV, n. 8, 20 febbraio 1941, pp. 2627.
68 id., Le due cause maggiori del meticciato nel mondo, ivi, n. 10, 20 marzo 1941, pp. 1012.
69 g. landra, Il problema dei meticci in Europa, ivi, n. 1, 5 novembre 1940, p. 15.
70 Ibid
71 f. graziani, I meticci nella storia, ivi, V, n. 15, 5 giugno 1942, pp. 16-17.
72 Sulla Francia, cfr. n. marchitto, Il meticciato e la Francia, ivi, II, n. 10, 20 marzo 1939, pp. 38-40: cfr. g. almirante, Una razza alla conquista di un continente, ivi, n. 1, 5 novembre 1938, pp. 20-21; r. raineri, Il problema razziale brasiliano, ivi, III, n. 7, 5 febbraio 1940, pp. 39-42; e. de zuani, Problemi razziali nell’America Latina, ivi, II, n. 18, 20 luglio 1939, pp. 11-13.
73 acs, mcp, Gabinetto, b. 151, fasc. «Collaboratori Ufficio Razza», s.fasc. «Borromeo Carlo Cosimo»: lettera di G. Landra a C. Cosimo Borromeo, s.d. (ma agosto 1938).
74 m. ricci, Ereditarietà ed eugenica, in «La Difesa della razza», I, n. 5, 5 ottobre 1938, p. 31.
75 Lo studio della famiglia Jukes (sette generazioni di criminali, prostitute e degenerati vari prodotte da una singola coppia dello Stato di New York) usciva nel 1877 per opera di Richard Dugdale. Nel 1916 Arthur Estabrook, un collaboratore dell’eugenista statunitense Charles Davenport, pubblicava il seguito della vicenda, aggiornando il pedi-
Nature o Nurture?: «La Difesa della razza» e l’eugenica223 gree della famiglia Jukes fino al 1915. Cfr. d. b. paul, Controlling human heredity: 1865 to present, Humanities Press, Atlantic Highlands 1995, pp. 43 e 49.
76 l. cipriani, Unità spirituale degli italiani, in «Corriere della Sera», 5 agosto 1938, p. 1.
77 Ibid
78 acs, mcp, Gabinetto, b. 151, fasc. «Collaboratori Ufficio Razza», s.fasc. «Lidio Cipriani»: lettera di G. Landra a L. Cipriani, 24 agosto 1938. Il testo dell’articolo censurato è conservato presso l’Archivio Centrale dello Stato.
79 l. cipriani, La razza e la vita delle Nazioni, in «Corriere della Sera», 3 dicembre 1938, p. 1.
80 Ibid
81 acs, mcp, Gabinetto, b. 151, fasc. «Collaboratori Ufficio Razza», s.fasc. «Lidio Cipriani»: memorandum di L. Cipriani al ministero della Cultura Popolare, 15 luglio 1938.
82 Sui Rheinlandbastarde, cfr. r. proctor, Racial Hygiene cit., pp. 112-14.
83 acs, mcp, Gabinetto, b. 151, fasc. «Collaboratori Ufficio Razza», s.fasc. «Lidio Cipriani»: memorandum di L. Cipriani al ministero della Cultura Popolare, 15 luglio 1938.
84 l. cipriani, Le scienze antropologiche nella Germania hitleriana, in «Gerarchia», dicembre 1939, pp. 787-91.
85 m. ricci, Eugenica e razzismo, in «La Difesa della razza», II, n. 6, 20 gennaio 1939, pp. 22-23.
86 g. landra, Il certificato prematrimoniale, ivi, IV, n. 16, 20 giugno 1941, pp. 24-25.
87 a. modica, Il certificato prematrimoniale, ivi, V, n. 4, 20 dicembre 1941, p. 30.
88 g. landra, Fondamenti biologici del razzismo, ivi, n. 10, 20 marzo 1942, p. 7.
89 Questionario – Pro e contro la sterilizzazione, ivi, n. 1, 5 novembre 1941, p. 31.
90 Ibid
91 Questionario – Pro e contro la sterilizzazione, ivi, n. 3, 5 dicembre 1941, pp. 30-31.
92 Questionario, ivi, n. 4, 20 dicembre 1941, p. 30.
93 Ibid.
94 Questionario – Pro e contro la sterilizzazione, ivi, n. 5, 5 gennaio 1942, p. 31.
95 Questionario – Pro e contro la sterilizzazione, ivi, n. 6, 20 gennaio 1942, p. 30.
96 Questionario – Pro e contro la sterilizzazione, ivi, n. 9, 5 marzo 1942, p. 23.
97 Questionario, ivi, n. 8, 20 febbraio 1942, p. 31.
98 Ibid
99 g. preziosi, Parlo di Pier Nicola Gregoraci, in «La Vita Italiana», XXIII, vol. 45, fasc. 263, 15 febbraio 1935, pp. 147-48. Cfr. inoltre Fatti e commenti. Il caso Gregoraci, ivi, fasc. 265, 15 aprile 1935, pp. 515-18, con carteggio, pubblicato dal «Regime Fascista», tra Gregoraci e Ferdinando Micheli, docente di Clinica medica all’Università di Torino, e note conclusive di Preziosi.
100 p. n. gregoraci, La mia nuova dottrina (Terreno organico, Saprofitismo endorganico e Neoplastogenesi), in «La Vita Italiana», XXIII, vol. 45, fasc. 263, 15 febbraio 1935,p. 152.
101 r. d’anna botta, La pseudo-scienza ebraico-massonica contro il genio italiano, in «Il Tevere», 30-31 marzo 1939, p. 3.
102 Questionario – Desaprofitizzazione?, in «La Difesa della razza», V, n. 10, 20 marzo 1942, p. 23.
103 Questionario – Desaprofitizzazione, ivi, n. 11, 5 aprile 1942, p. 22.
104 Questionario – Medicina giudaizzata, ivi, n. 14, 20 maggio 1942, pp. 62-63.
105 Questionario – Medicina giudaizzata, ivi, n. 16, 20 giugno 1942, p. 22.
106 Questionario, ivi, VI, n. 6, 20 gennaio 1943, p. 22.
107 Questionario – Sterilizzazione, ivi, V, n. 20, 20 agosto 1942, p. 22.
108 Ibid
109 Questionario, ivi, VI, n. 11, 5 aprile 1943, p. 22.
110 a. modica, Inferiorità razziale degli anglosassoni, ivi, n. 4, 20 dicembre 1942, pp. 4-7; ivi, n. 5, 5 gennaio 1943, pp. 9-11; ivi, n. 6, 20 gennaio 1943, pp. 16-18; ivi, n. 8, 20 febbraio 1943, pp. 9-11; ivi, n. 10, 20 marzo 1943, pp. 12-14. Cfr. anche id., Esiste una gerarchia delle razze umane?, ivi, n. 16, 20 giugno 1943, pp. 4-6.
111 Genetica, ivi, V, n. 21, 5 settembre 1942, p. 21.
112 Genetica, ivi, VI, n. 8, 20 febbraio 1943, p. 21.
113 l. businco, Salute della famiglia forza della razza, ivi, II, n. 4, 20 dicembre 1938, p. 37.
114 id., Tutela fascista della razza, ivi, I, n. 6, 20 ottobre 1938, pp. 9-11. Cfr. anche id., Il numero è potenza, ivi, II, n. 5, 5 gennaio 1939, pp. 26-28; id., Nel lavoro difendiamo e potenziamo la razza, ivi, n. 12, 20 aprile 1939, pp. 13-14.
115 p. trizzino, Razza e previdenza sociale, ivi, I, n. 6, 20 ottobre 1938, pp. 12-13; id. Previdenza materna, ivi, II, n. 8, 20 febbraio 1939, pp. 30-31. Sull’omni, cfr. anche g. danesi, Il lavoro e la razza, ivi, III, n. 16, 20 giugno 1940, pp. 6-9.
116 l. businco, Individuazione e difesa dei caratteri razziali, ivi, II, n. 10, 20 marzo 1939, p. 17.
117 f. loffredo, Politica della famiglia e della razza, ivi, n. 24, 20 ottobre 1939, p. 26.
118 Ibid
119 id., Politica della famiglia e della razza, ivi, III, n. 2, 20 novembre 1939, p. 31.
120 Ibid., p. 33.
121 f. loffredo, Il simbolo più alto, ivi, n. 4, 20 dicembre 1939, p. 16.
122 r. semizzi, La medicina delle masse, ivi, IV, n. 9, 5 marzo 1941, pp. 13-15. Si veda anche: id., La medicina sociale attraverso i tempi e le idee, ivi, n. 11, 5 aprile 1941, pp. 2126; id., Eugenica e terapia razziale, in «Critica Medico-sociale», n. 7-8-9, luglio-settembre 1940, pp. 34-39.
123 id., L’influenza della civiltà sui popoli, in «La Difesa della razza», IV, n. 14, 20 maggio 1941, pp. 10-12.
124 e. vercellesi, Razza e sport, ivi, II, n. 19, 5 agosto 1939, p. 17.
125 m. bolletti, Sport femminile e la salute della razza, ivi, III, n. 7, 5 febbraio 1940, p. 14.
126 n. matteini, Il Rinascimento italiano e lo sport. Baldassarre Castiglione, ivi, n. 23, 5 ottobre 1940, p. 8.
127 g. lucidi, L’autarchia alimentare. Difesa della patria, ivi, II, n. 2, 20 novembre 1938, p. 18.
128 e. vercellesi, Alimentazione degli italiani, ivi, n. 17, 5 luglio 1939, p. 41.
129 g. almirante, Razza e volontà, ivi, III, n. 12, 20 aprile 1940, p. 9.
130 id., La nuova razza dell’Agro redento, ivi, p. 15.
131 id., Razza e autarchia, ivi, n. 13, 5 maggio 1940, p. 29.
132 id., Il lavoro di miniera e la difesa della razza, ivi, p. 31.
133 Ibid., p. 32.
134 id., Gente di Carbonia, ivi, n. 14, 20 maggio 1940, p. 27.
135 s. taviani, Importanza dei denti sani, ivi, IV, n. 21, 5 settembre 1941, pp. 22-23.
136 a. modica, Geografia psichica e diversità razziali, ivi, V, n. 18, 20 luglio 1942, p. 11.
137 id., Latifondi e razza, ivi, IV, n. 4, 20 dicembre 1940, p. 16.
138 id., L’origine della specie per reattività razziale, ivi, V, n. 24, 20 ottobre 1942, p. 7. Cfr. anche id., Una nuova teoria sull’origine delle razze, ivi, n. 20, 20 agosto 1942, pp. 7-8.
139 id., Latifondi e razza cit., p. 16.
140 Ibid., p. 17.
141 id., L’origine delle specie per reattività razziale cit., p. 8.
Nature o Nurture?: «La Difesa della razza» e l’eugenica225
142 Ibid., p. 9.
143 id., Interpretazione biologica della crisi occidentale, in «La Difesa della razza», V, n. 22, 20 settembre 1942, p. 9.
144 id., Latifondo e razza cit., p. 20.
145 id., La maternità come difesa della razza, in «La Difesa della razza», IV, n. 16, 20 giugno 1941, pp. 12-15.
146 id., L’origine delle specie per reattività razziale cit., p. 9.
147 e. zavattari, Fauna e fenomeni sociali. II, in «Razza e civiltà», n. 3-4-5, maggio-luglio 1941, p. 463.
148 id., Ambiente naturale e caratteri razziali, in «La Difesa della razza», III, n. 8, 20 febbraio 1940, p. 7.
149 e. zavattari, La dottrina degli spazi vitali dal punto di vista biologico, in «Scientia», maggio-giugno 1942, p. 175. Si veda anche id., Leggi biologiche e spazi vitali, in «Il Giornale d’Italia», 13 maggio 1943, p. 3; id., Le basi biologiche del fascismo, in «Critica Medico-sociale», 6, giugno 1937, pp. 21-28.
150 id., La dottrina degli spazi vitali dal punto di vista biologico cit., p. 178.
151 e. zavattari, Ambiente naturale e caratteri razziali cit., p. 10.
152 Ibid., p. 11.
153 id., Ambiente naturale e caratteri razziali (continuazione), in «La Difesa della razza», III, n. 9, 5 marzo 1940, p. 49.
154 id., Politica ed etica razziale, in «Vita Universitaria», 5 ottobre 1938, p. 3.
155 Ibid., p. 51.
156 Ibid.