28 minute read

Capitolo quinto

Il razzismo antinero: l’egemonia di Lidio Cipriani

A differenza dell’antisemitismo e dell’eugenica, il razzismo antinero, sulle pagine della «Difesa della razza», s’identifica, in larga parte, con l’attività pubblicistica di un solo collaboratore: l’antropologo Lidio Cipriani1 .

Advertisement

Non che le vicende coloniali siano trascurate dalla rivista: ai «problemi dell’Impero», ad esempio, è dedicato, nel maggio 1939, un intero fascicolo speciale di sessantaquattro pagine2. Inoltre, soprattutto nelle prime due annate del quindicinale, non mancano gli interventi del critico cinematografico palermitano Antonio Petrucci sull’importanza di un’etnologia «funzionale», sul «fallimento» del colonialismo «democratico» e sull’inferiorità biologica e culturale del «negro»3; o quelli del medico Giuseppe Lucidi sulla necessità di difendere il bambino italiano in colonia dalle malattie infettive trasmesse con il «baliatico mercenario indigeno»4 .

Tuttavia, le responsabilità politiche di Lidio Cipriani, la sua posizione all’interno della redazione e la quantità e continuità dei suoi contributi possono indubbiamente giustificare la definizione del ruolo dell’antropologo in materia di razzismo antinero come sostanzialmente egemonico. Ad accrescere la significatività della collaborazione di Cipriani alla «Difesa della razza» si aggiunge poi il suo collocarsi come punto di arrivo di un percorso teorico e ideologico, intrapreso dall’etnologo fin dagli anni Venti e finalizzato a legittimare, su base scientifica, la politica coloniale del regime fascista.

1. Contro l’ipotesi camitica.

È a partire dagli inizi del xix secolo che la cosiddetta «ipotesi camitica» assume alcuni dei connotati principali con cui sopravviverà fino agli anni Sessanta del Novecento5 .

Il razzismo antinero: l’egemonia di Lidio Cipriani227

Nel Medioevo e ancora per larga parte del Settecento, il termine di derivazione biblica identificava la razza nera, considerata inferiore sulla base della tradizione secondo la quale Noè aveva maledetto dei suoi tre figli proprio Cam e decretato per la progenie di quest’ultimo un destino di schiavitù. Per secoli, dunque, l’interpretazione del nono capitolo della Genesi aveva associato la maledizione di Noè all’origine tanto della schiavitù che della «razza nera», progressivamente trasformando la prima in un destino necessario e inevitabile per la seconda.

È l’invasione dell’Egitto da parte di Napoleone nel 1798 a provocare indirettamente una prima incrinatura in questa secolare interpretazione. Gli scavi degli archeologi francesi che seguono l’occupazione del territorio riportano alla luce nuovi aspetti della civiltà egizia, che comincia a essere considerata tanto avanzata da poter gareggiare con la greca e la romana, pur essendo di molto precedente. Per tutto il secolo successivo, archeologi e antropologi inglesi, francesi, tedeschi e americani non cessano di formulare ipotesi intorno all’origine degli Egizi: come aveva potuto un gruppo di provenienza africana dar vita a una civiltà tanto avanzata?

È a questo punto, nella prima metà dell’Ottocento, che il nono capitolo del libro della Genesi conosce una nuova lettura: adirato con Cam che lo aveva sorpreso nudo nella sua tenda, Noè non maledice direttamente suo figlio, ma il figlio di quest’ultimo, Canaan. Di conseguenza, sarebbe la progenie di Canaan ad aver originato la razza nera, mentre gli altri discendenti di Cam – i Camiti, appunto – avrebbero conservato il colore chiaro della pelle. Sarebbero costoro i progenitori non solo degli Egizi, ma anche dei gruppi dell’Africa orientale classificati in modo sommario come Etiopici. Stabiliti come tratti qualificanti della stirpe camitica il colorito più chiaro, tratti europeizzanti e più «fini» e un più alto grado di civiltà, restava comunque aperta un’altra questione: da dove provenivano i Camiti? Dall’Africa o da qualche altro continente?

In un contesto nazionale come quello italiano, caratterizzato a partire dagli ultimi decenni del xix secolo da un’esperienza coloniale nel Corno d’Africa, l’interesse del mondo scientifico per il problema dell’origine dei Camiti, per la storia degli Egizi e per una corretta classificazione dei due gruppi nei blocchi razziali conosce ben presto risvolti politici di primaria importanza. Infatti, di fronte al tentativo di buona parte degli antropologi anglofoni di attri-

228Capitolo quinto buire ai Camiti una discendenza caucasico-ariana, l’antropologia italiana risponde con elaborazioni teoriche profondamente differenti. La tesi più significativa, sul piano internazionale, appare quella formulata da Giuseppe Sergi a partire dal 18956. Basandosi principalmente sull’analisi osteologica, Sergi giunge a conclusioni che possono essere così riassunte: le popolazioni primitive d’Europa hanno avuto origine in Africa nord-orientale, precisamente nella regione dei Grandi Laghi; le tre varietà africana, mediterranea e nordica sono rami di una stessa specie, detta euro-africana o camitica; è un errore ritenere che Germani e Scandinavi siano ariani poiché essi sono euro-africani della varietà nordica; le civiltà classiche, greca e latina, non erano ariane ma mediterranee; e gli Ariani stessi non erano che selvaggi quando invasero l’Europa dall’Asia. In tale quadro, dunque, la stirpe camitica coincide parzialmente con le tre varietà citate, poiché l’area geografica della sua diffusione dall’Africa viene estesa fino al Nord dell’Europa. Pur mantenendo la distinzione, all’interno dell’Africa, fra Camiti (specie bruna e superiore), da un lato, e Sudanesi e Pigmei (specie nera e inferiore) dall’altro, l’ipotesi di Sergi comporta evidentemente la demolizione della teoria dell’arianesimo: per l’antropologo italiano, infatti, proprio l’Africa è la culla di tutte quelle civiltà –egizia prima, greca e latina poi – che rappresentano il segno inequivocabile della superiorità dell’Occidente. Per questo motivo la teoria sergiana dell’origine euro-africana delle specie non conosce alcun seguito tra i sostenitori dell’ipotesi camitica a livello internazionale. E anche in Italia le opposizioni prevalgono sulle adesioni: Aldobrandino Mochi, docente di antropologia a Firenze e direttore del locale museo, non si pronuncia, ad esempio, sulla provenienza dei Camiti, ritenuti progenitori della civiltà egizia, mentre Vincenzo Giuffrida-Ruggeri, già allievo di Sergi e professore di antropologia a Napoli, ritiene la famiglia proto-etiopica o cuscitica di origine alloctona, precisamente asiatica7

È, tuttavia, con la svolta introdotta dal fascismo nella politica coloniale italiana, soprattutto a partire dalla conquista dell’Etiopia e dalla proclamazione dell’impero dell’Africa Orientale Italiana, che la tesi sergiana viene a trovarsi al centro di un insanabile dissidio fra teorizzazione scientifica e pressione politica: come conciliare, infatti, l’ipotesi della superiorità dei Camiti e della comune appartenenza di Eritrei e Italiani ad un’unica tipologia razzia-

Il razzismo antinero: l’egemonia di Lidio Cipriani229 le con il regime di netta separazione e sottomissione attuato con durezza dal fascismo?

Sarà proprio Lidio Cipriani a sciogliere questo dissidio e a legittimare, sul piano teorico, la sintesi fra razzismo fascista, classificazione antropologica e politica coloniale. È in uno dei primi, giovanili contributi sull’«Archivio per l’Antropologia e la Etnologia» che Cipriani, appena laureatosi con Aldobrandino Mochi, inizia a interrogarsi sul «problema, molto ponderoso, della composizione e più specialmente dell’origine delle popolazioni etiopiche in genere e delle abissine in particolare»8. Studiando una serie di crani provenienti dal territorio abissino e conservati presso il Museo Nazionale di Firenze, l’antropologo giunge a condividere l’ipotesi di una derivazione degli Etiopici da popolazioni orientali pigmentate. In particolare, Cipriani, seguendo la pista inaugurata nel 1870 da Huxley e parzialmente accolta in Italia da Sergi e da Mochi, ritiene possibile un’origine veddaica (o dravidica) delle popolazioni etiopiche: «Quale potrebbe essere ad oriente il tipo da cui gli Abissini sarebbero derivati? […] Il cranio veddaico presenta una buona somiglianza con condizioni morfologiche frequenti negli Etiopici. […] Circa l’esistenza di un antico fondo veddaico nelle popolazioni etiopiche stanno ormai parecchi fatti constatati da autori diversi e valorosi»9 .

Divenuto, nel novembre 1926, libero docente di antropologia a Firenze, Cipriani, dal marzo all’ottobre 1927, compie il primo dei suoi viaggi di ricerca sul campo, visitando lo Yemen e, nel Sudafrica, lo Zululand, il Transvaal e il Bechuanaland (nella zona del Kalahari). Nel novembre 1928 l’antropologo è nuovamente in Africa e vi rimane fino all’aprile 1930, svolgendo ricerche archeologiche ed etnologiche soprattutto in Rhodesia e Mozambico. Tra il maggio 1930 e il gennaio 1931 viene realizzata, infine, una terza spedizione, questa volta in Congo, nei territori dei Boscimani e dei Pigmei. Da questi viaggi scaturisce, nel 1932, l’opera principale di Cipriani, intitolata Considerazioni sopra il passato e l’avvenire delle popolazioni africane, pubblicata nella collezione edita dal Comitato Italiano per lo Studio dei Problemi della popolazione (cisp), sotto gli auspici della Società Italiana di Genetica ed Eugenica (sige): organizzazioni dirette entrambe dallo statistico e demografo Corrado Gini10 .

Le Considerazioni del 1932 segnano una svolta significativa rispetto all’articolo di nove anni prima: in questa fase, infatti, Ci-

230Capitolo quinto priani accoglie l’aspetto dell’ipotesi camitica secondo cui qualsiasi segno di civiltà superiore riscontrabile sul suolo africano sarebbe da ricondursi all’opera della stirpe etiopico-camitica11. L’antropologo ipotizza, in particolare, che le tracce di civiltà superiori presenti sul suolo africano – l’antico Egitto, ma anche la «civiltà della Rhodesia»12 – e i «gruppi a caratteristiche somatiche e psichiche superiori», come i Bantu e gli Zulu, derivino da un originario ceppo «di tipo etiopico»:

Dobbiamo allora convincerci dell’esistenza nel corno orientale dell’Africa dei resti meglio preservati di un tipo umano africano straordinariamente antico, e là rimasto per ragioni dovute forse all’isolamento geografico e alle condizioni speciali di questa parte del continente. Discendenti, più o meno ibridi, di quel tipo esistono con probabilità anche altrove e le caratteristiche camitoidi di tutti i popoli bantu ne sono forse una conseguenza13 .

La «decadenza irrimediabile del tipo originariamente meglio dotato» sarebbe stata conseguenza dei ripetuti incroci con i «popoli negri» dell’Africa sub-equatoriale: per il tipo superiore, infatti, un notevole regresso «è probabilmente avvenuto ed è sempre in atto, avente in primo luogo come causa il livellarsi sempre più in basso delle doti mentali, in conseguenza del continuo accogliersi nelle tribù e assorbire per incrocio tipi umani decisamente inferiori»14. Il tema dell’innata «inferiorità mentale del negro» è non a caso al centro del saggio di Cipriani. Le indagini antropometriche sul volume, il peso e la morfologia del cervello, le analisi costituzionalistiche sul rapporto fra dati anatomici e livelli di intelligenza e i risultati dei test d’intelligenza somministrati dagli eugenisti statunitensi ai «Negri d’America» costruiscono, nel discorso dell’antropologo toscano, un panorama indiziario che culmina nell’immediata dimostrazione, per via analogica, della strutturale inferiorità psichica del «negro». Il ritratto delineato da Cipriani ha i toni del razzismo paternalistico tipico dell’antropologia fisica ottocentesca: «Generalmente il Negro impressiona per il suo contegno da fanciullone incorreggibile, per la sua disposizione ad una allegria infantile e ai passatempi ingenui a cui nessun Bianco normale si darebbe. Sfugge quanto più può dall’applicare, alla maniera nostra, le sue facoltà mentali ed il suo agire è assai poco per ragionamento e molto per imitazione, specialmente quando trasportato a vivere nel seno della civiltà»15. Dominati dagli «impulsi naturali» e dalla ricerca dell’ozio e dei piaceri individuali, i «ne-

Il razzismo antinero: l’egemonia di Lidio Cipriani231 gri» sono privi di qualsiasi capacità logico-critica e non concepiscono l’idea del lavoro: piuttosto che costruire una strada o scavare un pozzo, il «negro» – afferma Cipriani – preferisce «abbandonarsi ogni giorno, senza preoccupazioni di sorta, ai suoi piaceri prediletti, quali il cicaleggiare per ore e ore su argomenti insulsi ripetuti all’infinito, il saltare, il far rumore e talora il litigare o il sollazzarsi con le sue donne. Tutto il resto, per qualsiasi di loro, vale assai meno»16 .

Il fatto che «Negri innumerevoli» siano «allievi di università e capaci di divenire magari dei chirurghi passabili e degli insegnanti coscienziosi»17 non turba in alcun modo il razzismo di Cipriani, che può far ricorso, anche in questo caso, ad un’argomentazione ben diffusa nell’antropologia del secolo precedente: nessun progresso può provenire dalle «razze negre», le quali sono soltanto in grado di imitare (e in misura «non molto superiore al mediocre»)18 quanto i «bianchi» hanno invece contribuito a creare. Vista l’innata inferiorità psichica dei «negri», alla domanda «Sono i Negri suscettibili di progresso nel senso dato da noi a cotesta parola?», la risposta di Cipriani è ovviamente un «No reciso»19 .

Iniziata nel 1931-32, con l’enunciazione dell’inferiorità biologica dei «negri» e la partecipazione al Terzo Congresso internazionale di Eugenica di New York20, la parabola del razzismo antinero di Lidio Cipriani si compie nel periodo compreso tra il 1935, data di pubblicazione dell’articolo Il passato e l’avvenire degli etiopici secondo l’antropologia, e il 1938, anno segnato dall’attivo coinvolgimento di Cipriani nella stesura del Manifesto di luglio, oltre che dall’impegno nell’organizzazione dell’Ufficio Razza e dall’ingresso nella redazione della «Difesa della razza».

Pubblicato su «Gerarchia», l’intervento del 1935 muove un colpo decisivo all’ipotesi camitica, sostenendo fermamente l’idea di una natura «africana» degli Etiopici:

È un errore ritenere gli Etiopici completamente diversi dalle altre popolazioni africane, sì da considerarli un gruppo separato. Se ciò è esatto per parte della loro cultura, non lo è in senso razziale. Nonostante tutti gli apporti tardivi, soprattutto orientali, i quali per millenni tesero a modificare la congerie etiopica, resta infatti prevalente in essa un fondo comune a larga distribuzione in Africa, benché a caratteristiche somatiche non negre21

Non a caso l’articolo di Cipriani viene riprodotto testualmente, nel 1936, come capitolo introduttivo del volume Un assurdo et-

232Capitolo quinto nico: l’Impero etiopico. Costruito attraverso un sapiente collage di testi pubblicati precedentemente, questo saggio definisce gli «Etiopici attuali» come un «residuo» di «uomini già a vastissima distribuzione in Africa e a manifestazioni psichiche da giudicarsi elevate»22. Una volta affermata l’origine tutta africana del «tipo etiopico», Cipriani ne relega, tuttavia, la superiorità antropologica a un remotissimo passato, di cui ormai non resterebbero più tracce: Un’affermazione precisa, ora a noi possibile, è che le civiltà più elevate dell’Africa del passato furono dovute a genti razzialmente imparentate con gli Etiopici attuali; anzi, esse agirono così potentemente nello svolgimento degli eventi principali del continente, da potersi dire etiopica la sua storia antica. Tutte le popolazioni africane ne risentirono in maniera accentuata, nel tempo stesso, però, che riversavano il loro sangue in quella razza, avviandola alla decadenza23

Non sono riflessioni molto differenti da quelle del 1932, ma i passaggi analogici adottati dal discorso di Cipriani sono mutati in funzione di un diverso obiettivo politico-ideologico24. Mentre nelle Considerazioni il riconoscimento di una superiorità del tipo etiopico mirava a dimostrare l’inferiorità e la degenerazione delle popolazioni «negre» dell’Africa centro-meridionale, in Un assurdo etnico, l’inferiorità mentale, culturale e somatica degli Africani viene estesa tout court agli Etiopici «attuali», i quali non sarebbero altro che «africani», ovvero «un residuo in decadenza». La decadenza dell’Etiopia s’identifica, in sostanza, – afferma Cipriani –con quella dell’intero continente africano:

L’esame compiuto fin qui induce ad ammettere che la decadenza etiopica significò, in conclusione, la decadenza dell’Africa. Si deve credere, infatti, che proprio su base razziale etiopica siano sorte le antiche culture del continente; e che quella alteratasi, vi si siano indebolite le manifestazioni in cui eccelsero le genti del passato. Il processo è continuo, e certo è destinato ad aggravarsi di generazione in generazione25 .

Nel 1938, il processo di progressiva demolizione dell’ipotesi camitica prosegue, questa volta sulle pagine della «Difesa della razza». In un articolo pubblicato nel fascicolo del 5 ottobre, Cipriani ripropone, infatti, il tema della natura «africana» degli Etiopici26. Questi ultimi sarebbero esclusivamente i «resti» di un tipo umano superiore, originario dell’Africa nord-orientale, decaduto fin dall’antichità in seguito ai numerosi incroci con i «negri». Rispetto alle argomentazioni del 1932, l’antropologo dichiara, tut-

Il razzismo antinero: l’egemonia di Lidio Cipriani233 tavia, di aver aggiunto «qualche conclusione nuova»27. Ed in effetti, sulle pagine del quindicinale interlandiano, Cipriani introduce per la prima volta l’idea della sopravvivenza di un tratto dell’originaria superiorità biologico-culturale etiopica: uno «spirito bellico», scomparso o del tutto assente nelle altre popolazioni africane, ma particolarmente «prezioso», qualora si riesca a indurre i sudditi ad affiancare l’Italia in qualsiasi «impresa coloniale dell’avvenire, eventualmente […] fuori i confini dell’Etiopia»28 .

Una tesi, quest’ultima, che non sembra trovare particolari riscontri negli orientamenti ideologici della «Difesa della razza», tanto più che, intorno al problema etnologico degli Etiopici, il quindicinale continua a mostrare idee piuttosto confuse. Se, infatti, le argomentazioni di Cipriani sull’inferiorità biologica dei «negri» trovano nella rivista una notevole cassa di risonanza29 , sull’ipotesi camitica le posizioni risultano alquanto dissonanti.

Giuseppe Lucidi, ad esempio, nel maggio 1939, si dichiara ancora favorevole, sulla base di studi di carattere serologico, all’impostazione teorica di Giuseppe Sergi30. Di tutt’altro parere è, invece, Guido Landra, il quale si affida all’indagine di Eugen Fischer sui «bastardi di Rehoboth» per descrivere, analogicamente, le «genti etiopiche» come «un complesso di incroci di vario grado tra razze negre e razze semitiche»31. Lo stesso Cipriani non si sofferma ad approfondire l’analisi etnologica degli Etiopici, preferendo, invece, sfogare il proprio acritico etnocentrismo in superficiali descrizioni dei «riti africani», nelle quali l’inferiorità naturale del «sangue negro» viene costantemente ribadita32, ricorrendo alla distinzione fra popolazioni ancora dotate, per Cipriani, di bellezza e di notevoli capacità fisiche e abilità tecniche, come gli Zulu, i Boscimani, i Pigmei, i Baila33, e i «negri» dell’Africa centrale, descritti come «fanciulloni incorreggibili e perennemente spensierati», sempre pronti ad abbandonarsi alle orge e ai divertimenti più sfrenati, non appena vengono meno i freni loro imposti dall’«uomo bianco»34 .

2.

Come sul piano teorico, anche in materia di politica coloniale, le Considerazioni sopra il passato e l’avvenire delle popolazioni afri- cane del 1932 rappresentano un passaggio importante nel percorso ideologico di Cipriani. Sul principio dell’inferiorità biologica innata dei «negri» si fonda, infatti, nell’ottica dell’antropologo, il diritto dei «bianchi» allo sfruttamento coloniale dell’Africa. La via del «progresso» e dell’autogoverno appare del tutto impercorribile per i «negri», la cui incapacità psichica è sancita una volta per sempre dalla biologia. Fondato su un «ormai vieto darwinismo» e «sulla convinzione di una perfettibilità umana che urta per lo meno contro tutti i resultati dell’osservazione diretta», l’immane lavoro dei missionari e degli statisti africani è dunque destinato allo scacco, di fronte alle «ineluttabili ragioni psichiche» che «vi si oppongono e vi si opporranno sempre»35. Secondo Cipriani, ritenere di «avvicinare in permanenza, attraverso l’educazione, una razza umana inferiore al livello psichico delle razze superiori» è un assurdo «pari a quello di chi pretendesse […] di giungere ad ottenere un’abilità da cavalli in asini opportunamente addestrati»36. Il «contegno sempre tenuto dai Negri» giustifica, pertanto, «l’intervento delle nazioni civili in Africa»37. Nel razzismo paternalistico di Cipriani, il riconoscimento scientifico dell’inferiorità psichica dei «negri» rende anzi paradossalmente meno oppressivo e più giusto il sistema coloniale: «I Negri, giova ripeterlo, non danno affidamento di potersi mai civilizzare nel senso inteso da noi e quindi non capiranno mai quanto c’è da fare per sfruttare a vantaggio dell’umanità le immense risorse naturali del loro paese. Data una tale situazione, non è giusto che quelle risorse restino inutilizzate e le nazioni civili hanno il diritto di recarsi in Africa anche solo per esse»38. L’Africa viene descritta, in sostanza, dall’antropologo come «un immenso deposito di risorse naturali»39, il cui sfruttamento spetta esclusivamente alla superiore «razza bianca», poiché quella «negra» risulta strutturalmente ed eternamente «incapace di mettere in efficienza i tesori eccezionali della sua terra d’origine»40 .

Al di là di questa generica legittimazione, su base biologica, del colonialismo occidentale, Cipriani propone, in concreto, l’utilizzazione sistematica dei meticci ai fini di un maggiore sfruttamento delle risorse economiche africane. Sulla base degli studi eugenetici di Fischer, Davenport, Herskowitz e Mj°en, ipotizzanti il fenomeno dell’«eterosi» o del «vigore» biologico dei meticci, Cipriani suggerisce di razionalizzarne l’impiego come forza-lavoro particolarmente adatta al clima equatoriale:

Il razzismo antinero: l’egemonia di Lidio Cipriani235

Educati […] in maniera appropriata ed in primo luogo raccolti e tolti al più presto alle madri inette, le energie di cui i Mulatti sono dotati per natura potrebbero venire incanalate e volte nell’interesse della collettività specialmente nelle regioni ove i Bianchi, per ragioni di clima, non possono stabilirsi in perpetuo41

Per mulatti Cipriani intende chiaramente i figli di «donne Negre con Bianchi»; l’unione di «donne bianche con Negri o Mulatti», considerata innaturale e pericolosa per il mantenimento della «razza superiore», deve per contro essere assolutamente impedita attraverso campagne informative o punita con sanzioni legislative. Un’«appropriata divulgazione delle ragioni concernenti il pericolo e l’obbrobrio di tali connubi» potrebbe rilevarsi già efficace, poiché «fortunatamente», nella maggioranza dei casi, sembra sussistere, a detta di Cipriani, «una ripugnanza istintiva e difficile a vincersi per cui la donna di razza superiore respinge, all’infuori di ogni considerazione, l’uomo di razza inferiore, e nel fatto è da vedersi forse l’espressione di qualcosa con ben altro significato biologico»42. Razionalmente sfruttati, i mulatti rappresentano, pertanto, nella logica colonialista dell’antropologo fiorentino, un tassello fondamentale della strategia di popolamento bianco del continente africano: «Quanto nessuno può mettere in dubbio, –scrive ancora Cipriani, – è l’affermarsi tenace dei Mulatti sul suolo africano ed il loro continuo aumentare di numero. Nostro interesse, frattanto, apparisce quello di disciplinare, se non di incoraggiare l’inevitabile, anziché prendere, o cercar di respingere, quanto e malamente il caso ci offre»43 .

L’«importanza pratica del problema degli incroci per il popolamento dell’Africa» individua significativamente il punto di incontro fra l’analisi antropologico-eugenetica di Cipriani e la teoria demografica di Corrado Gini, il quale, nella prefazione alle Considerazioni, pone l’accento sulla «necessità degli incroci per la conservazione delle stirpi». Lungi dall’essere un veicolo di degenerazione biologica, l’ibridismo può essere, al contrario, una via di salvezza per le popolazioni, poiché «rifiutarsi alle mescolanze» vuol dire, per Gini, «estinguersi senza discendenti»:

La verità si è che un dilemma sembra porsi per le razze superiori come per gli esseri superiori: o rifiutarsi alle mescolanze ed estinguersi senza discendenti, o fondere il proprio sangue con quello di razze diverse (che di necessità, relativamente alla superiore, non possono essere che inferiori) accon-

236Capitolo quinto tentandosi di rialzarne con le proprie doti il livello e confidando altresì che qualche fortunata combinazione genetica, favorita dalla selezione individuale o sessuale, possa, dalla varietà dei miscugli, originare nuovi cespiti intrinsecamente superiori o, quanto meno, meglio adatti ad ambienti particolari44

Riconoscere «la varia qualità» dei prodotti degli incroci non significa – prosegue Gini – «negare l’importanza del problema eugenico degli incroci, ma, se mai, accentuarla, in quanto, riconosciuto il carattere inevitabile del fenomeno, più evidente appare la necessità di disciplinarlo»45 .

Parallelamente allo sfruttamento sistematico dei mulatti, è la prospettiva di una progressiva colonizzazione dell’Africa centromeridionale ad opera degli italiani a costituire il secondo nucleo argomentativo delle Considerazioni del 1932. Sostenuti dalla loro potenza demografica, dalla «vigoria fisica» e dalle «capacità intellettive», gli italiani sono, infatti, chiamati – più di ogni altra nazione europea e indipendentemente dalla conquista di effettivi spazi coloniali – a svolgere un’azione di popolamento massiccio dell’Africa46. Le colonie – afferma Cipriani – sono sfruttate da altre nazioni, ma chi le colonizza veramente, chi le rende «veramente sfruttabili», sono gli italiani: Sono le case, le piantagioni, le fattorie fiorenti sorte ove prima era la foresta od esistevano paludi malsane; sono le società industriali, ricchezza e vanto del paese nel quale svolgono la loro attività e ne favoriscono lo sviluppo; sono le strade, sono i ponti, sono i tracciati ferroviari perfettissimi […]; sono le missioni, sono le scuole che, italiane o sotto direzione italiana, aiutano del loro meglio gli indigeni […]47

Nel 1932 Cipriani non ha, dunque, alcun dubbio: indipendentemente dall’efficacia dell’azione politica, l’Africa è destinata a essere italiana.

Gli stessi argomenti, riprodotti in modo sostanzialmente identico anche dal punto di vista testuale, si riscontrano nel 1936 nel volume Un assurdo etnico. Può essere interessante notare come, ancora nelle pagine di questo saggio, Cipriani insista sul progetto di sfruttamento sistematico dei mulatti, la cui moltiplicazione è considerata, come nel 1932, un fatto «inevitabile»:

Sui vantaggi, o meno, possibili ad attendersi da Mulatti è stato scritto da parecchi. Nel nostro paese, il Gini si occupò già di cotesto argomento. Con vari lavori, pubblicati da lui o sotto la sua direzione, ci fornisce notizie ben documentate, utili a far comprendere l’importanza dei Mulatti nel caso

Il razzismo antinero: l’egemonia di Lidio Cipriani237 particolare del popolamento futuro dell’Africa. Inevitabilmente l’incrocio dei Bianchi coi Negri giungerà ad avere gran parte nell’incremento delle regioni africane non propizie, per ragioni climatiche, alla nostra razza. Intanto le molte questioni connesse con i Mulatti si impongono da sé ogni giorno con maggior forza, onde si discute e si indaga per meglio fronteggiare il domani. Ci occorre sapere se cotesti uomini sono più o meno adatti delle razze da cui provengono a sopportare i climi tropicali […]; se sono, o no, normalmente prolifici e se, tutto sommato, i vantaggi potranno superare gli svantaggi della presumibile riduzione di numero o magari scomparsa, allo stato puro, delle razze africane48

Tuttavia, tra il marzo 1936, mese di pubblicazione di Un assurdo etnico, e il dicembre dello stesso anno, data in cui compare sulla «Rivista di Biologia» l’articolo Per la difesa della razza bianca in Africa (riprodotto con lievissime modifiche su «Gerarchia»), la posizione dell’antropologo conosce, come in altre occasioni, una trasformazione impercettibile, ma radicale. Il passaggio citato in precedenza viene, infatti, letteralmente riportato sulla «Rivista di Biologia» e su «Gerarchia», ma, oltre a essere eliminato il riferimento alle teorie di Corrado Gini, viene ora aggiunta una frase riguardante le «debite cautele» da utilizzare nel momento in cui si affronta il problema del meticciato49. Mentre poi, nel 1936 e nel 1932, la citazione proseguiva con un lungo periodo in cui Cipriani sosteneva la necessità di «disciplinare, se non incoraggiare l’inevitabile», ovvero «l’affermarsi tenace dei Mulatti», ora quest’ultimo passaggio risulta completamente rimosso.

L’adeguamento delle tesi di Cipriani alle nuove direttive del regime fascista non potrebbe essere più immediato. È infatti tra il 1936 e il 1938 che l’impianto segregazionista e anti-assimilazionista del razzismo coloniale dell’antropologo raggiunge la sua piena maturità. Tale fase è ovviamente inscindibile dagli incarichi politici assunti a partire dall’estate 1938. È lo stesso Cipriani a indicare, il 15 luglio, al ministro della Cultura Popolare Dino Alfieri alcune linee guida per la programmazione dell’attività dell’Ufficio

Razza:

Allo scopo di sottoporli al Vostro giudizio ho preparato alcuni schemi di progetto e cioè: per la costituzione di una biblioteca a carattere razzista presso codesto Ministero (allegato 1); per la costituzione di una raccolta fotografica di tipi umani italiani e dell’Africa Italiana (allegato 2);

238Capitolo quinto per la divulgazione dei concetti razzisti in Italia a mezzo di libri e articoli sulla stampa quotidiana e sulle riviste illustrate (allegato 3); per l’illustrazione cinematografica dei tipi umani italiani (allegato 4); per un censimento delle genti di colore comunque residenti in Italia (allegato 5); per una sorveglianza a carattere razzista sugli spostamenti dei tipi umani da una regione all’altra d’Italia; in particolare per lo spostamento dei funzionari governativi (allegato 6).

Nell’allegato al punto 5, Cipriani suggerisce un censimento «dei bastardi e tipi di colore in genere», frutto del deleterio incrocio fra italiani «anche di alta posizione» e africane, presenti sul territorio del regno. Sostenuto formalmente dalla Società Italiana di Antropologia e Etnologia50, il piano di Cipriani verrà parzialmente realizzato nello stesso 1938, conducendo alla compilazione di una lista piuttosto scarna di ventinove soggetti provenienti dall’Africa orientale, generalmente impiegati con mansioni di basso livello presso enti pubblici (autisti, facchini) o come domestici in case private di famiglie benestanti51. Appare evidente, a questo punto, il giro di vite che ha interessato il discorso antropologicoeugenetico dell’antropologo, tra il 1932 e il 1938: il progetto di un’utilizzazione razionale e sistematica dei mulatti, espresso nel 1932, ha lasciato spazio alla condanna assoluta di qualsiasi forma di meticciato e all’elaborazione di un rigido sistema di monitoraggio e di segregazione su base razziale. Il mulatto non è più una risorsa da sfruttare, ma una minaccia biologica da isolare. Gli articoli pubblicati da Cipriani, nel 1938, su quotidiani come il «Corriere della Sera» e il «Popolo d’Italia» confermano tale svolta. Sulla necessità di impedire la diffusione degli Africani sul territorio europeo si fondano, ad esempio, gli attacchi dell’antropologo alla politica demografica francese:

La stravagante politica demografica che ha attuato dopo la grande guerra collima con uno dei capisaldi del programma bolscevico, ispirato al concetto egualitario, anche in senso biologico, dell’umanità, e parte dall’assurda pretesa che qualunque uomo possa «francesizzarsi». Senza dubbio, l’effetto sarà l’opposto del desiderato, perché in tal modo il Paese finirà con lo «sfrancesizzarsi» e scendere verso un basso livello morale e materiale. […] Opportuno è, di conseguenza, trattenere nel loro paese gli Africani: intendendo con tale nome non solo i «puro-sangue» ma anche, e soprattutto, i bastardi, fonte per noi, in senso razziale, di maggiore pericolo. Prima che l’inconveniente dilaghi, una politica inversa a quella francese dovrà dunque affermarsi in Europa. Inoltre, bisognerebbe ricondurre in Africa quanti pu-

Il razzismo antinero: l’egemonia di Lidio Cipriani239 ri o bastardi di qualunque grado e che in qualunque modo e in qualunque epoca uscirono dalle sue genti. Motivo principale: il mantenimento e l’ascesa della nostra civiltà52 .

Per le «razze a più alti poteri mentali» – e Cipriani si riferisce non solo agli italiani, ma anche, ad esempio, agli Arabi53 – l’incrocio è tendenzialmente una «perdita»:

Le razze a più alti poteri mentali rischiano perciò una perdita, e le rimanenti un guadagno cerebrale, col fondersi. Il chiudersi delle Nazioni entro confini precisi assicura lo svolgimento indisturbato dei fatti plasmativi, perché ostacola nuovi apporti razziali. In altri termini una Nazione è una razza in atto o in potenza: ha quindi pieno senso biologico il concetto di razza applicato in politica54 .

Lo stesso antisemitismo di Cipriani si fonda, al pari del razzismo antinero, sull’incubo dell’incrocio, tanto biologico quanto spirituale, con la «razza ebraica», portatrice di «disturbi fisiologici e psichici» ereditari55 e di una cultura incompatibile con la «razza di Roma»56 .

Accanto alla denuncia del meticciato – oltre che, più in generale, degli incroci con «razze inferiori» – è sullo sfruttamento dello «spirito bellico» degli Etiopici che insistono gli interventi di Cipriani in materia di politica coloniale, a partire dagli articoli pubblicati nel 1938-39 sulle pagine della «Difesa della razza»57. Il progetto dell’antropologo è tanto semplice quanto visionario: occorre favorire la prolificità degli Etiopici per farne un’armata di guerrieri al comando dell’élite italiana in vista della guerra per il dominio del continente africano. In una lettera a Guido Landra dell’agosto 1938, Cipriani è esplicito a questo proposito:

Per chi, come me, ha dieci anni d’Africa, in tutte le parti d’Africa, il possesso di oggi dell’Etiopia significa il possesso di domani di tutta l’Africa: a mezzo di armate di Etiopia – le genti più bellicose del continente! – comandate da Italiani. Nostro interesse è dunque incoraggiare la riproduzione degli Etiopici per farne i soldati di avanguardia per il nostro immancabile domani africano. Niente paura per noi del loro numero e del nostro istruirli; il vantaggio sarà solo italiano, per quei motivi psicologici!!58 .

Per guidare, tuttavia, gli Etiopici «ove vorremmo», occorre, secondo Cipriani, sviluppare una precisa attività di ispezione del corretto «trattamento degli indigeni». E l’antropologo non conosce remore nel proporre se stesso nel ruolo di «consulente razzista nell’Impero». Fin dal 1936, sulle pagine di «Gerarchia», Cipria-

240Capitolo quinto ni ha, infatti, strettamente legato il riconoscimento dell’inferiorità mentale degli Africani con l’attuazione di un piano di rigida segregazione razziale in Africa: Per la sua mentalità – convinciamocene – l’africano è molto lungi da noi. Lo denota un’indagine sulle razze umane quale soltanto l’antropologia può compiere; ma intanto nessun antropologo è stato mai consultato in fatto di legislazione coloniale. Una logica regolazione dei rapporti fra bianchi e neri, stabilita tenendo presenti i dettami delle scienze antropologiche, è invece di fondamentale importanza per lo sfruttamento di una colonia […]. Soprattutto la distanza fra questi [i coloni] e gli indigeni deve in ogni momento mantenersi grande quanto impongono la dignità di razza e le esigenze coloniali59 .

Nel gennaio 1939, in una lettera a Guido Landra, Cipriani, presentandosi come «specialista non superficiale di cose africane», si candida a svolgere un «incarico ispettivo» in territorio coloniale: Osservo come va il razzismo qua e riferirò al ritorno. Occorrono provvedimenti vegliati sul posto da uno specialista non superficiale di cose africane. Spesso si manca, anche in alto, non sapendo di mancare: tuttora. Non di rado vedo roba da chiodi. Ricordo alla mia partenza da Roma una tua frase su un «consulente razzista» nell’Impero. Il provvedimento è urgente e farebbe salvare milioni se non miliardi allo Stato. Si erra, e molto, sul trattamento degli indigeni; occorrerebbe illustrare caso per caso. Una sola persona con cotesto solo incarico, basterebbe per tutto l’Impero, se mandata in giro rapidamente per i vari Centri. Un’ispezione annua, magari di un mese, fatta con coscienza salverebbe molte cose e frutterebbe anche come danaro che ora si perde, in modo sproporzionato a quello che sarebbe il costo del provvedimento. Mi sentirei onorato di un incarico ispettivo del genere, e potrei annualmente compierlo con utile per l’Impero e poca spesa per lo Stato60 .

Anche dopo il cambiamento di guardia alla guida dell’Ufficio Razza, con la sostituzione di Guido Landra con Sabato Visco, Cipriani non rinuncia al suo progetto. In un lungo promemoria inviato a Visco nel maggio 1939, l’antropologo denuncia il fatto che «molti fatti sconvenienti» avvengano ancora in Africa orientale, rendendo ineffettiva l’«invocata e necessaria separazione tra Bianchi e indigeni»:

Cito l’esempio di non pochi istituti di credito, e di molti negozi. Poco prima del mio ultimo imbarco (aprile 1939) per il ritorno in Italia, dovendo riscuotere alcune migliaia di lire da un ufficio del Banco di Roma, mi è stato necessario aprirmi la via in mezzo ad un gruppo di indigeni che si accalcavano al medesimo sportello al quale io pure ero costretto a rivolgermi61 .

Il razzismo antinero: l’egemonia di Lidio Cipriani241

Ma è soprattutto la promiscuità sessuale ad allarmare Cipriani, il quale racconta di aver visto un capitano dell’esercito danzare di notte completamente nudo «in presenza di parecchi altri ufficiali di grado pari o inferiore al suo, di varie prostitute nere e mentre a breve distanza si trovavano indigeni»62. Senza contare poi la frequenza dei rapporti sessuali con le indigene: «Mi duole dire che militari e civili persistono a comportarsi molto sconvenientemente per quanto riguarda i rapporti sessuali con le indigene. Pochi si preoccupano di occultarli; anzi, si giunge talora a episodi rivoltanti»63 .

La situazione coloniale risente evidentemente, nell’ottica di Cipriani, di un’«imperfetta valutazione degli usi nonché delle naturali tendenze psichiche degli indigeni». Il razzismo, infatti, insegna che «la maggioranza delle popolazioni etiopiche, per indistruttibili motivi naturali, non è in condizione di assimilare la nostra civiltà»64. Innalzare il tenore di vita degli indigeni, al fine di renderli acquirenti dei prodotti italiani, non è, dunque, «nell’interesse dell’Impero»: i «nuovi bisogni» e i «nuovi vizii» importati dalla madrepatria, i quali sarebbero compatibili «in un superiore complesso culturale», rappresentano per gli indigeni soltanto un apporto fittizio, capace «non di elevare in vero modo il loro tenore di vita ma di creare spostati e determinare uno stato di infelicità sconosciuto agli individui lasciati nello stato di primitività a loro più adatto»65. Di fronte a questa situazione, la proposta concreta di Cipriani implica, innanzitutto, la reintroduzione di un regime di semi-schiavitù:

Va riconosciuto che l’indigeno non considera alla maniera nostra lo stato da noi detto di schiavitù. Lo schiavo stesso non si sente così infelice come noi immaginiamo. Le considerazioni razziste da farsi all’uopo ci porterebbero molto in lungo. Non dubito della necessità di abolire la compra e vendita di esseri umani ma giudico pericoloso dichiarare senz’altro liberi individui stati sempre sottomessi e per i quali è facile vivere senza dispendio di sorta. Da considerarsi è pure che abolendo la schiavitù abbiamo demolito le basi di un sistema economico senza sostituirvene altre. La produzione d’intere regioni ne è rimasta fortemente scossa. Frattanto gli indigeni chiamano «schiavi bianchi» gli operai italiani che lavorano sulle strade e nei campi. La dura realtà impone forse che in Etiopia si abolisca la schiavitù soprattutto cambiandole il nome66

Una seconda iniziativa descritta da Cipriani nel suo promemoria prevede poi la suddivisione del territorio coloniale in «amplis-

242Capitolo quinto sime zone, di superficie almeno come potrebbe essere quella della Toscana, destinate esclusivamente alla colonizzazione europea; in altre zone, anche più estese, da considerarsi riserve indigene»67 . Infine, l’ultimo suggerimento posto all’attenzione di Sabato Visco riprende l’idea dell’«ispezione periodica segreta», già a suo tempo prospettata a Landra:

Va riconosciuto che di solito si manca in a.o.i. senza accorgersene. Pochi, inoltre, mi son sembrati in condizione di capire quanto c’è da reprimere, o quanto all’opposto, da incoraggiare almeno in senso razzista. Veramente, opera di propaganda ne è stata fatta ed ora è il momento di punire chi non si comporta rettamente. Pochi ma duri esempi potrebbero essere bastanti a mettere tutti sulla retta via. All’uopo il Governo dovrebbe nominare persona di sicura competenza africana, preparata quindi a vedere e possibilmente a colpire ciò che sfugge alla generalità. Basterebbero poche ispezioni periodiche, compiute però segretamente che altrimenti molto resterebbe occultato. Tale persona potrebbe magari recarsi in Africa con mansioni scientifiche effettivamente adempiute sì da non suscitare diffidenza. Non deve giudicarsi odioso ma patriottico il far questo68 .

Le aspirazioni di Cipriani avranno, tuttavia, vita breve. Di lì ad alcuni mesi, le indagini amministrative distruggono, infatti, la carriera dell’antropologo, radiato per indegnità da tutte le istituzioni scientifiche ed esonerato da ogni incarico accademico. Le relazioni con l’Ufficio Studi e Propaganda sulla Razza verranno riallacciate soltanto a partire dall’aprile 1942, sotto la direzione di Alberto Luchini, il quale inserirà Cipriani nell’elenco degli «scienziati-giornalisti», chiamati a scrivere di «razzismo positivo» nelle pagine dei quotidiani69, e gli fornirà la strumentazione tecnica70 necessaria per svolgere alcune ricerche antropologiche a Creta, dove Cipriani, di stanza presso la Divisione Siena, cerca di conciliare i «doveri di combattente» con la sua «aspirazione di studioso»71 .

1 Sulla figura di Lidio Cipriani, cfr. f. cavarocchi, La propaganda razzista e antisemita di uno «scienziato» fascista. Il caso di Lidio Cipriani, in «Italia contemporanea», n. 219, giugno 2000, pp. 193-225. Cfr. anche l. goglia, Note sul razzismo coloniale fascista, in «Storia contemporanea», XIX, n. 6, dicembre 1988, p. 1244; j. moggi cecchi, La vita e l’opera scientifica di Lidio Cipriani, in «aft Rivista di Storia e Fotografia», VI, n. 11, giugno 1990, pp. 11-18; g. gabrielli, Prime ricognizioni sui fondamenti teorici della politica fascista contro i meticci, in a. burgio e l. casali (a cura di), Studi sul razzismo italiano cit., pp. 80-82; b. sòrgoni, Parole e corpi cit., pp. 158-92. Sulla sua attività come direttore dell’Istituto fiorentino di Antropologia, si vedano gli interessanti riferimenti in diversi saggi contenuti in e. collotti (a cura di), Razza e fascismo. Le persecuzioni contro gli ebrei in Toscana (1938-1943), Carocci, Roma 1999, in particolare quelli di C. Bencini, F. Cavarocchi e A. Minerbi. Per il curriculum e l’elenco delle pubblicazioni di Cipriani, cfr. in particolare l. cipriani, Titoli e pubblicazioni 19231940, Stamperia Fratelli Parente di G., Firenze 1940.

2 «Dedicato all’Impero» è un fascicolo speciale di 64 pagine della «Difesa della razza», pubblicato il 5 maggio 1939, con articoli di Martino Mario Moreno, Angelo Piccioli, Ubaldo Nieddu, Lino Businco, Antonio Trizzino, Giuseppe Lucidi, Alfonso Petrucci, Antonio Petrucci, Berlindo Giannetti, Lidio Cipriani, Guido Landra, Edmondo Vercellesi, Irma Marimpietri, Elio Gasteiner, Giuseppe Pensabene, Francesco Callari, Carlo Barduzzi.

3 Cfr. a. petrucci, Negri e bianchi in Africa, in «La Difesa della razza», I, n. 2; id., Difendere il prestigio, ivi, II, n. 6; id., L’Impero fecondato dal lavoro, ivi, n. 12; id., Tramonto dell’imperialismo democratico, ivi, n. 13; id., Il fallimento della colonizzazione inglese, ivi, n. 20; id., Il negro e la crisi della civiltà, ivi, n. 21.

4 id., L’alimentazione del bambino in colonia, ivi, n. 11.

5 Sull’origine e gli sviluppi dell’ipotesi camitica nella storia dell’antropologia, cfr. b. sòrgoni, Parole e corpi cit., pp. 38-46. Cfr. anche d. saint-clair, Détruire le mythe chamitique, devoir des hommes cultivés, in Deuxième Congrès des Écrivains et Artistes Noirs, Rome, 26 marzo - 1º aprile 1959, vol. I, pp. 215-30; w. macgaffey, Concepts of race in the historiography of North-East Africa, in «Journal of African History», VII, n. 1, gennaio-aprile 1966, pp. 1-17; e. r. sanders, The hamitic hypothesis: its origin and functions in time perspective, ivi, X, n. 4, ottobre-dicembre 1969, pp. 521-32; p. s. zachernuk, Of origins and colonial order: Southern Nigerian historians and the «Hamitic Hypothesis», ivi, XXXV, settembre-dicembre 1994, pp. 427-55.

6 Cfr. b. sòrgoni, Parole e corpi cit., pp. 40-41.

7 Ibid., pp. 46-52.

8 l. cipriani, Crani del territorio abissino, in «Archivio per l’Antropologia e la Etnografia», LIII (1923), n. 1-4, p. 11.

9 Ibid., pp. 23-24.

10 Per un profilo biografico di Corrado Gini, cfr. f. cassata, Il fascismo razionale. Corrado Gini fra scienza e politica cit.

11 Cfr. b. sòrgoni, Parole e corpi cit., p. 173.

12 Sugli studi dedicati da Cipriani alle origini della cosiddetta «civiltà della Rhodesia», cfr. l. cipriani, Le antiche rovine e miniere della Rhodesia, Bemporad, Firenze 1932; id., In Rhodesia, in «Rivista di Biologia», XIV, n. 1-2, 1932, pp. 126-48; id., Nuovi dati archeologici sulla Rhodesia, in «L’Universo», XVI, febbraio 1935, pp. 123-36.

13 id., Considerazioni sopra il passato e l’avvenire delle popolazioni africane, Bemporad, Firenze 1932, p. 102.

14 Ibid., p. 111.

15 Ibid., p. 139.

16 Ibid., pp. 139-40.

17 Ibid., p. 125.

18 Ibid., p. 126.

19 Ibid., p. 111.

20 Cfr. f. cassata, Molti, sani e forti cit., p. 173.

21 l. cipriani, Il passato e l’avvenire degli etiopici secondo l’antropologia, in «Gerarchia», n. 11, novembre 1935, p. 917.

22 id., Un’assurdo etnico: l’Impero etiopico, Bemporad, Firenze 1936, p. 223.

23 Ibid., p. 305.

24 Cfr. b. sòrgoni, Parole e corpi cit., p. 175.

25 l. cipriani, Un assurdo etnico cit., p. 324.

26 id., Gli etiopici secondo il razzismo, in «La Difesa della razza», I, n. 5, 5 ottobre 1938,

This article is from: