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Alberto Da Zara. L’eterodossia al comando

Alberto Da Zara

L’eterodossia al comando

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Fabio De Ninno

Ricercatore senior (Tipo B), abilitato alle funzioni di Professore associato, presso l’Università di Siena, segretario di redazione di Italia contemporanea, coordinatore del progetto della bibliografia italiana di storia militare 2008-19, del Centro interuniversitario di studi e ricerche storico militari. Collabora con il Second World War Research Group del King’s college di Londra. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Fascisti sul mare: la Marina e gli ammiragli di Mussolini (2017) e I sommergibili del fascismo (2014), oltre a numerosi capitoli e articoli in pubblicazioni scientifiche italiane e straniere.

Alberto Da Zara è plausibilmente passato nella memoria pubblica sulla guerra navale italiana come il combattente per eccellenza della Marina, complice la fortuna delle sue memorie, a giudizio di chi scrive, tra le più obiettive e godibili tra i protagonisti del conflitto, complice l’intenzione dell’autore di considerarle come propri ricordi e non come storia, fornendo una visione eterodossa dell’istituzione e del suo sviluppo.

Nato a Padova l’8 aprile 1889, figlio di un ex-ufficiale di cavalleria, egli stesso non seppe collocare nella sua autobiografia il momento in cui maturò la decisione di diventare ufficiale di Marina. L’infanzia e l’adolescenza furono comunque dominate dalla voglia di competizione, promossa attraverso lo sport, trovando nell’equitazione una precoce passione e compagna che lo avrebbe seguito per tutto il resto della vita.

Compiuti gli studi liceali, il 10 novembre 1907, Da Zara fu ammesso all’Accademia di Livorno, realizzando il sogno della sua adolescenza e iniziando la frequentazione del triennio dei corsi normali. Ebbe come compagni alcune delle figure di riferimento della Marina dell’epoca delle guerre mondiali come Raffaele de Courten, a cui rimase legato da una profonda amicizia e Giuseppe Fioravanzo.

Con l’Accademia, Da Zara ebbe un rapporto conflittuale. Avrebbe scritto che i modelli britannico e giapponese, che mettevano a contatto gli allievi con il mare prima e ne incentivavano la competitività fisica e l’iniziativa individuale, «segnassero inequivocabilmente la strada da seguire» per costruire dei combattenti. L’anglofilia di Da Zara e l’ammirazione per la Royal Navy sarebbero rimaste una costante nel corso di tutta la sua vita, ritenendo che l’esperienza marinara e i metodi di funzionamento dell’istituzione britannica fossero i migliori del mondo, convinzione che mantenne fin dopo la Seconda guerra mondiale, pur combattuta e persa contro i britannici.

Per Da Zara, infatti, Livorno era un «eccellente istituto» ma che formava «ufficiali di Marina» e non «marinai da guerra» e «pochi fra quelli che furono tra i migliori allievi furono fra gli ufficiali migliori» (1). Inoltre, a suo giudizio, in un’epoca di rapidi cambiamenti tecnologici, sarebbe stato necessario un corpo unico per formare la figura del «tecnico combattente» fondendo i ruoli del Corpo di Stato Maggiore, del Genio e delle Armi Navali che in Italia erano rigidamente separati (2). Necessaria avrebbe dovuto essere una formazione continua, diluendo maggiormente lo studio lungo il corso della carriera (3).

Nell’aprile 1911, al termine del ciclo degli studi, Da Zara fu nominato guardiamarina, poi sottotenente di vascello nel luglio 1913, promozione che avrebbe ricordato come «la più grande gioia» perché gli consentiva di abbandonare il «quadratino» dei guardiamarina e godere di un proprio alloggio a bordo. Da giovane ufficiale, Da Zara si fece una reputazione come preparatore di equipaggi per competizioni sportive. Nel 1913, durante una visita di Vittorio Emanuele III a Kiel, preparò l’equipaggio che batté in una regata gli armamenti di ben sette navi da guerra tedesche venendo premiato direttamente dall’imperatore Guglielmo II (4).

Al tempo della guerra italo-turca, Da Zara fu imbarcato sulla corazzata Vittorio Emanuele e poi sulla Regina Elena, ma fu con la Prima guerra mondiale che la sua

In apertura: Alberto Da Zara «plausibilmente passato nella memoria pubblica sulla guerra navale italiana come il combattente per eccellenza della Marina». Sotto: la corazzata VITTORIO EMANUELE e, in basso, il REGINA ELENA, dove Da Zara fu imbarcato, al tempo della guerra

italo-turca (Fonte immagini articolo: USMM).

carriera di combattente lo avrebbe portato precocemente alla ribalta. Da Zara in realtà, come molti altri ufficiali dell’epoca, rimase sorpreso dello stallo strategico verificatosi. Nelle sue memorie definì l’impostazione delle operazioni italiane una «mediocre strategia», che in parte riconduceva al fatto che il Duca degli Abruzzi posto al comando delle Forze navali riunite nel basso Adriatico non riuscì a cogliere occasioni per infliggere qualche serio colpo agli austroungarici. Sebbene egli stesso attribuisse la colpa di questo alla prudenza di entrambi i contendenti. Nel campo italiano, in parte ciò derivava dal fatto che il Duca, pur essendo un eccellente tattico e marinaio, non era un altrettanto buon stratega (5). Si tratta di giudizi che oggi trovano un parziale riscontro negli studi sull’argomento, che però mettono anche in evidenza le difficoltà dello scenario e il conseguente percorso di adattamento della strategia italiana verso una guerra d’attrito navale con accresciuto peso dei mezzi sottili, nei quali a detta di Da Zara l’Italia partiva in svantaggio sul piano qualitativo (6).

Imbarcato inizialmente sull’Irrequieto, a fine giugno 1915, Da Zara sbarcò per preparare l’occupazione dell’isolotto di Pelagosa, dove fu decisa l’installazione di una stazione radiotelegrafica per fornire informazioni tempestive sugli avvistamenti di forze di superficie nemiche dirette contro i porti italiani dell’Adriatico meridionale, ripetutamente attaccati dopo l’inizio delle ostilità. La sistemazione della stazione era affidata al sottotenente Giancarlo Vallauri e il reparto di occupazione era composto da un’ottantina di marinai. Nonostante lo scetticismo di Da Zara, sul valore dell’iniziativa, il 12 luglio l’isolotto fu occupato, i quattro semaforisti nemici catturati e la stazione installata. Il giorno successivo la guarnigione fu attaccata una prima volta, senza grossi danni, da un cacciatorpediniere nemico. Il 18 luglio fu effettuato un secondo e più serio tentativo, questa volta con una forza complessiva di 2 incrociatori leggeri, 5 caccia e 4 torpediniere che supportarono un tentativo di sbarco che però fu respinto, con una sola perdita tra gli italiani. L’isolotto, poi, dovette essere evacuato in seguito a un secondo massiccio bombardamento nemico (17 agosto), nonostante i rinforzi pervenuti nelle settimane precedenti, a causa delle difficoltà di mantenimento e rifornimento della posizione (7). Nel corso dell’azione, Da Zara conquistò la sua prima medaglia d’argento per aver mantenuto una condotta esemplare tenendo alto lo spirito degli uomini sotto il suo comando, sopravvivendo solo tra dieci occupanti nella trincea del pezzo antiaereo presente sull’isola, centrato da una granata nemica da 100 mm (8). Promosso tenente di vascello per merito di guerra, Da Zara spese la convalescenza come addetto alla persona di Ferdinando di Savoia-Genova e il 1o dicembre si reimbarcò a Brindisi. Partecipò o osservò direttamente le operazioni nel basso Adriatico che rafforzarono da un lato la sua visione negativa della strategia italiana, soprattutto per l’incapacità di cogliere opportunità per infliggere danni al nemico, frutto anche di una relativa lentezza nella risposta operativa. Al tempo stesso, l’esperienza in Adriatico portò alla convinzione dell’importanza di disporre cacciatorpediniere ben bilanciati come work horse della flotta, in quanto unità della massima flessibilità operativa. Nel maggio 1917, partì per gli Stati Uniti, come parte di una missione diplomatica guidata da Nitti e Marconi, destinata a rafforzare la cooperazione, dato l’avvenuto ingresso in guerra di Washington in aprile. Rientrato in Italia, si sarebbe dedicato informalmente allo studio della possibilità di indurre il nemico a uno scontro decisivo in condizioni favorevoli. Al rientro in Patria, la sua unità, il cacciatorpediniere Sparviero, fu dislocato in alto Adriatico, all’inizio dell’autunno del 1917, quella zona di contrasto caratterizzata dalla breve distanza tra le basi delle

Il cacciatorpediniere della Regia Marina, IRREQUIETO, dal quale Da Zara

sbarco nel 1915.

due parti, da forme di guerra integrata aeronavale e dalla presenza di una costante azione delle forze sottili, Da Zara divenne un attivo sostenitore del combattimento notturno come necessario sviluppo per la Marina più debole e del tiro di concentrazione, in alternativa al fuoco di fila privilegiato dalla tattica navale dell’epoca (9). Affascinato dalle imprese dei MAS, ritenendo Luigi Rizzo il miglior esempio di «marinaio combattente» prodotto dal paese, Da Zara avrebbe concluso il ciclo operativo della Grande Guerra con un’ultima missione proprio sui MAS, per una breve ricognizione dell’isolotto di Pelagosa. Si concludeva così una esperienza ricchissima sul naviglio di superficie, segnata in positivo anche da una seconda medaglia d’argento conferitagli nel 1919 per le operazioni in Adriatico (91 missioni di guerra di cui 50 offensive). A giudizio di chi scrive, la lunga esperienza in mare e la frustrazione per la mancanza di successi, che Da Zara attribuiva alla scarsa iniziativa e propensione al rischio e al materiale non sempre adeguato, ebbero un peso decisivo nelle sue posizioni successive riguardo la condotta tattica, nei confronti della quale si dimostrò eterodosso rispetto alla dottrina navale nazionale.

Subito dopo la guerra partecipò al corso superiore che lo avrebbe dovuto preparare al suo primo comando. Nel corso della permanenza a Livorno, Da Zara assieme al collega e amico Franz De Pinedo si soffermò soprattutto sul problema delle Marine numericamente inferiori rispetto agli avversari e come queste dovessero compensare lo svantaggio con un approccio qualitativo centrato sul superiore addestramento, una maggiore innovazione tecnica che in Italia era spesso marginalizzata e lo sfruttamento del combattimento notturno (10).

Promosso primo tenente di vascello, nel maggio 1920, fece richiesta per essere inviato in Cina, invece dal dicembre di quell’anno e fino al 1922 tenne il comando dello yacht armato Cirenaica, per ricevere poi, nel maggio del 1922, l’incarico desiderato partendo alla volta dell’Estremo Oriente nel luglio seguente, per comandare la cannoniera fluviale Carlotto. L’Italia era presente in Cina dalla rivolta dei Boxer e manteneva una limitata, ma diplomaticamente e propagandisticamente impor-

«Da Zara fu affascinato dalle imprese dei MAS, ritenendo Luigi Rizzo (accanto) il miglior esempio di “marinaio combattente”. «Assieme al collega e amico Franz De Pinedo (qui nell’immagine) si soffermò sul problema delle Marine numericamente inferiori rispetto agli avversari e come queste dovessero compensare lo svantaggio (...)».

tante, presenza militare che il fascismo, insediatosi al potere poco dopo, avrebbe progressivamente espanso (11). Da Zara, in quanto comandante del Carlotto, avrebbe mirato soprattutto al potenziamento dell’efficienza dell’unità e a contribuire all’immagine pubblica della presenza italiana. Nel giugno 1923, con il Carlotto, risalì lo Yantzekiang fino a Kiating, penetrando per oltre duemila miglia nel cuore della Cina, in una impresa che nessuna nave italiana aveva tentato in precedenza. L’anno successivo giunse la promozione a capitano di corvetta assieme alla quale assunse anche l’incarico di addetto navale, militare e aeronautico presso la legazione di Pechino sostituendo Angelo Iachino. A queste funzioni, nel gennaio 1925, sommò anche quelle di comandante della guardia della concessione italiana di Tientsin dove or-

ganizzò la sistemazione del distaccamento del battaglione San Marco inviato a svolgere funzioni di rappresentanza. Da Zara a riguardo tenne a curare particolarmente l’addestramento e le funzioni pubbliche, istruendo tutto il personale militare perché parlasse l’inglese. L’opera però fu interrotta dal richiamo in patria avvenuto nel giugno 1925, come parte di una serie di movimenti più generali dovuto al rimpiazzo al ministero della Marina del grande ammiraglio Paolo Thaon di Revel col sottosegretario Giuseppe Sirianni.

Nel 1927 giunse la promozione a capitano di fregata. In quegli anni, Da Zara ebbe anche modo di approfondire le sue tesi sul futuro della guerra, inserendosi nel dibattito dottrinario allora in corso nell’ambito della Regia Marina e dei teorici del potere aereo e subacqueo (12). Sebbene nella sua autobiografia emerga il ritratto di un uomo d’azione, Da Zara mostrò sempre grande rispetto per l’elaborazione teorica e in particolare per quella strategica, ritenendo che le migliori menti della Marina dovessero essere raccolte in un unico centro di pensiero («brain trust») (13). Negli anni della guerra si era avvicinato agli studi di Bernotti e lesse i lavori di Mahan nel corso del 1917. Come abbiamo osservato, fin dal 1916 maturò la convinzione che occorresse operare secondo una concentrazione di fuoco di più bastimenti contro lo stesso bersaglio (14). Tesi che discusse anche con esperti stranieri. Nel 1927, nel corso di una visita a Genova dell’incrociatore Berlin si intrattenne a lungo con il comandante dell’unità, Kolbe, su questioni di tattica navale e l’esperienza della guerra. A giudizio di Da Zara il fuoco di concentrazione avrebbe potuto causare risultati ben diversi se impiegato allo Jutland e nel futuro la tattica delle Squadre avrebbe dovuto mirare a questo, concedendo anche maggiore autonomia di movimento ai comandanti delle unità, piuttosto che mirare al tradizionale taglio della T e al conseguente irrigidimento della formazione (15). Tale tema fu più volte affrontato da Da Zara pubblicamente e privatamente e ancora nel febbraio 1940 sulla Rivista Marittima perorò la causa del combattimento tra gruppi e dell’abbandono della formazione in linea di fila (16).

Da Zara si inserirà nell’ambito dei sostenitori dell’innovazione nella condotta della guerra marittima, puntando sull’integrazione tridimensionale di armamenti aerei e subacquei come elementi portanti delle future flotte e sull’importanza del naviglio silurante di superficie (17). L’importanza attribuita all’innovazione aeronavale fu confermata durante la frequenza dell’Istituto di guerra marittima tra il 1930 e il 1931, facendo proprio il motto «Piattaforma per volare se vuoi vincere sul mare», condividendo la convinzione di tutti gli altri frequentatori dell’importanza delle portaerei. Mentre invece si ritrovò isolato sulla questione della battaglia notturna, il combattimento per gruppi e la concentrazione del tiro (18). La sensazione di vivere in contesto in cui l’innovazione era avversata e in cui l’espansione della flotta avrebbe finito

«(...) Nel luglio del 1922 partì alla volta dell’Estremo Oriente per comandare la cannoniera fluviale CARLOTTO».

con annullare le possibilità di rinnovamento dottrinario e tecnico si sarebbe progressivamente confermata soprattutto negli anni Trenta, durante il sottosegretariato di Cavagnari. Per esempio, Da Zara nel 1938 propose un articolo per la Rivista Marittima intitolato Quantità e qualità, in cui sosteneva che bisognava mantenere armati solo i bastimenti in quanto erano i direttori di tiro di prima classe di cui si disponeva. L’articolo fu rifiutato. Era questa una conferma del disinteresse che il vertice avrebbe progressivamente mostrato verso l’innovazione tecnica e le cui avvisaglie erano già manifeste a Da Zara nei primi anni del decennio, data la scarsa attenzione mostrata da Cavagnari verso l’Istituto di guerra marittima e la seguente opposizione a portaerei, tiro di concentrazione ed esercitazioni più realistiche (19). Con quest’ultimo, nell’epoca in cui fu sottosegretario della Marina (1933-40), Da Zara ebbe, stando a quanto riportato nelle sue memorie, rapporti non proprio amichevoli. Terminata la frequenza dell’Istituto si aprì una nuova fase. Nel luglio 1931 fu nominato Sottocapo di Stato Maggiore della Divisione navale d’istruzione e nell’ottobre successivo comandante in seconda del Vespucci, prima di passare nel novembre seguente al comando del Colombo, dove rimase fino al dicembre 1931. Fu poi imbarcato di nuovo sul Vespucci come comandante in seconda, per tornare una seconda volta sul Colombo dal giugno 1932 al maggio 1933. L’ultima campagna su questa nave portò la Divisione d’istruzione in una lunga crociera nell’oceano Atlantico, visitando i porti dell’America. Da Zara svolse la navigazione quasi totalmente a vela, fatto che gli valse un encomio per il contegno e la disciplina esemplari del suo equipaggio (20). Parallelamente a questi successi, Da Zara però collezionava «cicche» dal ministero per i suoi rapporti spesso critici dell’organizzazione delle crociere, del modo in cui erano svolte le crociere d’istruzione e della superiorità dell’organizzazione di ricezione straniera rispetto a quella italiana (21). In seguito, nel marzo 1938, il mantenimento di questa autonomia di giudizio gli sarebbe costato un rimprovero ministeriale per una relazione in cui esprimeva giudizi negativi sui diplomatici italiani di Hong Kong e Canton (22). Nell’agosto 1933, dopo aver lasciato il Colombo, Da Zara ebbe il comando della Squadriglia Zeffiro, composta dai caccia Zeffiro, Ostro, Borea ed Espero. Unità che costituivano quanto di più vicino ci fosse nella Marina al modello ideale della moderna silurante di squadra e sulle quali il comandante impose un serrato programma di addestramento. Fece seguito un periodo come istruttore alla Scuola di Comando navale di Taranto, voluta dal ministro Sirianni per istruire i tenenti di vascello in vista del loro primo comando. Nel frattempo, Da Zara era promosso capitano di vascello e nel settembre 1934 lasciava Taranto per Livorno per occuparsi dell’allestimento dell’incrociatore Duca D’Aosta, sul cui progetto e sistemazione espresse varie riserve, in particolare riguardo il fatto che le sistemazioni venissero decise dal Genio Navale senza una diretta consultazione con i futuri ufficiali comandanti, in particolare il nuovo torrione corazzato progettato da

Umberto Pugliese (23). La nave gli fu consegnata l’11 luglio 1935 e due giorni dopo Da Zara ne divenne ufficialmente il comandante, l’Aosta in seguito sarebbe diventata l’ammiraglia del Comandante in capo della 2a Squadra, con Da Zara ufficiale di bandiera prima dell’ammiraglio Salvatore Denti di Pirajno e poi dell’ammiraglio Bernotti. Nell’estate 1935, l’Italia fascista era ormai avviata all’impresa etiopica che l’avrebbe messa in rotta di collisione con la Gran Bretagna. È noto che il quadro strategico era sfavorevole e la Marina non riteneva esserci possibilità di vittoria in quel confronto, puntando sulla «guerriglia navale» per infliggere il massimo danno alla Royal Navy (24). Da Zara era scettico sulle capacità della

«Nel novembre 1931 fu nominato comandante del CRISTOFORO COLOMBO, dove vi rimase fino al dicembre dello stesso anno».

«Nella primavera del 1937, in quello che lui stesso definì uno degli anni più fortunati della sua carriera, Da Zara ebbe il comando del MONTECUCCOLI».

flotta, dati i risultati mediocri delle esercitazioni a cui partecipò (25). Soprattutto però a preoccuparlo era il silenzio dei vertici navali nei confronti del dittatore. Da Zara non nascose nelle sue memorie le simpatie per il regime. Nel 1922, Mussolini gli apparve «quale il restauratore dell’ordine, il valorizzatore delle virtù nazionali, il difensore della vittoria, il disciplinatore conciliatore e pacificatore e fummo tutti idealmente fascisti». Il comandante ebbe poi modo di incontrarlo più volte, con un’opinione che si fece progressivamente più scettica nei confronti del suo ruolo di condottiero militare, data anche la scarsa competenza del duce su questioni belliche (26). Al tempo stesso, Da Zara, registrava con preoccupazione il fatto che anche cervelli di primo ordine come Bernotti tacevano davanti alle ipotesi militari del dittatore, persino quelle fantasiose come l’impiego del cannonissimo per assediare Malta (27), nonostante il successo in Etiopia sembrasse temporaneamente dare ragione a Mussolini. Inoltre, tra gli ufficiali cresceva il consenso per la politica estera filotedesca del regime, tra questi Raffaele de Courten, che avevano fiducia nell’alleanza in considerazione dello sforzo di riarmo tedesco, mentre Da Zara si considerava ancora dopo la guerra un «anglofilo classificato e schedato» (28). La descrizione di questi mutamente si iscrive nella cornice del rapporto tra Marina e regime, evidenziando come dalla speranza di una politica navale espansiva, che creò consensi tra gli ufficiali, nella seconda metà degli anni Trenta si passò a un misto di preoccupazione e censura che riguardava soprattutto quei leader che ritenevano necessaria una politica navale più qualitativa e con maggiore attenzione alla questione aeronavale per fronteggiare la Gran Bretagna, tra questi anche Da Zara (29).

Nella primavera del 1937, in quello che lui stesso definì uno degli anni più fortunati della sua carriera, Da Zara ebbe il comando del Montecuccoli. Dopo un intenso addestramento, l’incrociatore vinse le gare di tiro e ad agosto ne fu ordinata la partenza alla volta della Cina, dove Da Zara avrebbe assunto il comando superiore navale dell’Estremo Oriente, a tutela degli interessi italiani nella regione, investita dalle prime fasi della Guerra cinogiapponese. Mussolini ricevette Da Zara prima della partenza e gli ordinò di mantenere un atteggiamento di «nippofilia a oltranza» (30), in linea con il mutamento in corso nella diplomazia italiana che, dopo aver prestato assistenza navale ai nazionalisti di Chiang Kai-shek con l’invio di una missione navale, in seguito alla firma del patto anticomintern (25 novembre 1936), si stava riorientando in senso filo-giapponese come premessa alla costruzione fronte delle potenze tripartite (31).

Il comando superiore era composto dal Montecuccoli, Lepanto e Carlotto, oltre a mille granatieri di Sardegna che furono impiegati nella difesa dell’insediamento internazionale di Shanghai mentre il resto della città era terreno di scontro tra cinesi e giapponesi. Tuttavia, ben presto la missione primaria di Da Zara tornò a essere «mostrare la bandiera» in una regione del globo, l’Asia-Pacifico, in cui gli interessi italiani erano tutto sommato ridotti. La prima missione fu svolta in Australia, in occasione del 150o anniversario della fondazione della colonia del Nuovo Galles del Sud (gennaio-febbraio 1938). La seconda, diplomaticamente forse più rilevante, fu in Giappone, a sostegno di una visita di una delegazione del partito fascista. Del Giappone, nell’autobiografia di Da Zara sembra emergere soprattutto la gelosa segretezza della Marina nipponica, sebbene i rapporti dell’epoca da parte della missione italiana definissero in termini entusiastici gli incontri e le visite dell’Accademia navale nipponica (32). Date le successive difficoltà di sviluppo dell’alleanza si potrebbe ipotizzare che il comandante del Montecuccoli forse aveva colto meglio alcune sfumature, essendo anche un conoscitore migliore della regione estremorientale (33).

Il 23 agosto 1938 giungeva l’ordine di rimpatrio, mentre in Europa la tensione cresceva a causa della crisi dei

Sudeti che causò una posticipazione del ritorno costringendo anche Da Zara a prepararsi all’ipotesi che le tre navi di cui disponeva dovessero fronteggiare le forze anglo-francesi nella regione, pianificandone eventualmente la partenza per il Giappone da usare come base di rifornimento. In ottobre, dopo che il Montecuccoli e il Lepanto avevano ricevuto ordine di salpare per Yokohama, l’evenienza fu scongiurata dal Patto di Monaco che posticipò la guerra al settembre successivo, il Comandante lasciava definitivamente l’Estremo Oriente, per l’ultima volta, il 5 novembre 1938. Rientrato in Italia, Da Zara lasciò il comando del Montecuccoli il 22 dicembre e il 2 gennaio successivo fu promosso contrammiraglio.

A maggio 1939, Da Zara ebbe il suo nuovo incarico: comandante militare-marittimo in Albania. Il paese era stato occupato nell’aprile precedente, come culmine di un progressivo processo di penetrazione inserito nell’ambito dell’imperialismo fascista, in cui il controllo del paese avrebbe consentito anche quello del Canale d’Otranto e quindi dell’Adriatico (34). L’Albania però era priva di infrastrutture e quindi il regime avviò un programma di costruzioni che nell’ambito della Marina significò soprattutto provvedere alla sistemazione delle opere portuali e della rete semaforica, oltre alla formazione del personale che era costituito da elementi richiamati poco addestrati. Mentre era in Albania, Da Zara accolse negativamente la dichiarazione di guerra degli anglo-francesi in risposta all’invasione tedesca della Polonia, commentando che la situazione era la stessa del 1914 e che «nella guerra tra la balena e l’elefante ha sempre vinto la balena» (35).

A metà maggio 1940 Da Zara fu richiamato a bordo, questa volta al comando del Gruppo «Da Giussano», composto dal Da Giussano e dall’Aosta e inserito nella IV Divisione navale di Alberto Marenco di Moriondo: il 10 giugno l’Italia dichiarava guerra a Francia e Gran Bretagna. La IV divisione (Da Barbiano, Cadorna, Giussano e Diaz) era inserita nella 1a Squadra navale dislocata a Taranto sotto la guida di Inigo Campioni. Il 9 luglio 1940, Da Zara partecipò con il suo Gruppo allo scontro di Punta Stilo, dimostrandosi soddisfatto della condotta delle unità sotto il suo comando, con equipaggi caratterizzati da «spirito aggressivo» ed «entusiasmo» (36). Nelle sue memorie però scrisse che la Marina aveva perduto una buona occasione e che sebbene anche per Andrew Cunningham, comandante della Mediterranean Fleet, fosse stata una «disappointing action», questo era dovuto al fatto che non era riuscito a vibrare il colpo decisivo dopo aver cominciato bene l’azione colpendo il Cesare. In ogni caso, il comandante britannico aveva mostrato «molto ardimento e molta iniziativa partendo da Alessandria e venendo a battersi sulle coste della Calabria», nonostante il rischio di trappole dei sommergibili e degli aerei italiani. La condotta italiana invece era stata errata nell’impostazione generale e la mancanza di una seria critica interna dopo l’azione fece un’impressione negativa su Da Zara. Le criticità furono confermate dalla perdita del Colleoni, avvenuta il 19 luglio seguente. L’Ammiraglio lamentava soprattutto la mancanza di progetti offensivi e vide alcune proposte, tra cui quella di una imboscata nel Canale di Creta, respinte da Supermarina, a cui imputava di ascoltare poco la «periferia» (37). A metà ottobre fu trasferito dalla IV alla VIII Divisione al comando del Gruppo Aosta-Montecuccoli, sotto la direzione di Ferdinando Casardi, venendo dislocato a Brindisi a copertura del traffico diretto verso l’Albania, intensificatosi a seguito dell’invasione italiana della Grecia, presto trasformatasi in disastro, mentre l’11 novembre successivo la Squadra italiana veniva dimezzata temporaneamente dalla messa fuori uso di tre corazzate (una definitivamente), evento che a giudizio di Da Zara ebbe gravi effetti morali sulla flotta (38).

La destituzione di Cavagnari da Capo di Stato maggiore, la riunione delle due Squadre navali esistenti in un’unica forza e la riorganizzazione dei comandi conseguente portarono allo sbarco di Da Zara che rimase «disponibile» fino a metà febbraio 1941, per poi essere nominato al comando dell’arsenale della Spezia, da cui osservò il procedere della guerra con scetticismo, date le difficoltà dell’impostazione strategica italiana confermate dal disastro di Matapan del marzo 1941. Si espresse negativamente sulle possibilità di vittoria nel conflitto, nonostante molti colleghi fossero di idee opposte, ma Da Zara avrebbe continuato a pensarla in tal senso anche dopo il suo successo del giugno 1942 (39). Nel frattempo, il 1o agosto 1941 fu chiamato a dirigere una nuova organizzazione, l’Ispettorato della difesa e della guerra antisommergibile. Un settore dove la Ma-

rina era abbastanza arretrata data la mancanza di classi di navi adatte, personale specializzato e il ritardo nell’adozione degli ecogoniometri (40). Da Zara tracciò un programma di costruzioni di 60 motovedette e 60 corvette, la riorganizzazione e l’allargamento delle scuole di formazione e si servì dell’addestramento garantito dagli alleati tedeschi a Gothenhafen, per formare gli uomini che aveva a disposizione. Supervisionò anche la costituzione di 13 nuovi reparti antisommergibili nelle zone di operazioni, sebbene la ritenesse prematura mancando ancora i mezzi d’impiego per gli stessi. Alla fine del 1941, l’impalcatura della difesa antisom italiana era in piedi, mentre il suo creatore veniva promosso ammiraglio di divisione. Con il nuovo grado, nel febbraio 1942, Da Zara veniva nuovamente chiamato all’imbarco, questa volta al comando della VII Divisione.

Questa era costituita dall’Eugenio di Savoia, dal Montecuccoli e dall’Attendolo che però era ai lavori. L’unità aveva servito sotto de Courten, il quale godeva della massima stima professionale di Da Zara e l’organizzazione di bordo infatti era eccellente, così come i comandanti delle unità Franco Zannoni sull’Eugenio, Arturo Solari sul Montecuccoli e Federico Martinengo per l’Attendolo. Inoltre, Da Zara si adoperò attivamente per migliorare l’addestramento, obbligando le unità, anche quando impegnate in missione, ad almeno tre esercitazioni al giorno: una all’alba, una il pomeriggio e una dopo il tramonto. In maggio, l’Aosta sostituì il Montecuccoli e la Divisione lasciò Taranto alla volta di Cagliari, scortata da una squadriglia di cacciatorpediniere, per iniziare una nuova missione: la caccia al posamine Manxman. L’unità riforniva Malta grazie alla sua elevata velocità (fino a 40 nodi) eludendo il blocco dell’Asse che si andava rafforzando dopo la distruzione della forza K (dicembre 1941), la Seconda battaglia della Sirte (22 marzo 1942) e il ritorno in forze della Luftwaffe nel Mediterraneo, premessa alla realizzazione dell’invasione dell’isola (Operazione C-3) (41). Da Zara elaborò un piano per tendere un’imboscata al Manxman sulla rotta di rientro da Malta, ma ancora una volta Supermarina rigettò le sue proposte e la caccia proseguì infruttuosa fino al giugno successivo.

Si giunse così al giugno 1942 e alla Battaglia di Pantelleria che avrebbe segnato per sempre la fama di Da Zara. Lo scontro si colloca nell’ambito dell’Operazione Mezzo Giugno (12-16 giugno 1942), ovvero dell’ultima vittoria a livello operazionale conseguita dall’Asse nella guerra navale nel Mediterraneo, dato che le appena 15,000 tonnellate di rifornimenti ricevuti dall’isola segnarono l’intensificarsi dell’assedio a cui era sottoposta (42). I dettagli dell’operazione sono noti e vale ricapitolarli solo brevemente: dopo la Seconda Sirte, Malta aveva urgente bisogno di rifornimenti, perciò, furono concepite due operazioni di rifornimento tramite convoglio: Harpoon da Gibilterra; Vigorous da Alessandria. Il 15 giugno, il convoglio proveniente da Gibilterra e la sua scorta (Force X), composta dall’incrociatore antiaereo Cairo, 2 squadriglie di cacciatorpediniere (11th su 5 unità e 12th su 4) e 4 dragamine fu oggetto di un attacco coordinato tra la VII divisione e le forze aeree dell’Asse, a fronte di 2 incrociatori italiani (Eugenio di Savoia e Montecuccoli) e 5 cacciatorpediniere (10a squadriglia: Ascari, Oriani e Premuda; 14a squadriglia: Vivaldi e Malocello). L’azione di Da Zara causò la dispersione del convoglio nemico e pesanti danni alla scorta e in concomitanza con gli attacchi aerei permise di affondare quattro dei sei mercantili che componevano il convoglio, sancendo la maggiore vittoria in un’azione di superficie italiana durante il conflitto. Nei rapporti successivi dell’azione, Da Zara avrebbe confermato che a suo giudizio il successo era dovuto all’implementazione dei suoi metodi tattici: «Il tiro di concentrazione ha dimostrato la sua terribile efficacia, il suo altissimo rendimento e la possibilità di eseguirlo con due unità anche senza speciali accorgimenti ma solo sfruttando le attuali apparecchiature e sparando con una

Il posamine MANXMAN, giugno 1945 (wikipedia.it). «L’unità riforniva Malta grazie alla sua elevata velocità (fino a 40 nodi) eludendo il blocco dell’Asse che si andava rafforzando dopo la distruzione della forza K (dicembre 1941)».

unità a palla e con l’altra a granata» (43). E che la formazione rigida andava abbandonata a vantaggio del combattimento tra gruppi: «In ogni modo la questione fondamentale è questa: debbono le navi maggiori vincolare i movimenti a quelli delle siluranti e debbono le navi maggiori manovrare senza vincoli rispetto alle siluranti? Poiché nessuna disposizione regolarmente stabilisce norme in proposito io ho applicato quella che ritenevo e continuo a ritenere la migliore: nel campo tattico quando le siluranti non camminano più delle navi maggiori non ci sono vincoli di manovra di rispetto a quella […] (44). In sostanza, anche in questo caso era stata l’eterodossia dell’Ammiraglio a condurlo al successo. Al tempo stesso egli era perfettamente consapevole dei limiti del materiale, la cui azione era stata facilitata dall’essersi svolta nelle ore diurne in condizioni di mare ottimali e che la necessità di serrare la distanza, come fece all’inizio dell’attacco contro la formazione nemica raggiungendo i 32 nodi con i suoi incrociatori, era fondamentale per mantenere il contatto, anche perché gli inglesi avrebbero potuto dietro lo schermo di nebbia che lanciarono «attuare una tattica difensiva che era nettamente dalla parte del nemico che aveva a sua disposizione i radiolocalizzatori» (45). L’azione gli valse l’ordine militare di Savoia (46). Dopo Pantelleria, la Divisione di Da Zara avrebbe partecipato all’azione di Mezzo Agosto, questa volta senza però riuscire a conseguire successi, ma rientrando a Napoli intatta. L’unità fu poi messa quasi completamente fuori combattimento il 4 dicembre 1942, quando un’incursione aerea statunitense sulla città partenopea affondò l’Attendolo, colpì il Montecuccoli a una caldaia immobilizzandolo per cinque mesi e danneggiò l’Eugenio di Savoia costringendolo a due mesi di riparazioni a Castellammare di Stabia. Nella primavera del 1943, l’Ammiraglio ebbe alcuni problemi di salute e il 26 aprile lasciò definitivamente la VII Divisione, dopo aver subito un intervento alla gola presso l’Ospedale della Marina di Massa.

Il 1943 e i suoi drammatici avvenimenti si aprirono per Da Zara con la perdita del fratello Guido, comandante del reggimento Cavalleggeri d’Alessandria. Ripresosi dalla convalescenza fu scelto da Raffaele De Courten, diventato ministro e Capo di Stato Maggiore nel luglio 1943, come nuovo comandante della V Divisione corazzate dislocata a Taranto, comprendente le navi Doria e Duilio, e comandante superiore navale del settore sud. La situazione ormai era critica, la Tunisia era caduta a maggio, la Sicilia era stata invasa e il 25 luglio il regime fascista era caduto. Da Roma, ora controllata da Badoglio, arrivò l’ordine di prepararsi a un possibile ultimo sacrificio della flotta.

In quanto comandante del settore sud, Da Zara visse appieno la tragedia dell’armistizio, delineatasi tra il 6 e il 9 settembre 1943, quando la flotta, pronta a muovere contro l’ex-nemico ricevette invece l’ordine di raggiungere i porti controllati dagli anglo-americani, in ottemperanza alle clausole firmate a Cassibile che ne prevedevano la consegna (47). Le spaccature che emersero evidenziarono la difficoltà dei comandi a eseguire un ordine che ritenevano contrario all’etica con cui erano stati educati, mentre i casi di ammutinamento e opposizione sottolineavano la persistenza di radicali sentimenti antibritannici in una parte del personale (48).

Da Zara inizialmente pensò di opporsi alla consegna e nelle memorie di Sergio Nesi è scritto che considerò quegli avvenimenti un tradimento e un inganno (49). La memorialistica repubblichina però offre sempre un grado di affidabilità relativo. Quello che è certo è che il 9 settembre, dopo aver discusso con i suoi subalterni e a terra con gli ammiragli Brivonesi e Fioravanzo, Da Zara, nonostante l’opposizione dell’ammiraglio Galati che comandava gli incrociatori presenti nella base e che fu messo in cella per questo, esigette dai suoi sottoposti una dichiarazione di lealtà al capo del governo (non al sovrano) circa l’esecuzione degli ordini (50). Come abbiamo osservato nelle sue memorie, l’Ammiraglio non nasconde la simpatia avuta per il regime, ma attribuì la sua scelta di eseguire le clausole armistiziali con la logica dell’obbedienza all’autorità riconosciuta come legittima,

che in quel frangente era rappresentata dal governo Badoglio (51). Le Forze di Da Zara lasciarono Taranto alle 16:30 del 9 settembre dirette a Malta. Le sue unità furono attaccate un paio d’ore dopo da aerei tedeschi senza subire danni e la Squadra raggiunse l’isola il pomeriggio del giorno successivo, per poi essere raggiunta dal resto delle Forze da battaglia, scoprendo solo allora che erano menomate dalla perdita del loro comandante, l’ammiraglio Carlo Bergamini scomparso nell’affondamento della corazzata Roma. In quanto ufficiale ammiraglio più anziano tra quelli giunti a Malta toccò a Da Zara presentarsi davanti all’ex-nemico ammiraglio Cunningham per discutere le condizioni di resa. A terra, all’Ammiraglio furono resi gli onori, la stretta di mano ricevuta dal comandante britannico fu «calorosa e silenziosa» e nel corso dei colloqui fu rassicurato sul mantenimento della bandiera nazionale sulle navi italiane, discutendo soprattutto della loro successiva dislocazione. Cunningham scortò poi Da Zara all’automobile che lo riportò in porto e gli disse prima di lasciarlo: «il vostro è un lavoro molto difficile, Ammiraglio». Nelle sue memorie, il comandante britannico avrebbe descritto Da Zara come un uomo che «avvertiva terribilmente la sua posizione» (52). Riflettendo sulla natura della sconfitta, Da Zara riconosceva che l’inferiorità tecnica, numerica e addestrativa, aggravatasi nel corso della guerra, aveva condannato lo sforzo italiano, assieme al fatto di avere buoni uomini ma capi deboli (53). Da Zara avrebbe speso i giorni successivi a organizzare i movimenti della flotta e ad avviare la cooperazione con gli anglo-americani, fornendo due cacciatorpediniere per inviare materiale da Algeri ad Ajaccio. Rimase nell’incarico fino al dicembre 1943. Dopo un altro breve periodo a disposizione, l’11 marzo 1944 fu nominato comandante del Dipartimento marittimo dello Ionio e del Basso Adriatico, dove si trovava la base navale di Taranto che ospitava il grosso delle unità italiane passate a sud con l’armistizio. Durante questo incarico fu promosso ammiraglio di squadra, distinguendosi per il tentativo di migliorare le difficili condizioni di vita del personale, costituendo due aziende, AGREMA e ARREMA, destinate alla produzione di alimenti e beni di consumo quotidiano per la Regia Marina. Il suo ultimo incarico a bordo lo ebbe il 1o agosto 1944, con la nomina a ispettore delle Forze navali, issando l’insegna sul Cesare, carica che lasciò il 30 settembre 1946. Secondo l’ammiraglio Giuseppe Pighini, a questo punto Da Zara, come molti altri ufficiali avrebbe lasciato la Marina perché in disaccordo con i risultati del Referendum del 2 giugno, avendo affermato: «io che ho comandante l’Eugenio di Savoia e il Duca d’Aosta non posso rimanere in una Marina Repubblicana che potrebbe ribattezzarli Gramsci o Bruno Buozzi» (54). Tale scelta, nelle sue memorie, non traspare, perché si fermano al 1944, ma sappiamo dal suo stato di servizio che fu a disposizione fino al 31 dicembre 1946 per essere collocato in ausiliaria a domanda da quel giorno, venendo contestualmente dispensato dal servizio attivo. Da Zara avrebbe speso gli ultimi anni della sua vita in provincia di Foggia, dedicandosi alle sue memorie, pubblicate nel 1949. Poco tempo dopo, il 3 giugno 1951, il vincitore di Pantelleria si spense nel capoluogo della Daunia, in seguito alle conseguenze di una febbre tifoidea. Terminava così la vita di un ufficiale che si era caratterizzato per la sua eterodossia e autonomia rispetto all’ambiente che lo aveva formato e che in queste aveva avuto forse il suo maggior punto di forza in pace e in guerra. 8

«In quanto ufficiale ammiraglio più anziano tra quelli giunti a Malta toccò a Da Zara presentarsi davanti all’ex-nemico ammiraglio Cunningham per discutere le condizioni di resa (accanto). «Il suo ultimo incarico a bordo lo ebbe il 1o agosto 1944, con la nomina a ispettore delle Forze navali, issando l’insegna sul CESARE (nell’immagine sotto), carica che lasciò il 30 settembre 1946.

NOTE

(1) Alberto Da Zara, Pelle d’ammiraglio, Mondadori, Milano, ci riferiamo qui all’ed. originale del 1949, p. 32. (2) Sul sistema educativo della Marina liberale si veda Francesco Zampieri, Marinai con le stellette, Aracne, Roma 2008, pp. 13-89. (3) Da Zara, Pelle d’ammiraglio, p. 17, 18, 19, 24, 33. (4) Ivi, p. 45. (5) Ivi, p. 56. (6) Ivi, p. 63, sul problema strategico in Adriatico, Ezio Ferrante, La Grande guerra in Adriatico, Roma 1987, pp. 47-65; Paul Halpern, La Grande guerra nel Mediterraneo, Vol. I, Leg, Gorizia 2012, pp. 92-122, 255-331. (7) L’azione è descritta nella Cronistoria della guerra marittima italo-austriaca, Impiego delle forze navali, fascicolo III, pp. 55-56. (8) AUSMM, Fascicolo personale di Alberto Da Zara, ministero della Difesa-Marina, matricola ufficiali, 2889/10/A, parte terza, notizie varie. (9) Da Zara, Pelle d’ammiraglio, pp. 116-122. (10) Ivi, p. 138. (11) Ciro Paoletti, La Marina italiana in Estremo Oriente: 1866-2000, USMM, Roma 2000, p. 157. (12) Sul quale rimandiamo a Luigi Donolo, Storia della dottrina navale italiana, USMM, Roma 1996, pp. 266-284. (13) Da Zara, Pelle d’ammiraglio, p. 88. (14) Ivi, p. 4. (15) Ivi, p. 211 (16) Alberto Da Zara, Un argomento di tattica navale, Rivista Marittima, febbraio 1940, pp. 188. (17) Alberto Da Zara, Sopra, Sotto, in Alto?, Rivista Marittima, novembre 1921, pp. 489-500; Alberto Da Zara, Siluranti di superficie, Rivista Marittima, settembre 1928, pp. 175-190. (18) Da Zara, Pelle d’ammiraglio, p. 229. (19) Ivi, pp. 231, 291. (20) AUSMM, Fascicolo personale di Alberto Da Zara, foglio d’ordini n. 133, 14-15 maggio 1933, Direzione generale del personale e dei servizi militari, art. 6. (21) Da Zara, Pelle d’ammiraglio, p. 253. (22) AUSMM, Fascicolo personale di Alberto Da Zara, Curriculum Vitae, p. 4. (23) Da Zara, Pelle d’ammiraglio, p. 270. (24) Robert Mallett, The Italian Navy and the Fascist expansionism 1935-1940, Frank Cass, Londra 1998, pp. 30-31. (25) Da Zara, Pelle d’ammiraglio, p. 274. (26) Ivi, pp. 284-285. (27) Si trattava di un pezzo da 381mm ritubato e portato al calibro 210/120 che dalla costa sud della Sicilia avrebbe dovuto poter colpire l’isola, ne parla anche Romeo Bernotti, Cinquant’anni nella Marina Militare, Mursia, Milano 1971. (28) Da Zara, Pelle d’ammiraglio, pp. 276, 281. (29) Ci permettiamo di rimandare a Fabio De Ninno, Fascisti sul mare. La Marina e gli ammiragli di Mussolini, Laterza, Roma-Bari 2017, pp. 221-225. (30) Da Zara, Pelle d’ammiraglio, p. 295. (31) Ci permettiamo di rimandare a Fabio De Ninno, The Italian Navy and Japan, the Indian Ocean, Failed Cooperation, and Tripartite Relations (1935-1943), «War in History», settembre 2018, pp. 6-7. (32) AUSMM, Raccolta di base, b. 2721, Missione del partito nazionale fascista in Giappone, 6 gennaio-23 giugno 1938, pp. 28-34. (33) Su questo aspetto si veda Valdo Ferretti, Il Giappone e la Politica estera italiana, 1935-1941, Giuffrè, Milano 1995. (34) Massimo Borgogni, Tra continuità e incertezza. Italia e Albania (1914-1939): la strategia politico-militare dell’Italia in Albania fino all’operazione «Oltre mare Tirana», Franco Angeli, Milano 2007, pp. 249-253. (35) AUSMM, Fascicolo personale di Alberto Da Zara, Giuseppe Pighini, L’artefice della battaglia, L’ammiraglio Alberto Da Zara, in Commemorazione del 50° anniversario della battaglia di Pantelleria, 1992, p. 10. (36) AUSMM, Scontri navali e operazioni di guerra, b. 3, Comando II Gruppo IV Divisione incrociatori, Missione di guerra 7-8-9 luglio 1940, p. 4. (37) Da Zara, Pelle d’ammiraglio, pp. 336, 338-341, 352. (38) Ivi, p. 344. (39) Ivi, p. 354. (40) Erminio Bagnasco, Le armi delle navi italiane nella Seconda guerra mondiale, Albertelli, Parma 2003, p. 168. (41) Mariano Gabriele, Operazione C-3, USMM, Roma 1996, pp. 121-132. (42) Rimandiamo per il quadro strategico a Douglas Austin, Malta and the British Strategic Policy, 1925-1943, Frank Cass, Londra 2004, pp. 137-152; per il quadro delle operazioni italiane a Pantelleria a USMM, Le azioni navali in Mediterraneo, al 1o aprile 1941 all’8 settembre 1943, USMM, Roma 2001, 288-311, una ricostruzione che sposa le critiche di Iachino a Da Zara in Francesco Mattesini, La battaglia aeronavale di mezzo giugno, Archeos, Rieti 2020, una visione ottimistica dei risultati in Vincent P. O’Hara, In passage perilous: Malta and the convoy battles of June 1942, Indiana University Press, Bloomington 2013. (43) AUSMM, Scontri navali e operazioni di guerra, b. 56, Rapporto della 7a Divisione navale, Comando 7a Divisione navale R.L. Eugenio di Savoia, Prot. n. 373/SRP, Rapporto di navigazione dei giorni 14-15-16 giugno 1942 (battaglia di Pantelleria), p. 16. (44) AUSMM, Scontri navali e operazioni di guerra, b. 56, Rapporto della 7a Divisione navale, Da Zara a Supermarina, tramite Littorio per FF.NN., Battaglia navale di Pantelleria, 8 dicembre 1942. (45) AUSMM, Scontri navali e operazioni di guerra, Rapporto della 7a Divisione navale, Comando 7a Divisione navale R.L. Eugenio di Savoia, Prot. n. 373/SRP, Rapporto di navigazione dei giorni 14-15-16 giugno 1942 (battaglia di Pantelleria), p. 4-5. (46) AUSMM, Fascicolo personale di Alberto Da Zara, Ufficiale dell’ordine militare d’Italia, R.D. n. 279 del 25 giugno 1942. (47) Il termine sia nella memorialistica sia nella pubblicistica italiana viene spesso intercambiato con quello di cessione. Le clausole armistiziali prevedevano appunto la consegna della flotta, ovvero che fosse posta sotto il controllo degli alleati, ma non la cessione, ovvero il passaggio della proprietà delle navi, che comportava ammainare la bandiera nazionale, evento al quale gli ufficiali italiani si opposero anche dopo l’armistizio. (48) Su questi temi Concetta Ricottili, La Marina Militare attraverso l’8 settembre, Il senso dell’onore tra dimensione storica e dimensione retorica, Il poligrafo, Padova 2007; Patrizio Rapalino, Giuseppe Schivardi, Tutti a bordo! I marinai d’Italia l’8 settembre 1943 tra etica e ragion di Stato, Mursia, Milano 2007. (49) Sergio Nesi, Decima flottiglia nostra. I mezzi d’assalto della Marina al Sud e al Nord dopo l’armistizio, Mursia, Milano 1986, p. 47. (50) Francesco Mattesini, L’armistizio del’8 settembre (2a parte). Il dramma delle Forze Navali da battaglia, in BAUSMM, settembre 1993, pp. 166-168. (51) Da Zara, Pelle d’ammiraglio, pp. 419-420. (52) Ivi, pp. 425-426; Andrew B. Cunningham, The Cunningham Papers, Vol. 2, The Triumph of allied Sea power, 1942-1945, a cura di Michael Simpson, Navy records society, Ashgate, Farnham 2006, n. 131, 12 september 1943, p. 128. (53) Da Zara, Pelle d’ammiraglio, pp. 373, 381, 417. (54) Commemorazionedel 50o anniversario della Battaglia di Pantelleria, Napoli 14 giugno 1992, p. 16.

FOCUSDIPLOMATICO

Il vertice NATO di Bruxelles (14 giugno 2021): le premesse del nuovo Concetto strategico

Il vertice dei capi di Stato e di governo della NATO di Bruxelles dello scorso 14 giugno segna un passaggio centrale del processo di revisione strategica sul futuro dell’Alleanza nel XXI secolo, destinato a giungere a conclusione con l’adozione del nuovo Concetto strategico (sostitutivo di quello di Lisbona del 2010) prevista in occasione del vertice di Madrid del prossimo anno. Si tratterà per così dire… del punto di arrivo — fermo restando che il processo di evoluzione e adattamento dell’Alleanza non può conoscere soluzioni di continuità — dell’esercizio di adeguamento della NATO alle nuove sfide, noto come NATO 2030, avviato dal segretario generale Jens Stoltenberg già alla fine del 2019. Il Summit si è collo-

cato nel contesto dell’importante prima visita in Europa del presidente Biden dall’assunzione dell’incarico, subito dopo il rilancio della «special relationship» con il Regno Unito post-Brexit (sua bilaterale con Boris Johnson dello scorso 10 giugno e firma, con lo stesso Johnson, della nuova «Carta Atlantica» a ottant’anni dalla firma di quella Roosevelt-Churchill) e il G7 di Carbis Bay nonché alla vigilia del suo incontro con i vertici UE e di quello successivo, a Ginevra, con il presidente Putin.

Svoltosi quindi in un clima positivo per le relazioni transatlantiche, il Summit ha però avuto luogo sullo sfondo di uno scenario di sicurezza tra i più complessi: uno scenario nel quale (al di là dei risultati non negativi ma neppure «punto di svolta» dell’incontro BidenPutin) le relazioni con Mosca, per riprendere le parole dello stesso Stoltenberg, «sono al più basso livello dalla fine della Guerra Fredda»; la Bielorussia di Lukashenko ha dirottato un aereo civile nello spazio aereo europeo ed è concreto il rischio di una nuova aggressività talebana in Afghanistan alla vigilia del ritiro delle forze della coalizione, per citare solo alcuni dei fattori di criticità del presente momento. In ogni caso la tenuta del Vertice, e gli altri appuntamenti di rilievo che lo hanno preceduto e seguito, è parsa conferma eloquente del fatto che esso era chiamato a rappresentare, come avvenuto, un tassello di rilievo della più ampia strategia avviata dalla nuova amministrazione americana: strategia che muove dal consolidamento dei legami con gli alleati europei per allargare e rafforzare le alleanze con le democrazie dell’Indo-Pacifico.

Al termine è stato rilasciato un comunicato articolato in ben 79 punti che per 61 volte ci rammenta come le azioni «aggressive» poste in essere dalla Federazione Russa rimangano la tradizionale minaccia per l’Alleanza. Gli alleati hanno trovato inoltre una «convergenza» nell’affrontare insieme le sfide «sistemiche» derivanti dalla crescente influenza e dalle politiche internazionali della Repubblica Popolare Cinese, la cui «opacità» nella modernizzazione degli armamenti e arsenali nucleari, l’aggressiva penetrazione nei domini cibernetici e dello spazio, le strategie predatorie di assetti e infrastrutture critiche in Europa e Africa, richiedono un approccio coerente da parte dell’Occidente. La NATO ha inoltre adottato un’aggiornata politica per la difesa cibernetica e discusso le sfide che provengono dallo spazio, considerato, insieme con quello cyber, nuovo dominio operativo.

Le sfide provenienti dal Mediterraneo, rese ancor più indifferibili dalla crescente presenza nello scacchiere, militare e non, della Russia e della Cina sono purtroppo relegate al termine del lungo comunicato (derivandone che da parte italiana sarà necessario continuare a fare tutto il possibile perché esse trovino adeguato spazio anche nel contesto del nuovo Concetto strategico): comunicato che tuttavia, opportunamente, considera per la prima volta anche le minacce originate dalla regione del Sahel.

«Il vertice dei capi di Stato e di governo della NATO di Bruxelles dello scorso 14 giugno segna un passaggio centrale del processo di revisione strategica sul futuro dell’Alleanza nel XXI secolo. Nell’immagine: Jens Stoltenberg

segretario generale della NATO dal 1º ottobre 2014 e, nella pagina successiva, il presidente americano Joe Biden assieme al presidente del Consiglio Mario Draghi, durante il vertice (tg24.sky.it/repubblica.it).

Focus diplomatico

Alla luce delle conclusioni del Vertice, l’agenda che la NATO ha adottato nella prospettiva 2030 può essere sintetizzata nei seguenti punti chiave: 1) accentuazione del ruolo dell’Alleanza quale unico foro di consultazione politica su tutti i temi di sicurezza con un’agenda estesa alle più diverse tematiche: dal controllo degli armamenti, ai cambiamenti climatici, alla sicurezza in senso lato, alle cosiddette «Emerging Disruptive Technologies», EDT («quantum computing», intelligenza artificiale, «Big Data», armi ipersoniche, robotica per non citarne che alcune), ai temi economici — ed è dato nuovo — tra i quali il trasferimento di tecnologie e i controlli all’esportazione per i materiali sensibili. Consultazioni periodiche per giunta non più limitate al livello politico (Ministri degli Esteri e della Difesa) ma estese sino a includere i direttori politici, i consiglieri per la sicurezza nazionale (o i loro equivalenti laddove non esista nell’uno o nell’altro paese alleato una figura con tale specifico «status»), altri alti funzionari a seconda delle questioni da trattare; 2) rafforzamento della capacità di deterrenza e difesa e relativa riaffermazione dell’impegno degli Alleati a destinare il 2% del PIL per la Difesa. Il Vertice ha altresì ribadito l’impegno degli alleati mantenere un’adeguata combinazione («mix») di difesa nucleare, convenzionale e missilistica nonché a compiere ulteriori sforzi —anche attraverso mirati investimenti nelle infrastrutture — per accrescere la prontezza («readiness») di dispiegamento e reazione delle forze; 3) viene poi elevato il livello di ambizione alleato sulla «resilienza», con un correlato impegno a pervenire a un approccio più integrato alla protezione delle infrastrutture civili critiche onde rendere le società dei paesi membri meno vulnerabili agli attacchi, anche «cyber», di «attori» ostili.

Sempre in tema di resilienza verrà altresì sviluppata, dal segretario generale, una proposta da sottoporre al Consiglio atlantico volta a definire meccanismi e parametri per stabilire, valutare, rivedere e monitorare gli obiettivi di resilienza come guida per i traguardi fissati a livello nazionale e per i relativi piani di attuazione. Merita rilevare che in tale spirito proprio per la resilienza, in Romania e su proposta di quel governo, è stato di recente istituito un Centro euro-atlantico appunto per la resilienza, a conferma della rilevanza della sfida e della necessità di affrontarla in modo coordinato e complementare con l’Unione europea. A ben riflettere la stessa «deterrenza» della NATO dipende dal rafforzamento della resilienza nazionale e collettiva. Esplicite al riguardo le parole pronunziate dallo stesso Stoltenberg poco prima del Vertice: «la NATO crede che la resilienza sia la nostra prima linea di difesa. Le infrastrutture critiche devono essere protette, devono essere resilienti. Equesto è tutto: dalle reti energetiche alle telecomunicazioni, al 5G, ai cavi sottomarini. E lavorare con l’UE sulla resilienza è una delle aree che abbiamo identificato come importante per operare in maniera sinergica»; 4) mantenimento del vantaggio tecnologico dell’Occidente (a fronte in primis della minaccia cinese e, in subordine, russa…) attraverso l’istituzione di uno strumento acceleratore d’innovazione per la difesa.

Esso avrà l’obiettivo di promuovere una più intensa e mirata collaborazione tra gli alleati in tale cruciale settore. Sarà inoltre definito un Fondo NATO per l’innovazione sostenuto da finanziamenti aggiuntivi da parte degli alleati che decidano di prendervi parte. In sostanza, e per concludere sul punto, tutto porta a ritenere che il tema della competizione tecnologica in primis con Pechino rappresenterà un aspetto qualificante e innovativo del nuovo Concetto strategico; 5) salvaguardia dell’ordine internazionale basato sulle regole. La NATO continuerà a preservare un ordine internazionale basato su regole per la difesa dei valori e degli interessi degli alleati. Verrà a tal fine rafforzata la collaborazione con i paesi partner esistenti, inclusa l’Unione europea, i paesi aspiranti (si ribadisce nel contesto la «open door policy» dell’Alleanza verso gli Stati dello spazio euro-atlantico che intendano

aderire, nel rispetto delle condizioni fissate dall’art.10 del Trattato di Washington e previa decisione unanime del Consiglio Atlantico). Si individueranno, sempre nella prospettiva di una NATO dotata di un approccio globale, «nuovi partner in Asia, Africa e America Latina».

Alla base di tale aspetto qualificante delle conclusioni del recente Vertice il seguente convincimento così formulato in recenti documenti del Segretariato generale: «l’ordine internazionale basato su regole — che è alla base della sicurezza, della libertà e della prosperità degli alleati — si trova sotto pressione da parte di Stati autoritari, come la Russia e la Cina, che non condividono i nostri valori. Ciò presenta implicazioni per la nostra sicurezza, i nostri valori e il modo di vita democratico. Attraverso le decisioni adottate (o da adottare) basate sull’agenda NATO 2030, l’Alleanza investirà nella crescita e approfondimento dei suoi partenariati in linea con i nostri valori e interessi per la salvaguardia di un ordine internazionale basato su regole»; 6) addestramento e sviluppo capacitivo dei partner. Il comunicato prevede un sostanziale rafforzamento della capacità della NATO di provvedere all’addestramento e alle capacità («capabilities») dei partner, riconoscendo altresì che i conflitti e una diffusa instabilità nell’estero vicino impattano direttamente sulla sicurezza alleata; 7) cambiamento climatico. Esso viene considerato un «moltiplicatore di minacce» con ripercussioni sulla sicurezza dell’Alleanza. Il Vertice ha adottato un Piano d’azione per il cambiamento climatico e la sicurezza. L’Alleanza valuterà annualmente l’impatto dei cambiamenti climatici sul suo ambiente strategico, sulle missioni e le operazioni. Il Summit ha poi deciso di ridurre significativamente le emissioni di gas serra delle attività e installazioni militari invitando il segretario generale a formulare un obiettivo realistico, ambizioso e concreto e a valutare la fattibilità del raggiungimento dell’obiettivo di «zero emissioni nette» entro il 2050.

Il maggiore livello di ambizione contemplato dall’Agenda NATO 2030 presuppone, come prospettato dal segretario generale in sue recenti prese di posizione, l’aumento del finanziamento comune per le attività di deterrenza e difesa. Gli alleati, come deciso dal Vertice, rafforzeranno dunque il loro impegno per la difesa collettiva, riaffermando il piano di investimenti del 2014 che ha avviato un aumento delle spese per la difesa a livello nazionale (per i paesi che non hanno ancora raggiunto il 2% del PIL) nel corso degli ultimi 7 anni. Sulla base dei requisiti, gli alleati accettano dunque di aumentare ulteriormente le risorse, inclusi se necessario finanziamenti comuni della NATO a partire dal 2023, sempre tenendo conto della sostenibilità delle spese in parola. Nel 2022 inoltre — insieme al nuovo Concetto strategico — saranno concordati i requisiti specifici per finanziamenti aggiuntivi sino al 2030.

Qualche ulteriore osservazione con riferimento ai due «attori» (Russia e Cina) individuati nel documento conclusivo del Vertice come le principali minacce per i paesi alleati.

La Federazione Russa, si osserva, continua a violare i principi, la fiducia e gli impegni delineati nei documenti concordati che sono alla base delle relazioni NATO-Russia. Riaffermando le decisioni assunte al Vertice di Celtic Manor (Galles) del 2014 nei confronti di Mosca, gli alleati continueranno a rispondere al deterioramento del contesto di sicurezza migliorando la deterrenza e la posizione di difesa, inclusa una presenza avanzata («forward presence») nella parte orientale dell’Alleanza. Viene anche sottolineato che la Russia ha tra l’altro continuato a diversificare il suo arsenale nucleare, anche dispiegando una serie di missili a corto e medio raggio in chiave anti-NATO. L’Alleanza resta comunque aperta (paragrafo 15 del comunicato) a un dialogo periodico mirato e significativo con una Russia disposta a impegnarsi sulla base della reciprocità «al fine di scongiurare malintesi, errori di calcolo e escalation involontarie e accrescere la trasparenza e la prevedibilità».

Quanto alla Repubblica Popolare Cinese, essa viene definita come una «sfida sistemica» per la sicurezza dell’Alleanza.

Le ambizioni dichiarate, si osserva, e il comportamento assertivo della Cina presentano sfide sistemiche all’ordine internazionale basato su regole e alle aree rilevanti per la sicurezza alleata. Gli alleati esprimono preoccupazione per le «politiche coercitive» cinesi che sono in contraddizione con i valori fondamentali sanciti dal Trattato di Washington. La NATO intende però mantenere un dialogo costruttivo con Pechino ove possibile. Sulla base degli interessi dell’Alleanza si accolgono poi con favore le opportunità di impegnarsi con la Cina in

settori di rilevanza per l’Alleanza e su sfide comuni come il cambiamento climatico.

Emerge in sostanza da quanto precede la conferma di un’Alleanza determinata — in linea con gli auspici in primis statunitensi e di Stoltenberg — ad adottare sempre più un approccio globale (cosa ben diversa da quella NATO globale cui forse taluni pensano a Washington ma che incontra giustificate riluttanze tra gli alleati europei convinti che, quanto meno sul cruciale terreno dell’impegno alla difesa collettiva ex-art.5, l’area di competenza dell’Alleanza debba restare quella definito dal Trattato di Washington: vale a dire quella euro-atlantica).

Non vi è dubbio comunque che il legame transatlantico, che l’amministrazione Biden ha inteso così visibilmente rilanciare, richiede da parte europea un solido ancoraggio che probabilmente oggi solo il nostro paese è in grado di fornire ancor più alla luce delle impeccabili credenziali «atlantiche» ed europee del presidente Draghi. Le complesse sfide delineate dall’Agenda NATO 2030 dischiudono, infatti, all’Italia una straordinaria occasione per incidere sul futuro dell’Alleanza e per cogliere le opportunità che dall’Agenda 2030 scaturiranno anche in campo tecnologico. Al pari di quanto avvenuto nel 1956 con Gaetano Martino che presiedette alla redazione del primo Rapporto sulla cooperazione «non militare» dell’Alleanza o in occasione dell’adozione del Rapporto Harmel finalizzato nel 1967 sotto l’egida dell’allora segretario generale Manlio Brosio, il nostro paese ha titolo oggi per rivendicare un ruolo ancor più decisivo in seno all’Alleanza. La qualità e lo spessore del nostro impegno complessivo in ambito NATO (sul quale non è questa la sede per soffermarsi) così come le importanti prossime scadenze elettorali che già vedono impegnate la Germania e la Francia, e la stessa Brexit, fanno infatti del nostro paese probabilmente il solo oggi in grado di perseguire l’agenda transatlantica in complementarietà con quella dell’Unione europea. Abbiamo inoltre maggiori possibilità di favorire un dialogo costruttivo con la Federazione Russa e la stessa Cina ove le condizioni lo consentano, così come di offrire al Consiglio atlantico una visione davvero a 360 gradi tale da conferire la necessaria attenzione anche allo scacchiere del Mediterraneo e al di là. A cominciare dalle questioni connesse, per esempio, alla pervasiva presenza russa in Cirenaica (oltre che della Turchia in Tripolitania) e dalla correlata necessità di continuare a riflettere anche in ambito NATO alla opportunità di una qualche ripresa di contatto — almeno sui temi strategici — con Mosca seppur con le dovute cautele. Quello del recupero di una qualche forma di dialogo con la Russia, osservo per inciso, è, infatti, tema che continuerà a figurare tra i più sensibili nell’agenda dell’Unione europea come testimoniato da ultimo dalle negative reazioni destate tra la maggioranza dei paesi membri di Europa centro-orientale (Polonia e baltici in primo luogo) e non solo (assai critica per esempio anche l’Olanda) dalla proposta in tal senso avanzata dalla cancelliera Merkel e dal presidente Macron in apertura del Consiglio europeo dello scorso 24 giugno e sostenuta, seppur con opportuni «caveat», dal presidente Draghi.

Chiudo l’inciso e torno al recente Vertice NATO con una riflessione conclusiva: il nostro Primo ministro ha esordito nel suo apprezzato intervento al Vertice sostenendo che «la NATO è stata negli ultimi 72 anni la pietra angolare della nostra sicurezza e difesa». Come è stato recentemente osservato dal presidente del Comitato atlantico italiano, Fabrizio Luciolli, il nostro paese se saprà giocare bene le sue carte, e non vi è motivo di dubitarne, potrà, da parte sua, costituire la pietra angolare (o quanto meno un attore ancor più autorevole di quanto già in atto) della NATO del prossimo futuro. Gabriele Checchia, Circolo di Studi Diplomatici

L’ambasciatore Gabriele Checchia è nato ad Ancona il 23 marzo 1952. Conseguita la Maturità classica, si laurea, nel 1974, in Scienze Politiche al «Cesare Alfieri» con successivo corso di specializzazione in Diritto internazionale alla «Johns Hopkins». Nel 1978, a seguito di esame di concorso, entra al ministero degli Esteri ricoprendo negli anni numerosi incarichi alla Farnesina e all’estero. È stato Ambasciatore d’Italia in Libano (2006-10), alla NATO (2012-14) e all’OCSE (2014-16). A riposo, per limiti di età, dal dicembre 2016. È, attualmente, «Senior Advisor» della Luiss per le tematiche di internazionalizzazione e Presidente del «Comitato Atlantico» di Napoli. Il Circolo di Studi Diplomatici è un’associazione fondata nel 1968 su iniziativa di un ristretto gruppo di ambasciatori con l’obiettivo di non disperdere le esperienze e le competenze dopo la cessazione dal servizio attivo. Il Circolo si è poi nel tempo rinnovato e ampliato attraverso la cooptazione di funzionari diplomatici giunti all’apice della carriera nello svolgimento di incarichi di alta responsabilità, a Roma e all’estero.

OSSERVATORIOINTERNAZIONALE

Full Operational Capability per il Joint Support and Enabling Command della NATO

L’8 settembre la NATO ha dichiarato che il Joint Support and Enabling Command (JSEC) ha raggiunto la piena capacità operativa (FOC, Full Operational Capability) e ha celebrato l’occasione con una cerimonia presieduta dal suo comandante, il tenente generale Jürgen Knappe. Tra gli ospiti, il SACEUR, il generale statuinitense Tod Wolters, il vice ministro della Difesa di Berlino, Thomas Silberhorn, e il Direttore Generale dell’IMS (International Military Staff) dell’Alleanza, il tenente generale Hans-Werner Wiermann. Da quando ha raggiunto la sua capacità operativa iniziale (IOC) nel settembre 2019, i 400 militari e civili dello staff del JSEC, provenienti da 20 nazioni dell’Alleanza, si sono addestrati incessantemente in una serie di compiti e incarichi per identificare le carenze logistiche e operative alla mobilità delle forze alleate nel continente europeo. La più importante è stata la sua partecipazione all’esercitazione NATO «Steadfast Defender 2021», tenutasi nel mese di giugno, una vera e propria prova generale prima dell’ufficializzazione del raggiungimento della FOC. Aprendo la cerimonia, il tenente generale Knappe ha riconosciuto l’importanza di «Steadfast Defender 2021», una pietra miliare fondamentale nell’istituzione di questo quartier generale della NATO a livello operativo nel suo cammino verso la sua piena prontezza. Il JSEC, nonostante le piccole dimensioni del suo staff, è un organismo importantissimo nell’economia della difesa alleata, coordinando il movimento delle forze NATO attraverso i confini europei. In tempo di pace, il JSEC funzionerà come una capacità di rete tra le rispettive nazioni europee, che manterranno in ogni caso la sovranità e la responsabilità per i propri paesi. Il Joint Support and Enabling Command, che ha sede a Ulm in Germania è il secondo comando a raggiungere la piena capacità operativa quest’anno. Lo scorso luglio, anche l’Allied Joint Force Command Norfolk ha raggiunto il traguardo della piena capacità operativa.

Il tenente generale Jürgen Knappe, comandante del Joint Support and Enabling Command (JSEC) - (shape.nato.int). Russia-Bielorussia: il nuovo (o vecchio) blocco

Russia e Bielorussia saranno il luogo di quelle che potrebbero essere le più grandi esercitazioni militari in Europa degli ultimi decenni, le quali avverranno quando il presidente della Bielorussia, Aljaksandr Lukašėnka, deciderà di integrare il suo paese ancora di più, non solo militarmente ma politicamente, con la Russia, innescando però anche timori per gli assetti politici (e democratici) dell’area. Il 9 settembre ha avuto luogo la cerimonia inaugurale dell’esercitazione «Zapad-2021» (Occidente, in russo), che durerà fino alla metà del mese e coinvolgerà, secondo stime occidentali, 200.000 militari russi e bielorussi. Il contesto è difficile sia per la situazione interna della Bielorussia, caratterizzata da un anno di proteste contro il governo in carica per le durissime repressioni, sia per le relazioni NATO/Russia (secondo Bruxelles, Mosca, violando gli impegni OSCE, non ha invitato osservatori militari dell’Alleanza). Inoltre, la concentrazione di una tale forza nei pressi dei confini dell’Ucraina è un pesante segnale verso il debole governo del presidente Zelenskyy che deve far fronte a una secessione filorussa nella parte orientale del suo paese, una situazione economica, sociale e politica instabile. Inoltre, Lituania, Polonia e Lettonia hanno tutte dichiarato lo stato di emergenza per far fronte a un’ondata di migranti che, secondo loro, Lukašėnka sta organizzando per punire l’UE, per aver imposto sanzioni contro di lui, i suoi circoli di persone a lui prossimi e le imprese a lui (e a essi) collegate, in coordinamento con Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada e altri paesi. Come noto, il Presidente Lukašėnka (al potere dal 1994) au-

menta la pressione sulle ONG e sui media indipendenti come parte di una brutale repressione contro i manifestanti e l’opposizione a seguito delle elezioni dell’agosto 2020 ampiamente considerate fraudolente. Quando decine di migliaia di bielorussi sono scesi in strada, Lukašėnka ha reagito con una violenta repressione. Decine di migliaia di persone sono state arrestate, le ONG e i media indipendenti messi a tacere e i leader dell’opposizione incarcerati o costretti a fuggire, tra cui Svyatlana Tsikhanouskaya. Questa situazione ha ovviamente un impatto sulle politiche di sicurezza e generali della Bielorussia. Infatti, nonostante molte speculazioni (e pochi fatti, in realtà) Lukašėnka era piuttosto incerto nello stringere troppo i suoi legami con Mosca, ma ora la sua difficoltà interna lo ha obbligato ad avvicinarsi in maniera decisiva a Mosca, che rappresenta la sua unica ancora di salvezza. La situazione strategica oggi è molto diversa rispetto alla precedente esercitazione di Zapad, tenutasi nel 2017. La Russia vuole cogliere l’occasione per espandere la sua impronta militare e di polizia in Bielorussia e la «Zapad 2021» potrebbe fornire indicazioni in merito. Potrebbe anche comportare una maggiore integrazione dei servizi militari e di sicurezza russi e bielorussi, per reprimere una nuova rivoluzione colorata. I due paesi sono formalmente parte di una specie di unione e il tema del suo rafforzamento è stato al centro dei colloqui tra Lukašėnka e Putin, avvenuti a Mosca, con la sigla dell’avvio delle manovre. In Bielorussia, per la «Zapad-2021» (che si svolge ogni quattro anni), verranno utilizzati cinque grandi poligoni di manovra (Brest Litovsk, Baranavichy, Damanauski, Abuz-Lyasnouski e Ruzhanski nella regione di Hrodna) che si trovano nella Bielorussia occidentale, vicino ai confini con Polonia e Lituania. In Russia si svolgeranno esercitazioni in nove centri di addestramento e nelle esercitazioni sarà coinvolta anche la Flotta del Nord. Come nel 2017, le esercitazioni si concentreranno sul contrasto nei confronti di Stati fittizi (Nyaris, Pomoria e la Repubblica Polare), e la consueta lotta a «organizzazioni terroristiche». Il quotidiano ufficioso del Cremlino, Izvestia, ha riferito l’11 agosto che la «Zapad 2021» vedrà uno degli usi più estesi della guerra elettronica nel quadro di un’esercitazione condotta dalla 1a Armata corazzata e la 20a Armata combinata delle guardie russe.

Le Forze armate russe hanno affermato che «Zapad2021» includerà 200.000 militari russi e bielorussi e circa 2.000 militari provenienti dagli Stati aderenti all’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO) e l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), come Armenia, Kazakistan, Tagikistan, India, Kirghizistan, Mongolia, Serbia e Sri-Lanka, che invieranno contingenti, anche se piuttosto piccoli; mentre Cina, Vietnam, Birmania, Pakistan e Uzbekistan invieranno osservatori. Se questa cifra si rivelasse veritiera, la «Zapad-2021» sarebbe l’esercitazione più ampia in Europa da decenni (a titolo di esempio, la «Trident Juncture 2018», la più grande esercitazione della NATO di ultima generazione, ha coinvolto «solo» 40.000 militari). Russia e Bielorussia hanno iniziato a dispiegare forze e materiale militare per la l’esercitazione già nel mese di luglio e i ministri della Difesa di Minsk e Mosca, Viktar Khrenin e Sergei Shoigu, hanno annunciato l’intenzione di istituire tre centri di addestramento militare congiunti permanenti nelle regioni russe di Nizhny-Novgorod e Kaliningrad e nella regione occidentale bielorussa di Hrodna, che confina con Polonia e Lituania. Ciò è avvenuto dopo che i ministeri della Difesa dei due paesi hanno firmato, per la prima volta, un accordo di partenariato strategico quinquennale. La creazione di un centro di addestramento militare congiunto a Hrodna è una chiara indicazione che la Russia sta cercando di ampliare la sua presenza militare e si pensa che una parte del personale militare russo che parteciperà alla «Zapad 2021» resterà nel paese, approfittando della difficile posizione di Lukašėnka, e Minsk non ha scelta.

Il presidente bielorusso Aljaksandr Lukašėnka (s) assieme al presidente russo Vladimir Putin (sicurezzainternazione.luiss.it).

Armenia, ovvero la presenza russa nel Caucaso

Mosca non resta attiva solo su un fronte. Pochi giorni prima dell’avvio della «Zapad 2021» la Russia ha ritirato il mandato agli osservatori militari dell’OSCE che vigilano sulla tregua (fragilissima in verità) tra Ucraina e forze filorusse stanziate nell’est del paese e che hanno costituito repubbliche fittizie. La decisione, in qualche modo attesa, visto il sempre maggior fastidio di Mosca verso l’organizzazione basata a Vienna, ha ulteriormente avvelenato le relazioni con l’Occidente e sullo stesso fronte caucasico, lentamente, ma costantemente, le forze di interposizione russe stanno lasciando sempre più mano libera alle truppe armene, aumentando la tensione politica (sinora, ma per Baku non vi sono chances) e mostrando che i 2.000 militari della forza multinazionale russo-turca (in realtà vi sono solo una ventina di militari di Ankara nel comando, esclu-

sivamente russo) è solo una facciata e che l’Armenia, dopo la sonora sconfitta contro l’Azerbaijan nel novembre scorso, si sta silenziosamente allineando, nonostante il presunto filo-occidentalismo del primo ministro Pashinian. L’Armenia è stata frustrata dalla riluttanza della CSTO, una sorta di NATO a guida russa, di cui Erevan fa parte quale Stato fondatore, a intervenire dalla sua parte nella Seconda guerra del Karabakh del 2020. Il Cremlino ha giustificato la sua inerzia affermando che la guerra si stava combattendo su un territorio internazionalmente riconosciuto come appartenente all’Azerbaijan (mentre Erevan lo contesta quando si riferisce al Nagorno-Karabakh), ma non ha potuto fare altrimenti che piegarsi alla superiorità militare azera. Ma la Russia, che usa sempre bastone e carota con grande abilità, non ha nessuna intenzione di perdere una presenza consolidata nel Caucaso. Infatti, continua a mantenere due basi militari in Armenia, istituite nell’era sovietica e la cui permanenza è sempre stata confermata da tutti i governi di Erevan sin dall’indipendenza, negli anni Novanta. La 102a base militare russa a Gyumri (120 km a nord di Erevan e prossima al confine con la Turchia), che ospitava la 127a Divisione sovietica fucilieri motorizzati della 7a Armata della guardia sovietica e faceva parte del Gruppo di forze transcaucasiche, oggi ospita un numero ridotto di personale ma importanti quantità di materiali e una aviosuperficie. L’altra, è la base aerea di Erebuni, prossima a Erevan, e che ospita la 3624a base aerea russa, dotata di caccia MIG-29 «Fulcrum» ed elicotteri d’attacco Mi-24 «Hind». Queste due sono le uniche basi militari russe nel Caucaso meridionale. La Russia è il principale fornitore di armi e addestramento militare dell’Armenia, che ha una popolazione, un terzo di quella dell’Azerbaijan, ma senza le sue fonti di energia. Non ha le risorse finanziarie per acquistare attrezzature militari occidentali, turche e israeliane, come ha fatto Baku. Il presidente Ilham Aliyev ha reagito con incredulità quando la Russia ha annunciato che avrebbe aiutato l’Armenia nella «modernizzazione» delle sue Forze armate dopo la sconfitta dello scorso anno e le tensioni restano alte. L’Azerbaijan è frustrato dalla riluttanza dell’Armenia ad attuare i punti chiave dell’accordo del cessate-il-fuoco del 10 novembre 2020, come la riapertura del corridoio di trasporto di Zangezur che collega l’Azerbaijan alla sua enclave di Nakhichevan, attraverso l’Armenia. Inoltre Baku è frustrata dal rifiuto armeno nel ritirare le forze rimanenti dalla oramai dissolta repubblica del Nagorno-Karabakh. In caso di una rinnovata crisi o ripresa delle ostilità, il sostegno sempre più aperto della Russia verso l’Armenia, ha portato il 15 giugno scorso i presidenti turco e azero alla firma della Dichiarazione di Shusha, un’alleanza, che ha cementato i legami di sicurezza bilaterali tra i due paesi.

Ilham Aliyev (s) presidente azero dal 2003 e, accanto, Nikol Pashinian, primo ministro dell’Armenia dal 2018 (euronews.com).

Nuovi orizzonti per la Marina indiana

Nella sua sfida globale con la Cina, l’India segue proprio i passi di Pechino, a cominciare dalla accresciuta presenza militare su scala mondiale, nel cui quadro la dimensione navale svolge un ruolo fondamentale. I mesi di agosto e settembre sono stati particolarmente intensi

per l’Indian Navy. Infatti, oltre alla partecipazione alle spettacolari manovre multilaterali con Stati Uniti, Australia e Giappone («Malabar 2021») nel contesto dell’iniziativa «Quad» e a quelle bilaterali con altre importanti Marine, come quelle britannica e francese), New Delhi ha iniziato a mostrare bandiera nel Mediterraneo, seguendo così la presenza, sinora occasionale di unità cinesi. Alla fine di agosto una fregata della classe «Talwar», la INS Tabar, ha svolto un’esercitazione di passaggio bilaterale (PASSEX) con una corvetta della classe «Adhafer», la Ezzadjer, della Marina algerina. La PASSEX è stata svolta per valutare e migliorare la capacità combinata, promuovere la sicurezza nazionale e regionale e aumentare l’interoperabilità tra le Marine dei due paesi amici (secondo quanto detto dalle autorità militari e diplomatiche dei due paesi). La Tabar, che fa parte del comando navale occidentale della Marina indiana con sede a Mumbai, svolge un dispiegamento di quattro mesi in Africa ed Europa, per partecipare a esercitazioni congiunte con Marine amiche e migliorare la cooperazione militare attraverso impegni navali. La PASSEX è un’operazione semplice, ma il contesto politico è assai importante e segnala la volontà di New Delhi di rafforzare ove possibile la sua presenza come alternativa alla proliferazione di quella cinese. C’è da aspettarsi una crescita della presenza indiana, innanzitutto navale, corroborata dall’inizio dei test della nuova portaerei, di progettazione e costruzione locale, la Vikrant, il mese scorso. Anche se rilevante strategicamente la presenza nel Mediterraneo, soprattutto in una prospettiva medio-lunga, il baricentro degli interessi strategici di New Delhi resta ovviamente l’area dell’Oceano Indiano, dimostrata dalle esercitazioni congiunte con US Navy ed EUROMARFOR «Atlanta». Accanto all’Oceano Indiano, il controllo degli accessi da e per il Pacifico e ai mari regionali (Mar Cinese Meridionale, Mar Giallo) restano parimenti importanti. In quest’ottica, agli inizi di settembre, India e Singapore hanno concluso un’esercitazione bilaterale marittima complessa, dimostrando l’elevata interoperabilità raggiunta tra le Marine di entrambi i paesi, in ben 28 anni di attività congiunte. La SIMBEX (questo è il titolo dell’esercitazione) si è svolta dal 2 al 4 settembre. Avviata nel 1994, SIMBEX è l’esercitazione marittima bilaterale che da più tempo la Marina indiana effettua con le Marine straniere. Sostenere la continuità di questo impegno significativo nonostante le sfide della pandemia in corso sottolinea ulteriormente la forza dei legami di difesa bilaterali tra i due paesi. Nonostante questi vincoli durante le fasi di pianificazione, l’edizione di quest’anno di SIMBEX è anche un’«occasione speciale» poiché si svolge durante le celebrazioni del 75o anno dell’indipendenza dell’India.

«SIMBEX 2021, tenutasi dal 2 al 4 settembre, è l’esercitazione marittima bilaterale che da più tempo la Marina indiana effettua con le Marine straniere»

(Fonte immagine: mindef.gov.sg). Marina cinese: un altro allarme

Uno degli obiettivi strategici di Pechino è quello di spezzare in tutti i modi la cintura (più politica che meramente geografica) degli arcipelaghi e linee di forza che fronteggiano le sue coste. Per fare questo, ovviamente, il primo strumento e quello di costruire una Marina, numericamente importante e tecnologicamente avanzata che possa essere una minaccia alla coalizione globale che progressivamente si sta costituendo, guidata dagli Stati Uniti. Il cammino è ancora lungo, ma i risultati sono comunque impressionanti, soprattutto per la costanza e l’impegno ad aumentare le proprie capacità. Attualmente, la Marina cinese ha una forza di battaglia complessiva di oltre 360 navi, tra cui più di 130 unità principali combattenti di superficie e più di 60 sottomarini, un’aviazione navale di oltre 300 velivoli ad ala fissa e rotante di ogni tipo e un inquietante programma di costruzione di portaerei, sempre più grandi e sofisticate, che seppur ancora indietro di almeno due generazioni rispetto a quelle statunitensi in termini di capacità, deve far riflettere sulla chiara volontà cinese di ridurre quanto prima il gap attuale. È una forza sempre più moderna e flessibile in grado di condurre un’ampia gamma di missioni in tempo di pace e di guerra, a distanze sempre maggiori dalla terraferma cinese. Dalle pattuglie antipirateria nel Golfo di Aden, agli schieramenti di navi ospedale in America Latina, ai pattugliamenti sottomarini nell’Oceano In-

diano alle operazioni a lungo raggio nel Pacifico centrale. La Marina di Pechino è una forza sempre più globale a sostegno degli interessi in espansione della Cina. Per esempio, all’inizio del 2009, Pechino ha inviato un Gruppo navale nel Golfo di Aden per partecipare a pattugliamenti internazionali contro la pirateria, ai sensi della Risoluzione 2125 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU; all’inizio del 2014 una fregata cinese ha assistito nella scorta della rimozione di armi chimiche dalla Siria; nel 2011 e 2014 ha assistito le operazioni di evacuazione di non combattenti in Libia e Yemen. La missione in Yemen ha comportato l’evacuazione di oltre 200 cittadini non cinesi. Inoltre, le crociere della nave ospedale Daishan Dao in Africa, America Latina, Sud-Est asiatico e Oceania aiutano a stabilire la legittimità di Pechino come partner, fornitore di aiuti e sicurezza marittima. Ma non è sufficiente, infatti, Pechino sta sviluppando una serie di strumenti accanto all’espansione economica e militare, in senso stretto. Uno di questi è la Guardia costiera. Come la Marina, con cui opera di conserva, la Guardia costiera cinese sta crescendo in capacità e oramai ha una presenza consolidata in tutti i «mari vicini» della Cina, nell’Asia orientale e all’estero, nel Pacifico settentrionale, con pattuglie di vigilanza pesca e, la possibilità di ulteriori dispiegamenti a lunga distanza, è solo questione di tempo. Ciò è particolarmente vero nelle acque in cui vi sono interessi cinesi, come quelle occidentali dell’America Latina e del Pacifico orientale, a causa del crescente problema delle droghe dall’America Latina che si fanno strada verso i consumatori cinesi. La Guardia costiera cinese è il risultato del consolidamento, avvenuto nel 2013, di quattro agenzie di sicurezza marittima. Accanto alla razionalizzazione istituzionale, si è avviato un importante rinnovamento e miglioramento delle unità in mare e le sue navi a scafo bianco sono ormai comuni nei mari vicini della Cina, all’interno della prima catena di isole, in particolare nelle acque contese come Scarborough Reef, le isole Senkaku e Second Thomas Shoal, nonché vicino a piattaforme di trivellazione straniere. Con 140 navi oceaniche di 1.000 tonnellate o più, comprese 60 navi di 2.500 tonnellate o più, la Guardia costiera cinese ha una capacità più che sufficiente per espandere le sue operazioni oltre le acque regionali, a cominciare dalla partecipazione ai pattugliamenti internazionali della pesca nel Pacifico settentrionale. Dal 1994, l’US Coast Guard (USCG) ha ospitato le sue controparti cinesi a bordo delle navi statunitensi che operano nel Pacifico settentrionale, a sostegno degli sforzi per arginare la pesca illegale in alto mare, in gran parte da parte di pescatori cinesi. Da quando è entrata a far parte della Commissione per la Pesca del Pacifico settentrionale (NPFC, con sede in Giappone) nel 2015, la Guardia costiera cinese ha anche inviato proprie unità a operare nelle acque del Pacifico settentrionale, spesso attraverso pattugliamenti congiunti con scambi con la USCG. Analogamente a quanto citato in merito alle operazioni nel Golfo di Aden con la Marina vera e propria, la Cina potrebbe schierare navi della Guardia costiera nelle acque dell’America Latina, in base alle disposizioni della risoluzione 2482 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che richiama specificamente l’attività criminale, compreso il traffico di droga e nel contrasto a gruppi terroristici. L’America Latina è una regione di crescente importanza per Pechino. La massiccia iniziativa cinese Belt&Road ora coinvolge oltre 130 paesi e oltre 500 miliardi di dollari di investimenti includendo un elenco crescente di nazioni in America Latina (con Panama la prima ad aderire nel 2017). La crescente ricchezza cinese e il fatto che le droghe spesso ottengono prezzi più alti in Asia e in Australia rispetto al Nord America, rendono la Cina un mercato naturale per la cocaina prodotta in America Latina. In questo momento, le autorità cinesi stanno collaborando con quelle di altre nazioni per combattere il problema nell’Asia orientale. Tuttavia, è possibile che in futuro Pechino possa decidere di avere interesse a stabilire una presenza militare/di polizia cinese nell’emisfero occidentale, per aiutare a fermare il flusso di droga alla fonte. Il coinvolgimento della Guardia costiera nei pattugliamenti della pesca nel Pacifico settentrionale e il coinvolgimento della Marina nelle missioni sanzionate a

«Come la Marina, anche la Guardia costiera cinese sta crescendo in capacità e oramai ha una presenza consolidata in tutti i “mari vicini” della Cina, nell’Asia orientale e all’estero, nel Pacifico settentrionale (...)» - (Fonte immagine: twitter).

livello internazionale, forniscono il modello e la logica di base per i pattugliamenti antidroga della Guardia costiera nell’emisfero occidentale. Lo spiegamento cinese nel Golfo di Aden nel 2009 è stato generalmente visto come una gradita aggiunta alle Marine già operanti nell’area; anche la presenza della Guardia costiera nel Pacifico settentrionale è vista positivamente. La cooperazione con le forze statunitensi e delle nazioni partner, tesa a combattere il flusso infinito di droga proveniente dal Sud e Centro America, sarebbe ben visto ed è probabile che Pechino possa inviare sue unità presso quei governi latinoamericani che, in numero sempre maggiore, hanno buoni rapporti con la Cina. Una presenza più visibilmente cooperativa del Guardia costiera nelle acque dell’America Latina potrebbe anche calmare le crescenti preoccupazioni nella regione sulla pesca illegale da parte dei pescatori cinesi, attività che hanno creato forti tensioni (come con Argentina, Perù ed Ecuador). Tuttavia, una presenza navale cinese, anche se della Guardia costiera, potrebbe sollevare ulteriori preoccupazioni negli Stati Uniti a causa della sensibilità di lunga data di Washington in merito alla presenza di forze militari straniere nell’emisfero occidentale, risalenti all’istituzione della Dottrina Monroe. Al momento, le acque dell’emisfero occidentale meridionale sono di pertinenza della US 4th Fleet, che non ha forze permanentemente assegnate e che è la componente marittima dell’US Southern Command.

Somalia: forse una AMISOM II

Nel mese di luglio, l’Unione Africana (UA) attraverso il Consiglio per la Pace e la Sicurezza ha offerto quattro opzioni separate per il futuro della missione dell’Unione Africana in Somalia (AMISOM) al governo federale somalo. Dalla fine degli anni Ottanta la guerra civile somala ha avuto molti colpi di scena, causato terribili sofferenze alle popolazioni civili e ha trasformato il paese in un coacervo inestricabile dove sussistono rivalità regionali, terrorismo, pirateria e attività criminali di ogni tipo. Nel 2008-09, Al-Shabaab è emerso come il principale oppositore militante islamista al debole governo di transizione somalo. L’AMISOM, originariamente schierata dal 2007 con il mandato di proteggere le istituzioni politiche di transizione somale, in parte per compensare il ritiro delle truppe etiopi, che nel 2006 avevano preso il controllo di vaste parti della Somalia (anche se scontri, incursioni più o meno ampie e veri e propri conflitti tra Addis Abeba e Mogadiscio si sono registrati tra il 1960 e il 1964, 197778, 1982 e tra il 1998 e il 2000) è diventata un elemento cardine della sicurezza dello Stato somalo. Dopo che AlShabaab si è ritirato da Mogadiscio nel 2011, l’AMISOM ha iniziato una lunga espansione che ha visto la liberazione di un certo numero di importanti centri urbani nel sud della Somalia, così come di altre zone del territorio (il nord è nelle mani del governo semi indipendente del Puntland e di quello totalmente indipendente, non riconosciuto internazionalmente del Somaliland). La Somalia meridionale è un insieme di municipalità governative isolate, clan rurali, aree controllate dalle milizie islamiche Al-Shabaab e relativi vuoti di potere. A Mogadiscio, le rivalità di ogni tipo all’interno del governo federale si riflettono nella crescente politicizzazione dell’SNA (Alleanza Nazionale Somala) limitandone la capacità e facendo temere nuove divisioni interne. Il continuo procrastinare delle elezioni rafforza Al-Shabaab, che ha il controllo di una grande enclave territoriale nel Medio Giuba; continua a isolare città periferiche come Huddur e sfrutta la mancanza di pattugliamenti regolari da parte dell’AMISOM e dell’SNA. Come ha sottolineato il gruppo di esperti delle Nazioni unite, nel suo ultimo rapporto sui gruppi terroristici, al Consiglio di Sicurezza, durante la prima metà del 2021, Al-Shabaab ha incontrato poca resistenza nell’impossessarsi di diverse città e villaggi in aree che erano state precedentemente ostili; la situazione si è aggravata a causa del ritiro delle forze statunitensi alla fine del 2020. Si parla con insistenza dell’infiltrazione di Al-Shabaab nella capitale Mogadiscio e si teme che la città possa cadere in tempi anche più brevi di Kabul, se l’AMISOM si ritirasse. Tutto ciò mostra perché una forza militare capace — la SNA politicizzata e divisa non è in grado di sostenere quel ruolo — rimane critica. La pianificazione militare dell’AMISOM è stata generalmente effettuata dall’UA e dai paesi che forniscono truppe, supportati da una varietà di consiglieri per lo più occidentali. Tuttavia, questa pianificazione, come il concetto operativo del 2018, che si basava su un piano di transizione somalo che a sua volta dipendeva dall’efficacia dell’SNA, sono stati profondamente irrealistici. Negli ultimi mesi, un team di valutazione indipendente ha esaminato le opzioni per il futuro di AMI-

SOM. Quando il team ha presentato il suo rapporto, la raccomandazione era per un AMISOM riconfigurato, piuttosto che una forza ibrida ONU-UA, come in Darfur (visti gli scarsi risultati e gli enormi costi). Indipendentemente dal fatto che una missione ibrida dell’ONU e dell’UA migliorerebbe o meno le cose, molti mesi sarebbero stati persi per stabilire gerarchie e responsabilità della nuova missione ibrida tra le due organizzazioni, piuttosto che per assistere i somali. Inoltre, è generalmente riconosciuto che l’ONU non è la migliore organizzazione per svolgere un’intensa missione di combattimento. Altre due opzioni — il dispiegamento dell’Eastern Africa Standby Force (una realtà virtuale) e il ritiro totale dell’AMISOM — sono state a loro volta respinte. Il governo federale ha rifiutato il rapporto nella sua interezza, chiedendo invece un rinforzo numerico puro e semplice dell’AMISOM. Una delle opzioni sarebbe una divisione delle funzioni tra SNA e AMISOM. Mentre l’SNA ancora nel pieno di un lento e difficoltoso programma di equipaggiamento e addestramento (quest’ultimo condotto anche dalla missione dell’UE, la EUTM-S, forte di oltre 200 istruttori, in buona parte italiani e spagnoli e che opera dal 2010) svolgerebbe la funzione di proteggere obiettivi fissi e di sicurezza delle aree sgomberate da Shabab, AMISOM condurrebbe operazioni d’attacco grazie alle sua potenza di fuoco e mobilità. Comunque sia, alla fine la decisione è dei paesi contributori delle truppe, conosciuti come «caschi verdi». Sia il Kenya sia l’Etiopia avevano truppe in Somalia prima di unirsi all’AMISOM, rispettivamente nel 2012 e nel 2014. Entrambi i paesi sembrano essere stati influenzati a «rivestire» le loro truppe dai vantaggi finanziari derivanti dal fatto che i donatori, in primis l’UE, pagano per la loro presenza. Inoltre, la partecipazione all’AMISOM ha fornito ulteriore legittimità esterna alle loro truppe rimaste in Somalia, anche se in realtà rispondono più alle agende delle loro capitali nazionali nei riguardi di Mogadiscio piuttosto che all’UA. Pertanto, il Kenya sta inviando in Congo unità motorizzate e speciali, cosa che manterrà il suo Esercito impegnato e finanziato attraverso le risorse fornite dall’ONU. Ci sono quindi diverse indicazioni che il Kenya si stia preparando a ritirarsi dalla Somalia a suo tempo — forse nei prossimi 12-24 mesi — anche se non ancora del tutto. L’Etiopia vorrebbe mantenere le sue truppe all’interno del paese, come ha fatto per decenni, ma la crisi del Tigray è un nuovo elemento che pone dubbi su questa permanenza, almeno nei termini numerici attuali. Nel 2019, il presidente ugandese Yoweri Museveni ha minacciato di ritirare le truppe del suo paese dall’AMISOM se le Nazioni unite avessero insistito per ridurre il numero delle truppe coinvolte nella missione. L’Uganda è tra i paesi contributori delle truppe che ora sostengono che la missione venga riconfigurata come una missione ibrida UA-ONU, anche con la speranza di avere posizioni apicali all’interno della leadership dell’operazione. Sembra che Museveni sia ancora motivato dai compensi accumulati per la messa a disposizione di unità e che finanziano l’Esercito ugandese. Anche l’Uganda è profondamente coinvolto nella missione per motivo di orgoglio nazionale, avendone preso parte sin dal 2007. Le azioni del Burundi e di Gibuti saranno influenzate dai maggiori contributi finanziari per il mantenimento delle truppe. In particolare, sembra probabile che Gibuti rimarrà finché le sue forze, generalmente poco equipaggiate, potranno essere protette dagli etiopi. In sintesi, Al-Shabaab rimane forte e l’AMISOM rimane la forza militare cruciale che impedisce la sua vittoria e protegge il governo somalo. La missione resterà in Somalia fino al prossimo anno, e probabilmente per diversi — o forse molti — anni nel futuro. Missioni simili in Congo e Sud Sudan stanno entrando rispettivamente nel 20o e 16o anno. L’AMISOM rimarrà probabilmente una missione ibrida UA piuttosto che UA-ONU. I paesi che contribuiscono alle truppe hanno forse la maggiore influenza sul futuro della missione, e sembra — con la possibile eccezione del Kenya — che la maggior parte vi resti a lungo termine. Enrico Magnani

La regione del Tigrè, la più settentrionale delle regioni dell’Etiopia, in questi mesi è scossa da rivolte, massacri e violenze senza fine (onuitalia.org).

MARINEMILITARI

ARABIA SAUDITA Varo della quarta corvetta classe «Al-Jubail»

Il 24 luglio, nel cantiere spagnolo di Navantia, a San Fernando, alla periferia di Cadice, è stata varata la quarta corvetta classe «Jazan Al Jubail» destinata alla Marina dell’Arabia Saudita. La corvetta fa parte del programma di costruzione deciso dal governo saudita, per la cui attuazione è stato firmato a luglio 2018 un contratto di 1,8 miliardi di euro. La costruzione delle unità è iniziata nel gennaio 2019 e la loro conclusione è prevista entro il 2024. Realizzate secondo il progetto «Avante 2200», le corvette sono concepite per la lotta antisommergibili, la protezione di assetti marittimi, la raccolta d’informazioni, la lotta contro i traffici illeciti e la ricerca e Il varo della quarta corvetta classe soccorso. Le corvette «Jazan Al-Jubail» destinata alla Marina dell’Arabia Saudita (Navanclasse «Al Jubail» tia). A fianco: il sottomarino DOSAN AHN CHANG-HO, unità hanno una lunghezza eponima della classe e primo esemplare del lotto iniziale (Batch di 99 metri, una lar- 1) del programma KSS III, entrato ghezza di 13,6 metri in linea il 13 agosto 2021 (DSME). Nella pagina successiva: la fregata e un dislocamento di tedesca BAYERN è partita il 2 agosto da Wilhelmshaven per un 2.420 tonnellate: a dispiegamento nella regione IndoPacifico, destinato a concludersi a bordo sono disponi- marzo 2022 (Deutsche Marine). bili posti letto per 92 persone. Il sistema propulsivo è in configurazione CODAD, con quattro motori diesel MTU 12V1163-TB93 da 4,4 MW, che azionano due assi con eliche a passo controllabile Wärtsilä 5C11: la velocità massima è di 24 nodi, mentre l’autonomia raggiunge le 3.500 miglia a 18 nodi. L’armamento comprende un cannone Leonardo OTO da 76 mm, un impianto Oerlikon Millennium da 35 mm e due mitragliatrici da 12,7 mm: le unità sono equipaggiate con un ponte di volo e un hangar in grado di accogliere un elicottero.

COREA DEL SUD

Entra in servizio il sottomarino Dosan Ahn Chang-ho

Il 13 agosto è entrato in servizio nella Marina sudcoreana il sottomarino Dosan Ahn Chang-ho (distintivo ottico SS 083), unità eponima della classe e primo esemplare del lotto iniziale (Batch 1) del programma KSS III, realizzato nei cantieri di Okpo a cura della società Daewoo Shipbuilding & Marine Engineering (DSME). Battezzato in onore di un personaggio di rilievo dell’indipendenza sudcoreana dall’occupazione giapponese, il Dosan Ahn Chang-ho sarà sottoposto a un periodo di valutazione che si concluderà nell’agosto 2022 e finalizzato soprattutto a validarne le capacità di

deterrenza strategica. Il progetto per un battello a propulsione non nucleare caratterizzato da un dislocamento alquanto rilevante (3.360 tonnellate in superficie e circa 3.800 tonnellate in immersione) è iniziato nel 2004, nell’ambito di una cooperazione fra DSME e la Hyundai Heavy Industries: nel progetto sono coinvolte altre aziende sudcoreane quali LIG Nex1, Hanwha and STX Engine, mentre le società britanniche BMT e Babcock assicurano assistenza tecnica. I battelli KSS-III Batch 1 hanno una lunghezza di 83,5 metri e un diametro dello scafo resistente di 9,6 metri; la velocità massima in im-

mersione è di 20 nodi, mentre l’autonomia è di 10.000 miglia a una velocità economica che dovrebbe attestarsi sui 10 nodi. L’equipaggio è formato da 50 uomini. L’armamento si articola su otto tubi di lancio da 533 mm e su sei tubi di lancio verticali, situati a poppavia della falsatorre, destinati al lancio di missili da crociera «Cheon Ryong», prodotti da LIG Next 1 e accreditati di un raggio d’azione di 810 miglia; la produzione dell’impianto per la movimentazione di siluri e altri ordigni lanciabili dai tubi da 533 mm è a cura della Babcock, mentre la società spagnola Indra è stata prescelta per la fornitura del sistema di guerra elettronica «Pegaso». La società francese Safran fornirà due alberi optronici non penetranti, mentre l’ECA Group produrrà l’impianto di governo: gli equipaggiamenti di fornitura nazionale saranno il sensore acustico passivo laterale (flank array), realizzato da LIG Next1, e il sistema di gestione operativa, noto come «Naval Shield» e prodotto da Hanwha. La costruzione del Dosan An Chang-Ho è iniziata nel novembre 2014, con il varo avvenuto nel settembre 2018: il secondo esemplare della classe, Ahn Moo (SS 085) è stato varato a novembre 2020, mentre la costruzione del terzo esemplare Yi Dongnyeong (SS 086, l’ultimo del Batch 1) è iniziata a giugno 2017 nei cantieri Hyundai Heavy Industries di Ulsan. L’entrata in servizio del Dosan Ahn Chang-ho rappresenta certamente un traguardo importante per la Marina e l’industria cantieristica navale militare sudcoreana, che in soli trent’anni sono riusciti a progettare e realizzare un battello di elevata qualità e di dimensioni relativamente rilevanti. Nel marzo 2019, il governo sudcoreano ha approvato l’attuazione del programma KSS-III Batch 2, relativo a sottomarino di dimensioni superiori a quelli del Batch 1: il dislocamento in immersione dovrebbe aumentare almeno fino a 4.000 tonnellate, in modo da aumentare da 6 a 10 il numero dei tubi di lancio verticali per i missili da crociera. Questi battelli saranno equipaggiati con un maggior numero di sistemi e impianti di produzione sudcoreana, fra cui batterie agli ioni di litio e un motore elettrico di propulsione realizzata con la tecnologia dei superconduttori. La pianificazione della Marina sudcoreana prevede la costruzione di nove sottomarini KSS-III, suddivisi in tre Batch da tre esemplari ciascuno.

GERMANIA

Dispiegamento della fregata Bayern nell’Indo-

Pacifico

Come annunciato durante la International Maritime Security Conference di Singapore dal comandante in capo della Marina tedesca, ammiraglio Kay-Achim Shönbach, la fregata Bayern è partita il 2 agosto da Wilhelmshaven per un dispiegamento nella regione Indo-Pacifico; la decisione si inquadra nelle aspirazioni di Berlino di giocare un proprio ruolo nella competizione strategica fra la Repubblica Popolare Cinese e diverse nazioni occidentali. Secondo le dichiarazioni del ministro della Difesa tedesco Annegret Kramp-Karrenbauer, gli obiettivi del dispiegamento riguardano la salvaguardia della navigazione in acque internazionali, il supporto ai partner regionali che condividono gli stessi valori della Germania e la protezione delle «società aperte e democratiche»: il Ministro ha inoltre dichiarato che il Bayern contribuirà anche all’imposizione delle sanzioni decretate dalle Nazioni unite nei confronti della Corea del Nord, parteciperà alle missioni NATO e UE (rispettivamente «Sea Guardian» e «Atalanta»). Da una mappa pubblicata sul portale web delle Forze armate tedesche, il Bayern effettuerà soste a Gibuti, Karachi, Diego Garcia, Perth, Guam, Tokyo e Shanghai e attraverserà il Mar Cinese Meridionale, area marittima notoriamente contesa dalla Repubblica Popolare Cinese. Il dispiegamento si concluderà a marzo 2022: per eventi di questo tipo nella regione Indo-Pacifico ma di maggior durata, è verosimile che la Marina tedesca ricorra a un cambio dell’equipaggio mentre una nave tedesca si trova già nell’area, mentre non è esclusa la creazione di un hub logistico permanente a Singapore o in Australia.

GIAPPONE

Prove in mare per la fregata Kumano

Il 24 agosto, la nuova fregata multimissione giapponese Kumano, parte del programma «30FFM» e costruita dal gruppo Mitsui E&S, ha iniziato le prove in mare al largo di Okayama; l’unità è il secondo esemplare della classe «Mogami», di cui l’eponima è realizzata dal gruppo Mitsubishi Heavy Industries (MHI) di Nagasaki. Il Kumano dovrebbe essere consegnato entro l’anno in corso, mentre l’intero programma prevede la realizzazione di 22 esemplari. Da rammentare i decolli e gli appontaggi di F-35B americani sulla nave giapponese IZUMO, i primi effettuati dal 1945.

GRAN BRETAGNA Dispiegamento permanente di due pattugliatori nell’Indo-Pacifico

Il 20 luglio e nel corso di una visita ufficiale in Giappone, il segretario alla Difesa del governo britannico Ben Wallace ha annunciato che la Royal Navy assegnerà in permanenza due pattugliatori d’altura classe «River Batch II» alla regione Indo-Pacifico. L’annuncio segue le attività in corso nella medesima regione a cura del Gruppo navale capeggiato dalla portaerei Queen Elizabeth. I due pattugliatori d’altura, Spey e Tamar, sono salpate dal Regno Unito alla fine di agosto e le loro operazioni saranno supportate dall’Australia, dal Giappone e da Singapore. Nei prossimi anni, si prevede che la Royal Navy dislocherà nell’Oceano Indiano un «Littoral Response Group», Gruppo navale comprendente unità combattenti e ausiliarie e destinato a operare sfruttando le basi logistiche in Oman e nel Bahrein.

INDIA

Prove in mare per la portaerei Vikrant

Nelle prime settimane di agosto hanno avuto luogo le prime prove in mare della nuova portaerei della Marina indiana, al momento nota come Indigenous Aircraft Carrier (IAC-1) e destinata a essere battezzata Vikrant. Secondo fonti ufficiali della Marina indiana, la nuova portaerei sarà dotata di un reparto aereo imbarcato formato da velivoli multiruolo ed elicotteri di produzione russa (rispettivamente MiG-29K e Kamov Ka-31) e di produzione locale (rispettivamente «Tejas-Naval» e ALH). Progettata dagli enti tecnici della Marina indiana e costruita dalla società Cochin Shipyard Limited (CSL), la futura Vikrant ha una lunghezza di 262 metri e una larghezza massima di 62 metri: grazie a un ampio ricorso all’automazione per i sistemi di piattaforma e per l’insieme di armi e sensori, l’equipaggio sarà formato da 1.700 persone. La velocità massima sarà di 28 nodi, con un’autonomia di 7.500 miglia a 18 nodi. La Vikrant sarà equipaggiata con un sistema di gestione operativa sviluppato dalla società indiana Tata Power Systems. La prima uscita di prove in mare è stata preceduta da una fase di prove in banchina finalizzate alla verifica della catena propulsiva, comprendente quattro turbine a gas LM-2500, i riduttori, le linee d’assi e le eliche a passo controllabile; in questa fase è stato verificato il corretto funzionamento anche dei principali impianti ausiliari, vale a dire, la timoneria, il condizionamento, la generazione e la distribuzione dell’energia elettrica, il circuito antincendio ed esaurimento sentina e le comunicazioni interne.

La nuova portaerei della Marina indiana, al momento nota come Indige-

nous Aircraft Carrier (IAC-1) e destinata a essere battezzata VIKRANT, ha

svolto una prima serie di prove in mare (Cochni Shipyards Ltd.). ITALIA

Al via la campagna d’istruzione del Durand de la Penne

Il 27 luglio il cacciatorpediniere Luigi Durand de la Penne ha lasciato il porto di Taranto per svolgere la campagna estiva d’istruzione in favore degli allievi della 2a classe dell’Accademia navale, riuniti nel Corso «Esperia»; di esso fanno parte 111 allievi ufficiali, di cui 24 donne, e 10 provenienti da scuole militari di paesi esteri, che nel prossimo periodo — sempre nel totale rispetto dei protocolli sanitari in vigore — conosceranno in prima persona le peculiari attività svolte da un’unità navale in un contesto operativo. Alla partenza del De la Penne ha assistito il Comandante in capo della Squadra navale, ammiraglio di squadra Enrico Credendino, che dopo l’indirizzo di saluto si è trasferito in plancia per assistere alla

fase di disormeggio della nave dalla Stazione Navale Mar Grande. Al comando del capitano di vascello Massimo Bonu, il De La Penne è inserito nell’operazione Mare sicuro da giugno 2020, il dispositivo aeronavale che garantisce attività di presenza, sorveglianza e sicurezza marittima nel Mediterraneo centrale e nello Stretto di Sicilia. Sin dai primi giorni d’imbarco, gli allievi toccano con mano l’importanza di tutte le componenti di bordo per la riuscita della missione, sperimentando il valore delle campagne addestrative nel processo di formazione dei futuri ufficiali. La campagna d’istruzione del De La Penne si concluderà il 19 settembre 2021, a Livorno.

Appontaggio del primo F-35B della Marina Militare sulla portaerei

Cavour

Cavour di operare con i velivoli di quinta generazione. L’F-35B, protagonista dell’operazione, è il terzo velivolo assegnato alla Marina Militare e appena ritirato dallo stabilimento di assemblaggio di Cameri (NO), mentre i due precedenti si trovano negli Stati Uniti per svolgere attività addestrativa a favore dei L’indirizzo di saluto rivolto dal Comandante in capo della Squadra navale, ammiraglio di squadra Enrico Credendino, all’equipaggio del cacciatorpediniere LUIGI DE LA PENNE, partito da Taranto il 27 luglio 2021 per la crociera d’istruzione a favore degli allievi della 2a Classe dell’Accademia navale. In basso: l’intervento del piloti dell’Aviazione navale italiana. Presente all’evento, il Capo di Stato Maggiore della Marina Militare, ammiraglio di squadra Giuseppe Cavo Dragone, a bordo della portaerei CAVOUR, dopo il primo appontaggio di un velivolo F-35B dell’Aviazione navale, avvenuto il 30 luglio 2021. Capo di Stato Maggiore della Marina Militare, ammiraglio di squadra Giuseppe Cavo Dragone, ha ribadito che esso rappresenta «un grande passo verso l’obiettivo strategico di dotare la Difesa e l’Italia, di una capacità portaerei con aerei imbarcati di ultimissima generazione. Una capacità che ci proietta in un’élite di pochi paesi al mondo elevando, quindi, il livello e il peso internazionale dell’Italia». L’arrivo degli F-35B costituisce una tappa fondamentale nel processo di sostituzione degli AV-8B «Harrier II Plus»: da parte sua, la Marina Militare conta di ottenere entro il 2024 la capacità operativa iniziale (IOC, Initial Operational Capability) e, successivamente la Final Operational Capability (FOC), dopo la consegna dell’ultimo velivolo a essa destinata. L’arrivo a bordo del terzo F-35B consente di iniziare l’addestramento per i pi-

Il 30 luglio, a bordo della portaerei Cavour in navigazione, è appontato per la prima volta un velivolo F-35B della Marina Militare, dopo l’attività di prova e certificazione effettuata dall’unità con i velivoli statunitensi durante la campagna «Ready for Operations» (RFO) conclusa a fine aprile 2021 e il cui esito positivo consente al

loti all’acquisizione della cosiddetta «Caratteristica Bravo», ovvero l’abilitazione all’appontaggio e al decollo dai ponti di volo delle unità navali della Marina, che nel caso dei velivoli ad ala fissa che operano da portaerei prende il nome di «Carrier Qualification» (CQ).

La Marina Militare alla VII International Maritime Security Conference

Organizzata a Singapore dalla Marina locale e dalla S. Rajaratnam School of International Studies, la VII International Maritime Security Conference è stata dedicata alla sicurezza marittima nell’era post-pandemica. All’evento hanno partecipato, di persona o virtualmente, politici, diplomatici, esperti e rappresentanti delle forze navali di 28 nazioni, fra cui le Marine dei principali paesi dell’area Indo-Pacifico, tra cui Stati Uniti, Cina, Giappone, Australia e Malesia, oltre naturalmente a Singapore; invitati anche Regno Unito, Francia, Germania e Italia, alla sua prima partecipazione. La delegazione italiana era guidata dall’ammiraglio di divisione Valter Zappellini, in rappresentanza del Capo di Stato Maggiore della Marina, e composta anche dall’addetto per la Difesa dell’ambasciata italiana a Singapore, capitano di vascello Armando Paolo Simi, e dal capitano di fregata Luigi Ciranna. La conferenza si è articolata in quattro sezioni, dedicate rispettivamente alla salvaguardia della pace e della risorse marittime nell’era post-pandemica, alla connettività e resilienza nell’ambiente marittimo post-pandemico, all’ordine marittimo basato su regole nella nuova era post-pandemica e alla sicurezza marittima e cooperazione nell’area Asia-Pacifico, sezione quest’ultima riservata alle questioni militari. La discussione ha riguardato gli impatti sul commercio internazionale delle restrizioni agli spostamenti e delle chiusure dei confini nazionali dovute alla pandemia; i partecipanti all’evento hanno ribadito la centralità della Convenzione ONU di Montego Bay (UNCLOS) come base del diritto marittimo internazionale, auspicandone il suo pieno rispetto. In apertura dei lavori, il ministro della Difesa di Singapore, Ng Eng Hen, ha espresso l’auspicio che la situazione si regolarizzi quanto prima, a fronte di una perdurante interdipendenza delle economie nazionali; fondamentale quindi il mantenimento dell’apertura delle rotte commerciali, la cui sicurezza è affidata ai militari. In quest’ambito, la crescente affidabilità dei sistemi di comando e controllo favorisce la crescita della fiducia reciproca e, conseguentemente, un sempre maggiore scambio di informazioni fra le Marine.

Impegno costante della Marina Militare nel Corno d’Africa

Dopo oltre 140 giorni in mare in qualità di flagship dell’operazione «Atalanta» per il contrasto alla pirateria e passato il testimone alla fregata spagnola Navarra, la fregata Carabiniere della Marina Militare è rientrata a Taranto a 13 agosto 2021. Impegnativi e diversi gli obiettivi assegnati, come molteplici e soddisfacenti sono stati i risultati conseguiti dal Carabiniere durante la sua attività nell’ambito dell’EUNAVFORCE Somalia, che nella 37a rotazione conclusa è stata comandata dal contrammiraglio Luca Pasquale Esposito, coadiuvato da uno staff internazionale di 10 persone. La cerimonia del passaggio di consegne tra i «Force Commanders», svoltasi a bordo del Carabiniere, ormeggiata a Gibuti, è stata presenziata dall’«Operation Commander», l’ammiraglio spagnolo José M. Nunez Torrente, che nel suo discorso ha sottolineato come durante il periodo operativo a guida italiana tutti gli obiettivi siano stati pienamente raggiunti. La presenza continua della Marina Militare nel Corno d’Africa è adesso assicurata dalla fregata Martinengo, che da fine agosto al prossimo dicembre sarà chiamata a svolgere molteplici attività tese a prevenire ed eventualmente reprimere atti di pirateria nelle aree marittime di interesse dell’operazione, a tutela della libertà di navigazione del traffico mercantile nelle acque del Mar Rosso, del Golfo di Aden e dell’Oceano Indiano. Il Martinengo è impegnato nella scorta ai mercantili assegnati al World Food Programme (WFP) e utilizzati per trasportare aiuti umanitari per conto dell’ONU) e di quelli impiegati nell’ambito dell’African Union Mission in Somalia (AMISOM): l’equipaggio italiano sarà impegnato anche in attività definite di Civilian and Military Cooperation (CIMIC), allo scopo di fornire supporto e beni di prima necessità alle popolazioni locali, oltreché al monitoraggio delle attività di pesca al largo della costa somala.

Prove in mare per il Trieste

Il 12 agosto 2021 e in accordo con le attuali prescrizioni sanitarie vigenti, si è svolta nelle acque del golfo della Spezia, la prima uscita in mare del Trieste, la nuova unità

La portaeromobili d’assalto anfibio TRIESTE della Marina Militare, ripresa

nel corso della prima uscita in mare di prova, avvenuta nel Golfo della Spezia il 12 agosto 2021 (Foto G. Arra).

d’assalto anfibio della Marina Militare; l’evento ha avuto luogo a circa tre anni e mezzo dall’impostazione del primo blocco sullo scalo nell’ambito dell’allestimento dell’unità nel cantiere integrato di Fincantieri Muggiano, alla periferia della Spezia. Le prove in mare sono articolate secondo un complesso e variegato programma di test, che vedrà l’unità impegnata, per oltre un anno, in attività volte a verificare la funzionalità dei sistemi di piattaforma e combattimento: tali attività sono condotte da personale tecnico delle aziende coinvolte nella costruzione e nell’allestimento del Trieste, sotto la supervisione della Marina Militare, per assicurare il rigoroso rispetto dei requisiti militari contrattuali. La realizzazione della nuova unità — interamente costruita presso lo storico e rivitalizzato cantiere navale di Castellammare di Stabia (Napoli) — rientra nell’importante quadro del programma navale di rinnovamento della flotta militare d’altura italiana, avviato con la legge di stabilità 2014. Come noto, il Trieste è una «Landing Helicopter Dock, LHD», caratterizzata dal distintivo ottico L 9890 e progettata per svolgere missioni ad ampio spettro, sfruttando la sua intrinseca flessibilità d’impiego e di riconfigurazione di capacita. È quindi in grado di esprimere, senza soluzione di continuità, una rilevante proiezione di forza a lungo raggio, sul mare e dal mare, mediante molteplici assetti operativi, militari e di supporto umanitario, con elevata prontezza e ovunque sia richiesto. Il Trieste può ospitare un NATO Maritime Component Command o un comando di task force anfibia, nonché trasportare e proiettare a terra una forza anfibia di circa 600 elementi, impiegando il suo ampio bacino allagabile, nonché i più moderni aeromobili oggi in dotazione alla Marina Militare. In chiave dual use, la sua flessibilità d’impiego e la presenza a bordo di un ospedale dotato di capacità diagnostica autonoma, operatoria, e ricovero con possibilità di assicurare trattamenti di terapia intensiva, consentirà al Trieste di concorrere alle attività interministeriali di soccorso umanitario in occasione di eventi straordinari/calamità naturali. Con una lunghezza fuori tutto di 245 metri, un dislocamento di circa 38.000 tonnellate a pieno carico, e un ponte di volo lungo 230 metri e largo 55 metri circa (comprensivo degli elevatori), la nave anfibia multiruolo Trieste, varata il 25 maggio 2019 a Castellammare di Stabia, si prepara a essere consegnata alla Marina Militare a fine 2022, rappresentando, di fatto, la più grande unità navale mai costruita in Italia dal secondo dopoguerra a oggi, in totale e rigorosa sinergia di intenti — nel campo marittimo — tra la Marina Militare e l’industria nazionale specializzata nella cantieristica e nella sistemistica navale, a dimostrazione delle capacità progettuali e tecnologiche nel mondo.

Al via il Nastro Rosa tour

Organizzato dalla Marina Militare, Sailing Series International e Difesa Servizi S.p.A., il 26 agosto ha preso il via dal Porto Antico di Genova il Nastro Rosa Tour 2021, formato dall’evento offshore, che si disputa utilizzando i Beneteau Figaro 3, e da quello inshore, le cui emozioni sono garantite dall’evoluzione dei catamarani Diam 24. Per quanto riguarda l’altura, che lungo la tratta Genova-Napoli assegnerà il titolo europeo della disciplina Double Handed Mixed Offshore, i partecipanti provengono da Austria, Belgio, Gran Bretagna, Italia (due team), Spagna, Svezia, Sudafrica, Stati Uniti (due team): i team italiani sono formati da Andrea Pendibene e Giovanna Valsecchi, portacolori della Marina Militare che da diverse stagioni navigano in coppia, e da Alberto Bona e Cecilia Zorzi. Nel Nastro Rosa Tour esperienze e tradizioni marinaresche si fondono dunque con il moderno sport velico, emblema del legame tra cultura marittima e valori alla base della formazione di ogni marinaio, di cui la Marina Militare è custode.

REPUBBLICA POPOLARE CINESE Nuove prove in mare per la seconda LHD «Type 075»

Secondo informazioni pervenute all’inizio di agosto 2021, si è appreso che la seconda LHD classe «Yushen», nota anche come «Type 075», della Marina della Repub-

blica Popolare Cinese ha iniziato una nuova serie di prove in mare. Costruite nei cantieri Hudong-Zhonghua di Shanghai, queste unità hanno capacità superiori al naviglio d’assalto anfibio finora realizzato per la Marina cinese, conferendo a quest’ultima le capacità di impiegare diversi tipi di elicotteri e mezzi da sbarco per la proiezione dal mare di reparti da sbarco. A tal fine, le unità classe «Yushen» sono dotate di un ponte di volo esteso per tutta la lunghezza della nave e un bacino allagabile: il loro dislocamento è pari a circa 36.000 tonnellate, mentre il reparto aereo imbarcato sarà formato da 30 elicotteri. La propulsione è assicurata da quattro motori diesel, mentre l’armamento è articolato su due impianti per la difesa di punto tipo HHQ-10 e altrettanti tipo H/PJ11.

RUSSIA Modifiche nel rischieramento degli SSBN più moderni

L’11 maggio il quotidiano Izvestia ha riportato che dopo la recente esercitazione militare «Umka 2021», svoltasi nell’area del Circolo Polare Artico con la partecipazione di tre sottomarini russi, la Marina della Federazione Russa ha intrapreso una revisione dello schieramento dei propri sottomarini nucleari lanciamissili balistici (SSBN), in modo da contrastare le possibili minacce derivanti da una differente tattica d’impiego delle forze militari NATO operanti alle elevate latitudini settentrionali. In precedenza, il ministero della Difesa di Mosca aveva divulgato notizie frammentarie relative al dispiegamento dei battelli lanciamissili inquadrati nella 25a Divisione sottomarini/16a Squadriglia della Flotta del Pacifico, basati a Petropavlovsk-Kamchatskiy. Tuttavia, sembra che almeno uno dei battelli classe «Dolgoruky/Project 955A», tuttora in costruzione o allestimento, sarà invece assegnato alla Flotta del Nord: inoltre uno dei battelli della stessa classe, già in servizio con la predetta 25a Divisione potrebbe essere trasferito dalla Flotta del Pacifico alla Flotta del Nord. La 31a Divisione sottomarini/12a Squadriglia di base a Gadzhiyevo è attualmente formata dallo Yuriy Dolgorukiy e dal Knyaz Vladimir, mentre alla Flotta del Pacifico sono assegnati l’Alexandr Nevsky e il Vladimir Monomakh. Il Knyaz Vladimir è stato uno dei tre sottomarini partecipanti all’esercitazione «Umka 2021» emersi contemporaneamente sulla banchisa artica, un evento mirato soprattutto a rafforzare l’immagine e le capacità dei battelli russi a beneficio dell’opinione pubblica russa. Anche se non è ancora noto quale sarà l’assegnazione dei sottomarini lanciamissili classe «Dolgoruky» in costruzione, è opportuno ricordare che sei di essi si trovano sugli scali in vari stadi di costruzione e allestimento: si tratta del Knyaz Oleg (di previsto ingresso in servizio nel 2021), del Generalissimo Suvorov, dell’Imperator Alexander III, del Knyaz Pozharskiy, del Dmitry Donskoy e del Knyaz Potemkin; l’entrata in servizio degli ultimi due è programmata per il 2026-27. Se questa programmazione verrà rispettata, alla fine del presente decennio, la Marina russa avrà in servizio 10 sottomarini nucleari lanciamissili balistici appartenenti alla più recente generazione progettuale russa.

Celebrato il 325° anniversario della Marina russa

Il 25 luglio 2021 è stato celebrato il 325° anniversario della fondazione della Marina russa, con diverse manifestazioni in Russia e all’estero: l’evento principale si è svolto a San Pietroburgo, con una parata navale lungo il corso del fiume Neva. Altre manifestazioni hanno avuto luogo nelle basi navali di Caspiisk, Severomorsk, Sevastopol, Baltijsk e Vladivostok, nonché a Tartus, in Siria. A San Pietroburgo hanno defilato oltre 50 unità navali di superficie di varie dimensioni, nonché sottomarini, velivoli ad ala fissa ed elicotteri, per un totale di circa 4.000 uomini e donne. Fra le unità navali russe, di rilievo la presenza del cacciatorpediniere Marshal Ustinov, della fregata Admiral Kasatonov, delle corvette Gremyashchy e Stoiky, delle unità da trasporto e sbarco Vice Admiral Kulakov, Pyotr Morgunov e Minsk e dei dragamine Alexander Obukhov e Vladimir Yemelyanov; presente all’evento, ma in forma statica, anche il sottomarino nucleare lanciamissili balistici Knyaz Vladimir (classe «Borey-A»). Erano presenti anche unità delle Marine di India, Pakistan e Iran.

Varo del sottomarino Krasnoyarsk

Il 30 luglio, nel cantiere del gruppo Sevmash di Severodvinsk, è stato varato il sottomarino nucleare lanciamissili da crociera Krasnoyarsk, appartenente alla classe

«Yasen-M/Project 885M»: si tratta del terzo battello della classe, impostato nel luglio 2014. La Marina russa ha in servizio il Severodvinsk, battello di pre-serie, appartenente alla classe «Yasen/Project 885» e il cui progetto è stato modificato con alcune migliorie che hanno dato vita al «Project 885-M»: a quest’ultimo, appartiene anche il Kazan, varato nel 2017, e il Novosibirsk, varato nel 2019. I sottomarini nucleari lanciamissili da crociera saranno distribuiti fra le Flotte del Nord e del Pacifico; da parte sua, Sevmash ha in corso la costruzione di altri sei battelli della classe «Yasen-M», vale a dire Arkhangelsk, Perm, Ulyanovsk, Voronezh e Vladivostok. L’entrata in servizio di quest’ultimo, programmata per il 2028, concluderà il programma costruttivo, formato così da sei esemplari, a cui si aggiunge il già citato battello di pre-serie Severodvinsk.

STATI UNITI Test dei missili antimissili balistici SM-6

SINGAPORE Test operativi con naviglio contromisure mine a controllo remoto

La stampa locale ha riportato che a metà luglio la Marina di Singapore ha condotto una campagna di prove con un paio di unità per contromiusure mine a controllo remoto (genericamente denominate «Mine CounterMeasures Unmanned Surface Vessels», MCMUSVs), impegnate a neutralizzare un bersaglio sommerso localizzato al largo della Southern Island: i due MCMUSVs erano a loro volta equipaggiati veicoli subacquei a controllo remoto «K-Ster», prodotti dalla società ECA Group. Il «K-Ster C», è un mezzo spendibile di peso e dimensioni contenute, impiegato per la neutralizzazione delle mine navali mediante una carica esplosiva: esso è equipaggiato con un software che gli permette di indirizzare l’esplosione in modo da neutralizzare mine da fondo, mine ancorate, le vecchie mine galleggianti e anche gli ordigni più sofisticati; la propulsione del «KSter C» è dimensionata per contrastare correnti sottomarine di elevata intensità, nonché di avvicinarsi quanto più possibile all’ordigno da neutralizzare.

Il 24 luglio, l’US Missile Defense Agency (MDA, ente interforze del Pentagono), in cooperazione con l’US Navy, ha condotto a nordovest delle Hawaii un test denominato «Flight Test Missile 33, FTM-33» e a cui ha partecipato il cacciatorpediniere lanciamissili Ralph Johnson (DDG 114). L’unità è una delle più recenti della classe «Arleigh Burke» ed è equipaggiata con l’ultima versione del sistema di gestione operativa «Aegis» e con i missili superficie-aria «Standard SM6», il tutto ottimizzato per la difesa contro i missili balistici a breve-medio raggio, con l’intercettazione del bersaglio nella fase terminale della sua traiettoria. Infatti, l’obiettivo del FTM-33 era l’intercettazione di due ordigni di questa categoria, per mezzo di una salva di quattro missili. Un bersaglio è stato colpito, mentre dalle informazioni trapelate sembra che il secondo missile-bersaglio non sia stato colpito, confermando quindi la complessità di questo tipo di test. Originariamente previsto per essere svolto nel dicembre 2020, l’FTM-33 è stato ritardato a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia e non è da escludere che l’intenzione di portarlo comunque a termine sia la causa di una non corretta procedura di preparazione; in ogni caso, il personale dell’MDA è impegnato nell’analisi dei dati ottenuti durante il Un’unità per contromisure mine a controllo remoto — «Mine CounterMeasures Unmanned test e delle prestazioni del binomio Surface Vessels, MCMUSVs» — della Marina di Singapore impegnata in un test di identificazione e distruzione di un bersaglio subacqueo (MoD Singapore). «Aegis/SM-6», in modo da poter ripetere la prova della doppia intercettazione.

Al lavoro sul progetto di un nuovo sottomarino nucleare d’attacco

L’US Navy ha ricevuto dal Congresso degli Stati Uniti un milione di dollari per iniziare le attività di ricerca e sviluppo relative al programma per una classe di sottomarini a propulsione nucleare di nuova generazione — al momento denominato SSN(X) — destinato a sostituire nel lungo termine i battelli classe «Virginia». Lo scafo delle nuove unità potrebbe avere un diametro superiore a quello di questi ultimi ed essere quindi comparabile con quello dei precedenti battelli classe «Seawolf», di cui sono stati realizzati soltanto tre esemplari a causa dei costi elevati: l’obiettivo è quello di ottimizzare e progettare le nuove unità per consentire il contrasto di potenziali minacce future nei domini subacqueo e di superficie, traendo vantaggio da tecnologie avanzate disponibili nei settori della propulsione, del silenziamento acustico e dei sistemi d’arma e sensori. Secondo gli organi di ricerca del Congresso e tenendo conto della programmazione trentennale per le nuove costruzioni dell’US Navy — peraltro aggiornata periodicamente —, il primo SSN(X) dovrebbe essere finanziato nel 2031, mentre nei due anni successivi verrebbero finanziati gli ultimi quattro battelli della classe «Virginia»: ciò consentirebbe il finanziamento di due SSN(X) all’anno a partire dal 2034. Nel corso del primo trimestre di quest’anno, i contenuti della predetta programmazione trentennale sono stati aggiornati prevedendo un incremento della flotta subacquea statunitense da 66 a 72-78 sottomarini nucleari d’attacco, un obiettivo teoricamente da raggiungere nel quarto decennio del XXI secolo, ammesso che le risorse finanziarie siano effettivamente disponibili. Il concetto dei nuovi SSN(X) ripropone l’enfasi sulle operazioni antisommergibili, attraverso un incremento della velocità in immersione e delle misure di stealthness subacquea rispetto a quanto già presente sui «Virginia»; inoltre, i nuovi battelli avranno un carico utile più cospicuo e diversificato, in modo da contrastare unità subacquee nemiche e mezzi subacquei a controllo remoto e coordinarsi con unità e altri mezzi di superficie e aerei alleati. Una recente relazione del Congresso afferma che l’US Navy sta esaminando tre opzioni progettuali preliminari, cioè un progetto basato su quello dei «Virginia», uno basato sui sottomarini nucleari lanciamissili balistici classe «Columbia» (di cui è in corso la fabbricazione dei primissimi elementi) e un progetto totalmente nuovo. Fonti dell’industria subacquea statunitense hanno dichiarato che il diametro dello scafo resistente degli SSN(X) potrebbe essere pari a 10,3 metri, cioè simile a quello dei «Seawolf» e dei «Columbia» (rispettivamente 12,1 e 13 metri): un altro rapporto del Congresso risalente a qualche mese fa ha stimato che il costo medio per ogni SSN(X) dovrebbe aggirarsi fra 5,8 e 6,2 miliardi di dollari. In materia di nuove tecnologie, i nuovi sottomarini potrebbero disporre di armi a energia diretta, sensori elettroacustici passivi più avanzati e di dimensioni cospicue, computer quantistici, volumi interni in grado di accogliere un maggior numero di armi e mezzi subacquei a controllo remoto, propulsione elettrica molto silenziosa, lanciatori verticali per missili da crociera e ordigni ipersonici e superfici di governo poppiere a «X» per una migliore manovrabilità in immersione.

Ritirata dal servizio la Littoral Combat Ship Independence

L’unità capoclasse della variante «Independence» Delle Littoral Combat Ship/LCS (scafo a trimarano) è stata ritirata dal servizio nel corso di una cerimonia svoltasi in forma ridotta il 29 luglio nella base navale di San Diego e a cui hanno partecipato i componenti dell’equipaggio iniziale; l’evento ha concluso una carriera durata circa 15 anni, costellata da numerosi problemi che hanno costretto l’US Navy a impiegare l’Independence come piattaforma sperimentale della sua categoria piuttosto che come un’unità operativa vera e propria, anche al fine di raccogliere informazioni per prevenire e risolvere i problemi riscontrati su altre unità della classe. Il carattere sperimentale dell’Independence è stato rimarcato dall’ammiraglio di squadra Roy Kitchener, comandante della componente di superficie dell’US Pacific Fleet, che ha ricordato come l’unità sia stata impiegata anche per la validazione di concetti operativi legati alla configurazione dei sistemi imbarcati. L’ammiraglio Kitchener ha inoltre ribadito che il lavoro svolto dall’Independence e dal suo equipaggio (9 ufficiali e 41 fra sottufficiali e graduati) ha consentito all’US Navy di impiegare operativamente sei unità similari, dispiegandone alcune anche al di fuori degli Stati Uniti. La LCS Independence è la

sesta unità dell’US Navy a portare questo nome: la prima era una cannoniera costiera risalente ai tempi della Rivoluzione americana del 1776, mentre la seconda era un’unità di linea varata nel 1814 ed equipaggiata con 74 cannoni. La terza Independence era un’unità ausiliaria utilizzata nella Prima guerra mondiale e oltre, mentre la quarta era una portaerei leggera eponima della classe entrata in linea nel 1943 e distintasi nelle operazioni aeronavali condotte nel Pacifico durante la Seconda guerra mondiale. La quinta Independence era una portaerei entrata in servizio nel 1959 e che concluse il suo periodo di servizio nel 1998. Dopo il ritiro dal servizio della LCS Independence, l’US Navy ha in linea altre 22 Littoral Combat Ship nelle due configurazione con scafo a trimarano e monocarena tradizionale, mentre altre si trovano in vari stadi di costruzione e allestimento. Pertanto, va ricordato che il 7 agosto è stata varata la LCS 27, battezzata Nantucket e in versione monocarena: l’evento ha avuto luogo nel cantiere Fincantieri Marinette Marine, dove altre sei unità si trovano in costruzione. Battesimo dell’Hyman Rickover e ingresso in linea del Vermont

Proseguendo con una tradizione risalente alla classe «Los Angeles», l’US Navy ha dato il nome di Hyman G. Rickover al più recente sottomarino nucleare d’attacco classe «Virginia Block IV», caratterizzato dal distintivo ottico SSN 795: la cerimonia dell’evento ha avuto luogo il 31 luglio nel cantiere navale di Groton, nel Connecticut, appartenente alla società General Dynamics’ Electric Boat. L’ammiraglio James Caldwell, responsabile dei programmi navali nucleari dell’US Navy, ha ricordato l’operato dell’ammiraglio Rickover, rimasto in servizio per 63 anni e pioniere dell’adozione dell’energia atomica a bordo di unità di superficie e subacquee statunitensi,

L’HYMAN G. RICKOVER (SSN 795), il più recente sottomarino nucleare d’attacco classe «Virginia Block IV» in

costruzione per l’US Navy, così battezzato il 31 luglio 2021 per onorare il pioniere dell’adozione dell’energia atomica a bordo di unità di superficie e subacquee statunitensi (US Navy).

nonché artefice dei requisiti operativi e delle procedure d’impiego degli impianti e dell’addestramento del personale addetto alla loro condotta. Il precedente (SSN 709) era anch’esso un sottomarino d’attacco a propulsione nucleare, appartenente alla classe «Los Angeles», entrato in servizio a Groton nel luglio 1984, ritirato nel dicembre 2007 e a cui furono conferiti diversi riconoscimenti ufficiali. Da completare entro il 2021 e da inquadrare nel «Submarine Squadron Four», il nuovo Hyman G. Rickover ha un dislocamento di 7.835 tonnellate, un equipaggio di 132 uomini e donne e una dotazione sistemistica comprendente 12 tubi di lancio verticale per missili da crociera e quattro tubi di lancio tradizionali da 533 mm per l’impiego di siluri, missili antinave e mine. Il 28 agosto è invece entrato in servizio nell’US Navy il sottomarino Vermont (SSN 792), anch’esso della classe «Virginia Block IV» e le cui peculiarità riguardano alcune modifiche progettuali finalizzate a ridurne i costi di esercizio nel corso dell’intero ciclo di vita.

Concluse le prove preliminari dell«Enterprise Air Surveillance Radar, EASR»

L’US Navy e la società Raytheon Missiles & Defense hanno completato una prima serie di prove sul nuovo «Enterprise Air Surveillance Radar, EASR» nel poli-

gono di Wallops Island, a largo della Virginia. Scopo delle prove è stato la validazione delle prestazioni previste per le due varianti dell’EASR, vale a dire la AN/SPY-6(V)2 ad antenna rotante e la AN/SPY-6(V)3 a facce fisse. Entrambe le varianti sono designate per scoprire e tracciare simultaneamente bersagli aerei e navali, anche non pilotati, nonché per contribuire alla guerra elettronica e al controllo del traffico aereo a favore di velivoli imbarcati su portaerei e portaelicotteri dell’US Navy. L’EASR sostituirà i radar delle generazioni precedenti: la variante AN/SPY-6(V)2 è destinata alle grandi portaelicotteri d’assalto anfibio e alle portaerei classe «Nimitz», mentre la variante AN/SPY-6(V)3 sarà imbarcata sulle portaerei classe «Ford» e sarà compatibile per essere installata sulle fregate classe «Constellation», nonché su unità analoghe eventualmente costruite per Marine estere.

Al via la costruzione della quarta portaerei classe «Ford»

Con il taglio della prima lamiera, il 25 agosto è stata avviata la costruzione della quarta portaerei classe «Ford», evento svoltosi nei cantieri Newport News Shipbuilding del gruppo Huntington Ingalls Industries. All’unità è stato assegnato il nome di Doris Miller, per onorare la memoria di un marinaio afro-americano distintosi durante l’attacco di Pearl Harbor; la portaerei sarà inoltre il secondo esemplare della classe costruito impiegando piani generali e procedure digitalizzate. L’impostazione del Doris Miller (CVN 81) è prevista per il 2026, mentre la consegna all’US Navy è stata programmata per il 2032.

TURCHIA Operativo il drone di superficie «Ulaq»

Il primo mezzo navale di superficie da combattimento a controllo remoto prodotto in Turchia, noto come «Ulaq», ha eseguito con successo le prove di lancio di un missile a guida laser «Cirit» contro un bersaglio terrestre: l’evento ha avuto luogo nel corso dell’esercitazione della Marina turca «Denizkurdu 2021», svoltasi il 26 e 27 maggio nelle acque del Mediterraneo orientale, a ridosso del mar Egeo. Sviluppato congiuntamente dai cantieri turchi Ares e dalla società Meteksan Defence, l’«Ulaq» è stato varato a gennaio 2021 ed è stato impegnato nelle prove in banchina e in mare, completandole all’inizio di maggio. Durante l’esercitazione «Denizkurdu 2021», il mezzo ha utilizzato il missile «Cirit» dotato di testata bellica, colpendo un bersaglio posto a 4 chilometri di distanza. Queste attività si sono svolte al largo della costa di Antalya, con l’«Ulaq» controllato a distanza da una stazione costiera, incaricata di designare il bersaglio, governare il mezzo e lanciare il missile. L’evento ha avuto un’elevata risonanza nella stampa specializzata turca, che ha menzionato l’«Ulaq» quale primo esemplare al modo di mezzo di superficie a controllo remoto armato e operativo. Da parte loro, Ares e Meteksan hanno annunciato che fra breve prenderà il via la produzione di serie dell’«Ulaq», con l’obiettivo di costruirne 50 esemplari all’anno. Nel frattempo, ha preso il via anche la fase preliminare e concettuale per una variante del mezzo destinato alle operazioni antisommergibili, al fine di soddisfare uno specifico requisito della Marina turca. Michele Cosentino

Durante l’esercitazione della Marina turca «Denizkurdu 2021», il mezzo navale di superficie da combattimento a controllo remoto turco «Ulaq» ha eseguito con successo le prove di lancio di un missile a guida laser «Cirit» contro un bersaglio terrestre (Ares).

SCIENZAE TECNICA

I progetti statunitensi di Small Nuclear Reactor

In Italia l’industria nucleare, che fino agli anni Ottanta era una vera eccellenza nazionale, non esiste praticamente più, come conseguenza della scelta di abbandono della produzione di energia elettrica mediante centrali elettronucleari a seguito dei due referendum del 1987 e del 2011. In altri paesi, invece, esiste ancora un’industria nucleare, che studia e produce reattori nucleari per la produzione di energia elettrica sempre più economici e sicuri. L’energia nucleare in questi paesi è considerata una «energia pulita» in quanto non produce anidride carbonica o altre sostanze inquinanti tradizionali (ossidi di zolfo, ossidi di azoto, particolato, ecc.); secondo molti, però, la produzione di rifiuti radioattivi insita nel funzionamento di una centrale nucleare (combustibile esausto, acque contaminate, filtri e altro materiale di consumo, materiale proveniente da riparazioni e sostituzioni, e soprattutto il reattore stesso, che deve essere smaltito al termine della sua vita utile) è tale da non poter considerare l’energia nucleare come un’energia «pulita».

Tra i paesi che impiegano diffusamente l’energia nucleare vi sono gli Stati Uniti d’America, dove circa il 20% dell’energia elettrica consumato ha origine appunto in una centrale nucleare. Negli Stati Uniti l’industria nucleare è soggetta a stretti vincoli fissati dal potente Dipartimento dell’Energia (DoE) (1), il cui obiettivo è conciliare un elevatissimo livello di sicurezza con costi competitivi.

Uno dei programmi di punta del DoE è quello per gli Advanced Small Nuclear Reactors (SNRs). Si tratta di reattori che spaziano nel campo di potenza tra qualche decina e varie centinaia di MW, con possibili impieghi, oltre che per la generazione di energia elettrica, per la desalinizzazione dell’acqua, la produzione di calore o altri utilizzi industriali. Il liquido refrigerante usato per i progetti in stadio più avanzato è l’acqua leggera, impiegata nella maggior parte dei reattori commerciali; alcuni progetti di SNRs prevedono però l’impiego, come refrigerante di gas, metallo liquido o sale fuso.

Tra i vantaggi degli SNRs rispetto a impianti di dimensioni maggiori (gli impianti nucleari tradizionali hanno potenze dell’ordine di uno più GW, cioè migliaia di MW) ci sono le ridotte dimensioni, che consentono una più ampia scelta dei siti, il ridotto investimento inziale e la possibilità di futuri aumenti di dimensioni e potenza, sfruttando il concetto di modularità. Il DoE, dopo

Impressione artistica di un impianto basato sul concetto di Small Modular Reactor sviluppato dalla società statunitense NuScale Power visto dall’alto.

In basso: Mock-up in vera grandezza del terzo superiore di un piccolo reattore nucleare NuScale Power Module™ (businesswire.com/news, cortesia NuScale Power). Immagine artistica dell’edifico ove è installata una centrale elettrica basata su piccoli reattori nucleari modulari Power Module progettati dalla società NuScale. I moduli sono installati in una grande piscina, la cui acqua è usata per il raffreddamento del reattore (nuscalepower.com).

Immagine artistica di un Power Module trasportato su strada verso il sito della centrale, dopo essere stato interamente costruito in fabbrica (nuscalepower.com). In alto: impressione artistica di un impianto basato sul

concetto di Small Modular Reactor sviluppato dalla società statunitense NuScale Power visto dal

livello del suolo (businesswire.com/news, cortesia NuScale Power). Accanto: immagine artistica di un singolo Power Module della società NuScale (nuscalepower.com).

un primo periodo di supporto alla ricerca tecnologica, ha iniziato nel 2019 il programma Advanced SMR R&D, che prevede, mediante una partnership con la società NuScale Power di Portland (Oregon) e il fornitore di energia Utah Associated Municipal Power Systems (UAMPS) di sviluppare, nel corrente decennio, un primo prototipo di SNR raffreddato ad acqua, con l’obiettivo finale di risolvere i rimanenti problemi tecnologici e poter offrire, sia sul mercato interno statunitense che sul competitivo mercato internazionale, gli SNRs nel prossimo decennio.

Attualmente, secondo un report pubblicato nel 2020 dall’agenzia internazionale per l’energia atomica IAEA (2), ci sono infatti circa 50 progetti di SNRs in tutto il mondo, in diversi stadi di maturità, e in particolare ce ne sono 3 in costruzione in Argentina (CAREM, reattore PWR, la cui costruzione è iniziata nel 2011 e il cui completamento è previsto per il 2023), Cina (il reattore HTRPM progettato dall’università Tsinghua di Pechino, refrigerato a gas, attualmente in fase di prova, e che dovrebbe entrare in funzione nel 2021) e Russia; il primo impianto russo, l’impianto galleggiante «Akademik Lomonosov», dotato di 2 reattori KLT40-S da 35 MWe ciascuno, è già entrato in funzione (3), e la società Rosenergoatom, e lo studio di progettazione Afrikantov OBM, stanno proponendo il progetto in tutto il mondo, evidenziando i vantaggi di un impianto galleggiante rispetto a un impianto nucleare tradizionale, come per esempio il discorso che il combustibile nucleare per il funzionamento dell’impianto arriva all’interno dell’impianto stesso, senza transitare a terra; la sostituzione del combustibile esausto (refueling) avviene riportando la centrale nel paese d’origine via mare, e tutto il complesso, con il combustibile esausto al

I rompighiaccio a propulsione nucleare russi ARKTIKA (a sinistra) e SIBIR

(a destra) in costruzione presso il cantiere Baltic Shipyard di San Pietroburgo, nell’agosto 2018. Il primo dei due è stato recentemente consegnato. Questi rompighiaccio sono dotati ciascuno di 2 reattori nucleari RITM-200, dei quali è in corso di sviluppo una versione installata su di una chiatta destinata a fornire energia e calore in zone costiere (wikipedia/Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International license). Accanto: immagine artistica di un SNR ad acqua bollente tipo BWRX-300, il cui progetto è in corso di sviluppo da parte della società GE-Hitachi (Fonte: GE-Hitachi).

termine della vita utile del reattore, viene trasportato nel paese di costruzione del reattore, all’interno della struttura galleggiante, per essere smantellata (decommissioning): il combustibile radioattivo, durante tutto il ciclo di vita del reattore, non transita mai sul suolo della nazione che riceve l’energia prodotta. I reattori KLT40-S impiegati da questo impianto sono derivati da quelli impiegati per la propulsione di unità navali mercantili, tipo rompighiaccio, e sono allo studio versioni con potenza maggiore, basati sui reattori RITM200-M con potenza di 50 MWe ciascuno, sviluppati per la propulsione dei nuovi rompighiaccio nucleari russi classe «Artika», il primo dei quali è stato consegnato nel 2020. Si comprende quindi la preoccupazione del governo e dell’industria statunitense per il vantaggio nel quale si trova attualmente l’industria russa, capace di offrire una soluzione già sviluppata e sperimentata, seppure con tecnologie meno innovative. Ricordiamo ai lettori che la vendita di una centrale nucleare non è solo un affare commerciale, ma comporta la creazione di un legame politico tra lo Stato cliente e quello venditore, così come le vendite di armamenti sofisticati.

Il progetto di NuScale Power ha ricevuto, nell’agosto 2020, da parte delle autorità statunitensi l’approvazione finale. Alla base del progetto è il modulo Power Module™, capace di produrre 60 MWe di elettricità (a fronte di una potenza termica del reattore di 200 MWt), costruito interamente in fabbrica e trasportato in sito quando completo; il modulo è una versione in scala ridotta di un reattore ad acqua pressurizzata PWR, contraddistinto da elevata sicurezza e modularità; in condizioni normali la circolazione dell’acqua è naturale (basata sullo sfruttamento della gravità, della convezione e della conduzione), riducendo quindi la necessità di pompe e tubolature. Un impianto può comprendere fino a 12 Power Modules, raggiungendo potenze di oltre 700 MW, tipiche dei grandi impianti tradizionali. I Power Modules sono sommersi in una piscina all’interno di un edificio a prova di terremoti e di crash aereo.

Nell’ottobre 2020 il DoE ha firmato un accordo con una sussidiaria della società Utah Associated Municipal Power Systems (UAMPS), per il finanziamento di un impianto nucleare di generazione di energia elettrica composto da 12 Power Module NuScale, ubicato preso lo Idaho National Laboratory e nel 2022 è previsto l’ordine dei NuScale Power Modules™ da parte di UAMPS. Il programma prevede che la costruzione inizi nel 2025 e che il primo Power Module diventi operativo nel 2029.

Oltre al progetto NuScale Power, negli Stati Uniti è in corso lo sviluppo di altri 4 SNRs raffreddati ad acqua, tra cui il progetto di SNR ad acqua bollente (BWR) BWRX300 della società GE-Hitachi. Si tratta di un compatto reattore da 300 MWe (870 MWt) che incorpora tecnologie per aumentare la sicurezza di un reattore BWR, dove il reattore è raffreddato da acqua che diventa vapore all’interno del contenitore del reattore stesso (pressure vessel), a differenza dei più diffusi reattori PWR, dove l’acqua all’interno del contenitore rimane sempre allo stato liquido. Anche questo progetto è ancora in una fase abbastanza preliminare, e i primi impianti dovrebbero diventare operativi tra il 2027 e il 2030; la compagnia ha contatti con clienti in diversi paesi, tra cui Canada e Polonia. Gli altri progetti statunitensi di SNRs sono SMR-160 di Holtec International, Westinghouse SMR della Westinghouse Electric Company LLC, e mPower di BWX Technologies, Inc.

Claudio Boccalatte

NOTE

(1) https://www.energy.gov. (2) https://aris.iaea.org/Publications/SMR_Book_2020.pdf. (3) Si veda, La centrale nucleare galleggiante russa Akademik Lomonosov, di Claudio Boccalatte, in Rivista Marittima, luglio-agosto 2020, rubrica Scienza e tecnica, pagine 125-127.

CHECOSASCRIVONOGLIALTRI

«La Pace Fredda»e«The Longer Telegram. Toward a new American China strategy»

ASPENIA, N.92, MARZO 2021 - ATLANTIC COUNCIL, PAPER, JANUARY 2021

«Quando gli storici guarderanno al 2020, vi vedranno probabilmente uno spartiacque: un anno che, come il 1949 o il 1979, ha trasformato le relazioni della Cina con l’Occidente — leggiamo nell’Editoriale della rivista trimestrale di affari internazionali firmato da Marta Dassù e Roberto Menotti — La gestione della pandemia ha alterato i rapporti di forza a vantaggio di Pechino. E ha provocato una reazione dura dell’America, con Trump prima e con Biden oggi. L’America ha ritrovato un “nemico sistemico” esterno: contenere la Cina è l’unico obiettivo politico realmente condiviso, che potrà in parte compensare le ferite interne del paese». In buona sostanza si preannuncia una «competizione estrema», per usare la formula utilizzata proprio dal neopresidente Biden alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, una «competizione» che, in qualche modo, ricorda il vecchio confronto bipolare con l’Unione Sovietica. Ed è questo lo schema di una «Nuova Guerra Fredda», secondo alcuni analisti (tra cui ricordiamo il bel libro di Federico Rampini, La Seconda Guerra Fredda) fra la superpotenza del secolo scorso, gli Stati Uniti e la sua principale sfidante di oggi, la Cina. «In realtà, la storia non si ripete mai esattamente», ammoniscono correttamente gli Autori, nel senso che, a differenza dell’Unione Sovietica, la Cina di oggi è fortemente integrata nel sistema economico globale, dove esercita un peso quanto mai rilevante e ciò complica enormemente la risposta occidentale. Il modello cinese inoltre, che combina autoritarismo e capitalismo, non ha aspirazioni universali ma, rispetto al sistema sovietico di un tempo, funziona infinitamente meglio. La «competizione estrema» fra Cina e Stati Uniti non prelude però a un «decoupling assoluto» fra le due economie (troppo oneroso sarebbe per l’America stessa e il suo business), ma semmai a un «decoupling parziale», «anzitutto e soprattutto in campo tecnologico». Uno scenario possibile come risultato della gara in corso per il predominio tecnologico, è che si crei nel tempo — prospettano gli Autori — una «sfera tecno-autoritaria» dominata dalla Cina, in opposizione a una «sfera liberale» dominata da standard occidentali. Tecno-autoritarismo versus tecno-democrazia allora? L’esito della competizione estrema, dopo lo spartiacque della pandemia, potrebbe essere proprio questo, senza un vero vincitore globale. «Una guerra hi-tech in tempi di pace: ovvero una “pace fredda”»,come indica il titolo del numero in questione. In particolare poi nello scorso gennaio, l’Atlantic Council con sede a Washington D.C., uno dei più autorevoli think tank americani, ha pubblicato un Paper anonimo intitolato The Longer Telegram. Toward a New American China Strategy, scritto da un ex alto funzionario governativo americano, nel quale si prospetta, ancora una volta, come la Cina rappresenti la sfida più importante per gli Stati Uniti nel XXI secolo e, per affrontare questa sfida, gli Stati Uniti hanno urgente bisogno di «una strategia nazionale integrata, operativa e bipartisan» (testo integrale in https://www. atlanticcouncil.org/ content-series/atlantic-council-strategy-paper-series/thelonger-telegram), al quale l’Editoriale in parola dedica un ampio commento. Un testo che ovviamente non può non ricordarci il più celebre Long Telegram che George Kennan, diplomatico americano in servizio a Mosca, mandò al Dipartimento di Stato nel febbraio del 1946, gettando le basi concettuali della strategia di contenimento statunitense dell’Unione Sovietica durante il confronto bipolare, «trainata da un mix di pressioni economiche e politiche, combinate alla deterrenza militare». Ebbene, secondo il «longer telegram» dell’Atlantic Council, in estrema sintesi, gli Stati Uniti dovranno puntare innanzitutto a uno scenario strategico «principale» (la capacità cioè dell’America e dei suoi alleati — democrazie europee e asiatiche — di «continuare a dominare l’equilibrio di potenza regionale e globale»), e quindi a uno «secondario», seppur considerato poco rea-

listico (la possibilità cioè che la leadership nazionalista di Xi Jinping venga sostituita da una leadership del partito «più moderata»). Certo è che «i paragoni storici vanno sempre maneggiati con cautela» nel senso che «l’Anonimo autore del documento riconosce le differenze fra l’avversario di un tempo (Unione Sovietica) equello di oggi (Cina). «Quando George Kennan scrisse il suo telegramma, parlando del fallimento probabile del sistema sovietico, la superiorità del modello americano era nettissima ed evidente. Oggi — leggiamo nel LongerTelegram — questo assunto non può più essere dato per scontato. Il compito di oggi, infatti, va molto al di là del problema di affrontare le vulnerabilità interne della Cina, e si estende anche alle fragilità degli Stati Uniti. Senza agire su entrambi i fronti, gli Stati Uniti falliranno!».

«Russia in the Mediterranean: Here to Stay»

CARNEGIE ENDOWMENTFOR INTERNATIONAL PEACE, PAPER, MAY27, 2021 «La strategia della Russia nel Mediterraneo è parte integrante della sua strategia per il più ampio teatro europeo, che è stata a lungo l’arena principale dei suoi trionfi e battute d’arresto in politica estera — scrivono Eugenio Rumer e Richard Sokolsky, due studiosi che fanno capo al prestigioso think tank statunitense fondato nel lontano 1910 dal filantropo e imprenditore d’origine scozzese naturalizzato americano Andrew Carnegie — La posizione dominante dell’Europa nell’agenda di politica estera della Russia è infatti un prodotto della sua cultura strategica, che a sua volta è plasmata dalla geografia, dall’eredità storica e da una visione del mondo d’élite che considera l’Occidente una minaccia per l’ordine politico interno». La rinnovata presenza della Russia nella regione mediterranea, dopo il 2015 e l’intervento militare in Siria, mostra, infatti, una grande continuità con i tempi sovietici e presovietici, quando gli sviluppi in Europa erano i principali motori della politica. Il Paper in esame si suddivide in tre sezioni. Nella prima si esamina l’eredità storica della Russia di coinvolgimento nel Mar Nero e nel Mediterraneo e identifica i principali fattori trainanti e duraturi della sua politica nella regione. La seconda esamina i risultati della politica sovietica nel Mediterraneo durante la Guerra Fredda e, infine, la terza fornisce al lettore una panoramica del «ritorno della Russia nel Mediterraneo» dopo la ritirata post-Guerra Fredda, corredata da un’ampia valutazione della sua politica, capacità e risultati fino a oggi conseguiti. Dati i suoi mezzi limitati, il ritorno della Russia nel Mediterraneo dovrebbe essere visto come un successo. Il Cremlino è stato determinato, paziente, abile e opportunista nella ricerca di aperture e opportunità create da sviluppi politici della regione, come gli sconvolgimenti innescati dalle primavere arabe e dalle politiche stesse degli Stati Uniti e dei loro alleati, imperniate sulla volontà di ridurre gli impegni nell’area in parola ed evitare implicazioni dirette in Siria o in Libia. La Russia ha assunto dunque rischi calcolati, ma ha evitato di impegnare risorse, prestigio e credibilità per perseguire obiettivi irrealistici e, soprattutto, provocare un confronto diretto con gli Stati Uniti. La dinamica post-2015 non è certo un replay della competizione statunitense-sovietica della Guerra Fredda. Negare alla NATO il dominio assoluto del Mediterraneo, piuttosto che cercare di dominarlo a sua volta, questo potrebbe essere oggi il fine strategico di Mosca. La Russia è riemersa come una presenza da non sottovalutare, conseguendo importanti vantaggi. Ha complicato la pianificazione e le operazioni statunitensi e della NATO, ha ripristinato con forza la sua posizione nel Mar Nero pur dopo «l’occupazione illegittima e illegale» della Crimea, si è affermata come una presenza importante nel caos siriano e libico, ha modellato un buon rapporto con Israele, Algeria ed Egitto e uno ragionevolmente buono (anche se a volte non manca di momenti di disagio) con la Turchia. «Il ritorno della Russia nel Mediterraneo continua una lunga eredità di coinvolgimento nella regione, guidata da ambizioni, interessi e percezioni di minacce che durano da secoli — concludono i due Autori, che non mancano di sottolineare come — non ci sia motivo di aspettarsi che questa postura cambi in un futuro prossimo o lontano. La Russia è nel Mediterraneo per rimanere, e la sua determinazione a espandere la sua presenza navale, aerea e terrestre continuerà». Come si conviene, aggiungerei, a una Russia ritornata a essere considerata «una grande potenza» sulla scena internazionale, secondo la definizione dello stesso presidente Biden dopo il bilaterale di Ginevra con Putin del 16 giugno scorso e non semplicemente «una potenza regionale», come l’aveva liquidata Obama all’Aja nel 2014, a margine del summit sulla sicurezza nucleare, con grande disappunto di Mosca.

«L’esplosione della corazzata Maine: attentato

o incidente?»

STORICA. NATIONAL GEOGRAPHIC, A. XIII, N.148, GIUGNO 2021

«Il 15 febbraio 1898 alle ore 21:40 la corazzata statunitense Maine saltò in aria — nella baia dell’Avana a Cuba, dove era entrata tre settimane prima per «mostrare la bandiera» a protezione dei cittadini americani, in un contesto politico estremamente difficile con la guerriglia indipendentista in corso contro le autorità coloniali spagnole che controllavano l’isola — Un’esplosione la fece sollevare dall’acqua e poi affondare accanto alla boa dov’era ancorata, a circa una dozzina di metri di profondità. Alcuni testimoni riferirono di aver sentito due deflagrazioni, la prima “simile a un colpo di pistola” e la seconda così violenta da provocare delle fiammate, una pioggia di frammenti di metallo e un fumo denso che si innalzò sopra i resti dell’imbarcazione. Il bilancio delle vittime fu terribile: su un equipaggio di 340 uomini si registrarono 266 morti e circa una ventina di feriti». In questa maniera stringata ma efficace lo storico militare spagnolo Germán Segura introduce ex-abrupto la drammatica vicenda del «misterioso» affondamento della corazzata di seconda classe a torri in diagonale USS Maine entrata in servizio nel 1895 (dislocamento 6.789 t, cento metri di lunghezza e dieci di larghezza) e dei suoi effetti politici ai fini della genesi del conflitto ispano-americano (la guerra venne dichiarata da Washington a Madrid il successivo 25 aprile) e che, nel giro di tre mesi e mezzo, avrebbe spazzato via dall’America e dall’Asia le ultime vestigia di quello che era stato il primo e più grande impero coloniale del mondo sul quale non «tramontava mai il sole», come amava ri-

Immagine artistica dell’esplosione della corazzata MAINE (storicang.it). petere all’epoca del suo massimo fulgore l’imperatore Carlo V. Più complessa la vicenda delle cause e relative responsabilità del tragico evento. Infatti, la Commissione d’inchiesta statunitense condotta dalla Marina arrivò ipso facto alla conclusione che solo l’esplosione di una mina sotto la nave avrebbe potuto provocare simili danni. Certo è che, se così fosse stato, gli spagnoli erano i meno interessati a provocare il gigante americano, tanto più che il governo di Madrid pensava di risolvere la «questione cubana» con la concessione dell’autonomia, sottolinea il Nostro, che guarda piuttosto a possibili responsabilità da parte degli indipendentisti cubani nell’intento di provocare un incidente per forzare così la mano a Washington per un diretto intervento militare. Ma al riguardo, l’Autore riconosce che non ci sono prove al riguardo. E se l’affondamento della Maine fosse stato causato non da un’esplosione «esterna» ma «interna» alla nave stessa? Alcuni esperti individuano, infatti, come causa scatenante dell’esplosione il surriscaldamento del carbone imbarcato per alimentare le otto caldaie della nave, che si sarebbe poi propagato al deposito della polvere da sparo a causa delle scarse misure di sicurezza (tanto più che incidenti simili si erano già verificati sulle navi americane). Ovvero si pensò pure a un’accensione spontanea delle munizioni stesse conservate nelle polveriere. Il Maine restò semiaffondato nella baia dell’Avana fino al 1911 quando fu riportato a galla (all’uopo venne costruita una specie di armatura attorno al relitto, ne venne estratta l’acqua, facendolo così riemergere). Venne aperta un’altra indagine, la seconda, sulla sua distruzione, indagine che però non riuscì a fornire nessun indizio sicuro che aiutasse ad approfondire le cause stesse del disastro. La nave fu quindi affondata con la dinamite trovando la sua tomba definitiva nello Stretto della Florida. Ma la sua storia non finisce qui. I dubbi sulle vere cause disastro hanno continuato ad aleggiare per decenni finché nel 1975 un’ennesima Commissione di esperti diretta dall’ammiraglio Hyman Rickover, tra i promotori della propulsione nucleare navale, arrivò alla conclusione che l’esplosione della corazzata Maine era da considerarsi di natura prettamente «interna»!

Ezio Ferrante

RECENSIONIESEGNALAZIONI

Antonio Donno Giuliana Iurlano Vassili Schedrin ÿIn America non ci sono ZarŸ

Le Lettere Firenze 2021 pp. 232 Euro 18,00

Al centro di questo interessante volume, curato da Antonio Donno, Giuliana Iurlano e Vassili Schedrin, troviamo la questione ebraica, così come si sviluppa in Russia tra il 1880 e il 1914, e come, a sua volta, condiziona le relazioni russo-statunitensi del tempo e contribuisce alla nascita della diplomazia umanitaria. Iniziamo col dire che questo libro, ben scritto e di piacevole lettura, è frutto di un corposo lavoro di ricerca su fonti inedite ed edite, a sua volta arricchito dall’attenta analisi di due studiosi di storia diplomatica ebraica americana, Donno e Iurlano, e di un profondo conoscitore delle correnti migratorie ebraiche dalla Russia zarista, Schedrin. Il volume è diviso in tre parti. La prima, curata da Donno, analizza la progressione dei contrasti tra le due diplomazie russa e americana, a partire dai pogrom contro le comunità ebraiche che avvennero in Russia dopo l’uccisione di Alessandro II, sino al 1913, anno in cui Washington decide di abrogare unilateralmente il trattato del 1832, che disciplinava i rapporti politici ed economici tra i due paesi. L’inizio del crescente dissapore tra i due paesi è legato alla questione dei passaporti. Secondo i governi zaristi gli ebrei americani che viaggiavano in Russia avrebbero dovuto sottostare alle leggi che vigevano nell’Impero. La questione, sin da subito ritenuta oltraggiosa da parte di Washington («in nessun altro paese al mondo si assiste a una discriminazione nei confronti dei nostri cittadini in visita»), si trasformò nel corso del tempo in un’attenzione sia del governo sia dell’opinione pubblica americana alla condizione vissuta dagli ebrei russi in patria.

Il crescente interessamento da parte dell’opinione pubblica e, al suo interno, della comunità ebraica americana è oggetto della seconda parte del volume. Le organizzazioni ebraiche americane si muovono, come sottolinea Iurlano, su due fronti: da un lato, per ottenere dalle amministrazioni americane un impegno costante di critica ai governi zaristi per la condizione in cui vive la minoranza ebraica nell’Impero, dall’altro, per creare un progetto di diplomazia umanitaria. Nel perseguire questo secondo obiettivo, le organizzazioni avrebbero dialogato sia con gli ebrei russi, sia con il governo zarista. Come ricorda l’autrice, il perdurare delle difficili condizioni per gli ebrei russi avrebbe convinto le organizzazioni ebraiche americane a promuovere e sostenere anche economicamente un esodo verso gli Stati Uniti d’America. Molto belle sono le pagine che Iurlano dedica al difficile tema dell’integrazione. Gli ebrei russi insieme a quelli americani sono chiamati, a causa del grande esodo, a riflettere su sionismo, antisionismo, assimilazione. Non mancano le voci di coloro che chiedono di non andare in America e quelle di chi ricorda che in «America non ci sono Zar». È questo un percorso articolato, che si modifica con l’evolvere delle vicende storiche nazionali, europee e internazionali e che ruota intorno al concetto di identità ebraica.

La terza parte del libro, curata da Schedrin, sposta l’attenzione del lettore al contesto russo, analizzando, da un lato, i motivi economici e sociali che indussero gli ebrei russi a vedere nell’emigrazione l’unica via di salvezza, dall’altro, l’atteggiamento via via assunto dai governi zaristi verso questa migrazione di massa; se per alcuni la fuga degli ebrei finiva per mettere in risalto la debolezza dello Stato russo, per altri rappresentava un modo per liberare il paese da una questione secolare. Infatti, come ricorda l’autore, la presenza degli ebrei in Russia era stata conseguenza di una migrazione virtuale, avvenuta all’indomani della spartizione della Polonia tra Austria, Prussia e Russia (1772-95). Coloro che erano stati ebrei polacchi erano divenuti, per il solo spostamento dei confini, ebrei russi. Nel corso degli anni molte sarebbero state le iniziative volte ad assimilare, spostare o confinare, facilitare l’emigrazione interna o esterna della componente ebraica della società russa. Tra il mese di gennaio e il mese di giugno del 1882 prese il via la «febbre dell’emigrazione». Più fattori vi avevano contribuito: la paura di nuovi e violenti pogrom, la crisi economica, gli aiuti occidentali e la collaborazione del governo russo nel facilitare l’emigra-

Recensioni e segnalazioni

zione. Ma, come ricordato nel libro, solo a partire dalla metà del 1890 l’emigrazione ebraica divenne un fenomeno di massa; all’indomani della Rivoluzione del 1905 il flusso di emigrazione avrebbe infatti raggiunto le 200.000 persone l’anno. Secondo i registri degli immigrati in America, tra il 1881 e il 1914, risultano entrati in America circa 1,6 milioni di ebrei dalla Russia.

In conclusione, i tre autori offrono al lettore una nuova chiave di comprensione della articolata e complessa origine dell’impegno americano in favore della questione ebraica.

Beatrice Benocci

Laura Guglielmi Le incredibili curiosità di Genova Uno sguardo su più di mille anni di storia della Superba

Ed. Newton Compton Roma 2019 pp. 348 Euro 12,90

L’autrice, giornalista e professoressa presso l’Università di Genova, in ottanta gradevolissimi affreschi, descrive la vita della Superba e dei suoi protagonisti illustri e meno illustri in un arco di tempo di circa mille anni. Così, chiunque si accinga a scorrere le pagine di questo libro, potrà scoprire particolari e curiosità su avvenimenti e personaggi di cui pensava di possedere la completa conoscenza o di cui ne ignorava totalmente l’esistenza. Il lettore, quindi, potrà scegliere, tra questi affreschi, quelli di maggior gradimento per lui. Di seguito riporto una breve descrizione di quelli che mi hanno colpito di più.

Genova è la città dove tre santi si dividono la venerazione popolare: San Giorgio, con il suo famoso simbolo della croce rossa su sfondo bianco, San Giovanni Battista e San Lorenzo, dichiarato compatrono, insieme agli altri due, nel 1327.

«Campopisano è una delle più belle piazzette del centro storico genovese. […] Al centro, l’immagine di una galea della Repubblica di Genova, con la bandiera issata». Lì, nel 1284, i genovesi, dopo aver sconfitto i pisani nella battaglia della Meloria, portarono i prigionieri e, una volta recintata l’area, li lasciarono morire di freddo. «Vengono sepolti proprio lì dove ora c’è una splendida pavimentazione acciottolata oppure gettati in mare. […] Questa triste vicenda spopola Pisa e decapita il suo esercito. È rimasto famoso il detto: Se vuoi vedere Pisa vai a Genova».

A Palazzo San Giorgio, fatto costruire dal capitano del Popolo Guglielmo Boccanegra (allora si chiamava Palazzo del Mare) venne rinchiuso il veneziano Marco Polo (1254-1324) che, dopo esser rientrato dal suo viaggio in Cina, fu fatto prigioniero durante la battaglia della Curzola, combattuta tra veneziani e genovesi. E in quel palazzo egli dettò, a Rustichello da Pisa, il suo mirabolante viaggio noto come Il Milione. «In pochissimi sanno (però) che un genovese, Andalò da Savignone, a partire dal 1330 fece tre viaggi in Cina. Non lo ricorda quasi nessuno, perché non ha incontrato sulla sua strada un Rustichello a cui lasciare le sue testimonianze».

Un tempo, Genova, «era una città di torri, se ne contavano ben sessantasei nel Medioevo. I ricchi nobili o mercanti, proprietari dei palazzi, non le avevano costruite per difendersi dagli attacchi degli invasori, ma per prendersi a mazzate gli uni contro gli altri. Erano delle vere e proprie basi militari da dove venivano lanciate pietre, acqua bollente, frecce e ogni sorta di strumento atto a far del male al malcapitato nemico». Poi, alla fine del XII secolo, tutte le torri vennero accorciate in modo da non essere più alte di venti metri. Ne fu risparmiata solo una, ancora oggi visibile: la Torre degli Embriaci.

«In tanti conoscono il museo Galata, così chiamato in omaggio al quartiere genovese di Istanbul».Ai tempi delle repubbliche marinare, infatti, fu stipulato un trattato — era l’anno 1261— tra l’imperatore di Bisanzio e il capitano del Popolo genovese Guglielmo Boccanegra, con cui vennero affidati, alla Repubblica di Genova, diversi territori, tra cui la costa che dal borgo fortificato di Galata, a Bisanzio, arrivava alla penisola di Crimea. «La torre di Galata a Istanbul testimonia la potenza dei genovesi in quel periodo». Genova è soprattutto nota come la città della Lanterna che, costruita nel 1128, «con i suoi settantasette metri, è il faro più alto del Mediterraneo e il secondo in Europa. […] Sembra che attualmente sia il

quinto faro del pianeta». Ma Genova è anche la città che ha dato i natali a Cristoforo Colombo. «Mentre negli Stati Uniti alcuni gruppi politici stanno attaccando la figura e la memoria di Cristoforo Colombo, in Liguria da più parti se ne rivendicano i natali». Oggi, vicino Porta Soprana, è visitabile la casa dove il grande navigatore trascorse la prima parte della giovinezza. I suoi legami con la città, però, successivamente diventarono «sempre più flebili, tant’è che per la grande impresa della sua vita, quella conosciuta come la scoperta dell’America, si rivolse a Isabella di Castiglia». La torre Grimaldina, il carcere genovese, tenne rinchiuso il terribile pirata Dragut dopo che, catturato da Giannettino Doria in Corsica, era stato imprigionato su una galera come rematore. Il pirata fu poi liberato, forse in seguito a un accordo tra il suo capo, Barbarossa, e Andrea Doria: la sua libertà in cambio della concessione della pesca del corallo vicino alla costa tunisina. «Forse Dragut non era poi così antipatico all’ammiraglio genovese. […] C’è un dettaglio che fa pensare si fosse affezionato al corsaro ottomano: in vecchiaia chiamò il suo gatto proprio Dragut».

A Montebruno, nei pressi di Genova, fece un atterraggio di fortuna la prima donna aeronauta della storia, la francese Sophie Blanchard (1778-1819). Partita da Milano, il 15 agosto 1811, con un aerostato, venne trasportata, da una corrente, verso Genova. Tentata una discesa sull’appennino ligure, «atterra in un bosco e il pallone rimane in bilico tra le fronde di alcuni alberi». La mattina seguente alcuni contadini, credendo si trattasse della Madonna, si inginocchiarono a pregare.

Tanti furono gli scrittori che passarono un periodo della loro vita, più o meno breve, a Genova. Tra questi Mary Shelley, Honoré de Balzac, Mark Twain, Charles Dickens, Herman Melville, Gustave Flaubert, Henry James. Anche il filosofo Friedrich Nietzsche trascorse del tempo a Genova. «In riviera, tra Zoagli, Rapallo, Santa Margherita e Portofino, concepì la figura di Zarathustra». Genovese era Goffredo Mameli, nato nel 1827 e che, nella sua breve vita (mori a soli 21 anni, a Roma, durante l’assedio) scrisse il Canto degli italiani, meglio conosciuto come Inno di Mameli, diventato Inno nazionale nel 1946, con la proclamazione della Repubblica. Da Genova, precisamente da Quarto, con la navi Lombardo e Piemonte, partì, nella notte tra il 5 e il 6 maggio 1860, la famosa Spedizione dei Mille di Giuseppe Garibaldi. Molti sono gli esploratori nati in Liguria. Tra questi ricordiamo Enrico Alberto D’Albertis (1846-1932), ufficiale della Marina Militare, poi passato alla Marina mercantile. Circumnavigò l’Africa e «sfidò gli oceani, attraversando zone impervie a dorso di cammello e, per mettersi nei panni di Cristoforo Colombo, arrivò fino a San Salvador, usando la tecnologia di fine Quattrocento».

Nella cattedrale di San Lorenzo si può vedere una bomba della Seconda guerra mondiale. Il 9 febbraio 1941 la Royal Navy iniziò a bombardare il capoluogo ligure. In città ci fu una strage, ma la cattedrale si salvò. La bomba «cadde attraversando una parete, ma si posò sul pavimento senza scoppiare».

Genova è stata anche terra di cantautori e poeti. Tra i prima abbiamo De André, Tenco e Paoli, mentre tra i secondi l’autrice dedica alcune pagine a Eugenio Montale, Dino Campana e Giorgio Caproni. «Quando mi sarò deciso/d’andarci, in paradiso/ci andrò con l’ascensore/di Castelletto…»: così scrisse quest’ultimo che, nato a Livorno e trasferitosi a Genova all’età di dieci anni, dopo la guerra andò a vivere a Roma, dove vi rimase per tutto il resto della vita, «ma non riuscì a togliersi la Superba dalla testa e visse nel rimorso di averla abbandonata».

Gianlorenzo Capano

Lorenzo Vita (prefazione di Marco Valle) LÊonda turca Il risveglio di Ankara nel Mediterraneo allargato

Giubilei Regnani Cesena 2021 pp. 250 Euro 17,00

La Turchia rientra sempre nel novero delle attrazioni geopolitiche internazionali. Paese ponte tra l’Occidente europeo e l’Anatolia, proiettata verso l’Oriente che fu ottomano, la Turchia offre diverse

chiavi di lettura per ciò che concerne le relazioni internazionali, svariati spunti che danno l’idea della complessità della sua realtà, ma che fanno rendere conto di quanto possa essere arduo giungere a una sua compiuta comprensione.

Lorenzo Vita, giornalista de Il Giornale, ci accompagna in un’analisi che compendia storia, geopolitica, economia, politica interna, con uno stile rapido, scorrevole, accattivante. L’onda Turca, pubblicato per i tipi di Giubilei Regnani, punta a cogliere gli elementi salienti della politica interna e della situazione geopolitica correnti, proiettando ipotesi e visioni razionali nel futuro, interpretando dunque un ruolo letterario di pregevole e raffinata cultura politica internazionale. Il libro, chiaro, esplicativo, arguto, diviene saggio di politica e storia contemporanee, in grado di correlare passato e presente, per portare poi il lettore a guardare al prossimo futuro e ai suoi interrogativi più coinvolgenti, vista l’area geopolitica coinvolta.

Le tinte riservate alla situazione mediterranea arricchiscono l’immagine di un’estensione ribollente che parte dalla Libia, passa per il Golfo Persico, tocca il Mar Rosso, per arrivare al Levante, al Mar Nero e al Caucaso, lambendo finanche l’Afghanistan; tutti luoghi dove la presenza di Ankara è palpabile, dove il sogno imperiale di Recep Tayyip Erdogan intende reincarnare velleità neo ottomane.

Alla luce sia della difficile, se non disastrosa, situazione economica, sia di un isolamento politico determinato dalle scelte indotte dal fortemente percepito sentimento islamico, la Turchia è cosciente del fatto che per poter rivestire un ruolo confacente sul palcoscenico internazionale, è costretta giocoforza a partire dalle acque del Mediterraneo. Vita si fa lettore e interprete storico-politico, interpreta il pensiero di Ataturk, legge chiaramente le linee guida dell’uomo per il quale, già dal secolo scorso, il destino nazionale era custodito tra le onde dei mari che circondano e lambiscono l’Anatolia. Risiede in una lettura geopolitica di ampio respiro, che considera la presenza della Turchia anche in funzione dello sguardo strategico volto oltre gli stretti fino all’ingresso dell’Oceano Indiano e ai traffici che vi fluiscono, il comprendere l’importanza attribuita al sultanale Bosforo, passaggio e propulsore del nuovo Stato laico che stava conformandosi e che tutt’ora guarda a Egeo, Cipro, Tripoli, Baku, Mogadiscio, Qatar. L’ascesa al potere di Erdogan ha ravvivato le originarie mire marittime, altrimenti a lungo sopite nel periodo compreso tra il Trattato di Losanna e il termine della Guerra Fredda, grazie a una politica anti kemalista posta sotto il riflettore islamico. Secondo Vita, la svolta si basa su una dottrina ben precisa, quella del Mavi Vatan, della Patria Blu, ideata dall’ammiraglio Gurdeniz.

L’obiettivo è chiaro: il controllo del mare per la vigilanza delle risorse energetiche imponendo l’influenza nazionale turca, un fine sì politico ma anche economico, perché è al mare che è demandato l’onere di sostenere le mire egemoniche di un paese sostanzialmente revanscista. Secondo la visione del Reis, la Turchia ha un obbligo politico per cui, pur di permanere al centro dell’attenzione, è lecito servirsi di qualsiasi cosa possa occorrere a prescindere dai possibili preconcetti, per arrivare al 2023, anno di elezioni ma anche di rievocazioni centenarie del Trattato di Losanna, perenne memento della disfatta bellica, contrastato dall’allestimento di una Forza navale moderna sospinta da investimenti strutturali e di ricerca, e tuttavia penalizzata da decisioni politiche, talvolta troppo ardite, che l’hanno privata degli F-35. Tenuto conto dei tentativi americani di rafforzamento del dispositivo ellenico, e delle operazioni finanziarie sulla divisa turca, già debole di suo, il libro di Vita ci lancia tuttavia un preciso ammonimento circa i timori non troppo larvati sulla possibilità di un allontanamento turco dal campo occidentale, per avvicinarsi alle posizioni sino-russe; un’ipotesi strategicamente inaccettabile per la NATO.

Nel testo, che non dimentica di fornire una panoramica della più recente azione politica italiana nel Mediterraneo orientale, si susseguono commenti, ipotesi, inquadrature geopolitiche che possono sicuramente fungere da ottimi spunti di studio e approfondimento.

Gino Lanzara

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