RockNow #2 The Gaslight Anthem

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Mensile – Anno 1 – Luglio/Agosto 2012

#2

102% MUSIC, LYRICS & PASSION

Linkin Park Anti-Flag The Offspring Shinedown The Hives Derozer Ignite Destrage

Disco del mese: ARCHITECTS

THE GASLIGHT ANTHEM Made in Jersey

Green Day - Exilia - Seed’n’Feed - Seether - Finley - Enter Shikari - Awolnation - Linea 77


OUT

NOW

www.bnow.it


EDITO È passato già un mese dal primo numero di RockNow e le sensazioni sono davvero strane. Innanzitutto, quest’idea della rivista online è piaciuta visto che molti di voi si sono avvicinati al magazine; qualcuno perché già lettore di Rock Sound, molti perché finora senza un giornale musicale di riferimento. In effetti, mancava una rivista destinata a chi ascolta un certo tipo di musica e in cui leggere dei Lostprophets, degli Anti-Flag o, prossimamente, degli Architects. I primi dati sono infatti confortanti e mi stanno convincendo definitivamente di questa scelta del Web invece della solita edicola. Certo, a me come a molti di voi manca la carta e RockNow, nel formato classico, sarebbe una meraviglia vista la nostra attenzione maniacale per la grafica e la qualità delle foto. Almeno abbiamo la soddisfazione di non uccidere alberi! È stato molto bello ricevere i complimenti di voi lettori, come quelli dei tanti musicisti, alcuni diventati amici nel corso degli anni. A questi si aggiungono i vari promoter e alcune etichette, indipendenti e major, che hanno salutato con grande entusiasmo l’arrivo di RockNow e ci hanno messi nella condizione di lavorare al meglio. Certo, dopo due anni di assenza da questo ambiente, è bastato fare un paio di numeri per capire che certe cose non sono cambiate, anzi, diciamo pure che sono peggiorate. Aspettare una settimana per una foto nell’era di Internet sembra una barzelletta. Oppure scoprire che alcuni artisti non fanno promozione nel nostro paese (Marilyn Manson, Linkin Park… non a caso) perché qui, forse, non vendono troppi dischi (rispetto ad altre nazioni) o perché non hanno copertine. In effetti, non ricordo di averne viste con gli artisti appena citati quando uscirono i loro precedenti lavori. E noi non c’eravamo ancora. Adesso che ci siamo… non le facciamo perché decidono di fare a meno dell’Italia o perché il discografico vuole privilegiare media più importanti. Ci sta, nulla da ridire, ma a questo punto anche a noi piacerebbe dettare qualche regola in futuro. L’intervista al gruppo di Mike Shinoda c’è comunque, grazie alle conoscenze straniere che uno coltiva nel corso degli anni. La copertina, no di certo. A proposito, un mio caro amico giornalista francese, ex Rock Sound anche lui, dopo i complimenti per RockNow, mi ha fatto notare la mancanza di scatti posati fatti dai nostri fotografi. Infatti, quando sfogliate la stampa estera, le foto inedite non mancano mai. Perché? Non lo so, ma posso dirvi che la maggior parte delle volte in cui si chiede di fare una session fotografica a qualche gruppo in promozione in Italia, il discografico vi risponderà che non c’è tempo oppure che l’artista non vuole… Sarò tutto vero? Forse in Francia, Spagna o Inghilterra la promozione è meno frenetica? Eppure, gli amanti del rock non mancano certo in Italia. Basta andare ai concerti e ai vari festival per capirlo. Prima di chiudere, faccio un’ultima considerazione. Con RockNow abbiamo deciso di parlare di alcuni gruppi e generi musicali ben precisi, facendo l’impasse su altri magari più in voga o su un certo indie rock italiano che trova ampio spazio altrove. Si tratta solo di una scelta editoriale, nulla più. Bene, ora vi lascio alla lettura di questo secondo numero. Ci rivediamo a settembre. Keep on rockin’, Daniel C. Marcoccia Ps: vi ricordo l’uscita di Bnow: altra musica ma tanta passione. (Bnow.it)

Foto Arianna Carotta

Rockin’ Italy…

RockNow 3


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ROCKNOW #2 – Luglio/Agosto 2012 – www.rocknow.it

08-23 PRIMO PIANO: Green Day Awolnation Starless All in the name of… Rock Dischi violenti: Linea 77 Seed’N’Feed Seether / We Are Waves Exilia Webzone L’Alba Di Nuovo Local hero Finley Games Crazy… net Open store

www.rocknow.it Registrazione al Tribunale di Milano n. 253 del 08/06/2012

Scrivi a: redazione@rocknow.it DIRETTORE Daniel C. Marcoccia dan@rocknow.it ART DIRECTOR Stefania Gabellini stefi@rocknow.it COORDINAMENTO REDAZIONALE ONLINE EDITOR Michele “Mike” Zonelli mike@rocknow.it

24-49 ARTICOLI: 22-25 The Gaslight Anthem

26-29 Anti-Flag

COMBAT ROCK

30-32 Linkin Park

ANTI-FLAG

COMITATO DI REDAZIONE Marco De Crescenzo Stefania Gabellini COMUNICAZIONE / PROMOZIONE Valentina Generali vale@rocknow.it

U

Da sempre in prima linea, la band che ha raccolto l’eredità dei Clash è ancora pronta a scendere in piazza per difendere chi protesta contro i veri colpevoli della crisi. Parola di Justin Sane.

26 ROCKNOW

ROCKNOW 27

34-35 The Offspring

36-37 The Hives

38-39 Shinedown

40-41 Derozer

42-44 Ignite

46-47 Destrage

COLLABORATORI Arianna Ascione Armando Autieri Giorgio Basso Andrea Cantelli Nico D’Aversa Sharon Debussy Luca Garrò Alex De Meo Luca Nobili Amalia Noto Eros Pasi Silvia Richichi Andrea Rock Stefano Russo Piero Ruffolo Jack Vincennes FOTOGRAFI Arianna Carotta Emanuela Giurano Andrea Cantelli SPIRITUAL GUIDANCE Paul Gray Editore: Gabellini - Marcoccia Via Vanvitelli, 49 - 20129 Milano

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51-57 RECENSIONI:

Disco del mese: Architects Nu rock Pop/Rock Metal/Punk

58 Live 62 Flight case: Enter Shikari

44RockNow RockNow

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PRIMO PIANO

green day La prova del tre

Perché fare un disco quando puoi farne tre? Billie Joe e soci stanno per tornare, questa volta con una trilogia che si preannuncia epica! Di Stefano Russo foto Marina Chavez

T

re. Non uno, non due. Tre. Dopo aver praticamente inventato la “punk rock opera” con “American idiot” e dopo averla successivamente esportata (anche qui con enorme successo) nel mondo del musical, la nuova sfida dei Green Day ha la forma di una trilogia e prende il nome di “¡UNO!- ¡DOS! - ¡TRÉ!”. La notizia, circolata qualche mese fa, del ritorno dietro al mixer di Rob Cavallo (storico produttore della

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band dai tempi di “Dookie”) aveva fatto pensare (o forse sperare?) a molti in un possibile ritorno alle sonorità semplici e dirette dei primi anni, ma la realtà dei fatti è un’altra: Billie Joe, Mike e Trè sono tutto fuorché quel genere di artisti che dopo aver azzeccato un disco si siedono sugli allori e vivono di rendita, razza ahimé ormai piuttosto diffusa soprattutto nel mondo mainstream. Al contrario, è assolutamente innegabile quanto piaccia loro, ogni volta che si ritrovano a varcare la soglia di uno studio, alzare l’asticella e porsi nuovi traguardi con l’intento di superarsi costantemente. Ed anche questa volta pare sia andata esattamente così. “Stiamo vivendo forse il momento più prolifico e creativo della nostra vita. Pensiamo che sia la

migliore musica che abbiamo mai composto e le canzoni continuano a sgorgare da sole” ha dichiarato il trio di Berkeley annunciando l’arrivo del loro nuovo capitolo discografico. “Invece di fare un’unico album, abbiamo deciso di pubblicare una trilogia. Ogni brano contiene il potere e l’energia tipica di ogni livello emozionale che i Green Day scaturiscono. Non possiamo farci niente… stiamo diventando fottutamente epici!”. Mentre leggete queste parole il primo singolo “Oh love” starà per invadervi le orecchie o lo avrà addirittura già fatto, mentre il primo appuntamento con gli scaffali dei negozi di dischi (reali o virtuali che siano) è fissato per il 25 settembre, giorno in cui uscirà “¡UNO!”. La band, subito dopo l’annuncio, ha iniziato a pubblicare sul proprio

canale YouTube una serie di brevi clip girati durante la lavorazione (chiusa con i tre trailer ufficiali), i quali hanno generato, come prevedibile, molta eccitazione ma anche molta curiosità e un po’ di disorientamento. Allo stato attuale delle cose, difatti, da questi tre album potremmo aspettarci veramente di tutto: i Green Day hanno una forte personalità che poche altre band attuali possono vantare e riuscirebbero a suonare come loro stessi anche facendo dell’acid jazz, ma allo stesso tempo non hanno mai avuto paura di osare o di andare controtendenza, anzi: da quasi una decina d’anni a questa parte sembra sia diventato proprio quello il loro punto di forza. E, nel caso ve lo foste scordati, fino ad oggi hanno sempre avuto ragione loro.



PRIMO PIANO

AWOLNATION

Navigando a vista Un performer energico e coinvolgente, un compositore interessante e originale, una spiccata personalità: questo è in poche parole Aaron Bruno, che ci parla del progetto Awolnation, del disco “Megalithic symphony” e della sua musica in generale. Di Silvia Richichi

Awolnation è un’esperienza diversa rispetto ai precedenti gruppi musicali di cui Aaron ha fatto parte, come spiega lui stesso. Dopo lo scioglimento degli Under The Influence Of Giants, ha iniziato a comporre canzoni proprie, senza aspettative, con l’intenzione di

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creare un album in cui le sue idee non fossero contaminate da altri: “Quando fai parte di una band, devi rendere conto ad altri componenti del gruppo, le idee vengono da più menti e alla fine il progetto è il risultato di più persone. In questo caso si tratta solo di me. Spero di essere maturato come compositore, sono molto paziente e provo a non forzare le cose, ho molte idee e cerco di scegliere le migliori, è come se venissero da me dal nulla, io provo a fare il mio meglio per registrarle. È un processo molto semplice per me”. Il disco si intitola “Megalithic symphony”, così come un brano strumentale dell’album: “Volevo avere una intro, una sorta di anticipazione all’album. L’idea non era solo di comporre un disco,

ma una sorta di viaggio emotivo attraverso alti e bassi, e il brano strumentale è come un’introduzione a questo viaggio. Sono soddisfatto del risultato finale, soprattutto perché inizialmente non avevo alcuna aspettativa, volevo solo comporre un disco che fosse un mio prodotto”. Nonostante le poche aspettative di Aaron, “Megalithic symphony” sta avendo grande successo, basti pensare al singolo “Sail”, diventato di platino: “Non mi sarei mai aspettato una tale risposta e sono grato che sia stato proprio per ‘Sail’; è una canzone diversa da quanto si sente in radio ed è una scelta bizzarra per un singolo, sono davvero contento che una canzone così 'weird' abbia avuto un tale successo. Penso che il testo sia molto esplicito

e che le persone lo abbiano collegato all’essere invulnerabili e all’affrontare i problemi della vita, specialmente in questo periodo di crisi generale”. Le liriche del disco sono particolari e con significati profondi, la frase “never let your fear decide your fate” nella canzone “Kill your heroes” ne è un esempio: “Mi piacerebbe pensare che questa frase fosse una filosofia di vita. Spesso le decisioni che si prendono nel corso della vita sono influenzate della paura, e personalmente questo tipo di scelte sono quelle che ho rimpianto di più. Penso che vivere con paure non porti a cose positive, non avrei mai realizzato questo album se avessi avuto paura; non avendo alcuna aspettativa non avevo alcun timore”.


STARLESS Questi cinque giovanissimi ragazzi di Pescara, uniti da sempre, debuttano con “How life should be”, un album ben confezionato e dal forte potenziale, essendo anche il risultato di un solo anno di effettivo lavoro come band. La vivacità che trasmettono gli undici brani sono frutto di un’esperienza decisamente divertente, come dichiarano loro stessi dicendo che: “il bello della creazione del nostro album è stato proprio mettere insieme, oltre alle nostre influenze pop-punk, anche quelle che, invece, si staccano un po’ da esso e magari toccano generi come l'alternative rock o, come in alcuni casi, l'hardcore melodico”. Meritevoli la voce e i cori che sorreggono perfettamente i pezzi, composti da testi indubbiamente ispirati alle loro esperienze di vita: “La nostra speranza è che, appunto, qualcuno riesca a rivedersi nei nostri testi; non siamo poeti dopotutto, ma solo dei normalissimi ragazzi”. Fino a qualche settimana fa impegnati come molti loro coetanei con gli esami di Stato, gli Starless possono ora dedicarsi all’attività live: “Stiamo organizzando un tour nella penisola nei mesi di ottobre, novembre e dicembre e il nostro traguardo è quello di suonare il più possibile in giro, che sia in Italia o all'estero per fare arrivare la nostra musica ad un pubblico sempre più vasto possibile”. La distribuzione digitale in tutto il mondo di “How life should be”, accuratamente gestita da This Is Core, farà sicuramente brillare presto la band pescarese assieme ai nomi migliori dell’attuale scena punk/rock italiana. Segnaliamo, a proposito, la collaborazione con gli Startoday per una traccia dell’album, “Hello, I’m a wanker”: “Siamo molto grati sia per i loro consigli che per i loro aiuti a noi utilissimi. Vi mandiamo un abbraccio fratelloni”.

Una new entry nell’underground italiano che in pochissimo tempo riesce a catturare l’attenzione di tutti, facendosi apprezzare per le sue sonorità pop punk che ci riportano Oltreoceano e all’estate. Di Amalia “Maya” Noto


PRIMO PIANO All in the name of A cura di Andrea Rock

S

D N I H E B T F LE

NOME: o ZA: Bergam Aiello PROVENIEN oce), Dario (v i tt o D o iele e att asso), Dan (b i ll LINE-UP: M re tu n e arco V (chitarra), M ) tteria) an Records o Pedroni (ba m a (S ” re ay from he o DISCO: “Aw ore melodic c rd a h , k c o Punk/r wise GENERE: ncid, Penny a R , n o g a E: Lagw INFLUENZ nkrock eftbehindpu /l m o .c k o o Faceb

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PLUNKLOCK

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rock

upporto. Un termine che evoca nei miei pensieri di punk rocker i tempi ormai trascorsi, durante i quali chi aveva una band condivideva concerti, strumentazione, studi di registrazione… per “supportare” appunto una determinata scena, locale o nazionale. Oggi faccio veramente fatica a ritrovare questo atteggiamento in chi fa musica a livello underground. Non voglio fare il nostalgico solamente perché ho compiuto 30 anni il mese scorso (cazzo), però lamento la mancanza di quell’attitudine DIY, volta a far crescere una realtà, a diffondere musica e parole importanti, spesso non considerate dai media. Mi spiace soprattutto perché oggi è più semplice di una volta, grazie ai social network, ai digital store, al fatto che un flyer per una serata si può facilmente realizzare anche su uno smartphone. Anni fa, per poter aiutare le band locali durante il loro percorso artistico, si poteva solo presenziare ai concerti e acquistare merchandise. Oggi tutti noi riusciamo ad aver accesso al Web dove spesso è possibile trovare i brani anche di gruppi underground (sono riuscito recentemente a far mia quasi tutta la discografia degli Strenght Approach!), si può acquistare merch attraverso gli shop online… A volte, semplicemente condividendo il video di una band locale, si può garantire loro la possibilità di essere presa in considerazione come opening act dei gruppi più conosciuti. Certo, bisogna sperare d’incontrare in quest’ultimo caso anche il favore delle booking agency… ma è bello poter sperare che le cose, ogni tanto, girino anche a favore di chi si sbatte. Cito un post degli All Shall Perish: “Supportate la band dei vostri amici; sono l’unica possibilità che abbiamo per fermare Skrillex e i suoi amici”. Al di là dell’invettiva contro l’ex cantante dei From First To Last, è bello vedere che anche band internazionali, ricordino quanto è importante darsi una mano a vicenda. Cerchiamo di non coltivare solamente il nostro orticello; il successo dei nostri amici è un successo anche nostro.


DISCHI VIOLENTI

Emo & Nitto (Linea 77) PRIMO DISCO COMPRATO:

Nitto: “Vulgar display of power” dei Pantera. Emo: “You can dance” di Madonna.

ground italiano... I nomi sarebbero troppi. E.: Dovrei dire nessuno ma preferisco il paradosso: “Scintilli” dei Plaid.

DISCO DA VIAGGIO:

ULTIMO DISCO COMPRATO: N.: “Fake

DISCO "BOTTA DI VITA":

DISCO PER UNA NOTTE DI BAGORDI:

history” dei Letlive. E.: “SBTRKT” di SBTRKT.

DISCO CHE HA CAMBIATO LA TUA VITA:

N.: Il primo dei Rage Against The Machine. E.: “III communication” dei Beastie Boys.

DISCO SOPRAVVALUTATO: N.: Non saprei… Sopravvalutato da chi? Non prendo minimamente in considerazione la stampa musicale, o le recensioni in genere, più che altro non mi fido di nessuno soprattutto quando si parla di una cosa cosi personale quale la percezione della musica. E.: Tutti. DISCO SOTTOVALUTATO:

N.: Un miliardo e mezzo di dischi dell'under-

N.: “Relationship of command” degli At The Drive-In. E.: “The Shape of punk to come” dei Refused.

DISCO "LASSATIVO":

N.: Anche qui non saprei rispondere, evito a priori certe cose di musica leggera, leggerissima… italiana soprattutto. E.: Un qualunque disco di ska/punk.

DISCO PER UNA SERATA ROMANTICA:

N.: “Smack smash” dei Beatsteaks. E.: “Out of the game” di Rufus Wainwright.

N.: “Gipsy punk: underdog world strike” dei Gogol Bordello. E.: “Master of my make-believe” di Santigold.

DISCO DEL GIORNO DOPO: N.: “Making mirrors” di Gotye. E.: “Hombre lobo” degli Eels.

DISCO CHE TI VERGOGNI DI POSSEDERE:

N.: Qualsiasi raccolta di Etta James. E.: “Seventh tree” di Goldfrapp.

N.: Nessuno E.: Li ho venduti a un negozio di dischi usati e vivo più felice.

DISCO SUL QUALE AVRESTI VOLUTO SUONARE:

CANZONE CHE VORRESTI AL TUO FUNERALE:

N.: “Roots” dei Sepultura. E.: “Broken Bells” dei Broken Bells.

N.: “Sitting on a dock of the bay” di Otis Redding. E.: “4'33'' di John Cage.

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PRIMO PIANO

SEED’N’FEED Notturno ispirato

Hanno tanti anni di carriera alle spalle, album unanimemente riconosciuti meravigliosi, come “Modulo 25”, e illustri colleghi che spendono elogi nei loro confronti. Di Nico D’Aversa

Eppure a volte sembra che i Seed’N’Feed non abbiano i riconoscimenti dovuti. “Spesso anch’io mi sono chiesto il motivo e giuro che faccio fatica a trovare una risposta” ci spiega Lorenzo Dinelli, voce e autore delle liriche. “Ora siamo adulti e più disillusi, ci basta sentire il calore della gente

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che da anni ci segue e soprattutto la libertà che rappresenta per noi il fare musica”. La band è passata dall’hardcore degli esordi a forme di rock più classico. Il filo conduttore di questa evoluzione è la cura e l’eleganza nella composizione dei pezzi che s’intreccia con l’immediatezza e la semplicità dei testi: “La nostra costante è trovare un linguaggio semplice e diretto, senza troppi fronzoli. In fondo non è questo il rock o il punk? Ci piace sentire che l'equilibrio sia buono tra la spinta sonora e la componente del messaggio, senza perdersi in intellettualismi”. La voce vibrante di Lorenzo ci racconta spesso di disincanti e nostalgie. Ma ricorre anche l’immagine di un fuoco che i

Seed’N’Feed vogliono continui ad ardere: “Abbiamo trascorso periodi difficili, ma devo dire che in fondo c'è sempre stata una sorta di grande forza e speranza che ci ha mosso e ci muove tutt’oggi, che sembra non finire mai”. La title-track del disco, “Una lunga notte”, e “Cambierò” sono i manifesti dei Seed’N’Feed oggi. “Il primo pezzo riassume un po' la storia della nascita di questo ultimo lavoro, la fatica nel concepirlo e l'esigenza di sentirsi liberi, per poterlo fare. “Cambierò” è un inno alla speranza, alla voglia di non arrendersi e alla capacità di sapersi adattare e perdonare, senza perdere la propria fede”. Il disco vanta, come al solito, ottime collaborazioni come quella di Olly

Riva (Shandon/The Fire), Mark Byrne (ex Angry Samoans) e Diletta (Casanovas). Forte è il legame della band con la propria terra d’origine, la Toscana. Ce lo conferma Lorenzo: “Il nostro mare ci ha spesso accolto anche nei momenti creativi, e giuro che ha aiutato a tirar fuori le nostre potenzialità. L'arte antica, la cultura, la storia di certi luoghi e le bellezze naturalistiche, così come una certa schiettezza intrinseca nella toscanità, ci fanno sentire fortunati e orgogliosi davvero. In questi luoghi c'è una certa lentezza e indolenza rispetto al fermento tipico dei centri nordici italiani, che può rappresentare un difetto, ma al tempo stesso un'occasione di quieto raccoglimento”.


WE ARE WAVES Dopo aver esplorato i lidi del nu rock con il moniker Overock, il quartetto piemontese si apre a nuovi orizzonti con un nuovo interessante progetto denominato We Are Waves... Di Giorgio Basso

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uando si è ambiziosi, fossilizzarsi è praticamente impossibile. Da questa semplice considerazione si potrebbero avere molte risposte legate a questo cambio di orizzonti da parte di Viax (voce e chitarra) e compagni. L'entusiasmo dell'adolescenza ha lasciato il posto alla maturità in questi musicisti, oggigiorno più esigenti e attenti al particolare. La proposta dei We Are Waves lega

SEETHER

due elementi assai diversi tra loro, il rock energico sprigionato dalle chitarre e l'electro/trance/rave emanata da tastiere e synth costantemente all'assalto. In questa stravagante miscela di suoni, a far da collante è la voce di Viax, che sa essere soffusa nelle situazioni più intime e incisiva nei vari momenti hot. La recente uscita del debut EP omonimo è la conferma di quanto appena detto, un ciclone di emozioni contrastanti che lascia piacevolmente colpiti. Seguiti in cabina di regia da Marco Trentacoste (produttore che ha collaborato con Le Vibrazioni, Lacuna Coil e molti altri), i We Are Waves hanno espresso in quattro canzoni quello che molti colleghi non riescono a dire in un album, segno tangibile di una classe comune a pochi eletti. Rimanete quindi sintonizzati, perchè in futuro sentirete sicuramente parlare di loro.

Nella frenesia di un festival può capitare di scambiare quattro chiacchiere velocemente con qualche musicista simpatico e tranquillo. Di Daniel C. Marcoccia

I

Seether, tra tutte le band che vengono solitamente raggruppate nella “categoria” post-grunge, sono sicuramente gli esponenti più schietti. Sarà forse la loro provenienza, lontana da quelle che sono le solite città del rock. Fatto sta che del gruppo di Pretoria, Sudafrica, si ricordano soprattutto le ottime canzoni come “Fine again”, “Broken, “Fake it” e “Tonight”. Anche della love-story del cantante Shaun Morgan con Amy Lee degli Evanescence sono in pochi ormai a ricordarsela. Il simpatico batterista John Humphrey ci racconta di questo lungo tour che sta portando avanti la sua band da diversi mesi: “Abbiamo appena fatto delle date assieme ai 3 Doors Down e ora continuiamo a suonare in giro. Non mi lamento di certo visto che è proprio quello che sognavo di fare da ragazzino. Anzi, sono andato ben oltre poiché mai avrei immaginato di ritrovarmi in posti come la Piazza Rossa di Mosca o a Parigi, anche se spesso, purtroppo, non abbiamo la possibilità di visitare bene i posti in cui suoniamo. Finché sei in America, va anche bene, perché alla fine le città si assomigliano tutte. C’è il locale del concerto e di fianco trovi il fast-food e il solito negozio di liquori. Al contrario, quando sei in Europa hai l’impressione di stare dentro uno di quei libri di storia che avevi ai tempi della scuola. Ed è frustrante non poter visitare tutto”. L’ultimo album del trio sudafricano, “Holding onto strings better left to fray”, è uscito ormai da un anno ed è stato anche ripubblicato in edizione deluxe. “Il disco è stato molto ben accolto dalla critica e, soprattutto, dai nostri fan. I primi tre singoli estratti sono andati ben oltre le nostre stesse aspettative e ora abbiamo appena pubblicato 'Here and now'. Continueremo a suonare ancora per un bel po’ dal vivo e poi penseremo seriamente a un nuovo album. Quando siamo in tour è difficile che ci mettiamo a scrivere delle nuove canzoni, possono venire delle idee ma preferiamo dedicarci alla composizione una volta finiti i concee”.

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PRIMO PIANO

EXILIA

Nothing to prove

“Decode” è il disco della maturità degli Exilia: la band, che ha sempre avuto più successo all’estero che nel nostro Paese, sta ottenendo ottimi riscontri, grazie a sperimentazioni e nuove alchimie. Di Arianna Ascione

È un bel momento, non solo per i concerti e la promozione dell'album che ci sta dando tante soddisfazioni, ma anche perché all'interno della nuova line-up è nata una grande alchimia. Finalmente siamo diventati una ‘famiglia’. Si sente quel rispetto profondo che io ho sempre cercato e desiderato, quell'amicizia che va al di là di tutto. E ovviamente questo ci ha regalato più energia e potenza anche nel suono”. Il risultato di cui parla Masha, cantante degli Exilia, è davvero palpabile quando si ascolta “Decode”, il nuovo lavoro della formazione milanese. Un disco più evoluto, in cui si avverte perfet-

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tamente il lavoro fatto a livello vocale: “In questi 2 anni ho studiato e ho preso un master con Elizabeth Howard diventando insegnante autorizzata della Vocal Power Academy di Los Angeles. Sto facendo grandi ricerche sulla voce atte a trovare la migliore tecnica vocale per cantare. Ho avuto grandi insegnamenti anche da Anna Gotti che ringrazio per la sua passione e dedizione”. La band sta già suonando parecchio in giro per promuovere il disco ma fare tour, in Italia, soprattutto in questo periodo di grande crisi, è sempre più arduo: “È un momento difficile, per tutti e anche per noi. Ma come disse Gandhi: ‘La crisi economica può

essere vista come una opportunità di crescita sociale e professionale". Masha ne è convinta: “Io credo che sarà così. Da una parte sono felice che venga raso al suolo tutto un sistema discografico che non funzionava e non funziona, che ha creato un mondo di ‘manichini cantanti’ e ha impoverito la musica e l'arte in generale. Credo nella libertà e nell'indipendenza degli artisti come unica forma d’arte”. Il pubblico italiano è sempre stato forse un po’ troppo esterofilo, e per le band nostrane è sempre stato difficile emergere. L’importante però è crederci con tutta l’anima: “Penso che continueremo ogni giorno a fare del nostro meglio,

indipendentemente dal ‘fuori’. Non faccio musica per ricevere alcun premio. Se poi arriva ben venga, ma il mio obiettivo non è avere le pagine di giornale con la mia faccia sopra”. Bisogna impegnarsi ed essere disposti a fare molti sacrifici: “Cerco di imparare e di far crescere il mio sound ogni giorno. E se la mia amata Italia un giorno ci dovesse aprire qualche porta in più, bene! Per me è già una grande soddisfazione avere ragazzi italiani che ci scrivono dicendo che gli Exilia sono per loro un punto di riferimento e che la nostra musica li ha aiutati nei momenti difficili. Credo che questo valga più di mille copertine”.


A cura di Michele Zonelli

HI-TECH

CRACKED.COM

"American's Only Humor Site": si definisce così cracked. com, sito web pronto a raccogliere e catalogare ogni tipo di notizia per poi ripresentarla in chiave ironica, senza rinunciare a riflessioni non banali o velati accenni di satira. Divisi per categorie (come Movies & TV, Music, Sports e Tech), gli argomenti non sono semplicemente riportati così come scoperti sul web, ma redatti secondo logiche ben precise e supportati da tutti gli approfondimenti necessari. I temi trattati attirano senza fatica l'attenzione, a favore di visite piacevoli e periodiche. Design: 3 Accessibilità: 4 Contenuti: 5 Pro: Divertente e redatto con intelligenza. Contro: A tratti dispersivo. Design: 3 Accessibilità: 5

WEBZONE

VIRTUOSO MINI STILO Distribuita da Attiva e realizzata da Kensington, la Virtuoso Mini Stilo concilia design e praticità, garantendo massima precisione ed elevata

Accessibilità: 4 Contenuti: 5 Pro: Ampia community e store interno Contro: Post a volte poco esaustivi

THEGASLIGHTANTHEM.COM

Contenuti: 4 Pro: Divertente e immediato Contro: Monotono sulla distanza.Usare responsabilmente

Una splash-page votata a "Handwritten" anticipa l'homepage di thegaslightanthem.com. Senza rinunciare alle sezioni di rito (come Tour, About e Music), i Gaslight Anthem mostrano grande interesse per i social network, come testimonia la sezione news, pronta a portare in primo piano quanto pubblicato su Twitter, Facebook e Instagram. Una scelta che sicuramente incrementa i contenuti ma che fa pensare più a una pagina di aggregazione che a un portale vero e proprio. Le informazioni cercate sono, ad ogni modo, presenti e lo scopo è ben presto raggiunto. Design: 2 Accessibilità: 3 Contenuti: 3 Pro: Buona integrazione sociale Contro: Grafica omogenea e monotona.

LINKINPARK.COM

ZOOM Q2HD Nota per l'alta qualità dei dispositivi prodotti, l'azienda giapponese Zoom presenta il Q2HD: ultimo nato della personale linea di registratori digitali. Microfono a condensatore con

Forti della pubblicazione di "Living things", i Linkin Park rinnovano il personale spazio online adattandolo alla nuova opera. Il sito richiama in tutto e per tutto l'artwork del CD, presentandosi sobrio e immediato. Le news, redatte in puro stile blog, riportano tutto quanto è legato alla band, con un occhio di riguardo per l'interazione con i fan. Molte le voci presenti nel menu espandibile, voci in grado di soddisfare anche i più esigenti e pronte a coprire una più che invidiabile carriera. Design: 3

VANS.IT

Fondata nel 1966 da Paul e James Van Doren, Serge Delia e Gordon Lee, Vans rappresenta un vero e proprio status symbol, sinonimo di uno stile di vita all'insegna di azione e divertimento. Inizialmente votato all'action sport, il brand ha ben presto abbracciato il mondo della musica e dato vita a eventi come il Warpet Tour. Senza perdersi in inutili presentazioni, vans.it, trasposizione italiana del fratello maggiore vans.com, offre un dettagliato e aggiornato panorama su tutte le attività che coinvolgono l'azienda. Punto di forza resta, come è logico aspettarsi, l'ampio catalogo di prodotti, divisi per genere e sport (skate, surf, BMX e così via). Il negozio online rimanda inevitabilmente al più curato portale americano, mostrando una maggior attenzione per l'e-commerce rispetto alla semplice vetrina destinata a info e curiosità. Lo stesso si può dire dei molti micrositi tematici dedicati alle singole discipline. A fronte della cura riservata a questi ultimi, un restyling di quello che dovrebbe essere il portale principale sarebbe d'obbligo, se non altro per rendere più accattivante una navigazione altrimenti poco attraente.

capacità di risposta. Pensato per tutti i dispositivi muniti di touchscreen, ma principalmente dedicata a iPhone e iPad, questo articolo sembra voler rispondere alle esigenze degli appassionati di app come SketchBook, iAnnotate e Penultimate, tutte quelle, in sostanza, che richiedono un approccio manuale privo dell'ausilio della tastiera di sistema. Estensibile e facilmente trasportabile una volta collegata alla base Dock del vostro dispositivo Apple, la Mini Stilo potrebbe rivelarsi utile in più di un'occasione. www.attiva.com

Design: 2 Accessibilità: 4 Contenuti: 5 Pro: Aggiornato e ricco di utili collegamenti Contro: Layout datato e poco coinvolgente

tecnologia proprietaria Mid-side, in grado di catturare l'audio da diverse posizioni e direzioni, e tecnologia video HD assicurano la cercata qualità . Questo, affiancato alla possibilità di esportare file audio fino a 24-bit e 96KHz e di riversare in diretta streaming sul web quanto si sta registrando, oltre a dettagli tecnici di minor rilevanza ma sintomatici della cura riservata, ne fanno un prodotto affidabile e dalle svariate applicazioni. www.zoom.co.jp

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PRIMO PIANO

L’ALBA DI NUOVO Disappunto quotidiano Far passare un po’ di anni tra un disco e l’altro può essere salutare e permettere a un gruppo di mettere maggiormente a fuoco le proprie idee. È successo alla punk band di Terni che torna con un riuscito secondo album intitolato “La nuova razza”. Di Daniel C. Marcoccia

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parlare con noi è Zino, il bassista, che ci racconta subito con quale approccio il suo gruppo è entrato in studio: “Molte delle nuove canzoni erano state provate ai nostri concerti e dopo svariati live abbiamo pensato che fosse arrivato il momento della giusta maturazione, e come un buon frutto era giunta l’ora di raccoglierlo e condividerlo con gli

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altri! Per questo disco, al contrario del precedente, dove molti degli arrangiamenti furono fatti al momento della registrazione, siamo entrati in studio dopo avere pre-registrato e riarrangiato molti dei brani che, suonati dal vivo, avevano parti che non ci convincevano! Il risultato è un disco più diretto e violento”. “La nuova razza” presenta infatti una maggiore messa a fuoco, sia musicale sia nei testi. Proprio quello che mancava a “Naufrago”: “Anche se a mio parere ‘Naufrago’ è un ottimo disco, questa volta il nostro intento era quello di svincolarci un po’ dal classico hardcore, cercando nuove idee e un modo diverso di arrangiare le canzoni, senza ovviamente stravolgere tutto quello che avevamo fatto prima! Infatti, i testi hanno virato un po’ più su temi sociali piuttosto che su aspetti introspettivi. Sono emozioni, sensazioni e voglia di

raccontare con parole del tutto schiette il nostro disappunto sul quotidiano vivere ormai completamente incastonato nel nostro incosciente. Diciamo che ci piaceva dire quello che pensavamo senza nessun vincolo. Inoltre, come per ‘Naufrago’, abbiamo avuto il pieno appoggio dalla GB Sound, la nostra etichetta, che ha sempre creduto in noi. Un plus da non sottovalutare”. C’è anche una preziosa collaborazione con Brian dei Vanilla Sky: “Cercavamo un ingegnere del suono che potesse dare un po’ di freschezza ai nostri brani. Avevamo sentito alcuni dei lavori di Brian e ci erano piaciuti moltissimo, non sembrano nemmeno italiani ed era proprio quello che cercavamo! Ci colpì subito il suo modo di lavorare sulle voci e sulla ritmica. L’abbiamo contattato e abbiamo deciso di mettere nelle sue mani il frutto del nostro lavoro.

Diciamo che è stata una mossa vincente”. Un piccolo punto della situazione con Zino sulla scena hardcore italiana. “Penso che non sia morta, anzi, secondo noi ci sono tantissime band valide che suonano bene e lavorano sodo. Certo, 10 anni fa era diverso, si organizzavano tanti festival con band, anche sconosciute, e la gente partecipava più intensamente di oggi. Era un piacere fare parte di questa realtà. In Umbria ci si muoveva in una scena invidiabile che, purtroppo, è andata scemando con gli anni. Secondo noi il problema non è da attribuire alla band, ma a coloro che organizzano certi live. Il punk e l’hardcore non fanno più parte del mainstream come lo erano negli anni 90 e quindi chi organizza concerti punta su altro. La scena, però, non è morta, bisogna soltanto dargli una bella defibrillazione”.


local hero

Di Stefano Russo

Questo mese ci siamo spostati dalle parti di Pinarella Di Cervia dove, da anni, chi vuole passare una sana serata rock può recarsi al famosissimo Rock Planet. A parlare con noi è il direttore artistico Alessandro Guerrini, meglio noto come Guerrins.

I

Il tuo locale è attivo da molti anni, uno di quelli storici. Com’è cambiato il tuo lavoro negli anni e quali sono le difficoltà oggi? Alessandro Guerrini: Il Rock Planet, nella sua posizione attuale, è attivo dal 1996 e in questi 16 anni ha sempre cercato di evolversi pur mantenendo il suo spirito rock e una mentalità alternativa rispetto agli altri locali della riviera romagnola. Io qui faccio il DJ da quella data e, assieme ad altri ragazzi e soprattutto al capo de capis Marco Trioschi, creo eventi e organizzo live. Sul nostro palco sono passate molte band icone del loro genere a livello mondiale, e tutte sono sempre state accompagnate da un lavoro di promozione molto curato. Anche la serata che segue a termine del concerto è sempre stata a tema con il live, anche se poi avendo a disposizione 4 o 5 piste, in base alla stagione invernale o estiva, abbiamo proposto tutti i vari generi del rock per far ballare e divertire il nostro pubblico fino a tarda notte. Negli anni, poi, sono stati fatti anche parecchi investimenti per migliorare la qualità estetica e funzionale. A mio avviso, e parlo da DJ, la difficoltà attuale è data dal debole momento che attraversa la musica rock, specialmente tra i ragazzi più giovani: questo porta a una minore conoscenza tra di loro delle “basi storiche” e delle novità più interessanti.

ALESSANDRO GUERRINI ROCK PLANET

Quali pensi siano i punti di forza del locale? A.G.: I punti di forza del nostro locale sono senza dubbio i live importanti, la varietà di musica proposta nelle nostre sale, che oltre a tutti i tipi di rock comprende anche generi per altre aperture mentali, due bellissimi giardini estivi, di cui uno rimane anche d’inverno con la pista e la zona fumatori, e la location, Pinarella Di Cervia, che è una bellissima località balneare e turistica. E poi, essere uno dei locali più alternativi e sempre alla ricerca di qualcosa che magari agli altri piacerà in futuro… Come viene fatta la selezione degli artisti che suonano al Rock Planet? O meglio, come si fa per suonare sul tuo palco? A.G.: La selezione delle band viene stilata con largo anticipo, per avere sempre un calendario dettagliato, e viene scelta dalle proposte dei vari promoter italiani (che propongono gruppi internazionali e italiani di un certo livello), oppure cercando gruppi che stanno per raggiungere la “cresta dell’onda” e magari accompagnandoli a qualche band locale molto motivata. Qui non suonano cover band, perché pensiamo che l’originalità sia un fattore importante! Ad ogni modo, la scelta finale spetta sempre a Marco. www.rockplanet.it

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PRIMO PIANO

FINLEY

Fuoco cammina con noi

Con il loro quarto album i Finley hanno deciso di dare fuoco alle polveri, è il caso di dirlo. Il quartetto si rimette completamente in gioco e il risultato è davvero riuscito. Di Daniel C. Marcoccia

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’incontro con la band avviene all’ora di pranzo in un ristorante cinese dietro la stazione Centrale di Milano. Manca solo Ka, il chitarrista, impegnato in studio. C’è invece Ivan Moro, il nuovo membro ufficiale della band che va finalmente a occupare il posto rimasto vuoto dopo l’uscita del bassista originale due anni fa. Come ci spiega Dani, il batterista: “Avevamo deciso di rimanere in tre perché non è mai facile integrare una persona nuova in un gruppo che esiste da dieci anni. Soprattutto

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se deve pure sostituire qualcuno che c’era fin dall’inizio. Ivan andava a scuola con Pedro e quindi non era uno sconosciuto. Sapevamo poi che musicalmente era molto valido, è un polistrumentista e ci ha dato una grossa mano anche negli arrangiamenti delle nuove canzoni”. Se nel precedente lavoro in studio, “Fuori!”, c’erano le prime avvisaglie di una band che voleva rimettersi in gioco, con “Fuoco e fiamme” i Finley ci sono riusciti pienamente. Lo conferma Pedro: “Col vecchio disco stavamo ancora cercando la strada. Ora ground zero e si riparte. Cerchiamo sempre di fare uno scalino in più… A 26 anni vogliamo metterci alla prova, responsabilizzarci, gestire autonomamente tutto quello che riguarda la nostra musica. Vogliamo avere una struttura snella e più semplice, costituita da noi e in cui una scintilla può diventare fuoco vero. Sono state scelte prese tutte

con consapevolezza, come quella di essere indipendenti e di creare la nostra etichetta”. Le nuove canzoni presentano un suono molto più duro, come se fossero una valvola di sfogo per il gruppo. A rispondere è di nuovo Dani: “Musicalmente, abbiamo sempre fatto quello che volevamo. Arriviamo dal punk rock americano ma crescendo si finisce per ascoltare anche altri generi. Questo disco lo abbiamo voluto fortemente e rappresenta bene quello che sono i Finley oggi”. Importante è stato sicuramente l’incontro con Guido Style, produttore del disco. La parola torna al cantante: “È un amico, lo conosciamo dai tempi del primo disco degli Styles. È un bravissimo produttore, basta vedere cos’ha fatto con J-Ax. È stato grande e ha messo del suo nei brani, evitando l’uso eccessivo di strumenti aggiuntivi ma cercando piuttosto di asciugare il suono. Guido è arrivato alla fine,

dopo che avevamo fatto la pre-produzione da soli nel nostro studio. Lavorare con un nuovo produttore artistico non è mai facile, anche se si tratta di un amico. All’inizio ci sono stati anche alcuni scontri perché noi siamo gelosi della nostra musica, mentre Guido ha molta personalità e si sa imporre. Ma a un certo punto abbiamo capito che potevamo fidarci di lui e ci siamo innamorati del lavoro che stavamo facendo assieme”. “La mia generazione”, una delle nuove canzoni, potrebbe essere il manifesto del disco, tra citazione degli Who e richiami ai Nirvana: “Crescendo, affronti altre tematiche e provi anche l’esigenza di dire alcune cose. Viviamo purtroppo in un periodo in cui i giovani non hanno appoggio dalle istituzioni e studiano senza sapere se lavoreranno”. Maturi, motivati e sicuri dei propri mezzi, questi sono i Finley di oggi.


A cura di Michele Zonelli

games

THE AMAZING SPIDER-MAN

Piattaforma: X360/PS3 Piattaforma: X360/PS3/Wii/3DS/NDS/PC Produttore: Activision Genere: Action In concomitanza con l'uscita nelle sale cinematografiche del nuovo capitolo dedicato all'amato arrampicamuri, arriva sugli scaffali "The Amazing Spider-Man" il videogioco. Se fino a qualche anno fa avvicinarsi a simili tie-in difficilmente appagava, oggi la loro sorte sembra essere finalmente cambiata, in meglio. Inutile negarlo: "Batman: Arkham Asylum" e "Arkham City" hanno fatto scuola e il successo ottenuto non è passato inosservato. Vestiti i panni di un giovane Peter Parker, vivrete un'avventura inedita e appositamente ideata da Seamus Kevin Fahery ("Spartacus: gli Dei dell'Arena" e "Battlestar Galactica). Non un semplice sequel ma una storia ricca di colpi di scena e dal forte carattere. A fare da cornice alle vostre azione, una Manhattan ben riprodotta e interamente esplorabile. Il free roaming gioca un ruolo essenziale, non solo nel dare piacere mentre si volteggia da un palazzo all'altro ma anche nel permettere di scoprire oggetti nascosti e missioni secondarie. Qui la prima similitudine con il citato cavaliere oscuro di casa DC. Punti in comune che continuano nel sistema di combattimento e nello stile narrativo. L'eroe Marvel, infatti, avrà a disposizione (oltre alle mosse corpo a corpo) numerosi potenziamenti che andranno ad ampliare la rosa di combinazioni e attacchi con la tela. Importante menzione ai boss, ricreati in maniera esemplare e pronti a offrire scontri ragionati e non limitati al semplice colpisci e fuggi. Col proseguo, alcune missioni secondarie perdono parte del fascino iniziale, ma basta poco per lasciarsi alle spalle la sensazione provata e riprende a esplorare, ragnatela alla mano, quanto offerto.

LOLLIPOP CHAINSAW

Piattaforma: X360/PS3 Produttore: Warner Bros. Interactive Genere: Action Goichi Suda non è nome ignoto a chi segue con attenzione la scena videoludica, e gli amanti della cultura del Sol Levante sanno che è bene non dare nulla per scontato quando si ha a che fare con lui. Ecco, allora, che dopo "Shadows of the Damned", il talentuoso game director torna con "Lollipop Chainsaw": un'avventura sexy, spassosa, frenetica e... splatter. Un giorno come tanti nella vita della dolce e letale Juliet Starling, se non fosse per il fatto che tutti gli studenti della San Romero High School sono stati trasformati in morti viventi, mutazione che non ha risparmiato Nick, il suo ragazzo. A conoscenza di antichi rituali (Juliet discende da una famiglia di cacciatori di zombie), la cheerleader riesce a salvare l'amato, trasformandolo in una testa parlante e istituendo, nuovamente, il connubio già visto nella precedente opera di Suda. Scoperta, infine, la causa del contagio, inizierete una corsa contro il tempo per salvare l'umanità. Motosega alla mano, vi butterete a capofitto in mischie senza esclusione di colpi, scandite da brutali mutilazioni, assassinii di massa e mosse speciali in puro stile nipponico. E in puro stile nipponico saranno anche gli scontri con i nemici di fine livello, scontri gestiti a ritmo di musica. Sì, perché a ogni signore del male è associato un diverso genere musicale (dal punk rock alla dance anni 70) e starà a voi intuire il modo migliore per sbarazzarvi per sempre della minaccia. Dal punto di vista puramente

tecnico è possibile avanzare alcune critiche (come la gestione della telecamera che non sempre agevola l'azione), ma questo non cambia il giudizio finale di un titolo divertente e ricco di ottimi spunti.

STEEL BATTALION HEAVY ARMOR X360 Capcom/Halifax Anno 2082, gli Stati Uniti si ribellano all'egemonia della Cina. Inizia così un nuovo conflitto Mondiale. Pilota e soldato esperto, al tenete Power è affidata la guida della più distruttiva arma in campo: il Vertical tank. Sviluppato per dare il meglio di sé con i controlli ibridi Kinect, "Steel Battalion" offre soluzioni strategiche, grande potenza di fuoco, danni realistici e un connubio tra ambientazione futuristica e armi della Seconda Guerra Mondiale.

GUILD WARS 2

PC ArenaNet/NCsoft

Atteso da tempo da milioni di giocatori, "Guild Wars 2" si prepara a ridefinire il concetto di gioco di ruolo online multiplayer. Ambientato 250 anno dopo gli eventi narrati nel primo capitolo, il titolo apre le porte di un mondo in continua evoluzione. Quest a scelta studiate per rendere unico il vostro alter ego, eventi dinamici, ambienti vasti e interattivi, inedito sistema di combattimento e riviste interazioni con il team sono solo alcune delle innovazioni introdotte.

TEST DRIVE: FERRARI RACING LEGENDS X360/PS3/PC Atari/Bigben Interactive Atari dedica il nuovo capitolo del proprio brand racing ai fan della Ferrari. Titolo di corse su pista, "Test Drive: Ferrari Racing Legends" ripercorre la storia della Scuderia attraverso le più acclamate vetture della casa automobilistica. Alla guida di gioielli fedelmente riprodotti, affronterete tracciati disseminati in tutto il globo e vi cimenterete in corse di diversa natura (rally, GT, Formula 1), in un tributo senza precedenti.

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crazy net

A cura di Michele Zonelli

BENDER OPERATION GAME Un classico della nostra infanzia (negare non serve) torna in una veste inedita. "Operation", o se preferite "L'allegro chirurgo", incontra Futurama e pone Bender sul tavolo operatorio, pronto a farsi asportare birra, sigari e soldi. www.instructables. com

GNOMBIE ZOMBIE GARNER GNOME

Siete alla ricerca di un'alternativa non convenzionale ai discussi Gnomi da giardino? Niente di più facile. Ecco gli Gnombie, versione zombie delle amate/odiate statuette. Disponibili in due misure e adatti a qualsiasi tipo di vegetazione. thegnombies.com

SPREAD HEADS Uno zombie che rigurgita mostarda e un vampiro assetato di ketcup... non l'ennesima

trovata televisiva di basso livello ma due esilaranti tappi studiati ad hoc per adattarsi ai dispenser in commercio e stupire gli amici alla prossima grigliata. whokilledbambi.co.uk

KEBO

Ispirato a un oggetto creato nel 1930, il Kebo (contrazione di "Bottle Key") toglie dall'impiccio di dover interrompere ciò che si sta facendo per aprire la sospirata birra. Una sola mano, una leggera pressione e il gioco è fatto. Cheers. www.rush3studio.com

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MAGIC UNICORN MASK

Gli unicorni esistono! O forse no. Se il vostro obiettivo è quello di dimostrare a chi vi circonda che il mitologico animale non è solo frutto della fantasia collettiva, allora dovreste prendere in seria considerazione l'acquisto di questo oggetto... www.fredflare.com


A cura di Eros Pasi

“BANTAM CLEAR” SKATE TRASPARENTI

OPEN STORE

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Reebok per Basquiat

Modello iconico di Reebok, la Pump prende la sua ispirazione dal mondo del basket e si reinventa in chiave lifestyle. Questa versione personalizzata dalle grafiche del famoso artista Jean-Michel Basquiat. www.reebok.com

GIRL CORY KENNEDY BACKWARDS DECK

Tavola da skate della nuova collezione Girl Skateboard, marchio tra i preferiti dagli skater di tutto il mondo grazie anche alle numerose e stravaganti grafiche. Prezzo: € 55,00 www.girlskateboards.com

Osiris

Sneaker in suede beige con inserti in pelle nera. www.osiris

CLICHé SKATEBOARDS LETTERPRESS BLACK T-SHIRT T-shirt in cotone della collezione Cliché 2012. www.blast-distribution.it

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THE GASLIGHT ANTHEM

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opo lunghi corteggiamenti siete infine approdati ad una major. Quanto ha influito sul nuovo lavoro in termini di pressioni? Brian Fallon (voce e chitarra): Sostanzialmente in nessun modo, nel senso che ci hanno messo sotto contratto proprio per continuare a fare quello che abbiamo sempre fatto in passato. Per quanto riguarda invece l’evoluzione che può aver avuto la nostra musica, credo non abbia alcun collegamento con la nuova etichetta, ma che sia solo il nuovo tassello di un percorso iniziato anni fa. Sicuramente abbiamo il doppio del lavoro di fare a livello promozionale: il doppio delle interviste, dei giornali, dei poster… E questa è una grande cosa! In effetti su Wikipedia venite ancora etichettati come band punk rock, ma credo che sia palese la vostra trasformazione in una vera e propria band di rock americano classico. B.F.: Sì, in effetti è vero, anche se credo che siamo riusciti a

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Le maggiori case discografiche mondiali giravano intorno ai Gaslight Anthem da tempo, ma il classico cliché secondo cui tutte le band indipendenti che passano ad una major finiscono inevitabilmente per perdere mordente, nel loro caso, non trova alcuna conferma. Un gentilissimo Brian Fallon ci racconta quanto tutti i recenti cambiamenti abbiano influito sul nuovo “Handwritten”. DI Luca Garrò

mantenere un filo conduttore con le nostre origini musicali e che si possa trovare ancora in “Handwritten”. Joe Strummer rimane uno dei miei punti di riferimento assoluti e la sua carriera, sia con i Clash che successivamente, dimostra quanto etichettare una band in genere sia spesso assurdo. Se parliamo prettamente di sonorità, i Clash dal secondo album in poi con il punk hanno avuto ben poco a che spartire. È una questione di filosofia di vita. Probabilmente oggi incarniamo due delle anime del Jersey Sound: quella punk dei Misfits e quella classica di Springsteen. Potrebbe essere simile al percorso di Patti Smith: dal proto punk ad una classicità sempre più marcata… B.F.: Ti ringrazio, ma credo che si stia correndo un po’ troppo (ride). Non mi sogno di paragonarmi a nessuno di questi mostri sacri. Certo, i complimenti fanno piacere, come a tutti gli esseri umani, ma credo che alla lunga i paragoni possano solo portare a fare confusione in chi si

avvicina alla nostra musica e probabilmente, alla lunga, anche in noi stessi. Quanto è cambiato il tuo approccio alla scrittura nel tempo? B.F.: Mi rendo conto che il mio modo di scrivere sia inevitabilmente cambiato col tempo, nel senso che a volte leggere cose scritte parecchi anni fa mi imbarazza un po’. Credo tuttavia che sia normale, fa parte della crescita di qualsiasi persona e non solo di un musicista. Quello che però mi spinge a scrivere è più o meno sempre lo stesso. Non sono un professionista della scrittura, non mi metto la mattina col taccuino in mano e dico: “Ora scrivo una canzone”. Sono molto altalenante e spesso mi viene l’ispirazione giusta proprio quando non ho nulla con me per poterla annotare. In questo senso mi aiuta molto la tecnologia, che mi permette di registrare un motivo che nasce nella mia testa tirando solo fuori il mio cellulare! Di sicuro un tempo partivo sempre dalle liriche, perché era la cosa che mi riusciva più facile

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THE GASLIGHT ANTHEM Internet ha ucciso il music

business?

Forse ha

ucciso quel

tipo di music business, figlio degli anni ottanta e novanta e ormai totalmente fuori da ogni schema e logica.

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esprimere, ora invece può nascere tutto da una melodia: ho imparato negli anni che la musica ha molto da dire. Quindi non hai in comune con il tuo fan Springsteen la facilità di scrittura a getto continuo… B.F.: Assolutamente no! Lui ha i taccuini pieni di testi, che scrive in ogni momento della sua giornata. Credo sia l’autore più prolifico sulla faccia della terra. Uno dei miei sogni è sempre stato quello di poter entrare un giorno nei suoi archivi e poter ascoltare tutti i pezzi che ha registrato e scartato nella sua carriera (ride). Devo ammettere però di essere particolarmente prolifico quando sono in tour, nonostante sia il momento in cui ho meno tempo durante l’anno. Forse la pressione mi aiuta a scrivere! Le case discografiche continuano a sostenere che Internet abbia ucciso il music business, ma credo sia quantomeno un concorso di colpa. B.F.: Internet ha ucciso il music business? Forse ha ucciso quel tipo di music business, figlio degli anni ottanta e novanta e ormai totalmente fuori da ogni schema e logica. Sicuramente ha ucciso un certo modo malato di vendere musica e ne ha creato un altro, che spero col tempo possa diventare più democratico nei confronti tanto degli artisti che dei fan. Un sistema come quello non poteva che finire, internet o non internet non avrebbe avuto alcun futuro. Si possono però cercare altre vie, basta ingegnarsi e non avere più come fine ultimo quello di fregare il prossimo. Quindi hai un ottimo rapporto con la Rete? B.F.: Sicuramente. L’aspetto negativo del download illegale è ampiamente minore rispetto alle possibilità che la rete dona da mille punti di vista. Inoltre, come ti dicevo prima, il download illegale stesso è stato semplicemente una risposta sbagliata ad un sistema completamente sbagliato e truffaldino. Una sorta di rivolta degli schiavi inevitabile. Uso moltissimo i social network, in particolare Twitter con il quale chiedo ai fan i brani che vorrebbero sentire dal vivo. Ultimamente ho smesso perché tutte quelle richieste mi facevano impazzire e al momento di scegliere iniziavo ad avere attacchi di panico (ride). Anche se in realtà il titolo del nuovo album sembra far riferimento alla parola scritta di pugno piuttosto che battuta su una tastiera… B.F.: È vero, è proprio quello che volevamo specificare quando abbiamo scelto il titolo del disco. Forse fa sempre parte di quelle differenti parti di noi di cui parlavamo prima, quelle che ci permettono di scrivere brani allo stesso tempo freschi, ma comunque legati ad un passato ben preciso. Penso che il vero e maggiore problema legato alla tecnologia, quindi non ad internet stesso, sia che non sappiamo più scrivere a mano, abbiamo perso completamente l’abitudine della scrittura e penso sia un processo irreversibile. Ho utilizzato il termine “Handwritten” proprio perché mi ricordava le lettere d’amore scritte su carta, ma anche le comunicazioni di ogni giorno come un bigliettino lasciato sul tavolo o un appunto sull’agenda. Si è persa un po’ quella poesia. Quanto ha influito sul disco e su voi come persone lavorare con Brendan O’Brien? B.F.: Penso che la sua influenza sul disco sia lampante fin dal primo ascolto. Ha portato un’energia in sala di registrazione che non pensavo potesse esistere! Non è il classico produttore che paghi e fa bene il suo lavoro: lui è un’entusiasta, continua ad abbracciarti, ti incita e si esalta quando sente qualcosa che lo elettrizza. È una delle persone più positive incontrate in questo settore. Ha lavorato con noi come se stesse lavorando con Springsteen, i Pearl Jam o i Soundgarden. Una rivelazione completa. Se ti trovassi di fronte una persona proveniente da un altro pianeta e dovessi spiegargli a parole la tua musica, cosa gli diresti? B.F.: So che non è per niente rock’n’roll, ma gli direi che la nostra è musica per gente semplice. Non siamo mai stati una band da party continui, siamo persone molto tranquille, così come quelli che vengono a vederci e comprano i nostri album. Se cercasse musica per gente ultra cool non gli consiglierei certo di venire a vederci dal vivo!!

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Combat rock

ANTI-FLAG

Da sempre in prima linea, la band che ha raccolto l’eredità dei Clash è ancora pronta a scendere in piazza per difendere chi protesta contro i veri colpevoli della crisi. Parola di Justin Sane. Di Arianna Ascione

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n nuovo disco, una nuova protesta: “The general strike”. Aspirate a diventare la colonna sonora dello sciopero generale internazionale convocato per il Primo Maggio (“Occupy May Day”, nda) in tutto il mondo? Justin Sane (voce/chitarra): Lo spero davvero! Noi speriamo che la nostra musica arrivi alla gente che sta lottando per ottenere dei cambiamenti positivi, sia dal punto di vista sociale che dal punto di vista politico. E il movimento “Occupy May Day” si sta impegnando parecchio su questo fronte. A proposito di sciopero, la vostra musica è sempre stata caratterizzata da un deciso e forte impegno sociale. “The general strike” non si smentisce ed è un disco molto diretto

a livello di testi. A dire la verità, però, il vostro pensiero investe anche ambiti extramusicali: come descriveresti in poche parole questa vostra lotta? J.S.: Noi lottiamo per la giustizia, l’uguaglianza e la libertà, e lo facciamo in nome di chi non ha queste cose. Un bel po’ di mesi fa siete stati tra gli artisti, come ad esempio la cantante folk Joan Baez, che sono scesi in piazza per la manifestazione “Occupy Wall Street” a New York. Si è parlato davvero moltissimo di questo movimento e delle iniziative che sono state organizzate a supporto. Com’è stato andare in mezzo alla gente? J.S.: “Occupy Wall Street” è un gruppo di opposizione, con un’agenda molto fitta di

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ANTI-FLAG

la gente ha raggiunto un punto critico in cui non è pronta per rilassarsi e dire “Andate avanti, fotteteci. Noi staremo qui senza fare nulla 28 RockNow


impegni. In generale credo che la chiamata della gente sia una chiamata per la giustizia e l’uguaglianza. Molti dei vostri dischi sono usciti nel periodo in cui George W. Bush era Presidente degli Stati Uniti. Adesso quel ruolo è ricoperto da Barack Obama. Quali sono le differenze? J.S.: Ti dirò, non vedo tutte queste differenze tra i due periodi di governo. Molte dinamiche sono sempre le stesse, soprattutto per quanto riguarda i governi e le banche. Ci sono differenze invece nei movimenti che hanno caratterizzato queste epoche: la gente ha raggiunto un punto critico in cui non è pronta per rilassarsi e dire “Andate avanti, fotteteci. Noi staremo qui senza fare nulla”. C’è chi si è lamentato della mancanza di reazione della gente. J.S.: Le persone stanno continuando a combattere e stanno chiedendo cambiamenti per andare oltre la “fine della guerra”. I movimenti fanno la differenza. Tra qualche mese i cittadini degli Stati Uniti saranno di nuovo chiamati alle urne per eleggere un nuovo Presidente, o rieleggere quello vecchio, visto che Obama si è ricandidato. State seguendo le campagne elettorali per le prossime elezioni? J.S.: Non ci penso. I politici sono le puttane delle corporazioni. Magari uno è soltanto meno peggio dell’altro. Non c’è molto altro da dire. Pensate che per una band politicamente impegnata possa essere pericoloso “accanirsi” contro un solo soggetto o un solo obiettivo? Anche perché i governi cambiano e si rischia di rimanere senza nulla da dire se si è, per così dire, monotematici nelle proteste. J.S.: Penso che se sei un artista devi sempre creare qualcosa basandoti su quello che ti ispira o quello che ti fa arrabbiare. Se lo fai, allora sei sulla strada giusta. Cambiando discorso, come vanno le cose con la vostra etichetta, la A-F Records? J.S.: Stiamo lavorando su un nuovo esclusivo picture-disc degli Anti Flag. Sarà sicuramente una cosa molto bella. Tenete gli occhi aperti! Parlando di discografia: un sacco di persone, tra cui Sean Parker, fondatore di Napster (il primo programma di file sharing, nda), pensano che Spotify, il sito che offre on demand e a pagamento lo streaming di brani tratti da un enorme archivio, sarà il futuro anche per la discografia. Voi cosa ne pensate? J.S.: È troppo presto per dirlo, ma io ne dubito. C’era un periodo in cui la gente diceva che MySpace era il sito più importante in assoluto e indovina un po’? Non è più così oggi. È troppo presto, in questo periodo di rivoluzione – per quanto riguarda Internet – fare previsioni su come andranno le cose. Ma a livello specifico, cosa ne pensi di questo genere di piattaforme? J.S.: Mi piacerebbe vedere una piattaforma che non sia basata sulle società. Penso che sarebbe la piattaforma più divertente e più democratica. L’anno scorso siete passati dall’Italia come gruppo di supporto per i System Of A Down. Un sacco di gente con cui ho parlato mi ha detto di aver apprezzato molto il fatto che siete scesi a suonare letteralmente in mezzo alla gente. Vi piacciono ancora le arene con così tanto pubblico o preferite i club più piccoli? J.S.: In realtà mi piacciono tutte e due le situazioni, perché sono molto diverse, e molto divertenti, per motivi opposti. Tra l’altro, dovremmo tornare da voi quest’estate. Ho letto del vostro ANTIFest: ci potete raccontare qualcosa di più? J.S.: È stata una bella opportunità per celebrare l’eredità degli Anti-Flag come band e della comunità musicale in cui siamo nati. È andato in scena ai primi di maggio, presso l’Università dell’Hertfordshire. Chi ha suonato nel vostro festival? J.S.: Abbiamo suonato noi, The Bouncing Souls, The Skints, The Menzingers, The Computers, Red City Radio e Leagues Apart. Erano presenti anche PETA, Amnesty International ed Emmaus UK. Beh, è bello che una band cerchi di conciliare sia l’aspetto musicale che quello sociale. Anche perché un festival può raggiungere e comunicare in un colpo solo con molti individui. J.S.: Alla fine penso che i festival migliori siano quelli organizzati dagli artisti.

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linkin park

Cose della vita 30 RockNow


Nessuno potrà mai rinfacciare ai Linkin Park di fare sempre lo stesso disco. D’altronde, il gruppo californiano ci ha abituati a svolte drastiche e spiazzanti da un album all’altro. Un’abitudine che viene confermata anche dal recente “Living things”. Di Jack Vincennes

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uesto nuovo album arriva relativamente presto, a meno di due anni dal precedente “A thousand suns”… Rob Bourdon (batteria): È vero, non siamo mai stati così rapidi tra un disco e l’altro. Abbiamo finito il tour precedente molto tardi, lo scorso ottobre, e siamo entrati subito in studio. Chester Bennington (voce): Abbiamo scelto e mixato il singolo ancora prima che il disco fosse finito. Abitualmente non succede proprio così, ma abbiamo cambiato le nostre abitudini per questo nuovo album. Stavamo attraversando un ottimo periodo di forma e dovevamo approfittarne. Per la prima volta nella nostra carriera ci eravamo dati un obiettivo e lo abbiamo raggiunto. Solitamente ci diamo sempre delle deadline che poi non rispettiamo mai, mentre questa volta sapevamo di avere qualcosa di buono tra le mani e abbiamo quindi corso.

Sembrate particolarmente entusiasti in questo preciso momento della vostra carriera! R.B.: Sì, siamo felici e soddisfatti di questo nuovo disco, non vediamo l’ora di suonare insieme queste canzoni dal vivo dal momento che non abbiamo avuto veramente l’occasione di farlo visto che abbiamo scritto e registrato separatamente. Molti di questi pezzi saranno davvero interessanti da suonare dal vivo. Siete stati parecchio ispirati visto che, appena uscito “A thousand suns”, vi siete rimessi subito a scrivere le canzoni di “Living things”? C.B.: Ancora una volta abbiamo deciso di cambiare le nostre abitudini. In passato, per “Hybrid theory” e “Meteora”, scrivevamo il disco e stavamo dieci o dodici mesi in studio per registrarlo. Poi andavamo in tour per due anni. È

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linkin park

In passato, per “Hybrid theory” e “Meteora”, scrivevamo il disco e stavamo dieci o dodici mesi in studio per registrarlo. Poi andavamo in tour per due anni. È piuttosto facile capire come sono stati i nostri primi sei anni di carriera: due di studio e quattro di tour. piuttosto facile capire come sono stati i nostri primi sei anni di carriera: due di studio e quattro di tour. La gente veniva poi a chiederci perché avevamo registrato solo due dischi in quel lasso di tempo e pensava che ce la prendessimo comoda. Invece lavoravamo come dei pazzi. A un certo punto ci siamo detti che non potevamo pubblicare ogni volta un altro “Hybrid theory” e che volevamo fare dei dischi con delle sonorità diverse. Abbiamo quindi deciso di operare una svolta nella carriera del gruppo e di gestire meglio il nostro tempo. Abbiamo adottato un nuovo ritmo, facendo ad esempio sei settimane di tournée e poi cinque a casa. In questo modo abbiamo notato che eravamo sempre freschi. E cosa succede a un artista fresco quando è a casa? Crea! Infine, con tutta la tecnologia magnifica che abbiamo a disposizione oggigiorno, possiamo portare con noi un computer o del materiale dello studio ovunque. Ci siamo così ritrovati a comporre in aereo o in macchina nel tragitto per il concerto. Un beat qui, una melodia là… e alla fine del tour avevamo parecchio materiale e delle idee molto interessanti. A quel punto ci siamo detti che dovevamo assolutamente entrare in studio. Sette mesi dopo abbiamo un fottuto disco tra le mani e siamo qui a parlarne. Il nostro obiettivo è quello di fare un disco nuovo ogni diciotto mesi. Con “Living things” ci siamo riusciti. Oggi si capisce come il precedente “A thousand suns” abbia dato il via a questo cambiamento… R.B.: Quel disco è stato per noi l’occasione per rimettere in questione tutto quello che pensavamo del gruppo. Ci siamo ritrovati in studio a fare delle jam o a registrare delle idee. Questo ci ha permesso di crescere anche

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come musicisti e di lavorare meglio insieme. Abbiamo imparato moltissimo da ognuno dei nostri dischi, in particolar modo da “Minutes to midnight” per il quale abbiamo passato un anno a sperimentare dei suoni e a provare delle chitarre… Ci ha aiutato moltissimo al momento di realizzare “A thousand suns”. Sono due capitoli importanti della nostra storia. Abbiamo voluto sperimentare anche con “Living things” ma ci piacciono anche le canzoni ben strutturate, con i ritornelli potenti e sicuramente più facili da assimilare. Anche questo si avverte nel nuovo disco. Durante la lavorazione di “Living things” abbiamo ascoltato parecchio folk, una musica semplice, mentre nello stesso tempo eravamo alla ricerca di nuovi suoni sintetici. Abbiamo sempre voluto esplorare nuovi territori e mischiare stili che non sono per forza riconducibili ai Linkin Park. C.B.: Siamo arrivati a questo punto della nostra carriera in cui ci sentiamo davvero bene nella nostra pelle e possiamo permetterci tutto quello che vogliamo. Non abbiamo più niente da dimostrare, a noi stessi come agli altri. Non rineghiamo nulla di quanto abbiamo fatto in passato e ci piacciono tutti i nostri dischi. Ci esalta però il fatto che i nostri fan sappiano che possiamo andare in qualunque direzione e sorprenderli un po’. O parecchio (ride). Su “Living things” siamo stati meno dispersivi. Abbiamo scritto molte canzoni folk, con delle belle chitarre e delle melodie ripetitive… Ma Rick Rubin (co-produttore del disco) è venuto a trovarci un giorno e ha detto: “Questi brani sono geniali ma volete veramente fare un disco folk?”. Non era affatto nelle nostre intenzioni e abbiamo quindi riarrangiato brani come “Roads untraveled”, “Skin and bones” e “Castle of glass”, che alla fine sono molto Linkin Park.



THE OFFSPRING Le sorprese con gli Offspring non mancano mai. D’altronde, nel corso della loro lunga carriera hanno spiazzato più volte i propri fan con singoli “bizzarri” e sicuramente distanti dal prototipo della canzone punk/rock. Succede anche con “Cruising California”, primo singolo estratto dal loro recente nono album in studio “Days go by”. A parlarci di questo e d’altro ci pensa il chitarrista Noodles. Di Daniel C. Marcoccia

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uesto nuovo disco arriva puntuale con l’estate e racchiude alcune tracce che sembrano fatte apposta per fare da colonna sonora alla bella stagione, come il primo singolo oppure “OC guns” con le sue sonorità reggae e i fiati in stile mariachi. Quanto è importante per voi provare a fare cose diverse? Noodles (chitarra): Direi che è necessario se vuoi che la tua musica abbia sempre una certa freschezza. Suoniamo un genere in cui è facile rimanere confinati nei soliti accordi e riff, per cui ogni tanto può essere divertente cercare di integrare altre sonorità nella nostra musica. Resta inteso il fatto che noi amiamo il punk/rock e riteniamo che sia ancora il nostro genere musicale di appartenenza (ride). Qualcuno vi ha mai rinfacciato il contrario? N.: No, mai. Al massimo, qualche amico o fan è rimasto sorpreso da alcuni nostri brani giudicati poco punk. Ma questo si riallaccia al discorso fatto poco fa e alla voglia di sperimentare a fare cose diverse. Amiamo ancora stare in studio per provare cose nuove e registrare un disco come ci piace.

giudicato un po’ troppo pop… N.: (ride) Sì, lo so benissimo. In effetti questo brano spiazza un po’, ma va bene così. Siamo consapevoli che molti odiano alcuni nostri singoli ma poi, alla fine, finiscono spesso per canticchiarli. “Cruising California” può sembrare strano all’inizio ma dopo, quando entrano le chitarre e la voce di Dexter, diventa inconfondibilmente Offspring. È una canzone che parla di ragazze e di spiagge, un tema sicuramente poco cupo ma abbiamo anche noi il nostro lato oscuro (ride). Avete alle spalle una lunga collezione di hit e infatti fate praticamente sempre centro con i vostri singoli. È una vostra prerogativa, visto che oggi si scaricano essenzialmente canzoni e non album? N.: Pensa che io continuo a leggere anche i credits dei CD che compro, ma forse sono old school (ride). Non voglio insegnare alla gente come ascoltare musica, ho anch’io dei figli che ascoltano di tutto. Ma posso dire che se ti piace un gruppo per via di una canzone, allora prova ad ascoltare anche l’album intero. Dietro c’è tutto un lavoro e le altre canzoni meritano quanto il singolo che si sente in radio.

SOGNANDO C Come il nuovo singolo “Cruising California”, che qualcuno ha

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Avete scelto di lavorare nuovamente con Bob Rock, già produttore del precedente “Rise and fall, rage and grace”. Cosa vi piace particolarmente del suo modo di lavorare? N.: In effetti ci eravamo trovati molto bene con lui e quindi ci sembrava giusto continuare a lavorare assieme. Bob sa come tirare fuori il meglio di te e spiegarti cosa non va in una canzone. Anche questa volta è stato perfetto. È cambiato negli anni il vostro approccio alla scrittura? N.: No, direi che la maggior parte delle volte tutto parte dalla melodia che spesso Dexter ha in testa e poi ci costruiamo attorno la canzone. Lo so che può sembrare banale ma è così.

Quali sono gli obiettivi degli Offspring nel 2012? N.: A noi interessa continuare a scrivere delle buone canzoni che rimangono in testa e nel cuore della gente e di cui siamo soddisfatti. E ovviamente fare dei dischi e suonarli davanti a un pubblico che alla fine è contento di aver speso bene i propri soldi per un nostro concerto. Non siamo ancora stufi di suonare le nostre canzoni, anche quelle più famose come “Self esteem”, “The kids aren’t alright” o “Pretty fly for a white guy” che la gente vuole ascoltare sempre e che devi per forza mettere in scaletta.

“Days go by”, la canzone, racchiude un messaggio positivo e invita a non arrendersi mai, anche nei momenti più difficili. N.: È importante anche fare passare messaggi di questo tipo, soprattutto in un periodo come questo di profonda crisi e in cui molte persone sono prese dallo sconforto. Bisogna avere sempre fiducia, le cose andranno meglio e tutto si risolverà.

Non sei mai stato interessato a fare un disco da solista o a dare vita a un side-project, come fanno molti tuoi colleghi? Gli Offspring rimangono la tua unica priorità? N.: Amo suonare la chitarra, mi diverto a farlo anche quando sono a casa, magari interpretando alcuni pezzi blues o jazz, ma non ho mai sentito l’esigenza di fare cose da solo. Mi piace troppo suonare con la mia band e quindi non sento l’esigenza di avere un progetto parallelo. Quando sono a casa mi piace fare surf, bere birre e andare in giro con la mia famiglia. Oltre a suonare la chitarre, ovviamente.

Siete preoccupati dalla crisi mondiale? Sentite il bisogno di parlarne? N.: Ovviamente siamo molto attenti a quello che succede nel mondo ma alla fine preferiamo lanciare messaggi come quello di “Days go by” appunto, piuttosto che dedicare una canzone a un argomento ben preciso. Questo non significa tuttavia che ce ne freghiamo della politica e della società, anzi.

Nel vostro pubblico c’è una nuova generazione di fan, alcuni dei quali erano appena nati all’epoca di “Ignition”, il vostro secondo album… N.: Vedo spesso, infatti, dei papà con figli ai nostri concerti. È incredibile, ma magari tra qualche anno ascolteranno altre cose e diranno ai genitori “fuck daddy, I prefer this!”.

CALIFORNIA

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THE HIVES Una potenza senza precedenti, i veri trionfatori della preview del Rock in IdRho andata in scena a giugno. Li abbiamo incontrati prima della loro esibizione, in attesa del loro ritorno da headliner in autunno. Di Arianna Ascione

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iete praticamente sempre in giro: quando avete trovato il tempo di fare un disco? Nicholaus Arson (chitarra): Abbiamo fatto un lunghissimo tour dopo aver pubblicato “the black and white album”, è durato circa due anni e mezzo. Subito dopo ci siamo messi al lavoro su “Lex Hives”. Di solito prima di scrivere un nuovo disco dobbiamo finire il tour. Una volta archiviato, facciamo il punto della situazione e registriamo i demo. Ci siamo comunque presi tutto il tempo che ci serviva. Dal punto di vista live siete una delle band più potenti in assoluto, a mio parere: lo show è sempre di gran classe e riuscite a conquistare il pubblico che viene a vedervi, sia che suoniate in un piccolo club che nei palazzetti o nei festival. Tenete in considerazione questo aspetto quando vi mettere a scrivere i brani di un nuovo album? N.A.: Ci troviamo molto a nostro agio con questo aspetto. Quando abbiamo finito il disco, prima di partire per questi concerti, abbiamo fatto un piccolo tour segreto nei club, giusto per essere sicuri che i nuovi pezzi “funzionassero”, per così dire. Ci piacciono sia quelle situazioni, i piccoli club intendo, che i posti con migliaia di persone. Una volta vi ho visti suonare ad un festival in Germania, l’Hurricane. Sicuramente avrete provato più volte questa sensazione, ma mi ha impressionata molto girarmi e vedere un tappeto di 20/30mila teste. Non so come facciate a stare sul palco di fronte a tutta quella gente, dev’essere una sensazione stranissima… Dr. Matt Destruction (basso): Beh, se suoni in un piccolo club sei sicuramente più a contatto con il pubblico rispetto ad un festival open air. Ma è bello anche esibirsi, come dici tu, di fronte ad una distesa di gente che sembra infinita. Guarda, alla fine, il “segreto” è uno solo: bisogna avere le canzoni. Se sali su un palco del genere e non hai i pezzi, allora sì che c’è da aver paura! Un altro aspetto per cui siete conosciuti, insieme al forte impatto dal vivo, è la divisa. Le vostre uniformi sono sempre cambiate nel corso degli anni: immagino che siate voi ad occuparvi anche di questo aspetto. Chris Dangerous (batteria): La gente pensa che siamo i James Bond del punk ahahah! Scherzi a parte, sì decidiamo tutto noi. “Lex Hives” racchiude una carica impressionante di energia, non è un risultato facile da ottenere. N.A.: Con “The black and white album” avevamo iniziato un percorso, diverso da tutto quello che avevamo realizzato in precedenza, e con il nuovo disco abbiamo cercato di portarlo avanti. Forse è per questo che suona molto più energico. Qualche tempo fa un vostro pezzo, “Tick tick boom”, accompagnava lo spot di un’auto. Forse adesso, tra il pubblico del Rock in IdRho, c’è qualcuno che vi ha conosciuti grazie a quello. In generale vi dà fastidio questa cosa? C.D.: Per noi è stato un vero e proprio esperimento. Vedi, da quando abbiamo iniziato a suonare, all’inizio degli anni Novanta, abbiamo sempre detto di “no” a tutto. No a questo, no a quello, per dieci anni… ma ad un certo punto eravamo stanchi, ci siamo poi chiesti cosa sarebbe successo se avessimo detto di “sì”. Non a tutto, ma ad alcune cose… E abbiamo accettato. Voi arrivate dalla Svezia. C’è un’altra grande band, che arriva sempre dal vostro Paese, che si è riunita proprio poco tempo fa: i Refused. Ho visto che avete fatto dei concerti insieme, com’è andata? D.M.D.: Sì, abbiamo fatto un tour negli Stati Uniti con i Refused. È stato davvero magico, loro sono una delle migliori band live in assoluto. Hanno una carica incredibile. Mi ricordo di quando abbiamo suonato a San Francisco, è stato bellissimo.

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AVANT TUTTA!!!


TI

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SHINEDOWN

A quattro anni dal precedente "The sound of madness", gli Shinedown tornano con "Amaryllis": album dal forte impatto radiofonico e manifesto di una continua e costante crescita artistica. Di Piero Ruffolo - Foto James Minchin III

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uattro anni sono un periodo relativamente lungo tra due pubblicazioni, periodo giustificato dal fatto che avete trascorso gran parte del tempo on the road. Come è stato tornare a casa e dedicarsi alla nuova produzione? Barry Kerch (batteria): Rientrare in studio è stato appagante e, per molti aspetti, rilassante. Finalmente eravamo di nuovo a casa. Abbiamo trascorso un po' di tempo con le nostre famiglie e con i nostri amici, poi abbiamo iniziato a scrivere e registrare. Abbiamo lavorato con lo stesso team di "The sound of madness" e tutto si è svolto in totale

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Folli conc armonia. Durante l'ultimo tour siano cresciuti molto, il nostro rapporto si è consolidato e, musicalmente parlando, abbiamo compiuto notevoli passi avanti.

rimasto con brani mediocri. Tutte le canzoni hanno lo stesso peso e sono state realizzate con la medesima cura. Siamo orgogliosi di quanto fatto.

Obiettivi chiari fin da subito? B.K.: Inizialmente volevamo realizzare una sorta di concept album e ci siamo mossi verso quella direzione, ma nient'altro è stato deciso a priori. L'unica cosa importante era realizzare un lavoro completo, sotto ogni punto di vista. Un disco deve rappresentare un'esperienza unica per chi lo ascolta. Non ci interessa registrare solo due o tre singoli di successo e poi riempire lo spazio

Ancora una volta, avete composto più materiale del necessario e siete stati costretti a fare un lavoro di selezione. Come avete affrontato questo passaggio? B.K.: Il processo è organico e naturale. Quando hai chiuso tutti i brani, sai esattamente quali utilizzare e in quale ordine. Non esiste una regola, si tratta di istinto ed emozioni. Per determinare la sequenza precisa, solitamente partiamo dalla


ia cettuale prima e dell'ultima canzone e da qui costruiamo la scaletta. In questa fase coinvolgiamo tutti: manager, produttore, etichetta... Ascoltiamo pareri e suggerimenti, poi diciamo la nostra. A noi l'ultima parola. Il panorama musicale è in continuo fermento e nel corso degli ultimi anni la Rete e le nuove tecnologie hanno aperto vie prima raggiungibili solo da pochi... B.K.: Sono fortunato: suono con ottimi musicisti e ciò che registriamo è ciò che presentiamo in sede live. Sfortunatamente non è così per

tutti. L'innovazione portata dal digitale, se usata impropriamente, può solo nuocere. Risultare bravi su disco oggi è facile, tutti lo possono fare, ma la vera sfida arriva in tour. Non puoi fare finta ed è terribile per chi ti ascolta realizzare che quanto hai registrato è frutto di pesanti elaborazioni digitali e nulla più. Hai qualche consiglio per chi si avvicina ora alla musica? B.K.: Divertitevi, siate rock'n'roll e amate ciò che fate. Non affrontate questo ambiente senza essere preparati, il mondo della musica sa essere

davvero crudele. Non montatevi la testa: non sarete mai delle rockstar. L'unico momento in cui potrete sentirvi tali è quando salite sul palco, che sia nel locale vicino a casa davanti a pochi amici e in un'arena piena di gente poco cambia: dovete dare sempre il meglio. Se volete fare festa tutte le notti, stare ogni giorno con una ragazza diversa e consumare quantità esagerate di alcolici, allora lasciate perdere. Ho visto un sacco di realtà finire per colpa di eccessi e abusi. Noi facciamo questo per vivere, amiamo quello che facciamo, per noi non è un lavoro ma è come se lo fosse e come tale deve essere affrontato e gestito.

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DEROZER Tremate, tremate, i rozzi son tornati! Dopo una lunga pausa, durata ben quattro anni, i Derozer hanno deciso di dimostrare al (loro) pubblico che la band è più viva che mai: lo storico frontman Seby ci ha spiegato come e perché. Di Stefano Russo

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ome sta andando finora questo ritorno on stage? Seby (voce): Direi alla grande! Tanto entusiasmo, tanta gente. Ci stiamo davvero divertendo.

i h c i Il r

23 anni di carriera non sono uno scherzo, in Italia (e in tutta Europa) ben poche band vantano così tanti anni di attività: cosa mantiene vivo in voi, ancora oggi, il fuoco dell'inizio? Seby: La passione per la musica e l'amore per la vita on the road. Grazie alla pausa abbiamo ritrovato tutti gli ingredienti giusti e l'energia di un tempo. Certo, non è facile, bisogna dosare in modo perfetto tutti gli ingredienti. Qual è stato il principale fattore scatenante dietro la vostra reunion? Non riuscivate a stare lontano dai palchi? Seby: In realtà non ci siamo mai sciolti, avevamo deciso di prendere una pausa che poi per vari motivi si è prolungata per ben quattro anni. Abbiamo sempre saputo che prima o poi saremmo tornati a calcare i palchi, e abbiamo semplicemente aspettato il momento giusto. La vostra tribù come sta? L'avete trovata cambiata in qualche modo? Seby: Ti dirò, in tutto questo tempo la tribù rozza non ci ha mai abbandonato per un solo istante. I ragazzi ci sono sempre rimasti vicini. Chiaro, il tempo passa, ma l'energia e la passione della tribù sono rimasti intatti. Nei vostri dischi più recenti avete preso una piega "sociale" sempre più marcata, almeno per quanto riguarda gli argomenti trattati nei testi: come state vivendo questo difficile momento di crisi? Seby: Penso che i testi siano semplicemente cresciuti con noi, a 40 anni sarebbe ridicolo scrivere le stesse cose che scrivevi a 20, non trovi? Per il resto, noi siamo tutti figli di operai e la nostra vita è sempre stata in crisi. Certo, ora le prospettive sono molto più scure e non si vede la luce fuori dal tunnel. Più che altro fa veramente incazzare la classe dirigente super privilegiata. Si parla di un nuovo disco in arrivo per il 2013… Seby: Sì, se tutto va come deve andare pensiamo di iniziare le registrazioni per la fine dell'anno e uscire dunque nella primavera del 2013, sempre che i Maya si siano sbagliati. Avreste mai pensato di arrivare a pubblicare un "Best of"? Seby: Figurati, agli inizi non pensavamo nemmeno di arrivare a suonare a Milano, poi un bel giorno eravamo in un backstage a Toronto. Quindici anni fa ero un teenager alle prime armi con musica e concerti, ed i gruppi

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punk di punta del nostro paese eravate voi, i Punkreas, gli Shandon e le Pornoriviste. Oggi ho quasi trent'anni e nessuna band più giovane è riuscita ad arrivare al vostro livello, mentre voi (come le altre band sopracitate) siete ancora i rappresentanti più alti della scena italiana. O, quantomeno, quelli che fanno ancora segnare i numeri più importanti. Quali sono, secondo voi, i motivi di questa staticità a livello di favori del pubblico? Seby: Questo è un argomento di cui dibattiamo spesso tra di noi. Non so darti una spiegazione, ma ho il sentore che le nuove generazioni siano poco propense al sacrificio. Penso ci sia la tendenza a perseguire subito il risultato, che non ci sia pazienza e poca attitudine. Minchia che discorsi da vecchio! Pensate che l'Italia sia un paese difficile per chi fa musica? Seby: In Italia è difficile fare quasi tutto. La musica qui non esiste nemmeno dal punto di vista giuridico, che cosa ci si può aspettare? Nel mondo, la musica è cultura come lo sono la pittura o la scultura, in Italia è roba per sfaccendati. Incredibile.

In tutti questi anni non siete mai scesi a compromessi di nessun tipo, come conferma il titolo della vostra raccolta: quante volte avete dovuto dire di no per rimanere "fedeli alla tribù"? Seby: Tante, forse troppe. Ma se dopo tutti questi anni ci sono ancora così tanti ragazzi che ci seguono è proprio per quello. Per molti siete, ancora oggi, la band di "Branca day": che rapporto avete con quella canzone? Non è che alla lunga ve l'hanno fatta un po' odiare? Seby: Ogni gruppo che si rispetti ha la sua “Branca day”. Certo, alcune volte capitata che una fetta del pubblico sia lì solo per quel pezzo, ma ce ne siamo fatti una ragione. Odiarla è impossibile, ogni canzone è una mia creatura e anche se a volte rompe le balle, le creature si amano sempre e comunque.


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IGNITE

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Anche per la band di Orange County arriva il traguardo del ventennale: il bassista Brett Rasmussen traccia per noi il punto della situazione e ci dice la sua sull’odierna scena punk. Di Stefano Russo

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el 2013 festeggerete i vostri primi 20 anni di carriera, potete ormai considerarvi dei veterani della scena. Celebrerete questo anniversario con qualcosa di speciale per voi e per i fan? Brett Rasmussen (basso): Non penso che faremo qualcosa di particolare, ma se tutto va bene il prossimo anno avremo un nuovo disco fuori e faremo un paio di tour speciali in Europa. Durante tutti questi anni di concerti, non vi siete mai sentiti stanchi di essere in tour per così tanti mesi ogni anno? B.R.: In tutta onestà, ci piace davvero tanto essere in tour e suonare per i nostri fan. Penso che sia una fortuna per noi avere persone che ci seguono in ogni angolo del mondo, che vengono ai nostri concerti e che amano così tanto la nostra band. Parliamo della scelta di Zoli di entrare a far parte dei Pennywise dopo la dipartita di Jim Lindberg. Come ci si sente, dopo due anni, a condividere il cantante con un’altra band, specialmente con una band importante come loro? Pensate che questa cosa abbia portato nuovi fan agli Ignite? B.R.: Pensiamo sul serio che il fatto che Zoli faccia parte dei Pennywise sia una gran cosa, e questo vale per loro quanto per noi. Sapere che continueranno a pubblicare dischi e a fare tour è grandioso, e lo dico perché sono un loro fan e penso che il loro ultimo disco “All or nothing” sia davvero fantastico. Ed è altrettanto fantastico che gli Ignite abbiano guadagnato nuovi fan grazie alla presenza di Zoli nei Pennywise. Credo proprio sia una grande cosa per entrambi. Nel 2006 avete annunciato l’uscita del vostro primo CD/DVD live… che avete poi pubblicato questo mese a sei anni di distanza. Cos’è accaduto nel frattempo? B.R.: Con il primo DVD, che abbiamo registrato nel 2005, abbiamo avuto un sacco di problemi tecnici che ci hanno impedito di pubblicarlo, e nel 2008 abbiamo registrato il DVD che è poi uscito con la Century Media. Ad ogni modo, si… 4 anni è un attesa piuttosto lunga per far uscire un DVD dopo che è stato filmato! A dire il vero, abbiamo continuato a fare tour per tutto il 2009 e solo dopo ci siamo concentrati su questa uscita: l’editing, le riprese e la creazione del documentario, e poi tutte le faccende burocratiche legate al nuovo contratto e ai diritti del brano degli U2. Insomma, un bel po’ di lavoro! Ma immagino che questa non sia una buona scusa per aver aspettato 4 anni! Nell’era del mercato digitale, credete ancora in supporti fisici come CD e DVD? E soprattutto, credete ancora nei negozi di dischi? B.R.: CD, DVD e vinili mi piacciono ancora, ma penso che gran parte dei giovani stiano fruendo solamente dei formati musicali digitali. Semplicemente è un cambiamento che va al passo con l’evoluzione della tecnologia, e noi musicisti dobbiamo evolverci a nostra volta. I negozi di dischi sono fantastici, ma stanno diventando una rarità perché ora è tutto online! Dando un’occhiata alla vostra discografia si ha la netta sensazione che non siate esattamente una band da studio: cinque album in 19 anni, con distanze tra un’uscita e l’altra che arrivano anche a 4/5 anni. C’è una ragione dietro queste lunghe attese? Passate forse troppo tempo in tour?

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IGNITE

B.R.: All’inizio della nostra carriera pubblicavamo album piuttosto velocemente, poi quando abbiamo cominciato ad essere in tour più di frequente e per periodi più lunghi, la distanza tra i dischi si è fatta via via maggiore. Ma è anche vero che, crescendo, sia diventato sempre più importante per noi che tutte le canzoni di ogni album fossero perfette, senza dare importanza al tempo impiegato per realizzare il disco. Penso sia questa la ragione, secondo me ogni album degli Ignite si è rivelato migliore di quello precedente. Difatti credo che “Our darkest day”, il nostro ultimo lavoro, sia il nostro disco migliore, e sono felice della nostra scelta di prenderci il nostro tempo lavorando lentamente e creando qualcosa di cui essere davvero orgogliosi. Sarete in Italia a fine luglio. Che rapporto avete con il nostro paese? B.R.: Facciamo concerti in Italia dal 1994, quando venimmo in tour per la prima volta con gli Slapshot. Ci è sempre piaciuto venire a suonare da voi: nel 1999 in occasione del Warped Tour, o con il Persistence Tour del 2003 insieme ai Suicidal Tendencies, o ancora quando siamo stati così fortunati da poter suonare nella bellissima Sardegna. L’Italia è assolutamente un gran posto dove suonare e la gente è davvero appassionata.

Per lasciare il segno devi scrivere delle grandi canzoni, non metterti del trucco in faccia e avere un taglio di capelli trendy. Quanto è importante l’aspetto “sociale” nella scena punk rock di oggi? Guardando alle nuove band uscite negli ultimi anni non mi sembra di vedere molta passione verso questo tipo di argomenti, o quantomeno non la stessa passione che ho sempre trovato in gruppi come gli Ignite, i Rise Against o gli Anti-Flag, giusto per citarne alcuni… B.R.: Credo che stia pian piano scomparendo. Non mi sembra che oggi, rispetto al passato, ci siano così tante band che si occupano dei problemi della società. È bello però vedere gruppi come Rise Against e Green Day: hanno iniziato dal basso, suonando negli scantinati e nei locali più piccoli, e ora che sono diventati di fama mondiale continuano a mandare messaggi positivi e ad affrontare questioni politiche e sociali. Hanno dato e continuano a dare un ottimo esempio alle nuove leve.

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Stessa domanda, ma passiamo al lato artistico della faccenda: non pensate che buona parte delle band più giovani si preoccupino più dell’immagine che della musica? Siamo nell’era di Facebook, e sembra proprio che ormai sia più importante avere delle belle foto e del merchandise al passo con la moda del momento piuttosto che scrivere delle belle canzoni e avere qualcosa di significativo da dire… B.R.: Credo che questo problema sia sempre esistito nel mondo della musica. È divertente, abbiamo sempre preso in giro le boyband e tutti quegli artisti che si preoccupavano solo della loro immagine… ed ora questo accade anche nella scena punk! Sono piuttosto sicuro che band di quel tipo non lasceranno mai il segno tanto a lungo. Per farlo sul serio devi scrivere delle grandi canzoni, non metterti del trucco in faccia e avere un taglio di capelli trendy. Esiste invece un gruppo recente con cui avete suonato che al contrario vi ha positivamente impressionato? B.R.: Ho visto suonare i Title Fight ad un festival in Germania chiamato “Area 4” e li ho trovati davvero fighi! Sono anche molto simpatici per giunta. Nuovo disco in vista? B.R.: Si, ci sarà un nuovo album, anche se non so esattamente quando uscirà. Abbiamo iniziato a scriverlo ed al momento abbiamo circa 10 brani a cui manca solamente la parte vocale e 3 o 4 che invece sono già completi. La speranza è di pubblicarlo in un non meglio precisato momento del prossimo anno.


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DESTRAGE

BA THE PRIM

Da perfetti sconosciuti a solida realtà della scena alternative, di strada ne hanno fatta tanta i milanesi Destrage, al punto da meritarsi i palchi europei e persino un tour nel paese del Sol Levante. In attesa di assaporare il nuovo album, previsto per il 2013, incontriamo il loro cantante per strappargli qualche informazione a riguardo e rievocare quanto fatto finora... Di Eros Pasi

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ino al tour giapponese tenutosi nel gennaio 2011 eravate una band poco attiva sul fronte live, da lì in poi invece ecco un mutamento drastico con il palco che è diventato a tutti gli effetti la vostra seconda casa. Cos’è cambiato nei Destrage sotto questo aspetto? Paolo “Paul” Colavolpe (voce): Fondamentalmente, più che in noi penso piuttosto che sia cambiato qualcosa attorno a noi. Iniziammo a notarlo già dal release party di “The king is fat'n'old” tenuto allo Zoe Club di Milano, do ve la maggior parte dei presenti era coinvolta e conosceva i pezzi del nuovo disco a distanza di un solo mese dalla sua pubblicazione. Fino a quel momento eravamo un gruppo abituato ad aprire i concerti di altre band e, vista la situazione insolita, ci abbiamo preso gusto, convincendoci ancor di più che la strada da percorrere era quella una volta approdati in Giappone per il tour che ci vide protagonisti. Per presentarci nelle migliori condizioni possibili passammo tre settimane in studio provando ogni brano per ore e ore, una scelta dettata dal fatto che “The king is fat'n'old” è un disco che richiede moltissimi show per esprimersi al meglio, cosa che noi fino a quel momento non eravamo riusciti a fare. In un periodo in cui il digitale ha preso il sopravvento, ha ancora un senso per i Destrage avere il disco nei negozi? P.: Assolutamente sì, in quanto penso che ogni persona che ascolti musica sia abbastanza intelligente da poter capire quali dischi meritano l'acquisto in formato fisico e quali invece in quello digitale. Personalmente quando mi trovo di fronte ad artwork particolari o a una band che apprezzo particolarmente sento ancora il bisogno di avere tra le mani il disco da scartare, mentre quando semplicemente sono incuriosito da un progetto mi limito all'acquisto in digitale. Tutto sta nella cultura delle persone in fatto di musica. I vostri due dischi sono usciti per la Coroner Records, cosa vi hanno dato? P.: Sono stati importantissimi, in quanto sono stati i primi a credere in noi. È sempre stato amore incontaminato, sia noi che loro abbiamo fatto tutto quello che potevamo fare. Ettore Rigotti è stato poi fondamentale per i Destrage, in quanto ci ha aperto gli occhi su un modo di fare e pensare musica che fino ad allora non avevamo, l'essere professionali in ogni circostanza. Sapendo che resterai a bocca semi-cucita sul nuovo disco, parto da lontano: se nel periodo precedente all'uscita di “King is fat'n'old” eravate intossicati dai Protest The Hero, oggi quale band vi ha ammaliato in modo particolare? P.: Partendo dal fatto che reputo i Protest The Hero la miglior band estrema degli ultimi anni - la sola capace di creare un attitudine e un sound - credimi se ti dico che nel nuovo disco non c'è nessuna band di riferimento. Ciò a cui abbiamo prestato più attenzione è il creare un nostro marchio di fabbrica, fare in modo che

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ACK TO MITIVE

dopo trenta secondi di un brano una persona possa capire che sta ascoltando i Destrage. Abbiamo amplificato le parti che già ci contraddistinguevano, lasciandoci poi andare nella sperimentazione e dando un'anima più rock al tutto; Infine posso dire che attueremo una sorta di “back to the primitive”: niente trigger, chitarre in presa diretta e la volontà di tornare alle origini. Aspettatevi di tutto, ma ciò che possiamo promettere è che da parte nostra non mancherà mai l'onestà d'intenti e la voglia di stupire. Sono sempre il punto di partenza della band. Il nuovo disco vedrà un cambiamento importante anche nella produzione, dove non troveremo più Ettore Rigotti ma bensì Will Putney. Come siete arrivati a lui e come è nato questo sodalizio? P.: Parlando con Ettore qualche mese fa siamo arrivati alla conclusione che per il terzo disco sarebbe stato giusto separarci per quel che riguarda la produzione, anche perché il nuovo disco, pur essendo molto più tecnico dei suoi predecessori, sentirà molto meno la presenza del death metal all'interno delle canzoni. Ora non fraintendeteci, non sarà un lavoro alla Nickelback, sarà sempre Destrage nel suo DNA ma molto sorprendente. Tornando alla tua domanda, passammo una serata a tirare fuori dei produttori papabili e il nome di Will fu quello che inizialmente ci mise tutti d'accordo, soprattutto perché eravamo colpiti dall'omogeneità dei dischi prodotti dai suoi Machine Studio, pur lavorando su diverse tipologie di band, da Rob Zombie ai Lamb Of God passando per gli Every Time I Die!. Mandammo quindi una mail allegando il video di “Jade’s place” e dicendogli cosa volevamo ottenere… e tempo mezz'ora ci rispose dicendoci le seguenti parole “Ragazzi mi fate impazzire. Vi prego contattate il mio manager e fate in modo che sia io a produrvi!”. Da qui è partito tutto. Fino a qualche anno fa impazzava il metalcore, poi si è passati a qualcosa di più estremo come il deathcore. Oggi la tendenza generale sembra essere l'hardcore nella sua vena più commerciale, vedi A Day To Remember e Ghost Inside, per citare un paio di nomi. Che idea ti sei fatto a riguardo? P.: La reputo una cosa normalissima perché io stesso sono una persona che mai nella vita potrà legarsi in maniera indelebile a un tipo di musica ben definito, in quanto amo sperimentare, studiare e scoprire nuovi scenari. Non mangerò le stesse cose per tutta la vita, non guarderò gli stessi film e non ascolterò lo stesso genere in quanto amo variare. Il cambiamento è un passo naturale della vita, quindi lo appoggio. Ciò che a volte non capisco proprio, invece, è ascoltare migliaia di band che propongono lo stesso disco in tutte le salse. In particolare, credo che questo trend sia partito dai primi Architects e Bring Me The Horizon di “Suicide season”, da lì in poi troppi a copiarne intenzioni e soprattutto sound. Questo significa la morte della ricercatezza sonora a mio avviso. Il complimento più figo ricevuto finora? P.: (risate...) Il più figo non lo ricordo, ma ti posso dire quello che mi è rimasto impresso oggi e postato sulla nostra pagina Facebook da un fan intento a commentare la notizia della nostra presenza all'Heineken Jammin' Festival: “Siete il Barcellona del metal!”... Con un complimento così, credimi che ti gasi non poco!

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22 LUGLIO ROCKNOW & BNOW PREVIEW NIGHT


METAL

DISCO DEL MESE

ARCHITECTS “Daybreaker”

(Century Media/EMI) ★★★★ In un’epoca di grande fermento in ambito musicale, dove trend e gruppi si susseguono precipitosamente, tutti noi abbiamo bisogno di un punto di riferimento. Per non essere costantemente sull’onda dell’incertezza, per capire che, in fondo, non è il look o un determinato tipo di sound a farci innamorare della musica. Ad avvicinarci a questa forma di arte (non dimentichiamocelo mai, trattasi di essa in fondo)

servono band che sanno trasmettere qualcosa e soprattutto capaci di evolversi negli anni, come gli Architects. La loro discografia parla chiaro e soprattutto ha generato talmente tanti gruppi fotocopia che forse – per questo motivo – un po’ bisognerebbe odiarli: lo splendido debutto “Ruin”, il capolavoro “Hollow crown”, l’incompreso “The here and now” e gli Architects 2012 di “Daybreaker”. Arrivando a quest’ultimo capitolo discografico, il primo dato a emergere è che fondamentalmente la band di Brighton è rimasta visibilmente scossa dal fatto di non essere stata compresa fino in fondo in “The here

and now”, produzione coraggiosa dove il combo si cimentò nello sperimentare soluzioni inusuali come le linee vocali melodiche e che finì per rivelarsi un vero flop a livello di vendite. Ma si sa, il pubblico oggigiorno è assai esigente, vuole certezze e Sam Carter e soci lo hanno capito bene, donando ai propri fan ciò che essi desideravano, abbracciando un nuovo modo di approcciarsi alla musica alternative. “Daybreaker” è il lavoro più completo e maturo finora partorito dagli Architects, in esso troviamo tutto ciò che li ha resi speciali: riff cristallini, ritmiche dirompenti, un cantante da urlo, gran gusto nelle melodie e quell’inconfondibile capacità di aggredire l’ascoltatore. Un album completo, sotto ogni punto di vista, heavy e feroce in “Even if you win, you’re still a rat”, “Outsider heart” e dannatamente emozionante in “Truth, be told” e “Behind the throne”. Ma qual è la loro vera anima? Difficile capirlo, in

“Daybreaker” ci sono talmente tanti ottimi spunti che è un’impresa intuire gli intenti di questi musicisti, autori di due singoli dalla classe smisurata come “Alpha Omega” e “These colours don’t run”. È una fortuna poter avere a che fare con dischi e band come questa, ci porta a capire che non sono i breakdown a rendere pesante un gruppo ma bensì la sua attitudine. E in questo disco ne abbiamo da vendere. Il continuo confronto con gli amici Bring Me The Horizon sembra non essere più un peso e chi ha mente lucida riesce a giudicare entrambe le proposte: commercialmente funzionale ma tutt’altro che estrosa quella di Oli Sykes e soci, meno appariscente ma sicuramente più affascinante quella degli Architects. Due band assai differenti nel descrivere la parola “musica” ma utili alla Gran Bretagna a mostrare i muscoli di fronte a una scena statunitense da qualche anno in crisi d’identità. Eros Pasi

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nu rock

MOTION CITY SOUNDTRACK “Go”

(Epitaph/Self)

★★★★

Mi piace sorridere quando riesco ad apprezzare dischi che non si limitano solamente a farmi venire voglia di guidare sul lungomare con il braccio fuori. È il caso di “Go”, fresco nuovo album “da salotto” dei Motion City Soundtrack, band del Minnesota capitanata dall'occhialuto Justin Pierre. La bella semplicità di questo disco sta nel fatto di essere pop (nelle atmosfere) e rock (nell'atteggiamento) insieme senza scadere nella banalità da “impaccattemanto” per le major. Non è un caso che “Go” segni infatti il ritorno al mondo indipendente (con Epitaph) della band dopo la parentesi in Columbia. A tratti i Motion City Soundtrack, per le

già citate atmosfere che io definirei quasi “beatlesiane”, mi ricordano i primi Plain White T's ma con l'aggiunta della loro attitudine nerd tutta videogiochi, pessima pizza formato famiglia e occhiali da vista tenuti insieme dal nastro adesivo. A mio (neanche troppo) modesto parere, questo fa dei MCS sicuramente una delle sorprese/ conferme di questo 2012. Se avete il coraggio di dire che non vi piacciono, vi punisco con l'ascolto in loop infinito del vostro vecchio impolverato (e inutile) disco dei Metrostation... Alex de Meo

PERIPHERY "Periphery II"

(Century Media/Audioglobe)

★★★

Tra i primi esponenti del movimento Djent, i Periphery riprendono quanto

LINKIN PARK “Living things” (Warner)

★★★

Da fenomeno nu metal con due album di successo come “Hybrid theory” e “Meteora” a gruppo capace di rivendicare oggi una sua personalità e imporre le proprie scelte artistiche, ecco descritto in poche parole il percorso fatto dai Linkin Park. La band californiana può veramente fare quello che vuole, come scegliere di fare un disco spiazzante e parecchio elettronico come il precedente “A thousand suns” senza uscirne con le ossa rotte. Questo è un segno di grande maturità e di consapevolezza dei propri mezzi. Con “Living things”, il gruppo sembra tuttavia correggere un po’ il tiro con una proposta meno estrema. Anzi, il suo nuovo lavoro appare la giusta via di mezzo tra, appunto, “A thousand suns” e “Minutes to midnight”. Le chitarre sono tornate in maniera evidente e consistente e vanno a convivere come sempre in maniera fantastica con loop e altre diavolerie elettroniche. Così, brani quali “Lost in the echo”, “In my remains” e “Burn it down” faranno la gioia dei fan della prima ora, mentre “Lies greed misery” o “Victimized” accontenteranno quelli che erano rimasti estasiati dal penultimo album. Segnaliamo infine la splendida ballata “Powerless” con la bellissima voce di Chester Bennington in grande evidenza. Daniel C. Marcoccia

recen introdotto nell'ottimo debutto e pubblicano "Periphery II". Forte delle pregevoli doti artistiche, il combo continua ad amalgamare diversi stili, con lo sguardo proiettato verso un suono moderno e attuale. L'opening "Murasama" sembra annunciare la temuta svolta commerciale, impressione subito smentita dalla successiva "Have a blast". Labili parentesi elettroniche e corpose strutture in bilico tra metalcore e progressive si alternano e completano, sorreggendo liriche precise e sicure. A favore della band: la capacità di rendere accessibili anche i passaggi più complessi, riuscendo così ad ampliare il proprio spettro d'azione senza rinunciare a tecnica e mature prese di posizione. Piero Ruffolo

SERJ TANKIAN “Harakiri”

(Serjical Strike/Warner)

★★★★

Se il concept suggerito dal titolo è già di per sé inquietante, nulla potrà prepararvi a quello che vi aspetta: “Harakiri”, il nuovo disco di Serj Tankian, è un mix di atmosfere ammalianti, che come sirene attirano l’ascoltatore verso scenari inquietanti e apocalittici. Non sono certo tempi tranquilli quelli che stiamo vivendo ma, come avviene per i film horror, queste sensazioni ci aiutano ad esorcizzare le nostre paure ancestrali, e l’ascolto di questo disco può essere persino ‘terapeutico’. Inoltre Serj ha provato a stratificare le sonorità del primo lavoro solista con reminescenze dal sapore punk. E, come sempre, non ha lasciato nulla al caso, con ogni dettaglio al suo posto. Imperdibile. Arianna Ascione

SHIDE

"Between these walls" (Stone Tracks/Venus)

★★★

Attivi da oltre dieci anni, gli Shide pubblicano quello che può essere considerato a tutti gli effetti il loro più importante debutto discografico. Testimoni di un travagliato passato, che ha visto il combo barese passare da una formazione di sei elementi dedita a un progressive metal di chiaro stampo americano a quella di quartetto dalle forti contaminazioni rock, i nostri

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offrono un lavoro compatto e personale. "Between these walls" mantiene velate assonanze di un passato ormai lontano, relegando l'amore per il citato progressive a costruzioni volutamente poste in secondo piano, mentre rock, accattivanti ritornelli, dolci melodie e decisi intermezzi nu rock strizzano l'occhio a Evanescence, primi Guano Apes e affini. Piero Ruffolo

EVERY TIME I DIE “Ex Lives” (Epitaph/Self)

★★★★

Ennesima ottima prova degli Every Time I die, giunti così al sesto album, a ben tre anni dal precedente “New junk aesthetic”. Certo, lo stampo è sempre quello del metalcore sparato a mille con break che vanno a spezzare i pesanti riff di chitarra e il cantato che alterna a piacere parti melodiche ad altre urlate. La band di Buffalo, tuttavia, si distingue dai vari colleghi per quella sua originale attitudine a lasciar confluire nella propria musica altre sonorità. Così, se in “Ex lives” non mancano i momenti di pura violenza quali “The low road has no exits” e “Underwater bimbos from outer space”, colpiscono maggiormente le aperture più rock di “Partying is such sweet sorrow” (con un giro di banjo in apertura) e “Indian giver”, oppure quelle southern metal di “Revival mode”. Un disco dalle due anime e capace di alternare piacevoli slanci melodici in mezzo a tanta furia selvaggia (“Yes I suck (blood)”, “Typical miracle”). Una grande prova di Keith Buckley e compagni. Daniel C. Marcoccia

TAPROOT

"The episodes" (Victory)

★★★ Esplosi a fine anni 90 grazie all'implacabile ondata nu metal, i Taproot sono tra le poche realtà a non aver abbandonato la scena e la loro ostinazione si traduce oggi in un disco che riesce finalmente a dare giustizia alla formazione. L'ombra del temuto declino si allontana, come si allontana l'impronta pop rock caratteristica delle ultime prove. L'opening "Good morning" rincuora, fondendo il nu rock


nsioni SPINESHANK “Anger denial acceptance”

★★★★

(Century Media)

Sono passati ben 9 anni dal precedente lavoro in studio degli Spineshank (“Self-destructive pattern”), band californiana fenomenale e capace di regalarci due belle sberle con i suoi primi lavori in studio (“Strictly diesel” e “The height of callousness”). Questo quarto episodio ci restituisce una formazione in ottima salute che ci propone tredici tracce all’insegna dell’industrial metal moderno in cui sonorità classiche ed elettriche convivono a meraviglia con quelle elettroniche, andando a creare atmosfere tese e potenti che lasciano spesso spazio a stupende aperture melodiche. E poi c’è la voce di Jonny Santos, parte fondamentale della musica degli Spineshank e sempre perfetta tra parti screamo e altre più pacate (come sanno fare bene anche Chino Moreno e Corey Taylor). “Anger denial acceptance” è un disco accattivante con una produzione molto attenta a non far mai perdere, canzone dopo canzone, intensità e soprattutto quella “botta” che lo caratterizza. Si parte con il grido di rabbia di “After the end” e si continua con le esplosioni di adrenalina delle varie “I am damage”, “Murder suicide” e “Everything everyone everywhere ends” o la più “orecchiabile” “The endless disconnect”. In tutto, circa 45 minuti di grande musica che non sfigura neppure davanti alle tante produzioni metalcore del momento. Daniel C. Marcoccia degli albori con soluzioni più contemporanee."No surrender" si lega al vicino passato mentre "Lost boy" alterna dolci armonie a distorsioni dalla chiara impronta deftoniana. Non mancano ballate ("The Everlasting") e passaggi post-grunge ("A golden grey"). I Taproot credono davvero in quello che fanno e "The episodes" ne è la chiara dimostrazione. Michele Zonelli

YELLOWCARD “Southern Air” (Epitaph/Self)

★★★

Vi piacevano gli Yellowcard di “Ocean avenue”? Allora vi piacerà anche il loro nuovo album... o forse no. Il motivo di questo “dubbio” è molto

semplice: loro hanno le stesse idee da ormai dieci anni e si fanno produrre i dischi dalla stessa persona (il sempre ottimo Neal Avron), però tutti noi abbiamo abituato le nostre orecchie ad altro nel frattempo. Resta quindi da capire se questo “Southern air” è l'ennesima (siamo all'ottavo disco ufficiale) prova più che sufficiente della band di Jacksonville o forse l'affermazione della totale non intenzione di evolversi, con risultati (purtroppo) evidenti in termini di vendite e riscontro di pubblico. Se devo dire la mia: avendo sempre abbastanza apprezzato questo gruppo, rimango dell'idea che la sufficienza sia giusta, se non altro perché l'intento, semplice e senza troppe pretese, del disco (che esce in pieno agosto) è quello di farci guidare con il braccio fuori e magari farci godere un po' di aria (del sud?) fresca in quest'estate 2012. Se fate parte della categoria

NU ROCK “subito al punto”, vi consiglio di skippare subito a “Always summer” e “Rivertown blues”, di gran lunga i migliori pezzi del disco. Alex de Meo

THE GHOST INSIDE

“Get what you give” (Epitaph/Self)

★★★

Dopo aver riscosso un inaspettato quanto fragoroso successo con “Returners”, i Ghost Inside fanno il grande salto di notorietà passando a Epitaph. Un passaggio che ha sicuramente responsabilizzato non poco i nostri che in “Get what you give” perdono in immediatezza andando a percorrere per filo e per segno la strada stilistica dei Parkway Drive, con l'unica differenza che di band come quella australiana ce ne sono poche in circolazione. Una scelta che si potrebbe anche condividere visto che il disco in sé mostra a tutti i perché del successo ottenuto da Jonathan Vigil e soci, ma sicuramente della foga distruttiva e della sana cattiveria agonistica del suo predecessore c'è ben poco. Un album nella norma insomma, anche se un paio di gradini sotto quelle che erano le aspettative ma, ne siamo sicuri, farà sicuramente felici i moltissimi fan sparsi per il globo. Eros Pasi

THE SAFETY FIRE "Grind the ocean" (Insideout/EMI)

★★★

Interessante e per nulla scontato questo "Grind the ocean". I The Safety Fire, qui al debutto sulla lunga distanza, promuovono un suono articolato, estremamente tecnico e ricco di assonanze pronte a spaziare tra progressive, modern metal e djent, la stessa scuola promossa da Periphery e TesseracT. Avvicinarsi a simili prodotti non è facile, ma una volta assimilato quanto fatto la soddisfazione ripaga gli sforzi compiuti. Alla base di episodi come "Floods of colour", "Animal king" e "Sections" troviamo strutture non convenzionali, improvvise e brutali divagazioni e aperture melodiche che non compro-

mettono in alcun modo l'incedere. Quale sia il futuro di questo genere non è ancora chiaro, certo è che le premesse sono davvero buone. Michele Zonelli

AVENUE OF HEROES “Consequences” (This Is Core Music)

★★★

Con “Consequences” gli Avenue Of Heroes mettono assieme ciò che è stato in voga negli ultimi anni in campo alternative, vale a dire metalcore e hardcore new school. Un lavoro onesto quello partorito dalla band romana, abile se non altro a mettere in piedi un lavoro che troverà la sua naturale evoluzione in sede live vista l'alta percentuale di testosterone presente nei brani. Come spesso accade, il limite dei debuttanti rimane sempre lo stesso: tenere alta l'attenzione dell'ascoltatore fino alla fine del disco, cosa che gli Avenue Of Heroes attuano per a tre quarti di disco, perdendosi poi nella ripetitività finale. Un esordio da pollice alzato, in attesa di capire quale strada prenderanno in futuro. Giorgio Basso

IN THIS MOMENT "Blood"

(Century Media/Audioglobe)

★★★★

Interamente scritto e composto dal duo Brink/Howard, "Blood", definito punto di svolta nella carriera degli interpreti, ben incarna lo spirito degli In This Moment. Cupo, introspettivo e naturale evoluzione del precedente "A star-crossed wasteland", l'album amplifica le influenze industrial per fonderle con atmosfere epic e modern metal ("Blood" e "Adrenalize"). Gli anni d'oro del più duro nu metal tornano prepotenti in "You're gonna listen" e "Comanchi", per lasciare poi il posto a oniriche e malate armonie ("Best within", "The blood legion"). Notevole la crescita di Maria Brink, ora completamente a proprio agio in ogni circostanza e decisa a portare in primo piano aperture melodiche ("Scarlet") senza rinunciare ai ruvidi e sofferti growl che da sempre la identificano. Michele Zonelli

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ROCK/POP 2:54

MADKIN

(Fiction/

(Madkin/Audioglobe)

“2:54”

“Perdone la molestia”

★★★

recen “The view from the bottom" (Megaforce/Goodfellas)

★★★

Visti recentemente come opening-act dei Garbage, i 2:54 arrivano da Londra e sono guidati dalle sorelle Colette e Hannah Thurlow, rispettivamente cantante/chitarrista e chitarrista. Attivi da circa diciotto mesi, i “Twofiftyfour” sono già riusciti a pubblicare un primo album piuttosto bello (prodotto da Rob Ellis e mixato da Alan Moulder) all’insegna dell’indie rock dalle tinte oscure che pesca a piene mani in anni di produzioni post-punk e new wave. Esattamente come hanno saputo fare, prima di loro, i vari Interpol, Editors e XX. Il risultato lo ascoltiamo in queste dieci canzoni dalle atmosfere notturne, tra distorsioni leggere (“Sugar”, “Creeping”), piccole digressioni nello shoegaze (“Ride”), melodie ipnotiche (“Scarlet”) e piacevoli derive pop (“Revolving”, “You’re early”). Sicuramente un buon esordio. Daniel C. Marcoccia

LIT

Attivi dal 2007, i Madkin giungono ora al primo album con “Perdone la molestia”, un lavoro decisamente piacevole fatto di suoni saturi che lasciano tuttavia spazio a una certa melodia di base. Tra rock alternativo e forti richiami al grunge, soprattutto quello degli immensi Alice In Chains, il quartetto romano si districa a meraviglia con brani dalle atmosfere dense ed intense che si aprono nei potenti ritornelli (la bellissima “Warrior”, “Bathtub monologue”, “Intro for lovers in flames”, “Bandwagon”). Le canzoni di “Perdone la molestia” poggiano principalmente sul muro di chitarre elettriche dal quale si erge con prepotenza la caratteristica voce della grintosa Serena Jejè. La brava cantante/chitarrista convince anche nei momenti meno ruvidi quali “Silk dance” e la più tranquilla “Letter from an unknown”. Belli e frastornanti i Madkin. Piero Ruffolo

★★★

Recensire un disco come “The view from the bottom” non è semplice: si è sempre in bilico tra il “cheppale, sempre la solita roba” e il “loro si che sono rimasti coerenti con le loro radici, mica come i Blink!”. Tanto vale, quindi, badare esclusivamente alla sostanza. Prima di tutto, come avrete capito, nessuna traccia di novità o evoluzione rispetto ai suoi predecessori. Se il termine di paragone è “A place in the sun”, il loro album di debutto che gli valse la fama alla fine degli anni 90, allora stiamo parlando di un lavoro meno riuscito ed ispirato. Preso a sé stante, però, assume connotati un po’ più interessanti: probabilmente il suo già non eccezionale appeal scomparirà con l’arrivo dell’inverno, ma se avete bisogno di un sottofondo per guidare sotto il sole con il braccio fuori dal finestrino potrebbe tranquillamente fare al caso vostro. Stefano Russo

THE SMASHING PUMPKINS "Oceania"

(Martha's Music/EMI)

★★★★

Essere stati in grado, nella propria carriera, di produrre un album a livello di capolavoro è un handicap per la maggior parte delle band che hanno avuto la (s)fortuna di riuscire nell'impresa. Va dato atto a Billy Corgan l'onestà intellettuale di averlo confessato un paio d'anni dopo l'uscita di "Mellon collie and the infinite sadness", vera e propria pietra miliare del rock alternativo degli anni '90 e spauracchio per la band nei vari dischi successivi. Ma la buona notizia c'è e si chiama "Oceania". Eh sì, dopo anni passati alla ricerca di un bis impossibile quanto inutile, finalmente

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Billy Corgan sembra essersi convinto che la perfetta alchimia di "Mellon collie..." non tornerà più, volta pagina e con uno sguardo alla psichedelia di "Gish" sforna quello che i fan aspettavano da tempo (quasi) immemore: semplicemente un bel disco, melodico e disperato come solo gli Smashing Pumpkins sanno coniugare, accessibile ma impegnato come solo musicisti veri hanno la capacità di incidere. E se non è bello-quanto-quell’album-lì facciamocene una ragione, il passato sta bene nei libri di storia. Luca Nobili

NEWDRESS “Legàmi di luce”

(Kandinsky/Audioglobe)

★★★

Atmosfere new wave anni 80, con synth sempre in bella evidenza nelle dieci tracce che compongono questo lavoro dei Newdress. Nulla di nuovo, sicuramente, e i richiami ad alcuni gruppi inglesi e italiani sono più che evidenti, ma questo non significa che il disco del trio bresciano sia brutto. Anzi, si lascia ascoltare con piacere e regala anche alcuni brani che ben evidenziano le capacità compositive dei Newdress, come “Ad occhi chiusi”, “Assorta” (molto vicina, almeno nella parte musicale, agli Interpol) e “Cambiamenti d’aspetto”. Segnaliamo infine la presenza in “Bisogna passare il tempo” di Lele Battista e Andy Fluon (al sax), ex La Sintesi ed ex Bluvertigo, due gruppi che già in precedenza avevano (ri)proposto questo tipo di sonorità. Piero Ruffolo

NICE

“Nuova Babele”

(Mainstream Revolution)

★★★

E come d’incanto appaiono i Nice, che presentano la dura e cruda realtà dei nostri tempi citando nei loro dieci brani fiabe, film ed elementi culturali legati alla nostra storia. Il loro ultimo lavoro, “Nuova Babele”, è un insieme di suoni grezzi e violenti, sorretti da una voce graffiante e forte nel comunicare il sentimento di profondo disagio e insofferenza per le condizioni del nostro Paese. Nonostante tutto, risultano pure ironici nello smontare alcuni luoghi comuni, come ne “Il piccolo principe” e in “La repubblica di Salò”. La scelta dei temi è decisamente azzeccata con il loro genere: finalmente ci troviamo davanti a un progetto davvero interessante e coerente in tutte le sue sfaccettature. Una carrellata di sonorità che arrivano dirette come un pugno nello stomaco, con pezzi che si susseguono freneticamente senza lasciarci il tempo di ragionare e ci trascinano esattamente dove meglio desiderano. Amalia “Maya” Noto


nsioni TREMONTI “All I was”

(Fret 12 Records/Family Affair)

★★★★

Mark Tremonti è un tipo a cui piace essere

impegnato: impossibilitato a registrare con gli Alter Bridge per gli impegni live di Myles Kennedy con Slash, ancora in stand by per la pubblicazione dell’album di reunion dei Creed… piazza un bel disco solista come un fulmine a ciel sereno, tanto per non annoiarsi! E “bel” non è aggettivo a caso, “All I was” non è certo quello che spesso ci tocca subire quando il bravo chitarrista rock di turno decide di scrivere un album da solo: questo è un disco con attributi, suonato divinamente da Tremonti e – udite, udite – cantato dallo stesso in maniera ben più che dignitosa. Tredici tracce di hard rock moderno (una volta si diceva “post-grunge) senza sbavature e generoso: manca solo il colpo del ko – leggasi la traccia memorabile – ma nessuno è perfetto, dopotutto… Luca Nobili

ROCK/POP "Save the nation". I due anni trascorsi on the road hanno sortito l'effetto sperato: senza nulla togliere alla precedente prova, il nuovo disco si dimostra fin da subito maturo e coeso. Trainanti ritornelli ("Addictive"), accattivanti melodie ("Make love..."), digressioni dal vago sapore punk ("Punch drunk love") e divertenti anthem rock'n'roll ("Everybody wants...", "Let your hair down") sono nuovamente protagonisti e, sebbene alcuni accostamenti a ben più noti connazionali siano ancora plausibili, la già annunciata indipendenza è ora inconfutabile. Divertente fresco e per nulla scontato, "Save the nation" non delude le aspettative. Piero Ruffolo

ULTRAVIOLET “Tempo”

(Godz/Halidon)

★★★

OUT OF LIMBO “Kino”

(Glove/Goodfellas)

★★★★

“Kino” nasce dall’unione dei talenti di Stefano Miceli, Stefano Tirone e Tomax Di Cunto, già attivi nel panorama musicale anni Ottanta, oggi conosciuti come Out Of Limbo. Pubblicato dalla Glove, il disco racchiude dieci pezzi che fluttuano nelle atmosfere eighties cercando forse di tracciare una riga di congiunzione nella musica del ventennio d’oro. Così si passa dalle atmosfere da dance floor di “Coreless”, “Cold stars” o “The flyer” a quelle più cupe e intime di “Fragments of blue” o

“Escape”. Tra un po’ di smalto nero, un “total black style” e ritmi scanditi dall’immancabile synth, “Kino” è nel complesso un album che si ascolta volentieri sia nella sua parte più dance che in quella più intimistica e si può considerare una novità per i nostalgici del new wave anni Ottanta. Valentina Generali

ROYAL REPUBLIC "Save the nation" (Roadrunner/Warner)

★★★★

Reduce dall'ottima accoglienza riservata a "We are the royal", il quartetto di Malmö rientra in studio e presenta

Titolo perfetto per questo nuovo disco degli Ultraviolet, formazione pugliese che ha deciso di tornare in questo caldo 2012 a ben sette anni dal precedente “Saturazione”. È altresì vero che la cantante e il bassista hanno nel frattempo dato vita ai più elettronici Serpenti. Diamo tempo al “Tempo”, quindi, e se vi piace l’immediatezza del pop frizzante e scanzonato non vi resta che tuffarvi in queste nuove canzoni del gruppo. La forza degli Ultraviolet sta ovviamente nell’elettricità delle chitarre e nella bella voce di Gianclaudia Franchini che caratterizzano tracce quali “Mentre tu parli” (brano migliore del disco e piccolo gioiello pop/ rock), “Balla insieme a me”, “Chiudo gli occhi e parto” e “Mando via la noia”. Sono queste le canzoni “commerciali” che ci piacerebbe sentire più spesso in radio… Daniel C. Marcoccia

THE NIGHT FLIGHT ORCHESTRA “Internal affairs” (Coroner Records)

★★★★ Scusate, ma in questo caso è davvero difficile non esaltarsi. Trovarsi Bjorn dei

Soilwork in veste di rocker seventies non è proprio cosa da tutti i giorni, tanto più se ad accompagnarlo troviamo gente come Sharlee D'Angelo (Arch Enemy) e David Andersson (Mean Streak, Soilwork)! Il risultato finale rispecchia fedelmente la qualità della line-up: “Internal affairs” è uno stupendo album di classic rock d'annata, dove passaggi psichedelici, chitarre in levare e la voce cristallina del cantante coinvolgono non poco l'ascoltatore. Un lavoro dove si percepisce il clima disteso dei musicisti, intenti a divertirsi suonando ciò che li appassiona e forse proprio per questo motivo autori di una performance di assoluto spessore. Rocker d'annata e nostalgici, una volta tanto lasciate i vinili al loro posto e date una chance a questo straordinario lavoro, successo assicurato! Giorgio Basso

GAZ COOMBES

“Here comes the bombs” (Hot fruits/EMI)

★★★

Ottimo esordio per l’ex cantante dei Supergrass, mitico gruppo di Oxford che ci aveva conquistato nel bel mezzo dell’ondata brit-pop di qualche anno fa con il suo primo album “I should coco” (chi non ricorda il singolo “Alright”?). Gaz Coombes, dopo aver messo la parola fine alla carriera della sua band, ha preso tutto il tempo necessario per confezionare un lavoro di tutto rispetto e a dir poco spiazzante. Libero dai vincoli e dalle regole imposti da una classica formazione rock, il musicista ha potuto dare libero sfogo alla sua voglia di sperimentare inserendo tastiere, synth e loop electro in mezzo alle sue solite chitarre (ha suonato lui stesso tutti gli strumenti). Il risultato colpisce subito per la sua freschezza e per la varietà di colori sprigionati dalle canzoni che compongono “Here comes the bombs”. Atmosfere oniriche e avvolgenti (“Sub divider” e “Sleeping giant”) si alternano così a esplosioni elettriche e marcatamente rock (“Break the silence”, “Hot fruit”). Aneddoto divertente: per iniziare questa nuova carriera, Coombes ha pensato bene di richiamare Sam Williams, lo stesso produttore del già citato “I should coco”. Scaramanzia? Chi può dirlo. Piero Ruffolo

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METAL BURY TOMORROW "The union of crowns" (Nuclear Blast/Warner)

★★★★

Giunti alla ribalta grazie all'ultima ondata metalcore, i Bury Tomorrow compiono un notevole passo avanti, scrollandosi di dosso scomode etichette e concretizzando l'esperienza acquisita. Maturo e non più legato ai cliché del genere, "The union of crows" mostra una formazione dalle idee chiare, aperta a nuove soluzioni e per nulla preoccupata di rimettersi nuovamente in gioco. Notevolmente ampliati, i passaggi melodici lasciano il ruolo di semplici intermezzi per diventare parte essenziale dell'intera struttura. L'amore per il metal

(dagli anni 80 a oggi) si fa sentire in più occasioni, caratterizzando indovinate e brutali progressioni. Parlare di metalcore è ancora d'obbligo, ma molte porte sono state aperte e la transizione in atto non può che dare ragione al combo inglese. Michele Zonelli

FOZZY

"Sin and bones"

(Century Media/Audioglobe)

★★★★

Rinnovata nuovamente la formazione, con l'ingresso al basso dell'ex Adrenaline Mob Paul Di Leo, e firmato un nuovo contratto con Century Media, i Fozzy di Chris Jericho e Rich Ward tornano con "Sin and bones". Versatile e abile nel conciliare le molte carriere, il

“Codici kappaò” (Valery Records)

★★★

Pino Scotto è la prova che anche in Italia è possibile per un rocker invecchiare bene, nonostante personaggi più noti al grande pubblico facciano di tutto per fornire ottimi esempi di demenza senile. Accompagnato da una lunga lista di collaboratori illustri (i rapper Club Dogo nella riuscita “Pino… occhio” e l’ex Europe Kee Marcello, per citarne un paio), “Codici kappaò” è una boccata di ossigeno per chi non ne può più dell’attuale rock italiano hipster-style, depresso e impegnato a guardarsi l’ombelico più che a intrattenere il pubblico! Pino, bontà sua, se ne frega delle mode, continua a regalare heavy rock orecchiabile (con un pizzico di blues, suo vero “trademark”) condito da quintali di sana attitudine R&R… Non ci resta che ringraziarlo di esistere. Luca Nobili

“The resting place of illusion” (Dysfunction Records)

“L'enfant sauvage”

★★★★

L’ascesa dei Gojira è un dato di fatto e la loro quinta prova in studio da perfettamente ragione a chi, Roadrunner in primis, ha creduto in loro come una delle teste di serie della scena metal. “L’Enfant sauvage” è un disco profondo, denso, complesso, che arriva a 4 anni dal precedente “The way of all flesh”. I francesi confermano la loro spiccata personalità, il suono intricato e la loro matematica combinazione di generi: la tecnicalità del death, la ripetitività a tratti estenuante del doom, l’alienazione dell’industrial. Ma anche nelle derive più complesse i Gojira mantengono un muro melodico di fondo, un fil rouge che percorre le undici tracce e che mitiga, almeno in parte, le formule intricate del loro sound. “L’Enfant sauvage” è un disco decisamente heavy metal, nelle varie accezioni che questo termine può avere: un disco pesante, faticoso a tratti, cupo nelle melodie e nelle liriche, profondo e mai scontato, un disco importante. I Gojira non si sono allontanati dalle loro radici, descrivono attraverso le liriche intense di Duplantier il disadattamento come risposta alla standardizzazione. Consigliati almeno due ascolti. Sharon Debussy

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PINO SCOTTO

REPLOSION

GOJIRA

(Roadrunner/Warner)

recen wrestler veste al meglio i panni di frontman, forte del proprio amore per hard rock ("She's my addiction") e metal ("Inside my head"). "Sandpaper", singolo realizzato con l'aiuto di M. Shadows degli Avenged Sevenfold, si rifà alla tradizione e al passato, mentre "Blood happens" sembra attingere a piene mani dai trascorsi di Ward e dei suoi Stuck Mojo. Decisi cambi di ritmo e linee vocali in grado di sorprendere per coesione e interpretazione sorreggono momenti pronti ad abbracciare svariate correnti. Michele Zonelli

★★★★

Sempre bello notare quanto l'Italia sia sempre più all'avanguardia in campo musicale, come nel caso degli emiliani Replosion che in “The resting place of illusion” danno sfoggio di notevoli qualità in ambito prog-metal. Nelle nove tracce il quintetto evidenzia elevate doti tecniche e buon gusto in fatto di melodie, caratteristiche che permettono al disco di esprimersi con sicurezza con una manciata di hit degne dei migliori Angra. Difficile infatti non rimanere piacevolmente coinvolti di fronte ai continui stravolgimenti sonori della title-track o dalla

potenza espressa dal singolo “Turn the page”, degni biglietti da visita della band. Se siete amanti di questo tipo di proposte i Replosion sono sicuramente il nome su cui puntare, provare per credere! Giorgio Basso

SIX MAGICS “Falling angels” (Coroner Records)

★★★

Considerati dagli addetti ai settori come una delle migliori metal band sudamericane in attività, i cileni Six Magics confermano quanto di buono è stato fatto in 12 anni di carriera con “Falling angels”. Poche le novità da annoverare, se non una maturazione artistica generale che ha permesso loro di destreggiarsi con facilità dagli ambienti heavy/ gothic del passato verso soluzioni rock oriented. Un prodotto che sotto certi aspetti trae spunto da quanto la scena nordica impone in fatto di metal al femminile (alla voce dei Six Magics troviamo la brava Elyzabeth Vàsquez), dove l'attenzione generale è incentrata sulla parte lirica e dove il lato musicale funge da sottofondo. In conclusione “Falling angels” è in tutto per tutto un album consigliato agli estimatori del genere. Giorgio Basso

THE STRANDED “Survivalism boulevard” (Coroner Records)

★★★

Chi sono i Stranded? Basta dare un occhio alla line-up per capirlo facilmente: Ettore Rigotti (produttore metal di fama mondiale), Claudio Ravinale (cantante dei Disarmonia Mundi), Elliot Sloan (skater professionista del team di Tony Hawk) e Alessio Neroargento. Da questa unione di intenti è nato un progetto che definire esaltante è riduttivo, come dimostrato dall'ottimo “Survivalism boulevard”. Il raggio d'azione è legato al death metal melodico di stampo scandinavo, arricchito con tastiere e soluzioni catchy che danno agli Stranded un sound moderno e accattivante al tempo stesso. Attenti al minimo dettaglio, i quattro musicisti hanno centrato l'obiettivo, abbracciando tutto ciò che l'ascoltatore medio chiede oggigiorno in ambito metal: belle canzoni senza eccessivi virtuosismi. Giorgio Basso


nsioni The Gaslight Anthem

“Handwritten”

★★★★

(Mercury/Universal)

Anche per i Gaslight Anthem è giunto il momento di capire cosa fare da grandi. È un passaggio toccato a tutti i gruppi di grandi speranze poi entrati a far parte dello stardom mondiale, necessario per comprendere le vere possibilità di una band di cui, negli ultimi tempi, chiunque sembra sentirsi in dovere di parlare. Il passaggio ad una major porta sempre con sé il classico strascico infinito di polemiche, che spesso finiscono per condizionare le band molto di più del passaggio stesso: la bravura del gruppo capitanato da Brian Fallon è stata proprio quella di sfruttare al meglio le possibilità offerte da una grande etichetta, lasciando tutto il resto alle chiacchere da bar. “Handwritten” non solo suona Gaslight Anthem al cento per cento, ma prosegue con coerenza quel percorso che dal punk rock sta lentamente portando la band verso lidi prettamente classic rock. La produzione di Brendan O’Brien non ha quindi fatto altro che assecondare una tendenza già riscontrabile nel precedente “American slang” e che vede il combo del New Jersey sempre più vicino ad un piacevole ibrido tra Pearl Jam e l’idolo Bruce Springsteen. Luca Garrò

PUNK/HC “Pennybridge pioneers” a oggi emerge un livello di qualità che molte band più attuali dei Millencolin farebbero bene ad invidiare. Stefano Russo

MXPX

“Plans within plans”

(Rock City Records/Flix Records)

★★★

Fa un po’ specie dirlo ma anche per gli MxPx è arrivato il fatidico traguardo dei 20 anni di carriera! Messe definitivamente da parte le improbabili pettinature vagamente emo-style e i singoli eccessivamente ruffiani (ma comunque discreti) tentati negli anni 00, Mike, Tom e Yuri sono tornati a fare esclusivamente quello che gli riesce meglio: pop punk, diretto e semplice come solo una canzone di tre accordi sa essere. Ecco, da “Plans within plans” non dovete aspettarvi nulla di più e nulla di meno: 13 brani che raramente superano i 3 minuti e mai oltrepassano i 3 e mezzo, alcuni molto ben riusciti ed altri un po’ meno, ma tutti sinceri al 100% e sicuramente a livello delle migliori produzioni della band di Bremerton. Consigliatissimo ai fan, ma anche a chi ha semplicemente voglia di un po’ di “tu-pa tu-pa”. Stefano Russo

OFFSPRING “Days go by”

ADELS

“Fuck around… Europe” (Kustom Records)

★★★

Grande ritorno per la Formazione storica del rockabilly punk tricolore, gli Adels arrivano al traguardo dell’undicesimo CD, dal titolo dissacrante e pensato, fin dalla prima canzone della lunga scaletta, per far divertire e ballare. Chiariamo subito che in realtà si tratta di un live, registrato tra Olanda, Svizzera e Danimarca. Ma il lavoro alla consolle di Olly degli Shandon ha ripulito il sound restituendo la furia live ben chiara nei padiglioni auricolari. Il disco potrà far breccia nel cuore dei tanti curiosi del genere che vogliono avvicinarsi a questo mondo, anche grazie alla sapiente scelta delle cover – alcuni classici del “billy” unite a vecchie hit dei Dire Straits. Armando Autieri

MILLENCOLIN “The melancholy connection” (Epitaph/Self)

★★★

Ripartendo dal punto in cui “The melancholy collection” era arrivato nell’ormai lontanissimo 1999, questa seconda raccolta di B-Sides e rarità esce in occasione nientepopodimeno che del 20esimo anniversario della band svedese. Nonostante l’importanza della ricorrenza, però, il timore di trovarsi di fronte alla più classica delle riesumazioni di scarti era piuttosto forte e tutto sommato anche abbastanza legittimo. Proprio per questo motivo è stato un piacere scoprire, traccia dopo traccia, che Nikola Sarcevic e soci hanno invece recuperato una manciata di brani davvero buoni: niente male i due inediti (ottima “Carry you”), ma anche tra le 12 “ripescate” dal periodo

(Sony)

★★★

Nuovo disco per gli Offspring, il nono, e come sempre ci troviamo davanti a un lavoro che piace per certi aspetti e spiazza per altri. Diciamo subito che “Cruising California”, con la sua melodia “alla Katy Perry”, non ci entusiasma affatto (anche se tutti finiranno per canticchiare questo singolo). Stessa cosa per “OC guns”, canzoncina SoCal reggae con fiati in stile mariachi, perfetta più che altro per un coktail bar sulla spiaggia. Diciamo infine che la title-track assomiglia vagamente a “Times like these” dei Foo Fighters. Per il resto, ritroviamo quello che gli Offspring sanno fare di meglio e che da loro si chiede: punk rock melodico con ritornelli da cantare a squarciagola. E qui citiamo “The future is now”, “Secrets from the underground”, “Hurting as one” e “Dividing by zero”. Viene pure rivisitata “Dirty magic”, già

presente in “Ignition”, il secondo album della band di Huntington Beach. Alla fine sono queste le canzoni che vogliamo ascoltare da Dexter e Noodles e che… salvano il disco. Pietro Ruffolo

STARLESS

“How life should be” (This Is Core Music)

★★★

Fresco e solare, ecco il debutto degli Starless, pienamente in tema con la stagione scelta per questo esordio. Nati a Pescara e cresciuti a pane e pop/ punk, questi giovani ragazzi ci regalano con “How life should be” undici brani omogenei che sprizzano tutto il loro amore e la loro devozione per i vecchi e cari States. Significativi “Respect cant’t be bought” e “Charlie is not a dog” in cui ci mostrano anche un lato più hardcore melodico, con riff e ritornelli sempre pronti e d’impatto. C’è da dire che gli Starless partono bene, con una produzione semplice e ben riuscita nonostante la loro giovane età: con la futura esperienza e la consolidazione delle loro idee potremmo trovarci di fronte a una realtà interessante e significativa per la scena Italiana. Amalia “Maya” Noto

The Menzingers “On the impossibile past” (Epitaph/Self)

★★★★

Difficile usare mezzi termini di fronte ad un disco del genere, quindi non ci proverò nemmeno: “On the impossibile past” è per certo uno dei migliori album punk rock dell’anno. Ecco perché siamo andati a ripescarlo dalle uscite dello scorso febbraio. La band giunge con questo terzo lavoro a una totale maturazione del proprio sound, un salto di qualità sottolineato dal contratto con Epitaph. Proprio Mr. Brett Gurewitz è stato uno dei primi ad esserne conquistato (“Questi ragazzi suonano quel tipo di punk rock con cui sono cresciuto” ha detto), e il loro nome ha iniziato a girare sempre di più tra i fan di gruppi come The Gaslight Anthem, The Flatliners e Against Me! Un disco tutto cuore e stomaco, tra passati burrascosi (appunto)e futuri difficili da raggiungere. Altamente consigliato. Stefano Russo

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LIVE

Billy Talent

The Hives

Music Hot Water

Ladispute

Lagwagon

The Offspring

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rock in idrho Carroponte, Sesto San Giovanni (Milano) 13/06/2012 Tornato ad essere uno degli appuntamenti più attesi della bella stagione, il Rock In IdRho quest’anno viene addirittura suddiviso in due parti, con una “preview” nell’ottima location del Carroponte di Sesto San Giovanni. Di Daniel C. Marcoccia – foto Arianna Carotta

Q

uesta prima “puntata” dell’ottima manifestazione della Hub, che vuole essere una sorta di aperitivo per placare la fame dei punkrocker nell’attesa del piatto forte previsto per il 21 luglio a Rho (in cui suoneranno Rancid, Millencolin, Sum 41, Frank Turner e tanta altra brava gente), è tutt’altro che povera nel suo cast che si alterna sui due palchi. E la location del Carroponte risulta ancora una volta perfetta per capienza e funzionalità. Ad aprire le danze, anzi il pogo, sono i giovanissimi canadesi di La Dispute, con il loro energico post-hardcore melodico che sconfina volentieri nello screamo. Vi consigliamo il loro secondo lavoro “Wildlife”. Da una band canadese a un’altra, ecco salire sul main stage i Billy Talent, per la gioia di alcune ragazzine presenti. Bisogna ammettere che sono bravissimi e, anche se piacciono molto ai teenager, non lasciano impassibile neppure il pubblico più adulto colpito dalle canzoni dirette e dall’impatto immediato (“Red flag” su tutte). Il gioco si fa invece duro con l’arrivo sul secondo palco di Chuck Ragan e i suoi Hot Water Music. Potenti e devastanti nella loro magnifica attitudine punk senza compromessi, nonostante alcuni problemi tecnici che rovinano non poco i suoni. Loro, però, sono in evidente “State of grace” (ok, come gioco di parole, ho fatto di meglio… nda). L’attenzione torna sul palco principale per l’arrivo di 5 loschi individui in frac, un tocco di eleganza da sempre in contrasto con l’energia ruvida delle esibizioni degli Hives. È di loro, ovviamente, che stiamo parlando, freschi di nuovo album (“Lex Hives”) e come sempre capaci di coinvolgere il pubblico a colpi di punk rock’n’roll. Forti di una serie di hit micidiali (da “Walk idiot walk” “Tick tick boom” fino alla più recente “Go right ahead”) portano avanti uno show energico con intermezzi da showman consumato di Howlin’ Pelle Almqvist. Suonano in maniera magistrale e si meritano tutti gli applausi del pubblico. Tocca poi ai Lagwagon, sull’altro palco, reduci da una data a Livorno (Joey Cape, backstage, mi racconterà di un pubblico “crazy” e di una cena “awesome”, nda). Il gruppo non si risparmia e regala una prestazione quadrata, senza fronzoli e in linea con quella che da almeno una ventina d’anni è la sua attitudine. Ed è sempre un piacere ascoltare le varie "Island of shame", “Alien 8” e "May 16", tanto per citare un paio di brani del loro ormai vasto repertorio. E si arriva così agli headliner della serata, da poco usciti con un nuovo disco. Gli Offspring sono ormai una macchina da hit, perfettamente oliata e capace di regalare un concerto che è praticamente una successione di singoli (e ne hanno…) che li fa sembrare una specie di Bon Jovi del punk rock. Tutto perfetto (forse troppo…), è come ascoltare un juke box. Ma la gente è contenta, si diverte, canta e riprende in coro i ritornelli di “Pretty fly”, “Why don’t you get a job”, “Have you ever”, “Walla Walla”, “Staring at the sun”, “The kids aren’t alright” (da sempre uno dei loro brani migliori, dal vivo come su disco) fino all’inossidabile “Self esteem”. Sono queste le canzoni che il pubblico ama e vuole ascoltare, mentre le poche tracce estratte dal nuovo “Days go by” (a cominciare dalla stessa title-track) non sembrano convincere più di tanto. Detto questo, la preview del Rock In IdRho ci ha regalato una piacevole serata: bene, bravi… bis il 21 luglio all’Arena Fiera di Rho.

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LIVE

Guns N' Roses

Black Label Society

I Killed The Pr om Queen

Killswitch Engage

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gods of metal 2012 DevilDrive

r

Arena Fiera, Rho (Milano) 21-22-23-24/06/2012

Alla fine del mese di giugno, gli Dei del Metallo sono scesi su Milano regalando non poche soddisfazioni ai comuni mortali amanti del genere. Di Daniel C. Marcoccia (22 e 23/06) e Stefania Gabellini (24/06) foto Emanuela Giurano

O

k, come intro stupida era difficile fare peggio. Va comunque sottolineato che il Gods Of Metal di quest’anno è stato un successo, con un cast spalmato su quattro giorni e ricco di nomi capaci di saziare qualsiasi tipo di fame metallica. La location è stata ancora una volta l’Arena Fiera di Rho (vabbè, comunque Milano, e di conseguenza facilmente raggiungibile in metropolitana... Sciopero dei mezzi permettendo). Dal momento che a RockNow non siamo troppo fan del metal più epico, né particolarmente dei Manowar (sorry Joey DeMaio, non ce ne volere se non difendiamo la fede… ndDan), il nostro GOM è iniziato con la seconda giornata.

uperstar Hardcore S

Benvenuti da Axl

Mötley Crüe

A scaldare gli animi di chi è arrivato presto, ci pensano Cancer Bats e Axewound (side-project di Matt Tuck dei Bullet For My Valentine e Liam Cormier dei… Cancer Bats) mentre il sottoscritto, dopo aver sistemato alcuni impegni, calcola bene i tempi per arrivare puntuale all’esibizione degli Ugly Kid Joe… non considerando, purtroppo, lo sciopero dei mezzi pubblici. Mi ritrovo di conseguenza davanti al palco del Gods mentre la band successiva, i Soulfly, è a metà del suo set (l’amico DJ Edo Rossi mi parlerà di un’esibizione eccellente degli UKJ, di un Whitfield Crane in grande forma e delle sempre belle “Neighbor” e “Everything about you”… Praticamente tutto quello che avrei voluto vedere e sentire. Grazie Edo!!!). I Soulfly, guidati da un Max Cavalera in mimetica nonostante il caldo, pescano tra il loro repertorio e quello dei Sepultura (“Roots bloody roots”) ma il loro concerto è rimasto immutato nel corso degli anni, confermando la mia idea di una band che si è un po’ incartata su se stessa. Rival Sons e Black Stone Cherry ci regalano un bel intermezzo di hard rock classico (molto, ma molto alla Led Zeppelin per i primi), che non disturba affatto ma neppure sconvolge più di tanto, mentre i più moderni Killswitch Engage ci portano verso altri lidi,

quelli del metalcore. Segnaliamo il recente ritorno del loro primo frontman Jesse Leach. Da grande fan degli Skid Row (rivalutiamoli…), ero convinto di rimanere deluso da Sebastian Bach. Alla fine ho potuto assistere a uno dei migliori concerti della giornata, con il canadese in perfetta forma (e sempre fulminato) e una bellissima prestazione a base di classici della sua band originale (“I remember you”, “Youth gone wild”, “Big guns”, “Slave to the grind”, ovviamente “18 and life”…) e qualche brano del suo ultimo disco. Stupefacente il chitarrista di 22 anni che lo accompagna, tale Nick Sterling di cui sentiremo ancora parlare. Il symphonic/ gothic metal dei Within Temptation non è proprio la mia tazza di tè ma sicuramente un buon motivo per andare a prendere una birra (a proposito, i posti di ristoro non mancano e finalmente c’è varietà nell’offerta). Anche a distanza, le sonorità del gruppo di Sharon Den Adel non mi coinvolgono. Massimo rispetto in ogni caso: se sono così in alto nel cartellone, ci sarà un motivo. Ed ecco gli attesissimi Guns N’Roses, o almeno di quel poco che ne rimane. La sensazione è che Axl Rose abbia perso tutto quello che in passato faceva di lui un frontman d’eccezione: carisma, attitudine selvaggia e forte ugola. Nessuna delle tre era presente questa sera, anche se delle quasi tre ore di musica, l’ultima è stata comunque soddisfacente. Rimangono le canzoni, delle grandi composizioni che fanno ancora di più rimpiangere un tempo che sembra oggi lontanissimo. E non bastano tre chitarristi, seppur bravi, per sostituire uno Slash (sorry DJ Ashba e gli altri due…). Viene riproposto tutto il meglio di “Appetite for destruction” (da “Welcome to the Jungle a “Sweet child o’ mine”, senza dimenticare “My Michelle”, con Sebastian Bach, e “It’s so easy”) e dei due “Use your illusion” (“November rain”, “Don’t cry”, “Civil war”), fino a “Chinese democracy”. In tre ore di show c’è spazio anche per un brano a testa (di cui nessuno sentiva il bisogno…) del bassista Tommy Stinson e del chitarrista Bumblefoot, qualche

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LIVE

Slash

Soulfly

e Mötley Crü

Miles Kennedy The Darkness

The Offspring Opeth

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Ozzy Osbourne

assolo degli altri musicisti, una cover di “Whole lotta Rosie” degli AC/DC e “Patience”, prima del gran finale con “Paradise city”. Bel concerto, ma rimane purtroppo quel senso d’incompletezza…

Il lato selvaggio

Il terzo giorno si apre con i milanesi Planethard e il loro heavy rock vigoroso ma pur sempre melodico (li raggiungerà per un brano anche la brava Masha degli Exilia), seguiti dall’horror show di Lizzy Borden, che ho sempre trovato noioso. Dagli anni 80 a oggi, nulla è cambiato. Il gioco si fa certamente più interessante con gli Hardcore Supertars, sempre bravissimi dal vivo con il loro hard rock dal ritornello facile e accattivante. Lo confermano le varie “Wild boy”, “Last call for alcohol” (con tanto di bicchieri di birra regalati al pubblico) e “We don’t celebrate sundays anymore”… che va bene anche di sabato!!! I Gotthard sono particolarmente attesi con il nuovo cantante Nic Maeder, bravo e con il non facile compito di sostituire lo sfortunato Steve Lee. Il gruppo svizzero può contare su un pubblico molto legato che viene ripagato con una bella esibizione. Dopo di loro, tocca ai redivivi Darkness, riformati e rimessi a nuovo, con un Justin Hawkins a fare il bello e il cattivo tempo, tra falsetto e pose ammiccanti, assoli di chitarra e ritornelli ruffiani (“One way ticket”, “I believe in a thing called love”…). Sono bravi a tenere il palco, anche quando salta per un po’ la corrente… Justin ha infatti saputo tranquillizzare il pubblico andando a firmare autografi nelle prime file, prima di tornare “on stage” e riprendere il concerto. Lo invocavamo la sera prima ed eccolo finalmente sul palco con la sua band, le sue canzoni vecchie e nuove, il suo cilindro e la sua chitarra. Forte del suo ottimo secondo album da solista, “Apocalyptic love” (su tutte “You’re a lie” e “One last thrill”), Slash ha saputo creare un bel gruppo con il bravissimo Myles Kennedy alla voce e i validi Todd Kerns e Brent Fitz al basso e alla batteria. È anche l’occasione per riascoltare alcuni brani della sera prima (“Rocket queen”, “Paradise city”) e fare il giusto confronto. Bene, la chitarra suona finalmente come deve suonare (“Sweet child o’ mine” ringrazia…) e Myles è davvero superlativo. Grandissima esibizione!!! La giornata si chiude con lo show nello show degli attesissimi Mötley Crüe, che partono alla grande con la sempre efficace “Wild side”. Lo sappiamo benissimo che sono dei cazzoni, che Vince Neil canta come una papera e spesso quello che vuole lui. Ma sono i Mötley Crüe e sono così da sempre.

“Girls girls, girls”, “Dr Feelgood”, “Shout at the devil”, “Too fast for love”… e uno spettacolo di luci, coriste sexy, secchi di sangue finto versati sul pubblico e una batteria che ruota a 360° portandosi dietro anche un fortunato fan. Tommy Lee è il vero trascinatore dei Mötley Crüe di oggi e “Home sweet home” rimane una delle migliori ballate di sempre. I saluti finali arrivano con un’altra botta di adrenalina, “Kickstart my heart”. A colpirmi, al di là dello spettacolo, è stato un eccezionale ed emozionante Mick Mars, visibilmente malato ma capace di suonare la sua chitarra in maniera splendida. Grazie Mick.

Gli amici di Ozzy…

Quarto giorno, ovvero la domenica dell’amicizia, quella di Ozzy, che si apre con i bravi I Killed The Prom Queen e il loro metalcore un po’ fuori giornata, seguiti dai Kobra And The Lotus, canadesi che fanno un power metal piuttosto classico. Per gli August Burns Red vale il discorso fatto per IKTPQ: metalcore suonato bene e in voga attualmente, ma in questo caso fuori dal proprio contesto ideale. Non è stato facile esibirsi davanti al pubblico poco coinvolto del pit. Cosa che non succede ai DevilDriver di Dez Fafara, travolgenti con la loro miscela esplosiva a base di metalcore (ancora!) e death metal. Ottima performance in ogni caso. Dopo di loro tocca ai Trivium, bravi nel riproporre oggi tutti gli stilemi del thrash metal con fin troppa precisione. Nulla da ridire, dal vivo come su disco, ma manca sempre qualcosa per fare il grande salto. I Lamb Of God suonano a volumi altissimi, per la gioia del pubblico, mentre dopo di loro salgono sul palco i Black Label Society di Zakk Wylde. Il musicista si esibisce con un copricapo indiano e ci regala una delle sue solite travolgenti esibizioni selvagge. Agli Opeth tocca il compito di traghettare il pubblico verso il gran finale della giornata e gli svedesi sono bravi nel coinvolgerlo a dovere con il loro progressive/death metal. E siamo così arrivati alla chiusura della giornata e dello stesso Gods Of Metal con uno dei suoi più degni rappresentanti. Il mitico Ozzy Osbourne ripropone i suo brani migliori da “Bark at the moon” a “Mr Crowley”, senza dimenticare “Shot in the dark”. Non mancano gli interventi degli “amici”, che salgono sul palco per sostituire a turno alcuni elementi della band del Madman: quindi Slash e Geezer Butler (per una magistrale “Iron man”), o ancora Zakk Wylde, fino al gran finale con tutti quanti che ci regalano l’immancabile “Paranoid”. Si chiude così la kermesse metallara per eccellenza, riuscita sotto molti punti di vista.

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FLIGHT CASE

Un disco, un tour, un disco, un tour… Questa è più o meno la routine per molti degli artisti che avete incontrato nelle pagine precedenti. Ed è proprio ai concerti che è dedicata questa rubrica, con tuttavia una piccola differenza: questa volta vi portiamo dietro il palco alla scoperta di piccoli rituali e abitudini varie.

enter shikari

Di Daniel C. Marcoccia - Foto di Katja Kuhl

Attualmente impegnati in un lungo tour che li ha portati anche sul palco dell’Heineken Jammin Festival, gli Enter Shikari ci svelano i segreti della loro vita on the road. E a farlo sono il cantante Rou Reynolds e il bassista Chris Batten. Qual è stato finora il concerto più bello che avete fatto e perché? Rou Reynolds (voce/campionatori/synth): Wow, ce ne sono stati tanti… Chris Batten (basso): Ricordo con piacere la nostra esibizione al Rock Am Ring ma potrei dire anche Reading per il semplice fatto che c’era davvero tanta gente ed era emozionante da vedere. Rou: Durante i festival ci esaltiamo particolarmente perché c’è una parte del pubblico che non è lì per noi e quindi dobbiamo cercare di conquistarla. È un po’ come tornare indietro ai primi anni della band, quando non ci conosceva nessuno. Il concerto peggiore? Rou: Quando si inceppa qualcosa di elettronico… Chris: Ci muoviamo sempre molto sul palco e sprigioniamo parecchia energia, quindi può capitare di rompere qualcosa. Se succede a tutti noi nello stesso show, questo diventa per forza il peggiore… (risate) Il posto più bello in cui avete suonato? Chris: In Svizzera, recentemente, al Greenfield Festival. Si svolge in una vallata, in mezzo alle montagne, ed è davvero molto suggestivo.

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Qual è il pubblico più strano che avete incontrato? Rou: In Giappone sicuramente. Ti fissano mentre suoni e poi impazziscono alla fine del brano, tutti assieme ed è semplicemente pazzesco. Sono un popolo bellissimo. Cosa non dimenticate mai di portare con voi in tour? Rou: Cose noiose come il computer portatile e dei DVD da guardare sul tourbus mentre ci spostiamo da una data all’altra. Come passate il tempo tra una data e l’altra? Chris: Dipende dai giorni che abbiamo tra un concerto e l’altro. Se arriviamo sul posto la sera prima, andiamo a cena fuori e visitiamo pure la città. Ma la maggior parte del tempo lo passiamo purtroppo sul tourbus perché arriviamo la mattina del concerto, facciamo il soundcheck, qualche intervista e una volta finito di suonare ci rimettiamo in marcia. Non è molto glamour. Cosa non deve mai mancare nel vostro camerino? Avete richieste particolari? Chris: Durante il tour di supporto al nostro primo album, i gestori dei locali ci domandavano sempre queste cose e noi non sapevamo mai cosa rispondere. Quindi chiedevamo un regalo per ognuno di noi che non doveva costare più di 10

pound. Rou: Abbiamo ricevuto le cose più assurde, dai calzini alle pistole ad acqua. Avete delle regole da rispettare sul tour bus? Chris: Niente cacca a bordo! C’è una cover che vi piace suonare durante il soundcheck? Rou: Per divertirci ci capita di fare “Rapper’s delight” degli Sugarhill Gang. È ottima per il groove. Avete un rito particolare prima di salire sul palco? Rou: Dipende, a volte si va sul palco senza fare nulla di particolare prima; altre, soprattutto se ci siamo fatti un paio di drink prima, urliamo forte per calarci subito nel mood del concerto. Qual è la figuraccia peggiore che avete fatto dal vivo? Rou: Qualche ferita può capitare, ma sappiamo bene dove si trova ognuno di noi sul palco e quindi capita raramente di scontrarci. Diventa più difficile quando sale qualcun altro, tipo i fan… Ma fa parte del gioco.


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