#14
PLAY IT LOUD, READ IT NOW
Mensile - Anno 2 - Ottobre 2013
Placebo - Scar The Martyr - Andead August Burns Red - Good Riddance
The Flatliners Trivium
Solid rock
ALTER BRIDGE
Linkin Park – High Hopes – Protest The Hero – Versus The World – Grenouer - Human Improvement Process
#14
PLAY IT LOUD, READ IT NOW
Mensile - Anno 2 - Settembre 2013
Alter Bridge The Flatliners
trivium
Placebo Scar The Martyr Andead August Burns Red Good Riddance We Came As Romans Deftones
L’ora della vendetta
Linkin Park – High Hopes – Protest The Hero – Versus The World – Grenouer - Human Improvement Process
#14
PLAY IT LOUD, READ IT NOW
Mensile - Anno 2 - Settembre 2013
Alter Bridge Trivium Placebo Scar The Martyr Andead August Burns Red Good Riddance
the
flatliners
Lessico punk
Linkin Park – High Hopes – Protest The Hero – Versus The World – Grenouer - Human Improvement Process
EDITO
DETTO TRA NOI
Una copertina di RockNow con gli Alter Bridge era praticamente scontata già due mesi fa, al momento dell’incontro londinese della nostra Silvia Richichi con la band. Ma stupisce comunque l’ingresso del gruppo americano direttamente al nono posto della classifica italiana con il nuovo album “Fortress”. Niente da ridire sulla bravura di Myles Kennedy e soci, né sul disco, e questo risultato non può che farmi piacere considerando chi occupa abitualmente quelle posizioni. Anzi, mi lascia ben sperare sul fatto che ci sia ancora qualcuno in questo Paese interessato al rock (qualsiasi sia la sua forma), perché qualche dubbio è lecito averlo. No? Alla fine, ai concerti si vedono spesso le stesse persone. Nei locali pure. E sul palco troviamo quasi sempre gli stessi gruppi. Alcuni dei quali, a distanza di anni, continuano a non avere molto da dire. Spesso mi chiedo se ha ancora senso parlare di musica in una nazione in cui sono in pochi a leggere riviste e a comprare dischi, dove più della metà della gente che lavora nelle case discografiche non troverebbe occupazione nello stesso settore all’estero. Cosa rimane? Il divertimento? Forse. La passione? Tanta. Buona lettura e keep on rockin’ (se non vi siete ancora arresi). Daniel C. Marcoccia @danc667
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ROCKNOW #14 - OTTOBRE 2013 - www.rocknow.it
06-21 PRIMO PIANO:
Linkin Park High Hopes All in the name of… Rock Dischi violenti: Rhyme Grenouer Versus The World Human Improvement Process Libri Hi-Tech Games Crazy… net Open Store
www.rocknow.it Registrazione al Tribunale di Milano n. 253 del 08/06/2012
Scrivi a: redazione@rocknow.it DIRETTORE Daniel C. Marcoccia dan@rocknow.it ART DIRECTOR Stefania Gabellini stefi@rocknow.it COORDINAMENTO REDAZIONALE ONLINE EDITOR Michele “Mike” Zonelli mike@rocknow.it
22-51 ARTICOLI: 22-27 Alter Bridge
28-31 The Flatliners
32-35 Trivium
COMITATO DI REDAZIONE Marco De Crescenzo Stefania Gabellini COMUNICAZIONE / PROMOZIONE Valentina Generali vale@rocknow.it
36-37 Roadrunner 30th
38-39 Placebo
40-42 Scar The Martyr
44-45 Andead
46-48 August Burns Red
50-51 Good Riddance
COLLABORATORI Arianna Ascione Giorgio Basso Andrea Cantelli Nico D’Aversa Sharon Debussy Alex De Meo Michele Fenu Luca Nobili Eros Pasi Thomas Poletti Iris Prina Andrea Rock RockZone Stefano Russo Piero Ruffolo Silvia Richichi Extreme Playlist SPIRITUAL GUIDANCE Paul Gray Editore: Gabellini - Marcoccia Via Vanvitelli, 49 - 20129 Milano
52-57 RECENSIONI
52 Disco del mese: Protest The Hero 53 Nu rock 54 Pop/Rock 56 Metal/Punk 58-61 The Line 62 Flight case: Zebrahead
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LINKIN PARK Aoki chiusi
A un anno di distanza da “Living things”, i Linkin Park tornano con un nuovo progetto: “Recharged”, album di inedite collaborazioni e remix. di Piero Ruffolo
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on si può certo dire che i Linkin Park dormano sugli allori e poco importa quanto li amiate o odiate, l’indiscutibile realtà è che Chester Bennington e compagni meritano il rispetto guadagnato, se non altro per l’impegno e l’invettiva che, album dopo album, li hanno portati dove sono oggi. Dopo l’inattesa (e indovinata) evoluzione promossa in “A thousand suns” e il più recente “Living things”, i nostri annunciano “Recharged”. Non un vero e proprio album di inediti (per questo dovremo aspettare il 2014), ma un progetto nato dalla collaborazione con alcuni dei più influenti artisti della scena EDM (Electronic Dance Music). L’opera presenterà, infatti, brani realizzati ad hoc per l’occasione e remix di alcune delle
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tracce contenute nell’ultimo disco in studio. A rompere il silenzio e ben anticipare quanto sarà disponibile a partire dal 29 ottobre: “A light that never comes”, singolo composto da Bennington e Mike Shinoda in collaborazione con il DJ e produttore Steve Aoki. “Il lavoro di Steve mi ha sempre affascinato, ma è stato solo dopo aver sentito le collaborazioni con Lil’ Jon e Iggy Azalea che mi sono finalmente deciso a contattarlo”, ricorda Shinoda. “Come i Linkin Park, anche Steve è in grado di abbracciare diversi generi e stili senza mai perdere il suono che lo contraddistingue. Tutto è nato da una conversazione su Twitter, poi siamo passati alle mail, video chiamate e alla fine siamo riusciti a
fare alcune apparizione live insieme per presentare il nuovo brano. È stato grandioso”. Aspettarsi qualcosa di semplice dai LP ha ormai poco senso, ecco allora che la band non solo presenta un nuovo brano ma anche un personale (e complesso) videogioco multiplayer online tramite il quale i fan hanno potuto sbloccare in anteprima “A light that never comes”, per poi continuare a giocare (nuovi livelli e aggiornamenti sono attualmente in fase di sviluppo) per decidere il destino del mondo. “Dopo ‘Reanimation’ ho detto a molte persone che non avrei più realizzato un album di remix”, continua Shinoda, “ma poi ho ascoltato le incredibili reinterpretazioni di ‘Living things’... non potevo non cambiare
idea. Il risultato, ‘Recharged’, è impagabile. Tra gli artisti coinvolti: Killsonik, Datsik, Vice, Schoolboy, Nick Catchdubs, DJ Enferno e Money Mark. Anche Rick Rubin è della partita, con una sua personale rivisitazione di ‘A light that never comes’. E, ovviamente, pure io mi sono divertito con un paio di remix”. Come anticipato in apertura, i Linkin Park pubblicheranno nel 2014 il reale successore di “Living things”. A confermarlo, Chester, attualmente impegnato anche con gli Stone Temple Pilots (con i quali ha appena pubblicato l’EP “High rise”). “In questi giorni sono in studio con i Linkin Park, stiamo lavorando al nuovo album e stiamo pianificando nuovi live per i primi mesi del 2014. Da marzo, inoltre, sarò in tour con gli Stone Temple Pilots. Sarà un anno pazzesco!”. www.linkinpark.com
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HIGH HOPES Oltre il revival
Dopo un EP omonimo passato in sordina, gli inglesi High Hopes tornano a fare sul serio con “Self revival”, il classico debutto che non ti aspetti fatto di emozioni e sudore. Di Giorgio Basso
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Foto Nick Brooks Photography
avorare duro al fianco di personaggi all’altezza. Questa sembra essere la filosofia del combo britannico che per il disco d’esordio si sono affidati al noto produttore Russ Russell, con risultati ovviamente eccellenti: “Russ è un produttore fantastico, una sorta di sogno per chi, come noi, è cresciuto ascoltando ciò che produceva in ambito metal. Inviammo una mail, coscienti del fatto che sarebbe stato quasi impossibile lavorare
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con un personaggio del genere a causa della sua attinenza al metal, e invece in men che non si dica ci rispose entusiasta di quanto propostogli! Volevamo un sound unico, che fosse nostro al 100% e lui ci ha sicuramente aiutato a raggiungere questo obiettivo”. “Self revival” è una produzione feroce ed efficace, dalle tinte post e forte di quel modo di intendere l’hardcore tipico degli anni ’90, duro e puro: “Ci sono voluti quasi dieci mesi di lavoro per completare il disco. Un lungo periodo che è servito a
noi per crescere come musicisti e persone. ‘Self revival’ crediamo sia l’esempio perfetto per definire un prodotto e una band professionale. Non sappiamo se si tratti di post-hardcore o altro, ciò che ci rende orgogliosi è notare quanto siamo cresciuti sul piano artistico e tecnico dall’EP a oggi”. La Gran Bretagna è considerata una sorta di Mecca della musica, ma è realmente così? “Il nostro Paese è sicuramente all’avanguardia in fatto di musica: moltissimi club dove suonare, media competenti e la possibilità
di crearsi una fanbase degno di rispetto indipendentemente dal genere proposto. Un tale fermento porta però anche a rallentare la crescita di moltissime realtà underground, avendo a che fare con una concorrenza selvaggia. Diciamo che in linea di massima i pro e i contro sono all’incirca sullo stesso livello, se hai mezzi e capacità, il Regno Unito è forse il solo paese in Europa in grado di farti fare quel salto di notorietà che altrove faticheresti a trovare”. www.ihavehighhopes.com
PRIMO PIANO
N A M R E V A V CA
che NOME: a (detta an z n a ri B : A NZ PROVENIE ieland) a), b Brianzom ce, chitarr o (v n io p eria) m al Cha r Hell (batt to k o D ), LINE UP: S o s e Giò (bas Apocalyps ” ames Dead J “ punk, : O C IS D ucio Fulci L , k n u p r ts, Horro NZE: Misfi E U L GENERE: F IN k nter pun bed Zombie hu Trio, Entom e n li a lk A , Ramones avaverman /C m o .c k o o www.faceb
StrawDaze
va) NOME: ola (Manto s A fano : A Z N histle), Ste o), w in PROVENIE th , e c o lin irko Savi (v njo, mando ni LINE-UP: M a), Marco Premi (ba v Carlo Ne ia arr it ), a h rr (c a i it b h b o (c i G ett ria) Benji” Ben nini (batte g lo o B Gabriele “ ” lo tefano “Bo (basso), S (EP) enza rotta" S " : O C IS D ck lly, lk/Punk/Ro o F : E logging Mo R F E , N s y GE h rp u kM E: Dropkic INFLUENZ ze Flatfoot 56 m/strawda o .c k o o b e www.fac
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All in the name of
A cura di Andrea Rock
Q
rock
uando ti ritrovi all'interno dell'ambito rock in Italia, assisti allo sviluppo di una serie di buone o cattive idee. La validità o meno delle diverse iniziative è da considerarsi oggettiva in alcuni casi, soggettiva nella maggior parte degli altri. Vi faccio un esempio, per spiegarvi meglio cosa intendo. Prendere quattro band di punk italiano (quelle che negli anni '90/ primi 2000 riempivano i locali) e decidere di organizzare 5 date nei 5 migliori live club d'Italia è oggettivamente una buona idea perché “l'unione fa la forza”. La gestione economica del discorso è invece soggettiva. Un gruppo può decidere infatti di partecipare alla cosa “limando” il proprio cachet (tanto nessuna band suonerebbe quanto a un proprio concerto da headliner, in termini di tempo). In caso contrario, si può pensare che, essendo una manifestazione che richiamerà molto pubblico, sia il caso di guadagnare il più possibile da questa esperienza. Lasciando perdere che è sempre brutto parlare di “punk” e “soldi” nello stesso contesto (ma è altresì obbligatorio nella maggior parte dei casi), personalmente avrei optato per la prima opzione. Sulla carta, questa era una buona idea ma abbiamo detto che la valutazione è soggettiva. Per coloro che hanno deciso di non aderire all'iniziativa, invece, era probabilmente una cattiva idea. In conclusione: mettere d'accordo più persone che trattano lo stesso prodotto musicale in Italia è molto difficile. Nella maggior parte dei casi, si tende a segmentare uno stesso ambito in tante “micro realtà” affinché ognuno possa sempre contare sulla sua piccola ma personalissima fetta di mercato/pubblico/guadagno. Se consideriamo però il fatto che questo non è certo un buon momento per investire sulla musica rock dal vivo, suddividere e sminuzzare lo stesso mondo in più parti è probabilmente una cattiva idea.
RICCARDO CANATO (Rhyme)
DISCHI VIOLENTI
Di XXXXXXXXXX - Foto Silvia Belloni
DISCO SUL QUALE AVRESTI VOLUTO SUONARE: Nirvana “In utero”, ma ai tempi non avevo ancora finito le elementari… Ad oggi direi Filippo Dallinferno, quel bastardo ha fatto IL disco italiano. DISCO DA VIAGGIO: Bruce Springsteen “Darkness on the edge of town”. È il disco della mia vita, di tutti i chilometri percorsi negli ultimi anni.
Primo album comprato: Metallica “ReLoad”, giusto per fare l'outsider sin dal principio. Amo quel disco, amo il predecessore e amo “St. Anger”. ULTIMO DISCO COMPRATO: “Hubcap music” di Seasick Steve e l’ultimo dei QOTSA, “…Like clockwork”. Due macigni che non dovete farvi scappare. DISCO CHE HA CAMBIATO LA TUA VITA: Queen “Greatest hits II”. Sembra ieri; mio padre che lo fa suonare nello stereo di casa e io che attacco le cuffie e mi sdraio sul divano per ascoltarlo intimamente, al buio. Conosco ogni smorfia di Freddie, il timing di Roger e John, i soli perfetti di Brian. I miei Fantastici Quattro. DISCO SOPRAVVALUTATO: Alter Bridge “III”, impossibile bissare due pietre miliari quando pensi più al business che al percorso artistico. DISCO SOTTOVALUTATO: Nevermore “Dead heart in a dead world”, amo teatralità e testi di Warrel Dane, from Seattle. 'Nough said. Del passato remoto
direi un qualsiasi Nick Drake: infinito. DISCO “BOTTA DI VITA”: Linkin Park “Live in Milton Keynes”. La band con più palle da metà '90 a oggi. In questo live erano al top. Poi, vabbè, la voce di Chester mi tramuta in una ragazzina. DISCO “LASSATIVO”: 30 Seconds To Mars. Ci ho provato, ma non faccio per loro e loro per me. Giocano con i problemi adolescenziali trasformandoli in cliché. Jared, sei un fenomeno ma esci da "Requiem for a dream". DISCO PER UNA SERATA ROMANTICA: The Gaslight Anthem “Handwritten”, tanto fresco quanto "old school". Sono ragazzi del New Jersey, sanno come creare atmosfera e raccontare storie di tutti i giorni.
DISCO PER UNA NOTTE DI BAGORDI: Pantera “The great southern trendkill”, ma non in auto o mi ritrovo a giocare a “Carmageddon”. Se sono al volante non fate partire questo CD. DISCO DEL GIORNO DOPO: Adele “21”, scritto da panico, sentito, sofferto e credo anche sincero. Voce straordinaria, fumatrice, bevitrice, a proprio agio con i kg di troppo. What Else?! DISCO CHE TI VERGOGNI DI POSSEDERE: Mr. Big “Hey man”, ma l'ho scambiato in un negozio sui navigli per Neil Young o Bowie. Non mi vergogno di Masini, 883 o Bennato, ma di questo sì. CANZONE CHE VORRESTI AL TUO FUNERALE: Savatage “Exit music”. www.rhymeband.com
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GRENOUER Rivoluzione russa
Fieri portabandiera del modern rock, i russi Grenouer tornano oggi con “Blood on the face”, settimo sigillo discografico che li conferma nell’élite del genere. Di Giorgio Basso
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ncontriamo il leader Andrey “Ind”, personaggio che ha saputo tenere duro nei momenti difficili arrivando all’ultima gioia, intitolata “Blood on the face”. Un disco moderno e pungente che descrive alla perfezione una carriera iniziata negli anni ’90. La crescita artistica del combo russo è passata attraverso diversi ambienti sonori, giunta al culmine nelle nuove canzoni, facilmente identificabili: “Questo album descrive perfettamente lo status attuale dei Grenouer sotto ogni aspetto. Il precedente lavoro, ‘Lifelong days’, era stato accolto in
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maniera poco eterogenea da parte della critica: chi lo descriveva come metalcore, chi come djent, altri industrial… Tutto questo senza rivelare ciò che volevamo, ossia la sua anima melodic/prog. Per una band, tutto ciò è molto frustrante, anche perché così facendo si va a confondere gli ascoltatori stessi. Nel nuovo disco abbiamo concentrato i nostri sforzi su ciò che volevamo ottenere, un disco che racchiudesse l’essenza del modern rock e dell’alternative metal”. Un disco che ha anche qualcosa di italiano: “Abbiamo avuto la fortuna di poter lavorare in sede di mixing e produzione con Eddy Cavazza (Dysfunction
Productions) e Dualized. Ho apprezzato il loro talento e la professionalità, dandoci il suono che stavamo cercando. Per la registrazione invece ci siamo mossi su diversi studi, in Finlandia e Russia”. Nonostante una scena in continua crescita, la Russia non è certo il Paese ideale per aspirare a una carriera da musicista internazionale, considerazione in parte confermata da Andrey: “Viviamo a San Pietroburgo, a circa 200 km da Estonia e Finlandia, per questo motivo mi sento molto europeo sotto certi versi. Credo che il problema, oggigiorno, non sia geografico ma la società
stessa, troppo pigra e disattenta per interessarsi a qualcosa di degno come la musica dal vivo o l’acquisto di un disco. Tutti sono presi con social network, videogiochi, vestiti alla moda, fast food ed energy drink. Certo, so bene che sotto questo aspetto tutto il mondo è paese, ma fortunatamente tutti – eccetto la Russia – hanno leggi precise per quel che riguarda la musica e lo spettacolo. Questa situazione non è certo incoraggiante lo so bene, ma fortunatamente ho un carattere forte che mi porta a tenere duro e continuare su questa strada”. www.grenouer.com
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VERSUS THE WORLD Just have fun
Il gruppo di Santa Barbara, California, si appresta a suonare in Italia il prossimo mese. Nel frattempo abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Donald Spence, cantante e chitarrista. Di Stefano Russo
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opo l’uscita di un ottimo secondo album lo scorso anno (“Drink. Sing. Live. Love.”), il quartetto americano ha passato molto del suo tempo in tour, girando il proprio Paese in lungo e in largo. Ora tocca all’Europa, con una serie di concerti, compresa l’Italia (ben cinque date, dal 25 al 29 ottobre. Le trovate su Rocknow.it e su Justalive.it, nda). “Sì, finalmente veniamo a suonare in Europa e non stiamo nella pelle, credimi. È
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il posto in cui amo venire in tour, sicuramente il mio preferito. Poi, subito dopo, torneremo a casa per qualche concerto e infine partiremo per la Cina, dove ci esibiremo per la prima volta”. Donald conferma infine che la band sta già scrivendo del nuovo materiale: “Abbiamo già parecchie nuove canzoni, quindi inizieremo presto a lavorare al prossimo disco. Sicuramente prima del nuovo anno”. I componenti dei Versus The World militavano o suonano ancora in altre formazioni (Mike Davenport è un
ex Ataris, mentre Chris Flippin è tuttora nei Lagwagon, nda). Lecito chiedere quindi se la band è nata per divertimento o per soddisfare esigenze personali che non trovavano sbocco altrove: “Entrambe le cose, credo. Siamo tutti degli ottimi amici e suonare insieme rappresenta per noi il massimo. Fare concerti, registrare dischi, viaggiare… Chi non vorrebbe fare tutto questo con 4 o 5 amici?”. Gruppo post-hardcore dall’inclinazione pop/punk, Donald e compagni riescono ancora a essere “contro il mondo”? La
risposta non si fa attendere: “Penso che questa sia sempre stata l’attitudine del nostro genere. Non abbiamo bisogno di grosse etichette, né di troppi soldi per fare dischi! Salire sul furgone e andare a sudare anche in piccoli locali è sempre stato il nostro credo. Non siamo contro il mondo nel senso che siamo incazzati con lui, né dobbiamo esserlo per forza. Ma in un paesaggio fatto di DJ, musica elettronica e pop star, siamo solo un gruppo di amici che fanno musica onesta”. www.versustheworld.com
HUMAN
IMPROVEMENT
Realtà dissonante
PROCESS
A darci l’ennesima conferma dell’ottimo stato di salute del metal italiano ci pensano gli Human Improvement Process con un disco semplicemente devastante: “Deafening dissonant millennium”. Di Giorgio Basso
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ld school vs new school: la partita sembra essere iniziata anche in Italia, con un numero tale di nuovi nomi sorprendenti da far quasi impallidire. Da questo punto inizia la chiacchierata con i chitarristi Fabio e Marcello: “Probabilmente le nuove band hanno avuto, nel corso della loro formazione musicale, la possibilità di ascoltare e misurarsi con un numero molto maggiore di gruppi, dischi e generi musicali
rispetto a chi faceva metal una decina di anni fa o più. Non siamo mai stati fan del metal 80/90 made in Italy, anzi. Se poi consideriamo gruppi ‘nuovi’ come The Secret, Hour Of Penance, The Modern Age Slavery e Nero Di Marte, si può affermare senza ombra di dubbio che non c'è neanche confronto”. “Deafening dissonant millennium” è un ottimo esempio di death metal tecnico e moderno: “Un nostro pezzo nasce da un'idea o un'emozione da cui scaturisce un riff, ma può anche accadere che
sia lo stesso riff a venire prima di tutto. Successivamente, una volta che si ha l'intuizione su come il brano deve evolversi, andiamo ad arrangiare e collegare le diverse parti fra di loro, cercando di mantenere un'atmosfera comune. La parte death metal è indubbiamente predominante e le composizioni del disco risentono parecchio di questo fattore. Nonostante ciò la vena melodica ci ha sempre caratterizzato: siamo cresciuti con Metallica, Slayer, Pantera e ognuno di noi ha le
proprie influenze che possono andare dal melodic death svedese degli At The Gates al metalcore dei Trivium”. Dopo tante fatiche spese su un disco, cosa rende orgogliosa una band? Una domanda che abbiamo girato ai diretti interessati: “In primis aver tenuto duro tra mille problemi e intralci riscontrati durante le registrazioni e soprattutto i commenti entusiasti che stanno arrivando da ogni angolo del globo”. www.facebook.com/ HumanImprovementProcess
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LIBRI
EDO ROSSI
“ROCK FM - La radio, la vita” “Du Hast, la KYT WALKEN
(Tsunami Edizioni)
Un nuovo libro sulla mitica radio rock milanese, oggi purtroppo chiusa ma capace di segnare la vita e i ricordi di chi ci lavorava, come quelli di chi l’ascoltava e la rimpiange tuttora. Ce ne parla proprio l’autore, Edo Rossi. andarle a prendere e sceglierle. È la stessa cosa: il libro c’era già, qualcuno doveva scriverlo. L’ho soltanto fatto a modo mio. Una radio rock come RockFM avrebbe un suo spazio anche oggi, secondo te? O sono cambiati i tempi? Il pubblico rock in Italia non è immenso ma c’è, ha la sua rilevanza ed è sicuramente sottostimato. Il motivo sta anche nel fatto che spesso alcuni di quelli che si dichiarano appartenenti a questo "movimento" poi si nascondono, magari perché un po’ schizzinosi, e quando si fa la conta risultano assenti. E le cose sono un po’ cambiate. Ho l'impressione che stia scemando nel pubblico la curiosità e la sete di nuovo e fresco, soffocata dal conosciuto e rassicurante. Mi sento di dire che sicuramente RockFM sarebbe ascoltata oggi perché classica e rassicurante così come innovativa e fresca, e perché ad animarla sono sempre state caratteristiche invincibili come passione e credibilità. Più fatti e meno autoscatti!
C
on quale approccio hai affrontato la scrittura di questo libro? L’approccio è stato molto emozionale. Un racconto spesso paterno a proposito di una creatura che ho tanto amato e che non sono riuscito a salvare. Alle volte sofferto, altre pieno di gioia, in alcuni casi più analitico, in altri celebrativo. Certi concetti li ho maturati proprio scrivendo, quindi sono tornato indietro più volte a risistemare i pensieri. Un esercizio molto utile anche per la vita in generale. Ho sentito l’esigenza di raccontare una storia che meritava di essere raccontata… anche a chi non l’ha vissuta tutta o solo in parte. Ho cercato di valutare tutti i punti di vista in modo che ne venisse un racconto più onesto, lucido e oggettivo possibile. È stata una bellissima esperienza che fa parte del mio passato, mi ha formato, la porto nel cuore e mai come ora mi sorregge e non mi ostacola mentre guardo avanti. Sentivi di avere un obbligo nei confronti della radio stessa, di chi l'ha fatta e chi l'ha ascoltata? Secondo Platone, le idee stanno già tutte lì nell’Iperuranio, ci sono già tutte e sta a noi
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musica dei Rammstein” (Tsunami Edizioni)
I Rammstein sono da sempre uno dei casi più interessanti del panorama industrial metal. Non solo per la spettacolarità dei loro concerti-show, curati e sorprendenti in ogni minimo dettaglio, non solo per l'aspetto fortemente comunicativo della produzione artistica (sia testi, che musica), ma anche per l'etica e la professionalità. Kyt Walken ha provato a esplorare su più livelli il mondo di questa band e ha raccontato tutto in un libro: “Volevo rendere omaggio a una delle formazioni musicali più coerenti e compatte degli ultimi decenni, cercando di analizzare in maniera scrupolosa il loro percorso artistico, entrando nei dettagli dei loro testi così come delle loro soluzioni sceniche”. L'incontro, per così dire, con il mondo della band è avvenuto nel 2004, ci racconta Kyt, “anno in cui ho iniziato a studiare tedesco, cercando di addentrarmi anche nelle musica di quel paese, specialmente rock/ metal. Ho raccolto interviste di vario tipo e naturalmente recensioni. Oltre a questo, ho cercato di fornire una retrospettiva agevole a tutti sulla storia politica, sociale e musicale della DDR, avvalendomi dei migliori testi di storia contemporanea”. I Rammstein cantano da sempre in tedesco ma, anche se non si conosce la lingua, l'intensità delle loro liriche è indubbia: “Lo sono sia la loro posizione verso la Germania (a livello politico/sociale), sia il sincero desiderio di portare il proprio pubblico a riflettere. La capacità di far riflettere è senza dubbio la vera arma in mano a questa band”.
HI-TECH HUD GARMIN
La nuova frontiera del car-navigation: così Garmin presenta il suo nuovo Heap-Up Display. Una volta collegato via Bluetooth allo smartphone (iPhone, Android, Windows Phone 8), l’HUD proietterà sul parabrezza (o sul proprio schermo) le informazioni (svolte, velocità, tempo stimato) inviate dalle app StreetPilot e Navigon. www.garmin.com
JAWBONE MINI JAMBOX
Ultimo nato nella famiglia Jambox di Jawbone, il Mini offre tutto quanto presente nei fratelli maggiori in una
HP CHROMEBOOK 11
Google, in collaborazione con HP, presenta l’HP Chromebook 11: nuovo PC web-based con sistema operativo Chrome OS. Ricarica via microUSB, 2 porte USB 2.0, webcam, Wi-Fi, Bluetooth 4.0, 16 GB di memoria (e 100 GB su Google Drive), 2 GB di RAM e una diagonale 11’’ (1366x768 pixel). Annunciato modello con connettività 3G/4G. www.google.com/chromeos
veste inedita e ridimensionata. Struttura unibody in alluminio anodizzato (in 9 colori), connessioni Bluetooth 4.0 e jack 3,5mm, ricarica microUSB e controllo tramite le più note app musicali iOS e Android www.jawbone.com
MUSHKIN VENTURA ULTRA
Disponibile in tre configurazioni (240, 120 e 60 GB), debutta sul mercato la Ventura Ultra di Mushkin: flash drive USB 3.0 con prestazioni da SSD. Utilizzando capacità proprie dei due ambienti, questa pendrive raggiunge velocità di trasferimento (lettura e scrittuta) di 380MB/s e 325MB/s. Un vero e proprio primato. www.poweredbymushkin.com
GOPRO HERO3+
Restyling per la serie Hero3 di GoPro che si ripresenta più compatta e performante. La Hero3+ (Black e Silver) vanta una maggior velocità di trasferimento in Wi-Fi, monta una nuova lente e l’inedita modalità Auto Low Light (modifica del frame rate in base alla luminosità). Presentati, inoltre, nuovo software e nuovi acessori. it.gopro.com
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A cura di Michele Zonelli
games
FIFA 14
Piattaforma: X360/PS3/PC/Wii/3DS/PSVITA/ PS2/PSP Produttore: EA Sports Genere: Sportivo Riuscire a sorprende anno dopo anno un pubblico sempre più vasto ed esigente non è certo impresa da poco ma nemmeno impossibile, almeno a giudicare dai risultati ottenuti da EA Sports e il suo Fifa. “Fifa 14” celebra i primi vent’anni della serie introducendo numerose migliorie e andando a smussare (o eliminare) i difetti riscontrati nei predecessori. Per l’ultimo capitolo destinato alle attuali console (il titolo uscirà anche per le nuove macchine di Sony e Microsoft), EA non abbandona lo storico motore grafico, spremendolo fino all’osso. Parola d’ordine: simulazione. La fisica del gioco è quanto di più vicino alla realtà è possibile trovare in ambito calcistico. Movimenti dei giocatori, interazione con la palla, traiettorie, rimbalzi e chi più ne ha più ne metta, sono fedelmente riprodotti e nulla è stato lasciato al caso. L’individualismo? Dimenticatelo. I grandi campioni mantengono inalterate le caratteristiche tecniche della vita reale, ma prendere palla ed esibirsi in una lunga azione solitaria è ora impensabile. Il gioco di squadra (forte di una nuova intelligenza collettiva) si dimostra essenziale, vuoi per le citate migliorie vuoi per la rivista IA dei difensori. Come di consueto, le modalità sono molte e tra allenamenti, amichevoli, campionati (tutte le licenze Fifa) e sfide multiplayer (anche in co-op) avrete solo l’imbarrazzo della scelta.
BEYOND: DUE ANIME
KILLER IS DEAD
PS3/X360 Kadokawa Games/Koch Media
PS3 Sony
Esclusiva per PS3, “Beyond: due anime” ha tutte le carte in regole per generare forti sensi di invidia in chi non possiede la console Sony. Sempre più vicini a colmare il divario tra film e videogiochi, gli sviluppatori hanno realizzato un’opera complessa, dalla trama profonda e originale. Vista la natura del prodotto, molti i quick time event, qui proposti con una formula inedita e coinvolgente. Tutto è credibile, nessuna forzatura, grandi emozioni.
Nuova prova per Suda51 (l’autore di “No more heroes” e “Lollipop chainsaw” per intenderci), “Killer is dead” esaspera lo stile dell’artista, portando all’estremo la scuola nipponica. Il comparto grafico colpisce fin da subito, così come la cura della trama. Le azioni sono frenetiche e coinvolgenti e gli scontri sono gestiti magistralmente. Combo e relative animazioni non deludono, chiudendo il cerchio su un’opera assolutamente da non ignorare.
NBA 2K14
Piattaforma: X360/PS3 Produttore: 2K Sports Genere: Sportivo
Il miglior videogioco di basket al mondo: affermazione accostata in più occasioni a NBA 2K, affermazione che continua a descrivere la blasonata serie di 2K Games. D’accordo, attualmente non esistono rivali degni di tale nome ma, tenendo conto di quanto offerto, sarebbe difficile per chiunque anche solo pensare di sfidare il colosso americano. “NBA 2K14” non delude le attese rinnovando il gameplay e sviluppando nuove modalità. Tra le novità più importanti: il debutto delle squadre dell’Eurolega (con le italiane Siena e Olimpia Milano), sfortunatamente per il momento solo nelle partite veloci (che si differenziano da quelle delle squadre americane per regole, campi e stile di gioco). Altra grossa novità: il Pro Stick, che assegna alla levetta analogica destra tutti i movimenti del giocatore che porta palla. Farci l’abitudine non sarà immediato, ma una volta familiarizzato le soddisfazioni non mancheranno, a favore di movimenti fluidi e intuitivi. La CPU si fa indipendente, in grado di chiamare autonomamente schemi e di gestire al meglio la difesa. Ritorna The Crew, grazie alla quale porterete online il vostro alter ego per creare una squadra con 4 amici e sfidare altri giocatori. Menzione, infine, al portabandiera di questa edizione: LeBron James e la sua LeBron Path to Greatness, per rivivere la carriera dell’atleta.
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crazy net
A cura di Michele Zonelli
BORSETTA MANNAIA INSANGUINATA
Ve lo immaginate Leatherface in giro per negozi con questa stravagante borsetta? Tobe Hooper sicuramente no, ma a voi nessuno vieta di sfoggiare questo articolo, che si tratti di una passeggiata al parco o una sera al pub. www.crazyluke.it
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A cura di Eros Pasi
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ALTER BRIDGE
Walls Si intitola “Fortress” il quarto album degli Alter Bridge, un lavoro che, a detta di Myles Kennedy e Mark Tremonti è innovativo ma nello stesso tempo rispetta i canoni della musica che ha da sempre caratterizzato la loro band. Li incontriamo a Londra per saperne di più. Di Silvia Richichi
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ALTER BRIDGE
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“In un certo senso
volevamo dimostrare anche a noi stessi che avremmo potuto fare di più”
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uale approccio avete avuto nel momento in cui avete iniziato a lavorare al nuovo disco? Myles Kennedy (voce, chitarra): Abbiamo sentito come se fosse giunto il momento di spronarci ed essere musicalmente più avventurosi, cercando di infrangere un po’ gli elementi che in passato sono diventati standard nella nostra musica, cosa che si è rivelata essere liberatoria e piacevole. Inizialmente è snervante perché non si ha la sicurezza che le cose funzioneranno, ma una volta che abbiamo capito che le cose stavano andando per il verso giusto, abbiamo pensato che i fan avrebbero apprezzato. In un certo senso volevamo dimostrare anche a noi stessi che avremmo potuto fare di più. Nel periodo trascorso tra il precedente e l'ultimo album vi siete dedicati anche a progetti paralleli che tutti ben conosciamo. Quanto ha influito questo su “Fortress”? Mark Tremonti (chitarra): I progetti paralleli ci hanno insegnato ad affrontare le cose in modo differente rispetto a quanto fatto con gli Alter Bridge e ci hanno reso compositori più versatili. Penso che dobbiamo approfittare di questi punti di forza quando ci troviamo poi a lavorare di nuovo insieme. Il vostro precedente lavoro “AB III” era un concept album incentrato su un tema ben preciso. Avete cercato un tema comune anche per “Fortress”? M.K.: Non proprio. In “Fortress” c'è una tematica che attraversa alcune delle canzoni del disco e che in qualche modo si legano alla title-track, abbiamo però toccato anche altre idee. In effetti, riflettendo, si potrebbe pensare all'idea di fortezza e al concetto che questa evoca, ovvero qualcosa di imperturbabile, che resiste, che non viene demolito. Con il passare del tempo, si ha ancora più la consapevolezza che prima o poi la maggior parte delle cose crollano, sia che si tratti di relazioni interpersonali, di governi, di istituzioni o di un matrimonio per esempio. Ci sono alcune canzoni che parlano dei motivi che potrebbero portare a tale decadimento, il tradimento è uno di questi. Il tradimento è una cosa comune tra gli esseri umani e che purtroppo porta al crollo delle istituzioni. Il disco ha dunque alcune tematiche che collegano tra di loro le canzoni ma non c'è un vero e proprio concetto principale, come per esempio in “The wall” dei Pink Floyd in cui viene raccontata una storia da cima a fondo... Guardando la copertina del disco, sembra che l'immagine contraddica l'idea di fortezza come struttura resistente e imperitura. In che modo l'immagine si collega al contenuto del disco? M.T.: Quando le persone sentono che l'album si intitola “Fortress” (fortezza, nda), si aspettano che sulla copertina ci sia un castello. Penso però che tale scelta sarebbe stata troppo alla lettera e non in linea con il vero significato della canzone. Abbiamo voluto mostrare l'immagine di una cosa pressoché distrutta, che avesse più affinità con il significato della canzone. Ci piace pensare che, quando i fan vedranno la copertina, saranno sorpresi perché sarà qualcosa che non si aspettano… Un po' come con l'album, non è quello che si aspettano di sentire. Ascoltando il disco si nota un’alternanza tra brani più potenti e brani più leggeri. Avete specificatamente pensato a questa struttura per “Fortress” oppure l'ordine dei brani è casuale? M.T.: Volevamo portare l'ascoltatore attraverso
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ALTER BRIDGE
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una sorta di viaggio, con un album in cui non ci fossero esclusivamente brani pesanti, tutte ballate o canzoni malinconiche. Ci piaceva l'idea di avere dinamicità nel disco e penso che i fan si aspettano questo da noi. Inizialmente abbiamo pensato a canzoni aggressive ma poi, discutendo tra di noi, abbiamo capito che in tal modo sarebbe stato un album asimmetrico e che i nostri fan sarebbero stati delusi se non avessimo incluso un brano come “All ends well”. Volevamo mettere in atto tutti gli elementi per cui la nostra band è conosciuta, non allontanare chi ci segue da sempre... Avete dichiarato “we wanted this album to be our most unpredictable and exciting one yet”. Cosa vi fa pensare che lo sia e cosa lo rende diverso dai vostri precedenti lavori? M.T.: Penso che questo album sia diverso da quanto abbiamo fatto in passato nell'imprevedibilità degli arrangiamenti, abbiamo lavorato meticolosamente su ogni canzone per ottenere il massimo dagli arrangiamenti e per provare cose nuove. M.K.: Siamo complessivamente molto soddisfatti di “Fortress”, la cosa che mi rende più felice è che abbiamo lavorato davvero duramente alle canzoni, abbiamo dedicato molto tempo a costruirle e rimodellarle ma l'ispirazione iniziale sembra comunque che sia stata catturata e mantenuta. Questa cosa ci rende felici perché è raro che capiti, spesso l'ispirazione iniziale viene persa nel processo di scrittura del disco. Quanto tempo avete dedicato alla realizzazione del disco? M.T.: Abbiamo finito il tutto in circa tre mesi e mezzo. Ci siamo incontrati e abbiamo dato forma al disco in due o tre settimane, siamo poi passati alla fase di pre-produzione e, dopo circa tre o quattro settimane, siamo passati a lavorare sulle parti individualmente. In questo modo ognuno di noi ha avuto la possibilità di focalizzarsi sulle proprie parti e fare pratica a casa, poi tornare in studio e finalizzarle. Ci fidiamo l'uno del lavoro dell'altro, ognuno sa quello che fa e per questo è molto facile tornare a lavorare come band dopo che lo abbiamo fatto da soli. Io, per esempio, ho bisogno di essere lontano dallo studio di registrazione per comporre le mie parti di chitarra, così come Myles ha bisogno di essere lontano dallo studio per lavorare ai testi.
“Con il passare del tempo, si ha ancora più la consapevolezza che prima o poi la maggior parte delle cose crollano”
Per “Fortress” avete lavorato nuovamente con Michael “Elvis” Baskette. Come ha contribuito al disco? M.T.: Elvis è straordinario, se non fosse stato per lui, non avremmo raggiunto tale risultato. Quando abbiamo iniziato la fase di pre-produzione, è quasi diventato come un quinto componente della band. Ha sempre espresso la sua opinione, al pari di me e Myles, quando volevamo sperimentare alcuni cambiamenti, suggerendoci cosa avremmo potuto provare a fare diversamente. Ci siamo fidati ciecamente del suo giudizio. Elvis sta producendo dischi su dischi ed è incredibile la quantità di idee fresche che ha, alcune a cui magari noi non saremmo mai arrivati. Il primo singolo del disco è “Addicted to pain”, come mai questa scelta? M.T.: Avevamo la sensazione che fosse il brano migliore: breve, dritto al punto e molto energetico. “Isolation” ha funzionato per il disco precedente e i due brani sono simili. Sapevamo che sarebbe stato il brano giusto ed eravamo certi fin dall'inizio che sarebbe potuto diventare il primo singolo. www.alterbridge.com
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THE FLATLINERS
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iei sbagli Freschi di pubblicazione del loro quarto album, Chris Cresswell e i suoi Flatliners sono ormai saldamente tra le band pi첫 apprezzate dai kid di tutto il mondo. Il frontman della formazione canadese ci ha raccontato cosa si cela dietro questo nuovo lavoro. Di Stefano Russo
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THE FLATLINERS
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arlami un po’ del nuovo disco: siete eccitati per l’uscita di “Dead language”? Chris Cresswell (voce): Tantissimo. Sembra incredibile che siano passati già più di tre anni dall’uscita di “Cavalcade”, il nostro album precedente, ma questo è l’effetto che ha avuto su di noi tutto il tempo passato in tour. Siamo tutti su di giri all’idea che finalmente la gente possa ascoltare “Dead language”, suonare i nuovi brani dal vivo è fantastico. Cosa mi dici invece a proposito del titolo? C.C.: Molti dei brani hanno a che fare con l’imparare dai propri errori e il fare del proprio meglio per non ripeterli. Una specie di guida per vivere meglio ed essere una persona migliore, per così dire. Molti conoscitori della lingua inglese ti direbbero che quest’ultima sta proprio sulla punta delle dita del Latino. E proprio come il Latino, che ora è una lingua morta, ha ispirato molte lingue a venire, queste canzoni dettagliano parti della mia vita che mi hanno ispirato ad andare avanti e migliorarmi.
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Girerete un nuovo videoclip? C.C.: Si, dovremmo girarne uno entro il prossimo mese. “Cavalcade” è stato riconosciuto come uno dei migliori dischi punk rock degli ultimi anni. Questa cosa ha causato in voi un qualche tipo di pressione durante la scrittura delle nuove canzoni? C.C.: Avendo ricevuto tantissimi feedback positivi per “Cavalcade” e avendo passato diversi anni portandolo in giro in tour, è stato davvero eccitante per noi poterci finalmente concentrare nella scrittura di nuovo materiale. Penso che sia stato fatto un ottimo lavoro da parte di tutti e quattro nell’alleviare la pressione dello scrivere cose nuove, soprattutto perché ci conosciamo a vicenda da molto tempo. Se qualcosa non ci convince tutti al 100%, allora passiamo oltre. E poi, dopo tutto quel tempo eravamo davvero contenti di iniziare a creare quello che sarebbe diventato il nostro quarto LP.
Ci sono differenze sostanziali tra “Cavalcade” e “Dead language”? Sia a livello musicale che di liriche… C.C.: Musicalmente, penso che “Dead language” sia semplicemente un altro passo avanti lungo la nostra naturale evoluzione. È interessante pubblicare dischi ogni tre anni: suoni talmente tanto tra un disco e l’altro che finisci con il non renderti conto dei cambiamenti finché qualcun altro sente le nuove canzoni e capisci cosa arriva a un orecchio esterno. Per quanto riguarda I testi, “Cavalcade” era molto concettuale, provava a disegnare paragoni tra l’essere un musicista in tour e l’essere un train-hopper durante la grande depressione. In qualche modo, anche i testi del nuovo disco hanno un certo concetto alla base, ma penso che per la maggior parte siano in conflitto tra loro. Sono un tentativo di liberarsi delle vibrazioni negative e di dare un significato al tutto. La vita non assume un senso tutto d’un tratto, è un processo che si attua giorno per giorno e che ognuno dovrebbe rispettare, dedicandogli tutto il tempo che richiede.
Avete mai pensato di rinunciare ai brani più tirati e tentare di lanciarvi nel mondo mainstream seguendo la scia di band come i Gaslight Anthem? Dopo tutto, canzoni come “Tail feathers” o “Monumental” non sono così lontane dal loro sound… C.C.: No, non ci è mai passato per la mente. Noi, come i ragazzi dei Gaslight Anthem, apprezziamo diversi stili di musica e ci piace avere una tracklist un po’ eclettica alla fine. Credo sia una delle cose più stimolanti dell’essere in questa band, c’è una sfida costante per mantenere alto il nostro interesse in quello che facciamo. Credo valga per tutti I gruppi. Prendi I Gaslight: passano da un brano punk rock a uno rock’n’roll, a uno blues, fino alla canzone più triste che tu abbia mai sentito, e fanno tutto molto bene. I tre anni passati in tour hanno influito in qualche modo nel processo creativo? C.C.: Si, come sempre. È la linfa vitale del gruppo, quello a cui tutti noi dedichiamo la
maggior parte del nostro tempo, sarebbe impossibile non esserne influenzati nel modo di scrivere canzoni o sugli argomenti che trattano. Il decimo anniversario della band ha in qualche modo innescato qualche cambiamento in voi, sia come artisti che come persone? C.C.: Sicuramente inizi ad avere una prospettiva più ampia sulle cose. Ci sentiamo estremamente fortunate per aver avuto la possibilità di fare quello che ci piace di più negli ultimi 10 anni e abbiamo imparato molto in questa decade. A questo punto, essere eccitati all’idea di proseguire implica senza dubbio anche una maggiore consapevolezza dei traguardi che vuoi raggiungere e di come vuoi farlo. E con chi. Siete stati tantissime volte in Europa e tornerete il prossimo novembre. C’è una nazione in particolare in cui vi piace suonare? C.C.: Amiamo nel modo più assoluto essere in tour in Europa. Il livello di ospitalità e il
trattamento riservato alle band è ineguagliabile. Non vorrei offendere nessuno, ma penso proprio che la mia nazione europea preferita sia l’Austria. Abbiamo davvero moltissimi grandi amici laggiù e, nonostante sia parecchio lontana dal Canada, è un posto che ci fa sentire come a casa. Immagino abbiate anche una band europea preferita quindi… C.C.: Gli Astpai sono senza dubbio la miglior band europea e neanche a farlo apposta sono austriaci. Ho visto diversi vostri concerti e ogni volta mi sono chiesto come faccia il vostro batterista Paul a suonare con i piatti così in alto. Tu per caso lo sai? C.C.: Paul ha trovato un modo per attirare l’attenzione del pubblico tenendo I piatti alti quasi fino al soffitto. Non ho idea del perché lo faccia, ma funziona! www.theflatliners.com
“La vita non assume un senso tutto d’un tratto, è un processo che si attua giorno per giorno e che ognuno dovrebbe rispettare, dedicandogli tutto il tempo che richiede”
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TRIVIUM
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In metal we trust Un viaggio con Matt Heafy e Corey Beaulieu alla scoperta del nuovo disco dei Trivium, “Vengeance falls”, con cui la band di Orlando si dimostra ancora una volta perfettamente all'altezza delle aspettative. Di Arianna Ascione
I
n alcune interviste che avete rilasciato, avete detto che in “Vengeance falls” il vostro songwriting è profondamente cambiato. In che modo? Matt Heafy (voce, chitarra): In realtà il processo di scrittura è stato lo stesso dei nostri ultimi due dischi. Noi scriviamo così: partiamo dal riff di Paolo, poi arriviamo io e Corey con i riff, registriamo il pezzo in versione demo e poi lo passiamo agli altri che iniziano a lavorarci. Solo che questa volta abbiamo passato tutto a David (Draiman, frontman di Disturbed/Device e produttore del disco, ndr), che ci ha lavorato sopra e ci ha ridato indietro tutto con i suoi appunti. E tutti e cinque ci siamo poi rimessi a lavorare.
Avevate i pezzi già pronti dato che avete annunciato solo a gennaio di quest'anno che David sarebbe stato il vostro produttore. Corey Beaulieu (chitarra): Abbiamo iniziato a lavorare al disco subito dopo l'uscita di “In waves”. La prima canzone che abbiamo messo assieme, a livello musicale, è stata la title-track. Poi è partito il normale processo di produzione di un album, ma ci abbiamo messo un anno e mezzo per mettere tutto insieme. Come giudicate questo lavoro rispetto ai vostri dischi precedenti? M.H.: In “Vengeance falls”, “In waves” e “Shogun” c'è un chitarrista principale che scrive tutti i riff. Andando avanti in quella direzione, ci siamo accorti che scriviamo meglio quando la creatività è ristretta. Ci sono un sacco di band che non riescono a scrivere on the road, non so perché dato che ci sono molte ore a disposizione in una giornata. Quando siamo ispirati, cogliamo al volo tutte le opportunità e dopo aver fatto sei dischi, posso dire che album dopo album scrivere le canzoni diventa più semplice. Questo perché ci alleniamo, facciamo pratica. È un'abilità che sviluppi man mano.
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TRIVIUM Poi voi ne fate parecchi di tour, anche piuttosto lunghi. Ce n'è di tempo libero da occupare... C.B.: Sì, e scrivendo quando siamo in tour ci permette di spaziare di più: se ci blocchiamo in un determinato punto, possiamo smettere di lavorarci, continuare i concerti o lavorare su un'altra canzone. E quando ti arriva di nuovo l'ispirazione, puoi tornare su quella canzone. È meglio così piuttosto che forzarti a fare qualcosa, è più naturale lasciare che l'ispirazione e la creatività siano libere e arrivino quando sei pronto per lavorare. È' un modo rilassante di scrivere le canzoni, c'è molto tempo per fare prove, soprattutto se non hai una scadenza. Per cui hai tutto il tempo a tua disposizione. Poi, quando andiamo in studio, ci sono canzoni che sono già pronte e altre che hanno diverse versioni. Dipende dal brano.
“Quando siamo ispirati, cogliamo al volo tutte le opportunità e dopo aver fatto sei dischi, posso dire che album dopo album scrivere le canzoni diventa più semplice”
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Anche il sound del disco arriva in modo naturale? M.H.: Il sound non lo decidiamo in modo razionale, quello che succede succede. C.B.: Per quanto riguarda il suono finale, Colin Richardson ha sempre mixato i nostri dischi dai tempi di “The crusade” e ha lavorato con noi durante la realizzazione di “In waves”. Lui conosce il nostro sound, è come un'estensione della band perché abbiamo lavorato insieme così a lungo. Noi gli raccontiamo come vogliamo che “suoni” il disco, qualche idea sul risultato finale e lui sa esattamente cosa fare. Ci capisce alla perfezione. Riesce a rendere perfettamente, a livello sonoro,
le idee che noi gli esprimiamo a parole. È un maestro in quello che fa. M.H.: Quando siamo in studio, le cose possono ancora cambiare molto, ma è solo quando il disco viene pubblicato che siamo davvero soddisfatti del lavoro finale. Immagino che ci siano alcune cose che un artista, guardando indietro, vorrebbe cambiare. Ma noi, quando registriamo quel momento, siamo sempre molto soddisfatti di quello che abbiamo fatto. Se cambiassimo qualcosa, non renderemmo giustizia. C.B.: Ora, con tutta l'esperienza che abbiamo accumulato, prima di decidere di aver finito, noi sei, compreso l'ingegnere del suono, riascoltiamo ogni singola canzone dall'inizio alla fine. Lo senti dentro di te, da musicista, quando un brano
è davvero finito. È una sensazione. Voi come definireste “Vengeance falls”? M.H.: Se paragoniamo “Vengeance falls” a tutti gli altri, il disco contiene gli elementi migliori di tutti i nostri dischi precedenti. Puoi sentire elementi da “The crusade”, “In waves” o “Shogun”. Con questi ingredienti abbiamo costruito nuove canzoni e abbiamo fatto qualche innovazione tipica dei Trivium. C.B.: Un nuovo livello per i Trivium! La vostra band è riuscita a trovare a mio avviso un suo marchio di
fabbrica. Come mai oggi sembra così difficile? Soprattutto tra le band più giovani. M.H.: È molto difficile trovare e costruirti un'identità che ti renda unico. Ognuno dei nostri cinque dischi è diverso dall'altro, in ognuno abbiamo esplorato tutte le sfaccettature del nostro sound. C.B.: Ci sono alcune band che hanno un principale autore, le canzoni arrivano da un'unica prospettiva e quindi il sound è unico. Oppure, se si trova il giusto mix tra le idee dei diversi componenti, si crea un altro tipo di sound. Nel nostro caso sono le nostre personalità, le nostre influenze, il tutto unito in un unico suono. E come vedete il futuro del vostro genere? M.H.: Il metal non finirà mai. A volte sarà più grande, più mainstream, a volte più di nicchia. Quello che le band metal e i fan devono fare è aiutarsi a vicenda. I fan devono continuare a
diffondere le loro band preferite e le band metal devono fare lo stesso, spingendo gli altri gruppi e ispirandosi a vicenda. C.B.: Ci saranno sempre nuove band e usciranno sempre nuovi dischi. Ci sono tonnellate di persone che adorano questo genere di musica e un sacco di giovani che si avvicinano alla musica per la prima volta, e potrebbero diventare fan dell'heavy metal. Come ha detto Matt, la gente deve continuare a spingere le band, facendole conoscere agli amici, come quando ci si scambiava le musicassette (Corey l'ha chiamato “tape trading”, ndr). Se scopri qualcosa di figo, devi farlo conoscere ai tuoi amici. www.trivium.org
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ROADRUNNER RECORDS
30 anni a tutto volume Roadrunner Records celebra i suoi primi trent’anni con un box set in grado di ripercorrere le tappe salienti di un viaggio che cambierà per sempre la scena metal mondiale. di Piero Ruffolo
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ata nel 1980 in Olanda per volere di Cees Wessels, Roadrunner Records aveva come primo obiettivo quello di distribuire in Europa prodotti inglesi e americani. L’ascesa è stata rapida e inarrestabile. Nei tre anni successivi l’etichetta ha ampliato il proprio catalogo divenendo punto di riferimento per i consumatori d’oltreoceano, grazie a nomi come The Exploited, Black Flag, Dead Kennedys, Metallica, Slayer,
Anthrax, Venom... Nel 1983 la svolta: il primo contratto discografico e la pubblicazione di “Melissa”, disco di debutto dei Mercyful Fate. “Eravamo in Olanda per l’Aardschok Festival”, ricorda King Diamond (Mercyful Fate/KingDiamond), “sono andato negli uffici Roadrunner per incontrare Cees. Avevo molte domande e lui, con grande pazienza, mi ha spiegato ogni cosa. Dopo lo show ci siamo incontrati nel backstage e lì abbiamo firmato il nostro primo contratto. Gli sono
estremamente grato per tutto quello che ha fatto”. Trascorrono altri 3 anni. Nel 1986 Roadrunner apre una sede in US, cui seguirà quella in UK. L’etichetta continua a dettare legge nel mercato estremo e si fa portavoce di una nuova rivoluzione metal presentando il primo album dei Sepultura. “Il nostro rapporto con Roadrunner è
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stato grandioso. Andavamo spesso negli uffici di New York, soprattutto per prendere CD di altre band dell’etichetta”, a parlare è Max Cavalera
O Negative, Biohazard e Cynic. “Eravamo essenzialmente dei ragazzini con una innata passione per jazz e musica strumentale. Non accettavamo consigli o giudizi. Fortunatamente, Roadrunner ha capito come prenderci e ci ha aiutato a diventare ciò che siamo”: questa la testimonianza di PaulMasvidal (Sepultura/Nailbomb/Soulfly/ Cavalera Conspiracy). “Non cambierei il tempo trascorso in Roadrunner per nulla al mondo”. Al roster si aggiungono Obituary, Deicide, Immolation, Suffocation... Arriviamo così agli anni 90, con (tra gli altri) Type
(Cynic). I contratti si intensificano raggiungendo un nuovo culmine con Machine Head e Coal Chamber. L’evoluzione supera ormai ogni più rosea
anni e sono felice come il primo giorno”, conclude Mikael Åkerfeldt (Opeth/ Storm Corrosion), cui fanno eco le parole di Matt Heafy (Trivium): “Roadrunner è sempre stata l’etichetta in grado di definire l’andamento del mercato metal. Si è sempre distinta e non è mai uscita dal gioco, anzi, era
aspettativa, fino al primo duro colpo: Max Cavalera lascia i Sepultura per seguire nuove strade. Sono bastati, però, pochi mesi a Roadrunner per riportare ordine e rassicurare i fan. L’etichetta presenta quello che in breve tempo sarebbe diventato uno dei più grandi fenomeni degli ultimi anni: gli Slipknot. “Volevamo firmare per Roadrunner”, Crazyfists, Killswitch Engage, Theory Of A Deadman, Trivium, DevilDriver e Opeth. “Alcuni dei miei album preferiti sono usciti per Roadrunner, per me era inarrivabile... Ora siamo con Roadrunner da oltre 10
sempre un passo avanti. Essere parte di tutto questo è un onore”. Gojira, The Devil Wears Prada e Kvelertak sono alcune delle proposte più recenti, a testimonianza dell’indubbia e inalterata passione che ancora oggi anima Roadrunner Records. www.it.roadrunnerrecords.com
“XXX three decades of Roadrunner Records” (Roadrunner Records/Warner)
★★★★
ricorda Joey Jordison (Slipknot/ Murderdolls/Scar The Martyr). “Abbiamo parlato con molte etichette ma questo era il nostro obiettivo. Ricordo il giorno in cui il nostro album di debutto è stato pubblicato, era il 27 giugno del ‘99, eravamo all’Ozzfest. È stato incredibile”. La terza, e ultima, decade vede l’ennesima virata e l’ennesima presa di posizione. Dry Kill Logic, Chimaira, 36
Quattro CD, 54 brani di altrettante band che in 30 anni hanno fatto la storia di una delle più importanti ed influenti etichette metal nel mondo. Trent’anni di musica sparata a tutto volume nelle camerette dei kids e sui palchi di tutto il mondo. Mercyful Fate, Obituary, King Diamond, Biohazard, Type O Negative, Brujeria, Life Of Agony, Nailbomb, Machine Head, Dog Eat Dog, Sepultura, Coal Chamber, Soulfly, Fear Factory,
Slipknot, Spineshank, 36 Crazyfists, Killswitch Engege, Trivium, Cradle Of Filth, Hatebreed, Porcupine Tree, Dream Theater, Megadeth, Opeth, Doen, Gojira, Nickelback, Stone Sour, Glassjaw, Dresden Dolls, Airbourne, Korn… Ecco solo alcuni dei nomi che troverete in questo esaustivo boxset, ma bastano per farvi capire cosa ha combinato la Roadrunner Records in questi ultimi 30 anni. DCM
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PLACEBO
I Placebo sono finalmente tornati e lo fanno con un grandissimo album che va ascoltato più volte per apprezzarne le molte qualità. A parlarcene brevemente è il bassista Stefan Olsdal. Di Richard Royuela @ RockZone
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n passato avevate detto che i vostri dischi sono spesso delle reazioni a quello precedente. Pensi che ci siano molte differenze tra “Loud like love” e “Battle for the sun” da renderli due dischi così antagonisti? Stefan Olsdal (basso, chitarre, synth): Beh, io non sarei così categorico dicendo che sono due dischi diametralmente opposti, ma è vero che concettualmente “Loud like love” è un album comunque diverso. “Battle for the sun” era un album più diretto, con parti vocali più riconoscibili e vitali. “Loud like love”, al contrario, è un lavoro più complicato e difficile che racchiude anche diversi stati d'animo. Dal titolo, si potrebbe pensare che “Loud like love” sia un album che parla d’amore in maniera ottimista. È così? S.O.: No, non credo. Per cominciare, non si tratta di un concept album su un argomento preciso e dove la parola “amore” deve essere associata per forza a qualcosa di positivo. Penso che questa sensazione sia chiara ascoltando le canzoni del disco. La prima parte è più facile, con delle canzoni più dirette, ma andando avanti la musica diventa più oscuro e sperimentale. Non è proprio un disco che scorre via con un sorriso sulle labbra. Qualche mese fa avete pubblicato un EP intitolato “B3” che, dopo aver ascoltato “Loud like love”, sembra quasi rappresentare un ponte tra i vostri ultimi due dischi. Sei d’accordo? Era forse un modo per dimostrare a voi stessi che stavate andando nella giusta direzione con il nuovo album? S.O.: Sono assolutamente d'accordo, l’EP funge da ponte tra i due dischi. Non so se abbiamo voluto dimostrare a noi stessi che eravamo sulla strada giusta, ma è servito come base per la realizzazione di “Loud like love”. Come ad esempio, decidere di lavorare con il produttore Adam Noble. Dopo “B3”, abbiamo potuto lavorare al nuovo album ben sapendo cosa aspettarsi gli uni dagli altri. Oggi le band sembrano avere bisogno di molto più tempo per pubblicare dei nuovi album. Quello tra “Battle for the sun” e “Loud like love”, tra l’altro, è il periodo più lungo trascorso tra due vostri dischi. Credi che sia anche una questione di motivazione? S.O.: Io non credo che sia una questione di motivazione ma è vero che col passare del tempo si prende le cose con un po’ più di calma. Considera anche che dopo l’uscita di un disco segue sempre un lungo tour e a un certo punto senti anche che la tua vita ha bisogno di avere un po’ di normalità. Il tempo passa veramente veloce. Dal momento che hai citato il tour del precedente album, i Placebo sono ormai una band mondiale anche se gli Stati Uniti continuano a resistere… S.O.: In effetti, gli Stati Uniti non ci preoccupano. Possiamo quindi investire il nostro tempo in altre aree come il Sud America e l’Asia. Fortunatamente, il mercato per una band si è ampliato notevolmente negli ultimi anni e ce ne stiamo occupando. www.placeboworld.co.uk
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scar the martyr
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Joey Division
Quasi a sorpresa esce un nuovo progetto di Joey Jordison, questa volta all’insegna di un metal volutamente melodico, ma non per questo meno potente. Proprio con il batterista degli Slipknot, di passaggio a Milano, abbiamo scambiato quattro chiacchiere. Di Daniel C. Marcoccia
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l disco degli Scar The Martyr è arrivato quasi a sorpresa. Una sorpresa decisamente bella e sorprendente sotto alcuni punti di vista. Quando hai iniziato a lavorarci e soprattutto com’è nato il gruppo? Joey Jordison (batteria): Suono e scrivo canzoni in continuazione, è un processo creativo continuo che non smette mai, in un certo senso. Soprattutto quando non sono impegnato in lunghi tour e me ne sto a casa. Tutto è nato circa due anni fa, mentre ero nel mio studio a scrivere appunto canzoni ed è scattato qualcosa. Avevo una serie di riff molto interessanti e tracce di brani, a quel punto dovevo andare avanti. In quel periodo non avevo molte cose da fare, a parte qualche data con gli Slipknot, quindi potevo veramente dedicarmi ad altro. Le canzoni hanno un taglio melodico, pur rimanendo heavy. Questo aspetto viene infine accentuato dalla voce di Henry Derek, praticamente uno sconosciuto… J.J.: Henry ha fatto tutte le linee melodiche e i testi. Ha un talento enorme e ha dato un contributo notevole a queste canzoni. Sono arrivato a lui quasi per caso, chiacchierando con alcuni amici musicisti che me lo hanno segnalato. In pochi giorni ha registrato la sua voce sui pezzi che gli avevo mandato e sono rimasto a bocca aperta. Era lui il cantante perfetto per queste canzoni. Cercavo proprio quel tipo di voce. E il resto della formazione com’è arrivato? J.J.: All’eccezione di due brani, ho suonato praticamente tutto, le parti di basso, le chitarre ritmiche e ovviamente la batteria. Servivano però un paio di chitarristi solisti e ho così chiamato Jed Simon degli Strapping Young Lad e Kris Norris dei Darkest Hour. A quel punto il progetto ha iniziato veramente a evolvere e a prendere forma, arricchendosi anche con l’arrivo di Chris Vrenna alle tastiere. È stato un vero work in progress, c’erano le fondamenta di queste canzoni ma solo con l’arrivo degli altri hanno preso poi la loro forma definitiva. Avendo suonato di tutto, qual è stata la parte più difficile per te? J.J.: Anche se suonare la batteria è semplice per me, rimane comunque la parte più difficile all’interno di un disco perché in studio non è mai facile trovare il tempo giusto. È sempre una cosa molto delicata e proprio per questo motivo è una grande soddisfazione quando finisci di registrare un disco. A completare il tutto c’è la produzione di Rhys Fulber… J.J.: Ha fatto un gran lavoro ma soprattutto ha le palle per dirmi se una cosa non va
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scar the martyr
“Gli Slipknot sono come lo yin e lo yang, ma sono e rimangono la mia casa”
bene e di provare a farla diversamente. Amo i produttori coraggiosi e poco accondiscendenti (ride). Vuol dire che sono molto coinvolti nella riuscita delle canzoni. Cosa rappresentano per te questi side-project? È forse un modo per affermare il tuo songwriting rispetto agli Slipknot dove a scrivere siete in tanti? J.J.: Sono molto importanti. Mi permettono di esplorare altre sonorità e di lavorare con altri cantanti. Gli Slipknot sono e rimangono ovviamente la mia occupazione principale ma sappiamo benissimo che ormai sono una cosa enorme. Sono una macchina fantastica, pazza e con un pubblico incredibile. Una cosa estrema, anche… J.J.: Lo è, gli Slipknot sono come una celebrazione, una cosa bellissima e che continua a fare discutere. Ed è anche una prigione (ride). Gli Slipknot sono come lo yin e lo yang, ma sono e rimangono la mia casa.
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Andrai anche in tour con gli Scar The Martyr? J.J.: Sì, con questa stessa formazione. Vogliamo suonare queste canzoni dal vivo e divertirci. Quali sono oggi i tuoi obiettivi come musicista e compositore? J.J.: Scrivere la canzone che non ho ancora scritto (ride). Semplice, no? Quando sono felice e soddisfatto di una canzone appena finita, non vedo l’ora di scriverne un’altra ancora migliore. Parliamo degli Slipknot, è inevitabile. State già pensando a un nuovo disco? J.J.: Abbiamo già parecchio materiale… Davvero? J.J.: Yeah!!! Parlo ovviamente per me e ti posso dire che ho già una quindicina di canzoni che aspettano solo di essere lavorate con gli altri del gruppo. So che anche Corey
ha già qualcosa e pure Shawn ha qualche idea. Abbiamo però bisogno di sei mesi o un anno ancora per mettere tutto a fuoco e fare uscire un nuovo disco. Molte canzoni degli Slipknot nascevano dalla tua profonda collaborazione con Paul Gray. Non sarà stato sicuramente facile scrivere senza di lui… J.J.: Già, ma è assurdo perché sento la presenza di Paul nella mia vita anche ora che non c’è più. Quando sono in studio, me lo vedo davanti a me mentre suono e so esattamente cosa mi direbbe. Quindi è un po’ come se il suo spirito stesse scrivendo con me. Se dovessi scegliere una canzone più rappresentativa tra tutte quelle che hai scritto, quale sarebbe? J.J.: “Iowa”. www.scarthemartyr.com
LA CACCIA STUPRA LA NATURA
MA DELLA NATURA FAI PARTE ANCHE TU
LA CACCIA NON E’ UN GIOCO, NON E’ UNO SPORT, NON E’ UNO SVAGO. LA CACCIA E’ GUERRA, CRUDELTA’ E MORTE. Nel più totale disprezzo della condanna morale della stragrande maggioranza dell’opinione pubblica, ed in barba a tutte le Direttive Europee per la protezione degli animali, una minoranza sempre più risicata di “doppiette” continua incessante una sistematica campagna di morte e sofferenze per milioni di vittime indifese, colpevoli solo di sorvolare i cieli italiani o di aggirarsi nei boschi da sempre loro habitat naturale. L’OIPA Italia si batte da anni contro questo scempio, incivile e crudele. Così come è in prima linea in tutte le battaglie contro ogni sopruso ed atrocità perpatrata verso esseri che, come noi, provano dolore e sofferenza, titolari di un sacrosanto diritto alla vita che nessuno ha il diritto di calpestare. Il Tuo aiuto è indispensabile, contattaci al più presto. Perché continuino a vivere…
Organizzazione Internazionale Protezione Animali
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OIPA Italia Onlus
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Nuovo album per gli Andead, un terzo lavoro decisamente maturo per un gruppo che non ha paura di mettere in evidenza le pro proprie influenze. Ne parliamo con il leader della formazione milanese. Di Daniel C. Marcoccia
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on quale approccio è nato “Build not burn”? Andrea Rock (voce): Volevamo fare un disco che avesse un messaggio positivo (PMA). Nei diversi testi sottolineiamo alcuni aspetti negativi della società ma, diversamente dalla maggior parte delle band, proponiamo delle soluzioni. Quale messaggio vuoi lanciare con un titolo così forte e chiaro? A.R.: Credo fermamente nel detto “l'unione fa la forza”. Non credo valga più la pena di tenere un atteggiamento volto alla “distruzione”… Mi viene in mente la maglia di Vivianne Westwood indossata dai Pistols. Nei momenti di difficoltà bisogna essere propositivi. Nella vita come nella musica. Avendo modo di parlare spesso con te di musica, era inevitabile questa apertura verso altri suoni, come l’irish folk ad esempio. Qual è stata la sfida più grande a livello di composizione e di scrittura testi? A.R.: L'unica vera “sfida” è stato il fatto che, producendo noi stessi il disco, non siamo riusciti a fare un album con più brani. Dal punto di vista compositivo, tutto è stato estremamente naturale. Nei testi come nel look attuale (le toppe dei gruppi storici o preferiti dalla band) c’è quasi un desiderio di rivendicare le proprie basi musicali da parte tua. Di solito gli artisti non amano citare troppo così esplicitamente le proprie influenze. Cosa ne pensi? A.R.: Credo sia molto più triste non citare le proprie influenze e poi suonare identici ad altre band. Io ho molto rispetto dei gruppi che ascolto ora come in passato e mi piacerebbe poterli condividere con le nuove generazioni. Come nasce la cover di Mellencamp? A.R.: È un autore che adoro, ha un songwriting tagliente, senza bisogno di usare sonorità heavy. Quando uscì “Authority song”, lui dichiarò che era la sua “I fought the law”... I testi e i suoni si incastrano bene; abbiamo fatto così più tributi in una sola cover. Cosa ti aspetti da questo disco? A.R.: Spero che arrivi il nostro messaggio positivo e che, grazie anche a un tour promozionale per il quale il gruppo ha imposto l'ingresso gratuito ai locali dove si esibisce, i più giovani diano al punk rock la possibilità di toccare le loro vite, come è successo a me e a tanti miei coetanei a metà anni '90. Sei molto attivo a livello sociale con Punk Goes Acoustic e sempre in prima linea quando si parla di musica punk rock e comunque rock. Pensi di avere delle responsabilità in quanto personaggio pubblico per via del tuo lavoro in una grossa radio e comunque musicista? A.R.: Credo di sì. Spero sempre che la visibilità che deriva dal mio lavoro porti la gente a interessarsi alle realtà più alternative alle quali sono legato. Un domani, con una maggiore responsabilità artistica, mi piacerebbe poter proporre un po' dei gruppi che ascolto anche agli ascoltatori della radio. Nella tua rubrica mensile su RockNow muovi spesso delle critiche all’ambiente musicale di casa nostra. Secondo te quali sono ancora oggi i limiti o i veri problemi relativi alla scena rock di questo paese? A.R.: Muovo delle critiche, è vero, ma tendo sempre a proporre anche delle soluzioni alle diverse problematiche. Invito i lettori a farmi sapere cosa ne pensano, in quanto credo molto nel confronto costruttivo di opinioni. Per rispondere brevemente alla tua domanda: le band non legano tra di loro, esistono troppe scene chiuse in se stesse, c'è molta ipocrisia e più invidia di quanto si creda. Secondo te in Italia c’è un problema di cultura musicale? I dischi li comprano in pochi, le riviste chiudono perché nessuno le legge… E poi, riferito, al tuo genere preferito, c’è sempre questa noiosa rottura di scatole del “sono più punk di te"... A.R.: Il problema non credo sia legato al Paese. Come giustamente va detto, le riviste musicali (online e gratuite), i dischi (in free download o a prezzi ultra politici), l'editoria musicale indipendente esistono. Sono i consumatori i più svogliati; molti di coloro che si professano “punk” o “rocker” preferiscono passare le proprie giornate su FB facendo del gossip o criticando l'una o l'altra band. Questo atteggiamento non è punk. C'è un pensiero di Joe Strummer, raccolto nel docufilm “The future is unwritten” (da noi inserito nel brano “What about now”) che rappresenta perfettamente questa condizione: “La gente può cambiare tutto ciò che desidera, ma stanno lì fuori a farsi cattiverie l'un l'altro. È ora di riportare l'umanità al centro del ring... Questo è il discorso”. Amen. www.facebook.com/AndeadOfficial
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AUGUST BURNS RED
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Con il giusto tempo e in maniera schiva, gli August Burns Red sono diventati oggi uno dei nomi forti e di grande valore della scena metalcore. A parlare con noi è il chitarrista JB Brubaker. Di David Garcell @ RockZone
“
Rescue & restore”, il vostro ultimo disco, è stato pubblicato nel giugno scorso. Siete soddisfatti di com’è stato accolto? JB Brubaker (chitarra): Sì, la reazione del pubblico e della critica è stata buona. È una cosa molto positiva, soprattutto se consideriamo che è un disco un po’ diverso rispetto ai precedenti. Abbiamo un po’ cambiato il nostro stile. Sì, direi che è il vostro disco più duro e anche quello più progressiva. Era una cosa voluta? JB.B.: Certo. Siamo in giro da dieci anni come gruppo e inevitabilmente si cambia, di conseguenza è diversa anche la musica che ci piace sentire e suonare. Penso che ci siamo lentamente evoluti fino a diventare quello che siamo oggi e “Rescue & restore” rappresenta
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un altro passo in quel senso. Abbiamo preso volutamente le distanze da molti altri gruppi metalcore, soprattutto quelli più popolari. Molte di queste band hanno tutte lo stesso suono ed è anche la sensazione generale che ho con questo genere. Quindi, cercare di innovare e di non cadere in luoghi comuni diventa fondamentale. Molte band sono anche saltate sul carro finendo per far sminuire il senso originario di questo genere... JB.B.: È una cosa normale, inevitabile, che accade con qualsiasi genere quando diventa popolare. Ci sono molte più persone che formano un gruppo per fare la stessa cosa. Quando ero a scuola, il punk rock era molto popolare e il Warped Tour era un po’ il sogno per molti gruppi. Ora, se vai a quel festival, trovi molte band metalcore, è
i di salvezza
quasi come il nuovo punk. La conseguenza è che ci sono meno gruppi che riescono a innovare e molti che si limitano a copiare. Ma al tempo stesso è bello vedere che c’è un pubblico sempre più interessato a questa musica. Quindi non è tutto negativo. Un'altra parte importante del processo creativo sono sicuramente i testi. È anche questo un lavoro di gruppo o una prerogativa di Jake Luhrs, il vostro cantante? JB.B.: Per quanto riguarda i testi, questa volta abbiamo collaborato parecchio assieme. Avevamo circa 25 o 30 canzoni e abbiamo assegnato un voto a ognuna. Alla fine abbiamo incluso nel disco quelle con il punteggio più alto. È stata una cosa molto democratica. Jake ha poi lavorato molto sulle voci e le melodie con il produttore Grant McFarland.
Essendo una band cristiana, sentite una responsabilità maggiore nel veicolare un messaggio o nell’usare un determinato linguaggio? JB.B.: Non lo so (ride). Ovviamente cerchiamo di usare un linguaggio pulito e generalmente abbiamo un messaggio positivo. Ma cerchiamo soprattutto di parlare di questioni abbastanza dure e significative che rientrano nella vita delle persone. La priorità è comunque quella di essere una buona band e non credo che le nostre credenze siano solo al centro della nostra musica. Pensate al di fuori degli Stati Uniti è meno importante essere etichettati come una band cristiana? JB.B.: Sì, credo che in Europa l'aspetto religioso sia meno importante,
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AUGUST BURNS RED
“In America abbiamo un seguito di persone che ascoltano solo musica cristiana, ma ce ne sono molte altre che non se ne preoccupano e amano la band. Francamente preferisco che gli August Burns Red siano ascoltati perché fanno della buona musica” anche se nel Regno Unito credo che possa giocare anche contro di noi. In America abbiamo un seguito di persone che ascoltano solo musica cristiana, ma ce ne sono molte altre che non se ne preoccupano e amano la band. Francamente preferisco che gli August Burns Red siano ascoltati perché fanno della buona musica. Alla fine, piuttosto che avere una fede o meno, è più importante essere tolleranti con gli altri. JB.B.: Esattamente. Una delle cose che mi hanno aiutato a diventare la persona che sono è quella di avere girato il mondo e conosciuto culture diverse. Viaggiare mi ha spalancato gli occhi. La canzone “Treatment” parla proprio di questo. In tutti questi anni ci sono mai stati momenti in cui hai pensato di mollare tutto?
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JB.B.: Wow... (Ride). Beh, quando abbiamo iniziato, non pensavamo di certo che avremmo potuto fare una carriera del genere. Ma quando abbiamo firmato con la Solid State Records, abbiamo visto che c'era qualche possibilità. Se ci fossimo separati dopo i primi due anni, non sarebbe stato un grosso problema perché non avevamo ancora investito molto del nostro tempo in questa band. È più difficile farlo quando è passato più tempo, quando non sei riuscito a raggiungere un certo pubblico e ti rendi conto che devi trovare pure un lavoro per sbarcare il lunario. Mi auguro che non accada mai, ma sono anche consapevole che è molto difficile per un gruppo durare per sempre. Nel nostro caso ha anche aiutato il fatto che tutti i membri sono sempre stati motivati e non abbiamo mai avuto grandi cambiamenti nella formazione. www.augustburnsred.com
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GOOD RIDDANCE
Russ Rankin è uno dei personaggi di spicco della scena punk hardcore californiana: voce dei Good Riddance e degli Only Crime, icona vegan e straight-edge, nonché scout di hockey su ghiaccio. Lo abbiamo incontrato a Milano in occasione dell’unica data italiana del tour europeo dei Good Riddance. Di Andrea “Canthc” Cantelli
Stra Stra
È
un piacere vedere che siete tornati nel nostro Paese dopo tanti anni. Ci racconti cosa è successo da quel famoso concerto di addio del
2007? Russ Rankin (voce): Tecnicamente non ci siamo mai sciolti, dopo quel concerto ci siamo semplicemente presi una lunghissima pausa. Il genere che suonavamo stava attraversano un momento di declino e quindi ci è sembrato il momento giusto per dedicarci alle nostre vite, lavori e famiglie… finché, dopo circa cinque anni di silenzio, abbiamo ricominciato a sentirci e deciso insieme di rifare qualche concerto. All’inizio abbiamo suonato in qualche grosso festival e ora eccoci qui in Europa a fare un tour nei club. Oltre al tour avete intenzione anche di scrivere del materiale nuovo? R.R.: Ci stiamo pensando anche se di concreto non c’è ancora nulla di fatto. Abbiamo la fortuna di essere una band che può andare in tour anche senza avere un disco nuovo in uscita e il desiderio più impellente era quello di suonare piuttosto che lavorare a dei pezzi nuovi. Per il futuro, invece, si vedrà ma è certo che dopo questo tour di reunion non avrebbe più senso continuare a fare le canzoni vecchie a oltranza. Russ, tu sei straight-edge da molti anni. Questa scena e quella punk hanno molti punti in comune ma anche tante differenze sostanziali. Com’è essere il cantante sXe di una punk rock band? R.R.: Straight edge è per me prima di tutto uno stile di vita; poi mi piacciono delle band straight edge, ma come me ne possono piacere di hardcore o di altri generi. So che non è molto popolare questo stile di vita in concerti come i nostri, ma se c’è del rispetto reciproco non possono sorgere problemi. Io non imporrò mai a nessuno il mio stile di vita e in cambio chiedo che sia rispettata la mia scelta, anche se non sempre succede purtroppo. Non è bello farsi tirare della birra in faccia, ma credo sia anche un rischio che il cantante di un gruppo punk deve essere disposto a correre.
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ahe ahe
aight aight
ead ead
I testi che scrivi sono particolarmente curati e spesso trattano di tematiche molto serie. Credi che questi concetti arrivino a tutto il vostro pubblico o qualcuno vi segue più che altro per il genere musicale? R.R.: Il messaggio politico e sociale sta alla base del punk rock, poi alcune correnti di questo genere, come per esempio il pop/punk, sono più spensierate e affrontano anche argomenti più leggeri, ma la mia visione del punk si rifà a band come Crass, Discharge, Dead Kennedys, gruppi che alla base hanno un fortissimo messaggio politico. Poi, ovviamente, ognuno la pensa a modo suo, il punk rock è anche questo, è un genere di protesta, è anticonformismo e ci sta di non essere tutti della stessa opinione. Nella tua lunga esperienza di concerti hai visto il tuo pubblico crescere e mutare. Cos’è cambiato rispetto ai primi tempi? R.R.: I concerti sono cambiati veramente poco, a dire il vero è più quello che sta attorno ad essere cambiato molto. Ora, quando saliamo sul palco, al posto delle mani alzate vediamo un muro di telefoni, tablet e macchine fotografiche: da un lato può essere positivo perché ognuno può catturare un suo ricordo personale dell’evento che sta vivendo, ma forse non permette di vivere questo momento nella sua interezza. Siete a un concerto punk rock, state rilassati! Oltre alla tua carriera nella musica, sei anche opinionista e scout di Hockey su ghiaccio. Due mondi parecchio distanti… R.R.: Invece hanno secondo me parecchi punti in comune. L’hockey è il punk rock degli sport, è infatti veloce, violento e diretto. Lo sport e la musica spesso si avvicinano, scommetto che in Italia ci sono parecchi tifosi di calcio ai concerti! Una cosa non esclude l’altra. www.grpunk.com
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DISCO DEL MESE
PROTEST THE HERO “Volition”
(Spinefarm) ★★★★★ Ascoltando un qualsiasi disco dei Protest The Hero, un qualsiasi musicista – rinomato e non – della tanto osannata scena alternative dovrebbe porsi una domanda: ha un senso continuare? La risposta la lascio a tutti voi, io personalmente credo che poche band hanno saputo migliorarsi e stupire disco dopo disco come il quintetto dell’Ontario. Un gruppo sopra la media ma questo già lo si sapeva dai tempi del debut “Kezia” - troppo diverso dal metalcore trito e ritrito per poter essere apprezzato – o del magnifico “Fortress”, un inno a ciò che oggi chiamiamo comunemente math. Ma fu solo nel 2011 con “Scurrilous” che i nostri diedero il meglio di sé, con un singolo bomba
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come “C’est la vie” e una serie di videoclip a metà strada tra il geniale e il goliardico. Da lì, la luce, o meglio la pazzia. In due anni i Protest The Hero hanno lavorato come mai prima d’ora alla ricerca di qualcosa che si avvicinasse il più possibile alla loro bizzarra idea del termine “perfezione”. Signore e signori eccovi quindi “Volition”, un disco che senza l’affetto e il supporto dei fan (è giusto farlo notare) non sarebbe mai nato. Sì, perché Rody Walker e soci non sono certo star accecate dai dollari e conoscendo bene la situazione discografica hanno preferito evitare ogni possibile deal discografico alla ricerca della piena libertà artistica e di scelta. Da qui il via a una
recen raccolta fondi andata oltre ogni più rosea aspettativa, al punto da stupire e caricare ancor più una band che non aspettava altro che iniziare a fare sul serio e mostrare quanto l’essere indipendenti sia fantastico. Tutto bene, quindi? Non proprio, in quanto nel bel mezzo di tutto ciò, ritrovarsi senza batterista avrebbe messo in crisi qualsiasi gruppo ma non loro, che, tanto per gradire, si sono scelti un turnista qualunque, un certo Chris Adler (Lamb Of God, vi dice niente?). A questo punto tutto è pronto, i nostri si chiudono in studio e danno il via a quello che sarà poi un capolavoro. Basta il primo brano della tracklist per rimanere storditi di fronte all’essenza di questi musicisti: “Clarity” sa essere melodica ed elegante, struggente nel suo ritornello da cantare a squarciagola ed epica nel suo continuo crescendo. Semplicemente assurda. Un disco che potrebbe portare alla depressioni generazioni di chitarristi in erba (date un ascolto a “Drumhead trial”, “Without prejudice”). La parte del leone la fa come sempre Rody Walker, un cantante eccezionale che non
sembra avere ancora presente quali siano i suoi limiti: epico, teatrale e trascinatore su disco e dal vivo. Un autentico mostro, così come sono sempre interessanti i testi, punto sul quale i Protest The Hero si fanno seri, affrontando temi importanti come omofobia e religione. Probabilmente sarebbe bastato dirvi Protest The Hero per convincervi senza troppi giri di parole sulla qualità eccelsa di questo lavoro, ma poco importa, quando si sta parlando di un papabile disco dell’anno (per il sottoscritto lo è di sicuro), ogni termine non è mai di troppo. Fantastico.
nsioni A DAY TO REMEMBER
“Common courtesy” (Autoproduzione)
★★★★
Davvero un grande disco questo “Common courtesy”. Gli ADTR sono tornati con un lavoro autoprodotto (vedi causa legale con Victory) e registrato quasi un anno fa. Al banco c'è sempre il buon Chad Gilbert (New Found Glory), oramai una sicurezza nella produzione della band. Quest'ultima sembra più orientata verso un sound pop/punk, senza tralasciare i breakdown tanto amati dai die-hard fan… Considerati come una delle maggiori band "metalcore", gli ADTR danno un chiaro segnale che l'influenza predominante è il punk rock e infatti questo album è molto
più vicino a gruppi come i Millencolin che non The Ghost Inside o August Burns Red. Non mancano neppure le ballate (addirittura 2 e non in chiusura di disco) decisamente orecchiabili. Non sono stati stampati CD o vinile di questo lavoro, purtroppo, forse proprio a causa della vertenza legale con la loro precedente etichetta. Michele Fenu
A LOSS FOR WORDS “Before it caves” (Rise/Velocity Records)
★★★
Sono rimasto piacevolmente stupito da questo disco. Belle melodie, ricercatissime ma allo stesso tempo semplici. Manca forse
nu rock qualche pezzo veloce come nei precedenti lavori, ma questo non pesa affatto sulla concretezza dell'album. Anche qui i featuring non mancano (da Soupy dei The Wonder Years a Jimmy dei Polar Bear Club). Trovo questo nuovo disco molto più emozionale dei precedenti e credo che le linee vocali utilizzate dal cantante Matty siano molto molto belle e raffinate. Mi dà l'idea di un album studiato nei minimi dettagli, che regala a chi lo ascolta dei pezzi veramente validi. Degno di nota, il pezzo acustico "Brace yourself" che verso la fine esplode di energia (elettrica). Una volta ascoltato, più della metà dei pezzi rimane in testa e si ha il bisogno di riascoltarli. Un altro centro per i bostoniani. Colpito e Affondato direi ! Michele Fenu
DESOURCE "Dirty happiness" (This Is Core Music)
★★★
SCAR THE MARTYR “Scar The Martyr”
(Roadrunner Records/Warner)
★★★
Per il suo nuovo side-project, Joey Jordison ha voluto con sé personaggi di tutto rispetto: Chris Vrenna (Nine Inch Nails), Jed Simon (Strapping Young Lad) e Kris Norris (Darkest Hour). E si sente. Come emerge prepotentemente la produzione di Rhys Fulber (Fear Factory/Rob Zombie) che accentua i toni industrial del lavoro. Qui Jordison è batterista, bassista e chitarrista, oltre che compositore. Impossibile non ravvisare sonorità vicine agli Slipknot, che nel complesso non cannibalizzano l’album. Il territorio è quello della mescolanza di generi, quel modern metal che definisci a seconda del lato da cui lo guardi. Pesanti chitarre, synth, vocals graffianti e l’inconfondibile ritmica di Joey, colonna portante dell’intero album. Sharon Debussy
Per farvi capire chi sono i Desource, basterebbe farvi questo semplice esempio: prendete un velocista d'eccezione tipo Usain Bolt e pensatelo in chiave musicale. Amanti del piede pigiato sull'acceleratore fatevi avanti, qui c'è pane per i vostri denti. "Dirty happiness" è infatti un inno a tutto ciò che può essere definito forsennato e schizofrenico al tempo stesso. Un mix di prog/rock/metal che lascia interdetti per le modalità con le quali viene proposto: suonato in maniera eccelsa e ricco di sfumature che rendono il tutto godibilissimo sia dal classico metallaro vecchia scuola che dalle nuove leve. Buona tecnica strumentale e tanta voglia di spingersi al limite, questo è ciò che sanno fare meglio i Desource. Un gruppo che sembra fregarsene dei limiti di velocità e che merita rispetto e attenzione da parte vostra! Giorgio Basso
GRENOUER
“Blood on the face” (Mausoleum Records)
★★★
Dopo sei dischi alle spalle e una miriade di live in giro per il mondo, i russi Grenouer tornano con quello che può essere visto come il disco che segna la svolta definitiva in fatto di stile. Dopo anni passati tra nu-metal, metalcore e industrial, finalmente gli scenari si fanno più limpidi e a tinte modern rock. “Blood on the face” non tradisce le attese, è un disco dove il rock è assoluto
padrone e dove le melodie hanno un ruolo fondamentale nella sua buona riuscita, il tutto ben assistito da un cantato decisamente a suo agio in contesti impensabili per i Grenouer sino a qualche anno fa. Modern rock dicevamo, uno scenario nel quale questo gruppo sembra stare perfettamente a suo agio. Avanti così. Giorgio Basso
HIGH HOPES "Self revival" (This Is Core)
★★★★ Il debut album degli inglesi High Hopes è semplicemente una bomba per chi, come il sottoscritto, ama ascoltare produzioni hardcore new school cariche dei più svariati elementi. L'approccio in your face di "Self revival" è riscontrabile sin dalle prime battute, con un cantato grezzo e una sezione ritmica che non fa altro che pestare a più non posso. Ma a sorprendere, di questo lavoro, sono soprattutto le chitarre, mai così ispirate e varie nelle soluzioni: si passa da riff melodici a un assalto frontale che tanto ricorda i primi Poison The Well per veemenza. Ascoltatevi "Days fade to grey" o "Seeking truth" e fatevi conquistare da questa band, che vanta un certo Russ Russell (Napalm Death, Wildhearts) in veste di produttore e che non ha nulla da invidiare a colleghi ben più noti. Giorgio Basso
REMAINS IN A VIEW “Elegies”
(Memorial Records/Andromeda)
★★★★
Vi ricordate dei Life In Your Way e di quel capolavoro intitolato “Ignite and rebuild”? Bene, quando ho ascoltato per la prima volta questo “Elegies”, il primo nome venuto alla mente è stato proprio quello della band di Manchester. Stesso carico emotivo, stessa passionalità, la stessa voglia di farsi conoscere con grinta e dedizione. I Remains In A View sono ciò che fu l’hardcore alla fine degli anni ’90, contaminato dal metal ma ugualmente forte di quell’adrenalina che solo questo genere sa dare. Cori, breakdown, ritmiche al fulmicotone e quell’impatto live che non deve mancare mai in una produzione fanno di “Elegies” una produzione consigliata a ogni appassionato, impreziosita da artwork e versione digipack da urlo. Piero Ruffolo
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ROCK/POP
DAVE HAUSE
JULIE’S HAIRCUT
(Rise Records)
(Woodworm/Santeria)
“Devour”
“Ashram equinox”
★★★★
★★★★ Funziona così: più ascolti questo disco e più diventi malinconico, più diventi malinconico e più questo disco ti piace. A differenza del precedente “Resolutions”, che puzzava ancora molto del punk rock dei Loved Ones, la seconda prova solista di Dave Hause ha, musicalmente parlando, tutti i tratti più caratteristici del moderno cantautorato americano. L’attitudine, al contrario, è rimasta splendidamente intatta. Meno diretto del suo predecessore, “Devour” si fa apprezzare in tutte le sue sfumature, ascolto dopo ascolto, tracciando in modo sanguigno un ritratto della generazione over 30 in bilico tra amarezza, malinconia (appunto) e speranza. “The shine”, “We could be kings” e “Autism vaccine blues” vi toglieranno ogni dubbio. Stefano Russo
recen
La band emiliana rappresenta il prototipo di quello che si suole definire una band in continua evoluzione. Sono lontani anni luce gli esordi garage, persino i prosegui indie paiono lontani. Il loro sound si è evoluto passo dopo passo, come una creatura assieme a loro, per giungere alla lucentezza di oggi. Il risultato è il sesto album “Ashram equinox”, un viaggio cosmico psichedelico dalle mille sfaccettature, che rinuncia alle parole senza perdere di pregnanza. Diverse le influenze rintracciabili, tra post-rock, elettronica, jazz, etnica e new age, anche se le definizioni stavolta contano meno che mai. Le tracce si dilatano in un tutt’uno la cui costante è una dimensione arcadica e lisergica che, chiudendo gli occhi, può far fantasticare l’ascoltatore fino a
fargli credere di essere davvero all’interno di un ashram. E il tempo non conta più in questo equinozio che diluisce il giorno e la notte, e dove tutto è in perfetta armonia. Nico D’Aversa
KALWEIT AND THE SPOKES “Mulch”
(Irma Records)
★★★
Secondo album per il nuovo progetto della bravissima Georgeanne Kalweit, la cantante di origine americana che molti ricorderanno alla guida dei Delta V. “Mulch” è un lavoro molto curato, raffinato e capace di creare paesaggi sonori vari, spesso molto americani, grazie a canzoni particolarmente accattivanti quali “Kate and Joan”, “Barbie bit the dust”, “Appliances” o ancora la bellissima “Pull the drapes”. Belle melodie, atmosfere spesso
sospese, oscure e crepuscolari fanno scivolare piacevolmente questo disco, canzone dopo canzone, con la voglia di ricominciare daccapo una volta arrivati alla fine dell’ultima traccia (“Fifth daughter”). Semplicemente affascinanti. Daniel C. Marcoccia
LES ENFANTS “Persi nella notte (Via Audio Records)
★★★
Quattro amici che si conoscono tra i banchi della scuola e grazie agli scout… Questi sono Les Enfants, formazione milanese che firma questo secondo EP (l’altro, omonimo, era uscito un anno fa). “Milano” è un brano molto interessante e musicalmente affascinante nella sua struttura indie rock melodica. “Dammi un nome” lascia maggior spazio alle tastiere che vanno a creare un ottimo brano pop dalla belle atmosfere. “Cash” e “Prendi tempo” sono meno accattivanti dei precedenti, ma racchiudono comunque qualche spunto interessante a livello musicale. Un appunto va fatto al cantante, la cui voce tende a incidere poco sulle canzoni, risultando quasi schematica e monocorde. Ma il potenziale per crescere c’è sicuramente. Piero Ruffolo
PANIC! AT THE DISCO
“Too weird to live, too rare to die!” (Fueled By Ramen/Warner)
★★
ALTER BRIDGE “Fortress”
(Roadrunner/Warner)
★★★★
Più cupo e pesante (in termini Alter Bridge) di “ABIII”: così si presenta a un primo ascolto “Fortress”. L’influenza delle singole e recenti esperienze è evidente (da Myles con Slash al disco solista di Tremonti), come lo è il riavvicinamento ai Creed. “Cry of Achilles” spiazza ma introduce bene il lavoro, “Addicted to pain” (primo singolo) convince sempre più ascolto dopo ascolto, mentre “Lover” e “Calm the fire” colmano il divario col passato. Si prosegue tra anthem hard rock e ballate dai toni vagamente metal passando per “The uninvited”, una versione più
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heavy e moderna del post grunge dei Creed (come la successiva “Cry a river”), e “Farther than the sun”, abile nel proiettare le precedenti produzioni in una dimensione più in linea con ciò che sono oggi gli Alter Bridge. Alla title-track il compito di chiudere l’opera riassumendo tutto quanto ascoltato. A discapito di suoni e aperture metal, questo resta sempre e comunque un ottimo album rock (indipendentemente da tutto ciò che leggeremo a riguardo). Silvia Richichi
Che certe band preferiscano restare fedeli alle proprie origini musicali ed altre preferiscano invece sperimentare nuove soluzioni, è un dato di fatto. Come lo è quello che i Panic! At The Disco puntino sulla formula “nuovo disco/nuovo genere”. “Too weird to live, too rare to die!” non smentisce tale trend: scordatevi il tanto amato “A fever you can't sweat out” e prendete come punto di riferimento il recente “Save rock and roll” dei Fall Out Boy, emulato in tutto e per tutto nel singolo “Miss Jackson”. “This is gospel”, “Nicotine” e “Girls/ Girls/Boys” sono i pezzi degni di menzione e che riescono ad aggirare la soluzione dance che pervade l'intero lavoro. La sensazione è quella che i Panic! At The Disco siano diventati una “one man band” a tutti gli effetti. Thomas Poletti
nsioni PLACEBO
“Loud like love” (Universal)
★★★★
Sono rimasto stupito da alcune recensioni negative di questo nuovo album dei Placebo. Band senza più idee e incapace di rinnovarsi? Disco scialbo di una band in declino? Punti di vista, sicuramente, anche se “Loud like love” è probabilmente un disco che necessita vari ascolti, che va scoperto piano piano in tutte le sfumature. Anzi, per il sottoscritto rientra direttamente tra i tre migliori album del gruppo, assieme a “Without you I’m nothing” e “Meds”. E se qualcuno ha avuto da ridire sui testi di “Rob the bank” o “Too many friends”, posso solo aggiungere che sono in linea con l’abituale scrittura di Brian Molko (“Pure morning” non era forse ermetica?). “Loud like love” è un bel disco perché ha degli arrangiamenti molto curati, perché ha tre canzoni spettacolari come “A milion little piece”, “Exit wounds” e “Purify”, ovvero una ballata e due pezzi più energici tra i migliori scritti dalla band. Infine, perché si chiude con un capolavoro intitolato “Bosco”, altro pezzo lento e struggente. Mi sembra abbastanza, no? Daniel C. Marcoccia
SMASHING PUMPKINS
“Oceania – Live in NYC” (Universal)
★★★★ Concluso il tour 2013, la band di Billy Corgan pubblica un DVD con la data di New York al Brooklyn’s Barclays Center, tanto per riassumere l'esperienza e chiudere il cerchio. Il concerto parte di potenza con “Quasar” per poi snocciolare uno a uno tutti i pezzi dell'ultimo lavoro della band, “Oceania”, e pochi altri successi (tra cui “Disarm”, “Bullet with butterfly wings”, “Ava adore” e “Cherub rock”) per creare un'esperienza audiovisiva compatta. Se Billy Corgan manifesta qualche incertezza alla voce, l'ultima formazione offre una buona prestazione (con Nicole Fiorentino che tecnicamente non fa rimpiangere le bassiste precedenti). Tra i picchi del concerto segnaliamo “Violet rays” e “Oceania”, già particolarmente ispirate nell'album e potenti anche dal vivo, e la particolare esecuzione di “Wildflower” che vede tutta la band cantare e suonare le tastiere. Meno convincente la cover di “Space Oddity” di David Bowie, non proprio adatto alla voce di
ROCK/POP
Corgan. Il DVD è ricco di contenuti extra con interviste e gallery fotografica. Ci mancano gli Smashing Pumpkins originali? Sì, ma questa “versione 2.0” è comunque degna di essere ascoltata e apprezzata per la volontà di andare avanti a proporre cose nuove, senza crogiolarsi in un passato che non può tornare. Iris Prina
VENA
“Brucia amore brucia” (Dysfunction/Zeta factory)
★★★
Il combo novarese, a tre anni da “Cosa resta in me”, ritorna con un nuovo interessante EP. La matrice Subsonica, viste anche le origini geografiche, si fa certo sentire, ma i Vena non peccano assolutamente di originalità. Il loro electro-pop è certamente adrenalinico e si fonde con un’intrigante ricerca nei testi. Un sound che a volte si sbilancia nell’elettronica più pura, a volte fa riecheggiare le origini più alternative rock della band. Raccontano di un mondo effimero, di Milano, di modelle e di discoteche, cercando però di scavare in profondità. Difatti, il loro sguardo sulla realtà pare a volte ironico a volte bonario, quasi a rendersi conto di essere tutti intrappolati sulla stessa barca, chissà se per mancanza di coraggio o possibilità di scelta. Li attendiamo alla prova del primo album per un definitivo scatto di personalità. Nico D’Aversa
PEARL JAM “Lightning bolt” (Universal Music)
★★★
Un disco vario, difficilmente inquadrabile. Dritto, rarefatto, punk, blueseggiante, veloce, lento. Potremmo spendere decine di aggettivi, senza arrivare da nessuna parte: quasi ogni traccia sembra uscita da dischi diversi. Difficile quindi dare un’idea precisa del macro-suono dell'album, a tratti sorprendente. Una virata decisa dopo “Backspacer”, così sicuro e prevedibile, con la band che prova a cambiare suoni e struttura, pur rimanendo riconoscibile. Non è un capolavoro ma un album in qualche modo rassicurante in cui riemergono alcuni degli elementi che hanno reso la band ciò che è oggi. Vedremo se il tempo gli darà ragione, ma comunque sia, Eddie Vedder rimane uno dei migliori cantanti degli ultimi vent’anni. Sharon Debussy
RockNow 55
recen
METAL FATES WARNING “Darkness in a different light” (InsideOut Music)
★★★★ Ho sempre avuto grande rispetto e considerazione per i Fates Warning, band tra le prime al mondo a proporre metal contaminato dal prog e soprattutto tra le pochissime a rimanere sempre con i piedi ben piantati per terra. Nonostante i Fates Warning abbraccino da sempre il verbo progressive, la tecnica qui serve a disegnare scenari musicali e non ha mostrare al mondo mirabolanti capacità tecniche. Un esempio più unico che raro: prog metal suonato molto più col cuore che con la testa! “Darkness in a different light” non aggiunge molto alla discografia della band americana, che di fatto il meglio l’ha registrato tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 (“Perfect simmetry”, “Parallels”). Si tratta però di un disco decisamente buono e ascoltabile, e perdonate la lesa maestà ma mi coinvolge ben più dell’ultimo anonimo lavoro dei Dream Theater. Luca Nobili
MINISTRY
“Enjoy the quiet - Live at Wacken 2012” (UDR Music)
★★★★ Bello, bello e ancora bello questo live album! Voglio dire, Al Jourgensen sta all’industrial metal come Tony Iommi sta all’heavy metal o Jimmy Page all’hard rock: vero e proprio inventore di un suono e punto di riferimento per qualche migliaio di band in giro per il mondo, ieri oggi e in futuro. E allora regalatevi senza timore “Enjoy the quiet”, DVD + CD che documentano un bellissimo concerto tenuto dai Ministry durante il Wacken Open Air nel 2012... con in aggiunta anche la perfomance della band nell’edizione dello stesso festival del 2006. Riascoltare canzoni come “New world order” o “Just one fix” è la riprova che la musica superiore resiste sempre a comunque al passare del tempo, cosa che non succederà con il 99,9% delle “moderne” giovani band, pur apprezzabili nella realtà di oggi. Luca Nobili
56 RockNow
MOTÖRHEAD “Aftershock” (UDR Music) ★★★ Motörhead: deliziosamente sempre uguali a se stessi, una delle poche certezze rimaste nel mondo della musica rock insieme agli AC/DC e a pochi, pochissimi altri. Ci vuole quel “qualcosa” per pubblicare 21 dischi praticamente tutti uguali senza diventare noiosi, odiosi e spocchiosi. Alla band di Lemmy Kilmister, quell’ingrediente segreto non è mai mancato, tanto che per descrivere “Aftershock” basta scrivere a caratteri cubitali Motörhead. Oppure ascoltare la prima traccia (“Heartbreaker”), che è l’ennesima inutile conferma che questa band questo sa suonare e lo sa fare dannatamente bene. Chi ama l’heavy metal e Lemmy non ha bisogno di altro, investire i propri euro in un disco dei Motorhead è come comprare lingotti d’oro. Un investimento certo non “esotico” o particolarmente redditizio, ma sicuro come nient’altro sul mercato. Luca Nobili
UNWISE
PARADISE LOST
SUPERHORRORFUCK
(autoproduzione)
(Century Media)
(Logic(il)logic Records/Andromeda)
★★★
★★★
Un inedito a conferma del recente ritorno al gothic degli esordi (“Loneliness remains”), due ri-registrazioni di vecchi classici (“Gothic” e “Our savior”) e undici tracce rare pescate tra b-sides e outtakes: così i Paradise Lost hanno deciso di celebrare 25 anni di onorata carriera goth-metal. L’idea è sicuramente meritoria, i “best of” infarciti di singoli non servono a nulla ai fan storici e difficilmente ne attirano di nuovi. Quello che manca a “Tragic illusions 25”, purtroppo, è il materiale di alta qualità, per lo meno considerando la caratura del quintetto inglese. A parte “Last regret” e “Faith divides us” suonate insieme a un’orchestra in quel di Praga e la cover di “Missing” degli Everything But The Girl, il resto dei pezzi è nulla più che ascoltabile. Promossa l’idea, rimandato a settembre il contenuto. Luca Nobili
Senza girarci troppo attorno, “Death become us” è un disco dritto, essenziale e perfettamente inserito in tutti i canoni del genere. Non solo come sonorità, ma anche come macabri contenuti (tristi mietitori, defunti, tombe, zombie, corpi in decomposizione, voodoo e compagnia bella). Poi, è ovvio, ascoltare i Superhorrorfuck su disco è fortemente limitante. Il formato - cd o mp3 che sia non offre per forza di cose quella teatralità che è uno dei requisiti essenziali nelle band che propongono queste atmosfere marcescenti. Se vi piace l'horrorpunk, ma anche la versione metal predicata dei Murderdolls, senza troppi stravolgimenti i Superhorrorfuck fanno al caso vostro. Arianna Ascione
“One”
★★★
Quando si parla di prog rock in salsa metal si è sempre attenti a non sbilanciarsi troppo, vista la complessità della proposta. Ma a volte bisogna lasciarsi andare, come nel caso di “One” degli Unwise, un prodotto decisamente sopra la media se lo si paragona ad altri debut-album disponibili sul mercato. Una cura maniacale del songwriting unita a una performance vocale di livello sono un mix di elementi che non passano indifferenti all’ascolto, presentandoci una band conscia delle proprie potenzialità e dal tasso tecnico elevatissimo viste le soluzioni attuate all’interno di ogni brano. Fan di Queensrÿche e Fates Warning raddrizzate le antenne, questa nuova realtà italiana potrebbe stupirvi non poco! Giorgio Basso
“Tragic illusion 25 (The rarities) 2012”
“Death become us”
nsioni DAN VAPID AND THE CHEATS “Two”
(Torture Chamber)
★★
Dan Vapid è stato il bassista degli Screeching Weasel (1989–2011) e, di riflesso, ha gravitato in tutte le band del giro (Queers, Riverdales, Mopes, Methadones...). Questo già dovrebbe farvi capire che ci troviamo davanti a un ennesimo progetto “Ramones core”, genere che apprezzo, ma che ha anche molti limiti. Per queste band, la linea melodica e catchy dei diversi brani è tutto, in quanto l'aspetto musicale è totalmente figlio dei quattro di New York. Fatta questa necessaria premessa, veniamo a “Two”, secondo lavoro di Dan Vapid And The Cheats, a solo un anno di distanza dal primo disco omonimo. C'è poco da dire, gli episodi migliori sono “Panic in the street” e “Face the music”. Il resto, sapete già come può suonare. Consigliato solo ai fan. Andrea Rock
L’INVASIONE DEGLI OMINI VERDI “Il bianco piange” (Indiebox/Self)
★★★
Con 14 anni di onorata carriera, gli Omini Verdi sono sicuramente una delle band più longeve della scena punk/hardcore di casa nostra. “Il banco piange”, il loro sesto lavoro, ripropone il quartetto in grande forma e sicuramente più incazzato del solito. Basta leggere/ascoltare le liriche delle nuove canzoni per capire che i nostri hanno voglia di denunciare e allo stesso tempo sensibilizzare (“L’ultima cavia”, ad esempio, si scaglia contro la vivisezione e il maltrattamento degli animali). Così, attraverso le tracce del disco, viene dipinto uno spaccato tristemente reale della società: “Nato morto”, “Solo follia” (con Micky dei No Relax), “Il tempo in scatola” (uno dei brani migliori), “Ancora qui” sono solo alcuni titoli di un disco riuscito. Nulla di nuovo (nessuno lo pretende) ma fatto bene. Michele Zonelli
NEW FOUND GLORY “Kill it live”
(Bridge Nine Records)
★★★
Ok, è un live, quindi niente di nuovo. Ma cosa c'è di meglio di un disco dal vivo, con registrazione fedele all'esibizione e l'aggiunta di tre inediti
PUNK/HC
in studio? Abbiamo avuto la fortuna di gustarci un loro concerto pochi mesi fa e possiamo dire che i New Found Glory sono una delle band che sul palco riesce a emozionarti, che tu abbia 15 anni o 30. Perché si sa, non si cresce mai abbastanza per questo genere di band! A differenza di tanti altri dischi live, questo non sembra ritoccato in studio (a parte qualche pecca vocale aggiustata in un secondo momento) e non sono state tagliate le gag tra un pezzo e l'altro. Su “Kill it live” ritroviamo tutti (e dico tutti) i classici della band di Coral Spring, a volte cantati proprio dai fan presenti allo show. Ancora una volta, coppia vincente NFG & Bridge9, l'etichetta hardcore… con un debole easycore! Michele Fenu
Frizzante, che alcuni di voi conosceranno anche per la sua carriera di speaker radiofonico. In sostanza, 5 brani che musicano un racconto degli anni ‘40 di Alberto Moravia, intitolato “L’epidemia”, con il loro classico stile scanzonato e irriverente, figlio di Skiantos e Tre Allegri Ragazzi Morti. E aggiungeteci pure un DVD con cortometraggio girato in una chiesa sconsacrata. Il resto lo lascio scoprire a voi. Stefano Russo
PAY
Pop-punk e Regno Unito non è certo un binomio che si sente frequentemente, ma una delle poche eccezioni che riesce a confermare la regola è quella dei Save Your Breath, band gallese giunta alla pubblicazione di questo secondo full. “There used to be a place for us” è un concentrato di riff dall'alto tasso melodico amalgamati alla perfezione con la voce del frontman Kristian, vero punto di forza. Brani come “Whole”, “Arrow road” e “The world is yours” (riferimento a Scarface?) spiccano su tutti, oltre alle già sentite “Maps” e “Touchpaper” e presenti nell'EP
“Virus”
(Punkrockers Autoproduzioni)
★★★★
Formazione ormai tranquillamente definibile “storica” all’interno del panorama punk rock italiano, i P.A.Y. hanno sempre rappresentato l’apice dell’ecletticità applicata al rock’n’roll. Questo nuovo capitolo discografico (e non solo) non fa che confermare l’innato estro creativo dei varesini e, soprattutto, del loro leader Mr. Grankio a.k.a. Ariele
SAVE YOUR BREATH
“There used to be a place for us” (Animal Style Records)
★★★★
“Recover”. I cinque di Newport propongono un disco maturo, dai suoni decisi e meno “young” rispetto all'album d'esordio “Vices”. Promossi a pieni voti. Thomas Poletti
STATE CHAMP “The finer things” (Pure Noise Records)
★★★★
Ottimo disco, ecco il mio primo pensiero nell'ascoltare l’esordio sulla lunga distanza (dopo due fortunati EP) degli State Champ. Prodotto da Steve Klein (New Found Glory), l’album ha tutte le carte in regola per entrare nelle playlist dei pop-punker. “The finer things” è un album veloce e melodico, curato nei particolari e mai banale. A partire dalla traccia che apre il disco, “Elevated”, della quale è stato fatto un bellissimo video, i pezzi volano via senza appesantire l'ascoltatore. E sembra che gli State Champ abbiano una gran voglia di farsi conoscere, dato che il tour a supporto del disco è con band di altissimo livello come Bayside e Motion City Soundtrack. Piacerà ai fan di Man Overboard e The Wonder Years, che rimarranno piacevolmente sorpresi dalla semplicità dei pezzi e allo stesso tempo sbalorditi dalla loro potenza! Michele Fenu
BANGERS
“Crazy fucking dreams”
★★★★
(Beach Community)
I Bangers dalla Cornovaglia (Inghilterra) sono ancora poco conosciuti al grande pubblico ma a livello underground sono una delle band più osannate della scena punk rock di questi ultimi anni. “Crazy fucking dreams” esce a distanza di due anni dal precedente disco, l’ottimo “Small pleasures”, e notiamo con piacere che il giovane trio conferma quanto di buona aveva già fatto sentire. I Bangers propongono un punk rock ruvido, melodico e sofferto, facilmente accostabile a band della scena orgcore americana come Red City Radio e Off With Their Heads. Un disco consigliatissimo che porta dentro la rabbia e la sincerità della scene più undergound. Disponibile in vinile colorato, cassetta MC o in digital download. Andrea “Canth” Cantelli
RockNow 57
THE LINE
In collaborazione con Extreme Playlist
Volete assistere a uno show di action sport e musica tutto organizzato alla perfezione? Il Freestyle.CH fa decisamente al caso vostro! Di Markino Foto Cyril Muller, Gian Paul Lozza, Stevan Bukvic, Lukas Maeder
58 RockNow
D
a un sacco di anni ne sento parlare ma sempre per qualche motivo non ero mai riuscito ad andarci… ma quest’anno ce l’ho fatta! E nella sua 19esima edizione questo evento supportato da Red Bull, Zurich e Hyundai ha avuto più di 30.000 visitatori, accorsi per gustarsi oltre allo show di snowboard, skateboard, freeski, mountain bike e freestyle motocross anche la famosissima Crossover Session. Da sempre, la location è il parco Landiwiese sul lungolago di Zurigo nella Svizzera tedesca. L’evento si è svolto nel penultimo week end di settembre con qualifiche, gare di style session e crossover session nella giornata di sabato e tutte le finali in quella di domenica, avendo per ciascuna un montepremi. Un weekend fantastico con il cielo limpido e un sole che spaccava le pietre. Tutte le strutture, bancarelle e stand sono concentrati nel piccolo parco, tutto molto funzionale, tutto pulito e soprattutto con gli orari di inizio e fine contest che spaccavano ogni secondo. Ho notato subito che il pubblico spazia su ogni genere di età, dai più grandi ai più piccoli, e infatti quasi tutti gli stand in cambio della partecipazione al gioco proposto omaggiano di un gadget divertente. Al centro del parco ci stava il tendone di RCKSTR, la rivista rock svizzera ove dal tardo mattino fino alla sera si alternavano band e dj. La struttura dove si svolgeva la gara di Big Air in snowboard era la medesima per la gara di freeski, la rampa da mountain bike era adiacente ad essa e quella di FMX era disposta frontalmente in modo da riuscire a vedere nello stesso punto tre contest diversi. Altre due strutture erano poco distanti da dove si svolgevano i main event, ovvero la swissmilk skate plaza dove ho trovato a speakerare il nostro ospite di Extreme Playlist Yari Copt e la Laax Urban Stairset, una struttura composta da una scalinata con un monotubo centrale e un muretto laterale dove si sono alternate session in snow e di freeski. Quest’ultima struttura, per rendervi l’idea, la si può trovare alla partenza degli impianti di Laax durante la stagione invernale. Durante la giornata c’è stata pure la comparsata di uno special guest, direttamente dalla missione spaziale Red Bull Stratos Mr. Felix Baumgartner, mentre gironzolando per il parco ho avuto anche la fortuna di incontrare un po’ di amici con cui ho il piacere di girare in snowboard durante la season invernale e con il mio socio Bolca abbiamo pure conosciuto tre simpatici ragazzi della svizzera ticinese con cui abbiamo fatto subito comunella. Tutti super gasati per la style session di snow ski, MTB e FMX ma soprattutto per la fatidica Crossover Session dove i migliori quattro rider di ogni categoria si sfidavano l’uno contro l’altro facendo così risultare lo spettacolo carico di adrenalina. A votazione, il pubblico ha deciso di incoronare il famoso FMX rider svizzero Matt Rebeaud che ha impressionato tutti con il suo flair ovvero un backflip e un 360 girati nello stesso momento su una rampa in stile quarter pipe, un trick che solo pochi fanno e vi consiglio di andarlo a vedere nel video recap dell’evento. Molti altri rider famosi nella scena hanno partecipato e per non farvi il solito elenco, andate a dare una sbirciatina sulla pagina dell’evento… www.freestyle.ch
RockNow 59
THE LINE
Extreme Playlist
Ogni mercoledĂŹ, su rocknrollradio.it dalle 19 alle 21, Markino e Fumaz ci raccontano cosa succede nel mondo degli action sport attraverso le parole e i gusti musicali dei suoi protagonisti. Stay tuned!!!
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RockNow 61
FLIGHT CASE
Un disco, un tour, un disco, un tour… Questa è più o meno la routine per molti degli artisti che avete incontrato nelle pagine precedenti. Ed è proprio ai concerti che è dedicata questa rubrica, con tuttavia una piccola differenza: questa volta vi portiamo dietro il palco alla scoperta di piccoli rituali e abitudini varie.
MATTY
Come passi il tuo tempo tra una data e l’altra? Dormo, guardo film sul mio laptop, leggo libri o bevo qualche bevanda alcolica.
(Zebrahead)
Cosa non deve mai mancare nel vostro camerino? Avete richieste particolari? Solo acqua, un bagno e un pasto. E una connessione Internet!
Di Daniel C: Marcoccia
Avete delle regole da rispettare sul tour bus? Niente cacca nel cesso, non disturbare se la tendina della cuccetta è chiusa, pulisci se sporchi e cerca di divertirti sempre.
Qual è stato finora il concerto più bello che avete fatto e perché? Il Woodstock festival in Polonia è stato pazzesco... Oltre 300.000 persone! Era folle perché il palco era altissimo e così unto che la gente non poteva salire. Divertente.
C’è una cover che vi piace suonare durante il soundcheck? No, solitamente lo dedichiamo per lavorare alle canzoni o provare cose nuove in alcune di esse.
Il concerto peggiore? Non credo che uno show possa essere così brutto. C’è sempre qualcosa di divertente che può accadere… Comunque mi è capitato di vomitare un paio di volte sul lato del palco, stavo troppo male. Non erano concerti divertenti. Ma lo show deve continuare e fanculo, è solo rock’n’roll!
Avete un rito particolare prima di salire sul palco? Ci carichiamo… Io bevo sempre una vodka e scaldo la mia voce.
Il posto più bello in cui avete suonato? L’Interloken festival in Svizzera perché si svolge vicino a un lago, in una valle circondata dalle Alpi. Roba da togliere il respiro!
www.zebrahead.com
Qual è il pubblico più strano che avete incontrato? Siamo un’unica, grande, strana e perfetta famiglia! Cosa non dimentichi mai di portare con te in tour? Salviettine igieniche e tè freddo istantaneo. E un sacco di boxer, non sono mai abbastanza.
62 RockNow
Qual è la figuraccia peggiore che hai fatto dal vivo? Qualche volta mi dimentico le parole, ma è ok perché i fan cantano e devo solo ascoltarli!
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