RockNow #11

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Mensile - Anno 2 - Giugno 2013

#11

PLAY IT LOUD, READ IT NOW

The Maine - Escape The Fate - Volbeat Paramore - The Computers - Pulley Dillinger Escape Plan - Skillet Five Finger Death Punch

TRANSPLANTS Zona di guerra

FIGHT OR FLIGHT - HEART IN HAND - BOUNCING SOULS - TRACER - CELEB CAR CRASH - MY TIE IS EVIL - SILVERSTEIN


Mensile - Anno 2 - Giugno 2013

#11

PLAY IT LOUD, READ IT NOW

the maine Dolcetto o scherzetto

Transplants - Escape The Fate - Paramore Dillinger Escape Plan - Five Finger Death pUnch Volbeat - Pulley - The Computers - Skillet

FIGHT OR FLIGHT - HEART IN HAND - BOUNCING SOULS - TRACER - CELEB CAR CRASH - MY TIE IS EVIL - SILVERSTEIN


Mensile - Anno 2 - Giugno 2013

#11

PLAY IT LOUD, READ IT NOW

escape the fate Stato di grazia

TRANSPLANTS - THE MAINE - PARAMORE DILLINGER ESCAPE PLAN - FIVE FINGER DEATH PUNCH VOLBEAT - PULLEY - THE COMPUTERS - SKILLET FIGHT OR FLIGHT - HEART IN HAND - BOUNCING SOULS - TRACER - CELEB CAR CRASH - MY TIE IS EVIL - SILVERSTEIN



EDITO

Foto Emanuela Giurano

UN ANNO DA URLO!!!

Un anno di RockNow! Sono già passati dodici mesi dall’uscita del primo numero di questa rivista… diversa. Diversa nel suo formato: un vero mag da sfogliare online e non un semplice sito. Diversa nello spirito: fatta da persone appassionate che, in molti casi, non avevano più una rivista di riferimento nelle edicole. Gente che va ai concerti e che ascolta ancora i dischi. Vi garantisco che altrove non sono in molti a essere così. Un anno di RockNow significa anche tanto sbattimento per avere ogni mese un giornale fatto bene e di qualità, ricco di contenuti e al passo con l’attualità. Non è facile, un po’ perché non è la nostra principale occupazione (almeno per ora ma ce lo auguriamo), un po’ perché lo facciamo in Italia. Già, non è semplice fare qualcosa di innovativo in un Paese vecchio e da sempre poco incline al cambiamento. Basta vedere lo stato dell’editoria e, soprattutto, quello della discografia. Sì, è vero che l’industria del disco è in crisi un po’ ovunque nel mondo ma è altresì evidente che in Italia sta messa peggio. Pochi discografici illuminati, alcuni davvero poco appassionati che potrebbero lavorare alle poste con lo stesso slancio emotivo. C’è inoltre poca considerazione per la stampa musicale preferendo puntare sui quotidiani e su alcune riviste di moda o lifestyle. Meglio una colonnina o al massimo una pagina

lì piuttosto che quattro su RockNow. E se va bene, andate poi a spiegarlo al fan che l’intervista è stata estrapolata da una round-table. E non parliamo poi delle copertine saltate. Tante. Forse troppe. In un anno, infine, ho avuto l'opportunità di ascoltare molti dischi. Poche cose veramente superlative, molte nella media e parecchie destinate a scomparire per fortuna nel giro di qualche anno (anche molto meno). Ascolto sempre meno roba italiana, anche qui per questione di attitudine e approccio, e mi dispiace anche dirlo. Per una band che si sbatte e ci crede, ce ne sono almeno 4 che vogliono fare le star per cinque minuti, prima di andare a lavorare nell'azienda di famiglia. Ma basta con le chiacchiere e vi lascio alla lettura di questo nuovo numero di RockNow: tanta roba da leggere anche questo mese! Nel frattempo, grazie a tutti quelli che hanno “urlato” con noi per un anno e continueranno a farlo in futuro. Come dicono spesso nei credits dei dischi: you know who you are!!! Keep on rockin’!!! Daniel C. Marcoccia @danc667

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ROCKNOW #11 – GIUGNO 2013 – www.rocknow.it

06-19 PRIMO PIANO:

Fight Or Flight Heart In Hand Dance No Thanks – Carry All All in the name of… Rock Dischi violenti: Bouncing Souls Tracer Celeb Car Crash My Tie Is Evil Hi-Tech Games Crazy… net Open Store

20-51 ARTICOLI:

20-23 Transplants

www.rocknow.it Registrazione al Tribunale di Milano n. 253 del 08/06/2012

Scrivi a: redazione@rocknow.it DIRETTORE Daniel C. Marcoccia dan@rocknow.it ART DIRECTOR Stefania Gabellini stefi@rocknow.it

24-27 The Maine

28-30 Escape The Fate

COORDINAMENTO REDAZIONALE ONLINE EDITOR Michele “Mike” Zonelli mike@rocknow.it COMITATO DI REDAZIONE Marco De Crescenzo Stefania Gabellini COMUNICAZIONE / PROMOZIONE Valentina Generali vale@rocknow.it

32-33 The Computers

34-36 Dillinger Escape Plan

38-39 Pulley

40-42 Volbeat

44-46 Five Finger Death Punch

48-49 Paramore

COLLABORATORI Arianna Ascione Giorgio Basso Mattia Borella Andrea Cantelli Nico D’Aversa Sharon Debussy Alex De Meo Luca Nobili Eros Pasi Andrea Rock Stefano Russo Piero Ruffolo Silvia Richichi Lucrezia Stuart Extreme Playlist FOTOGRAFI Andrea Cantelli Arianna Carotta Emanuela Giurano SPIRITUAL GUIDANCE Paul Gray

50-51 Skillet

52-57 RECENSIONI

52 Disco del mese: QOTSA 53 Nu rock 54 Pop/Rock 56 Metal/Punk 58-60 The Line 62 Flight case: Silverstein

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Editore: Gabellini - Marcoccia Via Vanvitelli, 49 - 20129 Milano

Tutti i diritti di riproduzione degli articoli pubblicati sono riservati. Manoscritti e foto, anche se non pubblicati, non saranno restituiti. Il loro invio implica il consenso alla pubblicazione da parte dell'autore. È vietata la riproduzione anche parziale di testi, documenti e fotografie. La responsabilità dei testi e delle immagini pubblicate è imputabile ai soli autori. L'editore dichiara di aver ottenuto l'autorizzazione alla pubblicazione dei dati riportati nella rivista.



PRIMO PIANO

FIGHT OR FLIGHT Volo libero

Con praticamente tutti i componenti attualmente impegnati a far musicalmente altro, viene naturale porsi qualche interrogativo sul futuro dei Disturbed. Ora è la volta di Dan Donegan e della sua nuova creatura. Di Luca Nobili

Dopo che i Disturbed hanno deciso di prendersi una pausa non è passato molto tempo perché sentissi l’esigenza di mettermi a suonare, scrivere musica, salire su di un palco. È nel mio sangue, non posso farci niente e non posso controllare la mia voglia di creare”. È un Dan Donegan carico e felice quello che mi parla al telefono dall’altra parte dell’oceano, un musicista che ha trovato la pace dopo la non troppo serena decisione dei Disturbed di entrare in un congelatore e attendere tempi migliori. “Ho cominciato a parlare di questa mia volontà di fare musica con Dan Chandler degli Evan’s Blue; abbiamo quindi deciso di collaborare e scrivere un po’ di musica

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insieme, ma all’inizio non era mia intenzione quella di formare una vera e propria band e incidere un album, era solo voglia di dare libero sfogo alla mia creatività. Dopo aver inciso un primo demo, io e Dan ci siamo accorti riascoltando il materiale che le canzoni erano realmente buone e meritavano di essere registrate in maniera professionale: è stato in quel momento che abbiamo reclutato Mike alla batteria (anche lui nei Disturbed, nda) e registrato i pezzi nel mio studio personale poco fuori Chicago. Col passare del tempo le cose si sono fatte via via più serie, ho fatto ascoltare i pezzi alla casa discografica che ha gradito e accettato di produrre l’album: abbiamo quindi completato la line up dei Fight Or Flight con l’ingresso del bassista Sean Corcoran

e del chitarrista Jeremy Jayson”. Non è senza sorpresa, come leggerete in sede di recensione, che ascoltando il disco di debutto di questo side-project ci si trova di fronte a un hard rock si stampo decisamente melodico. Tanto che credo nessuno possa trovare anche una sola briciola dei Disturbed in questo album... “Da una parte quello che puoi ascoltare in ‘A life by design?’ è stato scritto in maniera naturale, senza una precisa direzione o tipo di sonorità in testa. Le canzoni che io e Dan abbiamo creato hanno preso una certa direzione melodica da subito, senza forzature. Dall’altra devo dire che, una volta deciso di dar vita a una vera band e rendere questo passatempo qualcosa di serio, mi è stato chiaro fin da subito che volevo che i Fight Or Flight vivessero

una vita propria ben separata dai Disturbed. Per me un side-project significa anche mostrare alla gente cos’altro so fare rispetto a quanto ho suonato in precedenza nella mia carriera. Dar vita a dei ‘Disturbed #2’ che senso avrebbe avuto?”. Non possiamo certo dare torto a Dan, soprattutto se si proviene da una band che così tanto ha avuto successo presso il pubblico metal americano in questi anni! “Era dal 1996 che non facevo musica insieme a qualcuno di diverso dei miei compagni nei Disturbed, è stato interessante scrivere per un cantante che ha un timbro di voce così differente rispetto a David (Draiman, frontman dei Disturbed e ora anche dei Device, nda).” www.fightorflightofficial.com


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PRIMO PIANO

HEART IN HAND a fior di pelle

Sono cresciuti parecchio i britannici Heart In Hand: dall'ibrido hardcore/punk di "Only memories" alla potenza deflagrante del nuovo "Almost there". La parola al tatuatissimo frontman Charlie Holmes. Di Eros Pasi

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uali meccanismi scattano all'interno di una band per uscire in maniera così decisa dall'anonimato? Domanda dalla risposta molto semplice nel loro caso: "Aver trovato un batterista come Sam (Brennan, nda). Ci ha trasportati in una nuova dimensione sia per quel che concerne l’aspetto sonoro sia per la scrittura. In passato davamo meno importanza a

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piccoli aspetti tecnici, cosa che invece con il suo arrivo ci siamo trovati ad affrontare arrivando a capire l'importanza che essi hanno anche in un contesto molto diretto e per certi versi semplice come quello hardcore". Spesso descritti come gli eredi naturali dei connazionali Your Demise, il quintetto sembra non preoccuparsi molto dei vari paragoni dando sfoggio di stile e giusta dose di cattiveria una volta salito sul palco: "Viaggiare su di un furgone

in lungo e in largo per l'Europa è ciò che vogliamo e dobbiamo fare. Non siamo una band che ama stare a lungo chiusa in uno studio, nessuno di noi ha un bel carattere e proprio per questo motivo abbiamo bisogno di girare e confrontarci quotidianamente con facce nuove". Curiosa infine è la storia dietro la quale è nato il titolo del nuovo disco: "Eravamo nel bel mezzo del tour europeo del 2011 e durante un day off in Germania abbiamo preso la

decisione di tatuarci una frase che riassumesse ciò che sono gli Heart In Hand: una band di amici che suona ciò che ama, che è unita e che porta avanti le proprie idee con convinzione. Parlando con un tatuatore del posto venne fuori ‘Almost there’… Beh ce ne innamorammo al punto che oltre a tatuarcela gli abbiamo concesso l'onore di rappresentare il nostro miglior disco!". www.facebook.com/heartinhandukmh


DANCE! NO THANKS Da Cuneo ecco i Dance! No Thanks, quartetto dedito a un pop/punk piacevole e ben congegnato. Per l'uscita del nuovo album "Something to believe in" abbiamo incontrato il cantante-chitarrista Luke. Di Giorgio Basso

Che il pop/punk sia un genere molto apprezzato in Italia è cosa ormai risaputa, basta infatti pensare al numero di band che popolano questa scena per rendersi conto di quanto interesse ruoti attorno a esso. I Dance! No Thanks sono certamente un nome sul quale scommettere, abili nel dare energia e vivacità alle proprie canzoni, come ci testimonia il nuovo album "Something to believe in": "Rispetto al passato siamo partiti con una formazione solida, con idee chiare sul da farsi sin dalle prime battute. Abbiamo passato un sacco di tempo in fase di pre-produzione

e poi ci siamo affidati a un ottimo produttore come Andrea Fusini che ha dato un contributo enorme nel concretizzare ciò che volevamo ottenere. La base di partenza è il sound californiano, che ci influenza da sempre ed è forse uno dei motivi per i quali abbiamo iniziato a suonare. Ovviamente c'è anche del nostro, orientando il tutto verso melodie pop catchy che potessero essere potenti all'ascolto". La voglia di confrontarsi con il mercato estero e l'affrontare palchi sempre più prestigiosi sono progetti sui quali i Dance! No Thanks stanno lavorando sodo: "Suonare fuori dai nostri confini è un punto fondamentale sul quale lavorare, perché per quanto possa essere attiva la scena pop/punk italiana, all’estero la scena alternative riscuote un successo e un'attenzione mediatica di gran lunga superiore. Il fatto di aver diviso il palco con gli Ataris e con gli All Time Low sono piccole soddisfazioni che ci portano a credere fermamente in ciò che facciamo". www.dancenothanks.com

CARRY-ALL

Le band italiane che non si sono fatte incantare dalle sirene delle mode degli ultimi dieci anni non sono molte. Tra queste, i friulani Carry-All sono sicuramente in prima linea tra le fila dei “fedeli” del tipico sound 90’s punk. Di Stefano Russo

Attivi da ormai più di una decade, i Carry-All arrivano dal profondo nord-est e fanno parte della, ahimé, sempre meno nutrita schiera di band italiane che, fregandosene dei trend, continuano a essere legate alle tipiche sonorità californiane degli anni ’90. Ma quanto è difficile, nel 2013, tentare di farsi notare all’interno della scena indipendente italiana suonando un genere tutt’altro che alla moda? “Bella domanda! Se parliamo della scena italiana, la risposta è che è impossibile dal momento che non esiste una scena. Se parliamo del resto d'Europa, credo che la miglior cosa da fare sia suonare in giro il più possibile, conoscere altre band, nuovi promoter e piano piano le occasioni arrivano. Non esistono trucchi, ci vuole solo tanta determinazione, la giusta attitudine e un pizzico di follia”. Questi sette ragazzi di Tolmezzo vantano, inoltre, una sezione fiati che rende facile l’accostamento a band come Less Than Jake e Mad Caddies. Ma guai a definirli ska-punk: “Noi suoniamo principalmente punk rock, questa è la nostra attitudine. Ci infiliamo i fiati perché danno colore e arricchiscono gli arrangiamenti. Canzoni ska non ne abbiamo mai fatte e i ritmi in levare sono davvero pochi all’interno dei nostri brani. Quando vogliamo sperimentare preferiamo contaminarci con il dixieland, il folk e il ragtime, mantenendo però lo spirito punk. La musica, quando è fatta senza scendere a compromessi, rappresenta quello che si è e i Carry-All sono quello che si sente nei dischi ma soprattutto quelli che si vedono nei live: sul palco siamo totalmente noi stessi, nessuna messa in scena”. www.carry-all.net

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PRIMO PIANO

! A S U ! A S U USA!

.A.) NOME: oston (U.S B ve : A Z N IE hitarra), Da (c o e PROVEN m o R ), rank (voce eria) LINE-UP: F ), Pat (batt o s s a (b g n Ba ” EP (chitarra), our name? y s t’ a h W “ DISCO: tto) (autoprodo p/punk vy rock, po a e h : E R E GEN wcard m 41, Yello u S : E Z N E INFLU eband.com www.usath

t n e m e v o r p m Human I Process

NOME: ) : Modena (I A Z N IE N E PROV astio ri tefano Seb llo Taverna S e : P rc a -U M E ), IN a L (chitarr io Carretti b a tteria) F ), e c o (v Lugari (ba ro d n a s s m" le t millenniu (basso), A n a n o s is d eafening DISCO: "D 013). Records, 2 l a ri o etal m e (M tal death m n e m ri e p x n, E spised Ico GENERE: e D , d te a it E: Decap INFLUENZ h Meshugga and.net 
www.hipb

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All in the name of

A cura di Andrea Rock

P

rock

er questo mese prendo nuovamente spunto da una recente intervista che mi è stata fatta. Ho incontrato Turi, cantante dei Whale Island, che sta filmando un documentario sull'underground italiano dal titolo “Black hole”. Non voglio anticiparvi troppo, ma posso assicurarvi che sono tanti i punti di vista presi in analisi e altrettanti gli argomenti che emergono da questo progetto. Partiamo dalla definizione di underground: s'intendono come forme d'espressione “underground” tutte quelle realtà che non emergono in superficie e che stanno al di sotto della soglia d'attenzione della massa, la quale è pilotata nei gusti e nelle opinioni dal mondo dei media e soprattutto da tutto ciò che è pop, in quanto “popular”. Vi piace? Bene. Io sono convinto che nel 2013 la linea di demarcazione tra mainstream e underground si sia assottigliata parecchio. Ecco qualche considerazione a riguardo. La prima: fino a qualche anno fa esistevano forti differenze tra mainstream e underground soprattutto in termini economici. Un artista pop aveva a disposizioni risorse molto elevate per la realizzazione del suo progetto; oggi, anche gli artisti che hanno contratti con major, sono spesso costretti a pagare di tasca propria la produzione dei loro lavori. Seconda considerazione: i meccanismi e i rapporti sociali di convenienza che fanno sì che un artista pop suoni all'Ariston durante in festival di Sanremo, sono gli stessi che permettono (con la dovuta proporzione) a un artista underground di esibirsi al Magnolia durante il MiAmi. Ultimo aspetto: non è più chiaramente definibile ciò che è pop da ciò che non lo è. Nello scorso numero di RockNow abbiamo incontrato Salmo, rapper proveniente dalla scena HC sarda; il suo prodotto, sulla carta, non è pensato per “piacere alle masse” , ma in questo momento nel quale tutto ciò che è rap vende bene, il ragazzo dal “flow-machete” finisce in testa alle classifiche di vendita. Tutto questo per arrivare a dire che cosa? Che l'underground è oggi definito da uno stato mentale e da un'attitudine differente. Qui a RockNow, l'attitudine è una competenza necessaria.


Bryan Kienlen (The Bouncing Souls)

DISCHI VIOLENTI

Testo e foto: Andrea “Canthc” Cantelli

Primo album comprato: “Destroyer” dei Kiss. Ultimo album comprato: “In search of Black Judas” di Darryl Jenifer (bassista dei Bad Brains) che ha appena fatto un disco solista con delle ottime atmosfere dub. Disco che ti ha cambiato la vita: La mia vita è stata cambiata da una cassetta nella quale sul lato A c’erano “Damaged” e “Jealous again” dei Black Flag e sul lato B “Fresh fruit for rotten vegetables” dei Dead Kennedys. Disco sopravvalutato: Questo, Andrea, te lo dico una sera davanti a una birra e prometti di non dirlo in giro!! Disco sottovalutato: Tutti dovrebbero avere una copia di “Over the James” degli Avail.

Disco “botta di vita”: “Christ Illusion” degli Slayer o anche “Hazardous mutation” dei Municipal Waste. E ci metto anche buona parte della discografia di DMX. Disco “lassativo”: (ride) Questo non saprei, forse te lo dirò assieme al disco sopravvalutato. Disco per una serata romantica: Sicuramente qualcosa di dub o reggae tipo King Tubby o Toots And The Maytals, altrimenti Joe Strummer o i Psychedelic Furs… o perché no i Cure… Come vedi, ho molte alternative! Disco sul quale avresti voluto suonare: Qualsiasi disco dei Municipal Waste, altrimenti “Physichal graffiti” dei Led Zeppelin, anche questo è un disco da mettere tra quelli sottovalutati, pezzi come “In the light” o “The rover” hanno un groove micidiale.

Disco da viaggio: Sono praticamente sempre in viaggio, quindi ogni momento ha il suo disco. Disco per una notte di bagordi: Attualmente, in queste situazioni, ascolto la Cumbia (una musica popolare Colombiana). Disco del giorno dopo: Lo so che ti sembrerà strano ma anche in questa situazione ascolto la Cumbia, che ha il potere di tenermi su in ogni situazione, magari mixata con un buon pezzo dub ogni tanto. Disco che ti vergogni di possedere: Nessuno! Canzone che vorresti al tuo funerale: La nostra “True believers”… non credo ci sia una canzone che descriva meglio la mia vita.

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PRIMO PIANO

TRACER colpo di pistola

Archiviato "Spaces in between" e il successivo tour, valso alla band il titolo di "Best New Band 2012" da Classic Rock, i Tracer tornano con "El pistolero", disco diretto, intenso e dalle svariate personalità. Di Michele Zonelli Foto Benon Julius William Otto Koebsch Un unico tema, diverse interpretazioni e un'attitudine rock difficile da confutare: questi i primi tratti distintivi della nuova opera firmata dal trio australiano. "Da tempo pensavamo a un simile progetto: un album con una storyline complessa e dal sapore vagamente cinematografico", ci spiega il cantante e chitarrista Michael Brown. "L'input decisivo è arrivato con 'Santa Cecilia', le vibrazioni tex/mex e la sua natura borderline ci hanno convinto che stavamo percorrendo la strada giusta. Se a questo unite la nostra grande passione per i film di Quentin Tarantino e Robert Rodriguez, non vi sarà difficile intuire quanto si cela dietro a 'El pistolero'...". A influenze e citazioni si aggiunge

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una cura quasi maniacale per i particolari, in contrasto con la natura volutamente grezza e diretta dell'opera. "Siamo dei geek del suono... Testiamo di continuo strumenti, effetti, toni, soluzioni, alla costante ricerca della perfezione. Non una perfezione assoluta, non pretendiamo tanto, ma relativa: l'ideale per noi e la nostra musica. Abbiamo intrapreso questa ricerca per riuscire a esprimere al meglio ciò che ci caratterizza e ora ne siamo ossessionati". Con Brown e compagni, il produttore Kevin Shirley (Led Zeppelin, Iron Maiden, Slayer, Silverchair). "Abbiamo sempre fatto tutto da soli e affidare le nostre canzoni a qualcuno che conoscevamo appena ci preoccupava un po'. Una volta in studio ci siamo resi immediatamente conto di quanto Kevin fosse alla mano e ben disposto nei confronti della nostra musica, ha fatto per

noi molto più di quanto avremmo potuto immaginare. In 6 giorni avevamo concluso le registrazioni, pazzesco! Sapevamo cosa ottenere, sapevamo quale risultato raggiungere e sapevamo come farlo... La ricerca della perfezione di cui parlavo prima coinvolge ogni aspetto di ciò che siamo, non solo come musicisti ma anche come esseri umani. In definitiva: siamo i più severi critici di noi stessi". Lo sguardo è sempre rivolto al futuro, con la consapevolezza che il passato ha giocato un ruolo essenziale sul presente. "Quanto già vissuto fa parte di ciò che siamo ma non deve condizionarci. Tutti commettiamo passi falsi, l'importante è saperli riconoscere, accettarli e cercare di non ripeterli. Ricordo perfettamente il momento in cui ho capito di voler essere un musicista. Aveva 14 anni, suonavo in una blues band (The Brown

Brothers) e siamo stati ingaggiati per un festival in Australia (l'attuale Blues Fest). Mi sono trovato davanti a 8.000 persone. Ero talmente agitato che continuavo a vomitare. Finito il primo pezzo il pubblico è esploso in un applauso assordante, non avevo mai sentito nulla di simile. Ero frastornato, eccitato, confuso... Da quel momento non ho più avuto dubbi riguardo il mio destino". Destino che deve inevitabilmente fare i conti con l'incessante e inarrestabile evoluzione sociale e tecnologica. "Odio i computer e odio la musica artificiale. Un musicista deve suonare, mettere a nudo la propria anima, fare errori, trasmettere emozioni... Ci sono esperienze e sensazioni che non puoi semplicemente scaricare dalla Rete, devi viverle sulla tua pelle". www.tracer-band.com


CELEB CAR CRASH DJ: ARIELE Intimo agguato

Ottimo esordio per questo quartetto emiliano. “Ambush!” racchiude infatti sonorità marcatamente americane che ben legano con testi curati e decisamene personali. Bel colpo.

FRIZZANTE

PROGRAMMA: VIRUS In onda da lunedi a venerdi dalle 15:00 alle 15:3

La sua Top 5:

I LOVE ROCK 'N' ROLL VOCAL COVER www.youtube.com/ watch?v=yY4es-JCliQ SURFIN BIRD - VOCAL COVER www.youtube.com/ watch?v=3bGl-zU5We0 HIGHWAY TO HELL VOCAL COVER www.youtube.com/ watch?v=hS8fm64y06I TETTE E GATTI - ARIELE FRIZZANTE www.youtube.com/ watch?v=aU_QAxFIweQ HOT SOLES - VOLARE www.youtube.com/ watch?v=yzzeP4qGijQ ; Di Daniel C. Marcoccia Tutto nasce un anno fa, come ci spiega Nicola (voce), quando assieme al chitarrista Carlo Alberto cercava di portare avanti un progetto rock che fosse il naturale sviluppo dei Lena’s Baedream, la loro precedente band. Il nome scelto, decisamente originale, sembra voler rievocare incidenti famosi ma il suo significato è molto più ampio: “È sicuramente di forte impatto e suscita nelle memorie le immagini di James Dean o Lady D., ma ci interessava soprattutto il concetto della celebrità, dell’arrivismo sociale a tutti i costi, che si scontra con la realtà e si frantuma. Nessuna ipocrisia, un democratico schianto”. Nicola non ama troppo parlare di influenze, anche se le sonorità sono sicuramente americane e devono molto al grunge: “Le influenze sono sempre delle ‘bestie nere’, diciamo che siamo legati a un filo che parte dagli anni Novanta e i primi anni del Duemila e finisce, ci auguriamo, con il sound che stiamo sviluppando e che abbiamo espresso in ‘Ambush!’. Grunge, rock, alternative, metal… preferiamo parlare solo di buona musica o di musica di merda”. I Celeb Car Crash sono una band giovane ma con una personalità e un suono comunque già ben delineati: “Non abbiamo avuto molto tempo per sviluppare il nostro suono, per ora siamo solo all’inizio. L’abbiamo immaginato e suonato con quello che avevamo in testa, nelle mani e nelle orecchie. Doveva essere vivo, suonato realmente dall’inizio alla fine. Per quanto riguarda i testi, molte delle cose che ho scritto hanno caratterizzato anche gli arrangiamenti del disco, mentre altre volte mi sono invece lasciato guidare dalle parti strumentali per dipingere alcune sensazioni. Non sono solo una becera, presuntuosa e scontata invettiva contro la società. La critica amara o ironica per il mio tipo di scrittura dev’essere pregna di fatti realmente vissuti, immagini, citazioni di libri, film, poesie e pensieri che significano e rappresentano qualcosa in cui credo e mi rivedo. La mia speranza è che tramite dei testi intimisti si possa far visualizzare delle stupende immagini reali e passare messaggi di spessore e universali. Essenzialmente tanti ‘messaggi nella bottiglia’ nel mare e nel marasma della nostra vita attuale, in attesa di scoprire tanti altri con il mio stesso punto di vista e la necessità di comunicare qualcosa”.
Rappresentativo della poetica della band potrebbe essere il primo singolo “Dead poets society”: “È uno dei primi brani che abbiamo composto ed è chiaramente un riferimento a ‘L’attimo fuggente’. Il tema deriva da alcuni avvenimenti personali luttuosi che mi hanno fatto riflettere sul significato della vita, su come e quando si possa decidere la propria dipartita… è qualcosa che è difficile per me da definire e cantare nonostante siano passati molti concerti e del tempo”.
Il disco è nei negozi, il tour è appena partito: sarebbe stupido non scoprire i Celeb Car Crash. www.celebcarcrash.com

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PRIMO PIANO

MY TIE IS EVIL Il nodo giusto

Sono una delle piacevoli sorprese di questo 2013: italiani ma con un sound fresco, frizzante e in linea con le più recenti produzioni anglosassoni. direttamente da padova: my tie is evil. Di Daniel C. Marcoccia

I

My Tie Is Evil nascono nel 2011 quando quattro amici padovani provenienti da band diverse decidono di suonare insieme, cercando di spaziare tra più generi musicali possibili e di trasmettere la propria passione e spensieratezza nei confronti della musica. La matrice è rock ma le composizioni della band lasciano trasparire un particolare interesse verso la musica elettronica, in particolare dubstep e drum’n’bass, come ben testimonia il primo album intitolato “Camouflage”. “Quando eravamo in tre, i suoni e la struttura dei brani erano un po’

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più grezzi e scomposti, con l’inserimento di Mattia alla chitarra abbiamo iniziato a lavorare anche sull’elettronica e su canzoni un po’ più ricercate e complesse, sia dal punto di vista armonico che ritmico. Non c’è un vero e proprio percorso lineare, siamo abbastanza istintivi almeno per quanto riguarda la prima stesura: un giorno ci viene la canzone elettronica, un altro quella più alternative e ricercata, un altro quella più commerciale e intuitiva, dipende dal momento! Lo sviluppo poi conta molto, a volte una canzone viene rimaneggiata più volte, tanto da diventare completamente diversa da come è stata concepita” ci spiega

Tommaso, il bassista dei MTIE. Con un sound e un approccio poco italiani, il gruppo ha sicuramente le carte in regola per proporre la propria musica anche all’estero. Come ci conferma Tiziano, il batterista: “Il disco verrà mandato anche a magazine esteri e la nostra speranza è proprio quella di varcare i confini e andare a suonare in paesi in cui non solo il nostro genere, ma la musica rock in generale è vissuta in maniera diversa. Tra le altre idee che ci sono venute in mente, c’è anche quella di trasferirci tutti in una città europea e provare a partire da lì. Ma intanto stiamo cercando di organizzare qualche data oltreconfine per l’estate. Il

problema di fare il nostro genere in Italia è che si è apprezzati principalmente da persone che di musica ne masticano un bel po’. Ma al di là degli ascolti, il problema principale è poi l’aspetto live: in Italia la gente si muove solo per i concertoni o per le cover band. Non c’è la cultura di andare ad ascoltare musica live a prescindere dal nome della band ed è per questo che emergere è molto difficile. Le difficoltà sono tante, ma noi continueremo a fare quello che ci piace, nella speranza che qualcosa, seppur in ritardo, si muova anche dalle nostre parti”. L’attitudine è quella giusta. www.mytieisevil.com



HI-TECH AOC G2460PQU

L'azienda di Taiwan AOC presenta il g2460Pqu: nome poco invitante dietro il quale si cela un monitor full HD da 24'' ideato per soddisfare le esigenze dei gamer più incalliti. Grazie a una frequenza di aggiornamento di 144Hz, lo schermo abbatte il motion blur garantendo immagini nitide anche durante le fasi più concitate. www.aoc-europe.com

IPOD TOUCH 16GB

Apparso quasi senza preavviso sul sito ufficiale di Apple, l'iPod Touch 16 GB di quinta generazione si rinnova e rimpiazza definitivamente i modelli di quarta generazione. Il prezzo si abbassa grazie alla perdita della fotocamera posteriore, del laccetto "loop" e delle diverse colorazioni. Invariate le altre caratteristiche. www.apple.com

DAS KEYBOARD MODEL S PROFESSIONAL

Indirizzata a professionisti e a chi, per lavoro o svago, trascorre molte ore davanti a un PC, la tastiera meccanica Model S Professional di Das Kayboard offre tutto quanto già noto con un incredibile valore aggiunto: il silenzio. Grazie ai materiali utilizzati, l'uso dei tasti, anche prolungato, non produrrà alcun rumore. www.daskeyboard.com

IFROGZ MOBILE SPEAKERS

Nessun cavo e nessun collegamento per questi nuovi speaker di ZAGG. Tutto quello che dovete fare è posizionare il vostro device (smartphone o lettore MP3) sugli iFrogz Mobile e il brano in riproduzione sarà automaticamente amplificato. Richiede due pile AA o alimentazione via USB. Disponibili in diversi modelli e colori. www.zagg.com

WILLIAM PAINTER TITANIUM SUNGLASSES

Frutto di una campagna di grande successo su Kickstarter, gli occhiali da sole di William Painter si dimostrano concentrato di tecnologia e ingegno. Corpo (e cerniere) in titanio anodizzato, rivestimento antigraffio e antipolvere, viti in acciaio, lenti polarizzate in linea, telaio ultraleggero... E apribottiglie incorporato! www.wpainter.com

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A cura di Michele Zonelli

games

GRID 2

Piattaforma: X360/PS3/PC Produttore: Codemaster/Namco Bandai Genere: Guida arcade Seguito ideale del blasonato "Race Driver: Grid" datato 2008, "Grid 2" pone fine a un'attesa quasi spasmodica, rielaborando una formula ancora oggi portata ad esempio in ambito arcade. Sfruttando appieno la versione 3.0 del motore grafico proprietario EGO Engine, Codemaster offre un'esperienza dal grande impatto visivo, con scenari, veicoli ed effetti in grado di ammaliare in più occasioni. Fedele alla formula arcade, ma con l'introduzione di nuovi e più alti livelli di difficoltà, il modello di guida si dimostra interessante e coinvolgente fin dalle prime gare. Tra i fiori all'occhiello: l'intelligenza artificiale degli avversari, mai sotto tono e pronta a offrire sfide sempre incerte e agguerrite. Due le scelte che saltano subito all'occhio: l'assenza di concessionari adibiti all'acquisto di nuovi veicoli e l'impossibilità di intervenire meccanicamente sui parametri delle vetture. Vincendo gare e sfide non guadagnerete denaro ma numero di fan, andando a sbloccare vetture, sponsorizzazioni e altro. Il comparto tuning, invece, si presenterà completo solo in multiplayer, offrendo in singolo unicamente personalizzazioni estetiche. I circuiti sono molti e di diversa natura, in grado, grazie a un accorto sviluppo, di mutare a ogni giro, costringendovi a non abbassare mai la guardia. Una prova coraggiosa e per certi versi innovativa, che farà sicuramente discutere ma che non mancherà di regalare le cercate emozioni.

CALL OF JUAREZ: GUNSLINGER PS3/XBOX360 /PC Techland/Ubisoft

Accantonata la non brillante prova di "The Cartel", Techland riporta alle origine il suo "Call Of Juarez". Le scelte fatte da Ubisoft (distribuzione digitale e trama inedita) delineano la volontà di fare nuovamente la differenza e, mentre i ricordi del cacciatore di taglie Silas Greaves prendono vita sullo schermo, pad alla mano sarete coinvolti in sparatorie, duelli e inseguimenti con alcuni dei più famosi volti del Selvaggio West.

FX CALCIO PC FX Interactive

FX Interactive riporta in auge il genere manageriale con "FX Calcio": football manager completo, intuitivo e divertente. Due le modalità: Manager e Sfida. La prima vi vedrà impegnati in competizioni internazionali al comando di società già avviate, la seconda vi permetterà di far crescere una piccola squadra, da modesti tornei ai più noti campionati europei. Dentro e fuori dal campo: il destino dei giocatori è nelle vostre mani.

METRO: LAST LIGHT Piattaforma: X360/PS3/PC Produttore: 4A Games/Koch Media Genere: FPS

Entrato nel cuore degli appassionati di FPS grazie a una trama matura e coinvolgente, inusuali ambientazioni e impegnative dinamiche survival, "Metro 2033" (basato sull’omonimo romanzo di Dmitry Glukhovsky) torna protagonista con l'inedito sequel "Metro: Last Light". Vestiti nuovamente i panni di Artyom, cercherete di salvare quel che rimane della razza umana, ponendo fine alle lotte civili scoppiate sotto la superficie e contrastando il nuovo proliferare di feroci creature mutate. Nella cornice di uno dei mondi post-apocalittici più affascinanti e meglio realizzati mai visti su console e PC, affronterete sfide che metteranno a dura prova il vostro innato istinto di sopravvivenza. Il gameplay trae forza e ispirazione dal passato, indorando in più occasioni la pillola. Per chi è alla ricerca delle emozioni provate nel primo capitolo, infatti, il consiglio è quello di sostenere la nuova prova al più alto livello di difficoltà proposto, in quanto in modalità normale la nota scarsità di munizioni passa decisamente in secondo piano, a favore di azioni più dirette e meno strategiche. Lo stesso si può dire dell'IA dei vostri antagonisti: non sempre all'altezza delle aspettative e protagonista di azioni spesso ripetitive e prevedibili. A fronte di tutto questo, "Last Light" resta un'opera unica nel suo genere, capace di sedurre grazie ad angoscianti atmosfere e a un senso di oppressione al quale difficilmente resterete immuni.

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crazy net

A cura di Michele Zonelli

MARSHMALLOW MAZOOKA

Di articoli ideati per fomentare veri e propri atti di guerriglia sul posto di lavoro ne esistono a bizzeffe, ma nessuno eguaglia il Mazooka: un bazooka ad aria (e alimentato a batteria) che spara... marshmallow. Geniale. www.amazon.com

PROPANE BOTTLE LEGO HEAD Non un prodotto finito, questa volta, ma un eloquente tutorial fai da te che vi permetterà di trasformare una comune bombola del gas in un esclusivo oggetto di design, ispirato ai sempre amati mattoncini LEGO. Istruzioni in download. www.instructables.com

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TRANSPLANTS

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Dall’uscita del precedente “Haunted cities” a oggi ne sono successe davvero di tutti I colori, ma il supergruppo formato da Tim Armstrong e Travis Barker è ancora vivo e del tutto intenzionato a sconvolgere ancora una volta il mondo del punk. Ne abbiamo parlato con il terzo elemento della band: Rob Aston, a.k.a. Skinhead Rob. Di Stefano Russo - foto Estevan Oriol

In a warzone”, il vostro nuovo album, sarà pubblicato tra pochi giorni: quali sono i tuoi pensieri e le tue sensazioni a riguardo? Rob Aston: Sono molto contento, sinceramente l’uscita del disco mi rende davvero felice. È passato molto tempo ormai dalla pubblicazione del lavoro precedente, quindi non vediamo l’ora che questo sia finalmente fuori e abbiamo parecchia voglia di ricominciare nuovamente a suonare dal vivo. Cosa c’è di nuovo, o di diverso, in questo nuovo album rispetto ai suoi due predecessori? R.A.: “In a warzone” è molto più terra a terra dei due dischi precedenti. Non c’è traccia di loops o campionamenti vari questa volta, solo una manciata di ospiti.

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Le prime due canzoni che avete pubblicato su Internet (la title-track e il primo singolo “Come around”) sono piuttosto diverse tra loro: sarà così per tutti I brani che andranno a comporre il disco? R.A.: Gran parte dei brani del nuovo disco sono fondamentalmente canzoni punk rock, solamente con stili differenti tra loro. Ad esempio, “In a warzone” oppure “Completely detach” hanno una vena molto “UK-82”, mentre “See it to believe it” e “Back to you” tendono un po’ più verso la sponda Oi! e così via. Cosa mi dici invece del titolo del disco? A quale zona di guerra vi riferite? R.A.: Il titolo del disco è stato scelto mentre registravamo il brano che porta lo stesso nome. Abbiamo deciso di metterlo al primo posto della tracklist perché dà a chi ascolta una buona idea su come suona l’album.


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Con questo non voglio dire che il resto delle canzoni suoni allo stesso modo, ma tuttavia rappresenta molto bene tutto quello che viene dopo. Per quanto riguarda il significato, ci sono zone di guerra ovunque: Afghanistan, Iraq, Siria, Turchia, in ogni parte del globo. Ci sono zone di guerra persino qui a Los Angeles e in quasi tutte le maggiori città degli Stati Uniti, con le gang che si ammazzano tra di loro da decenni ormai. A Echo Park, dove vivo qui a LA, la violenza tra gang è affare quotidiano. La guerra è dappertutto, le zone di guerra sono ovunque e certe persone non riescono a fuggire nemmeno dalla guerra che sta nelle loro menti. Vi ci è voluto molto tempo per registrare questo disco, considerando tutti gli altri progetti in cui siete coinvolti (specialmente Tim e Travis)… R.A.: Si, ci è voluto un po’ più tempo di quanto avremmo voluto. Abbiamo

iniziato a lavorare sul disco alcuni anni fa ma ovviamente i Transplants non erano l’unica nostra attività durante tutto quel periodo. Ci lavoravamo ogni volta che avevamo il tempo per farlo: all’inizio era ogni martedì, poi è diventato ogni martedì e giovedì, poi ancora una sola volta al mese. Alla fine ce l’abbiamo comunque fatta e penso che ognuno di noi sia felice del risultato finale. Pensi che i Transplants sarebbero una band diversa se non dovessero fare i conti con il fatto che i tuoi due compagni sono membri di due “mostri” come Rancid e Blink-182? R.A.: L’unica cosa diversa, se non esistessero le due band che tu hai citato, sarebbe il fatto che suoneremmo più spesso dal vivo e che entreremmo più spesso in studio per registrare nuovo materiale, ma è davvero tutto qui. Il suono dei Transplants sarebbe identico a quello che in

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THE MAINE Capitanati dal bellissimo frontman John O'Callaghan, i Maine tornano con “Forever halloween”, un album davvero ben riuscito e completo che conferma la qualità della loro musica. Proprio John ci parla della registrazione del disco, dei brani che lo compongono e di molto altro ancora.. Di Silvia Richichi

Forever halloween”, il vostro quarto album, è stato realizzato due anni dopo "Pioneer". Pensi che questo disco rifletta la personalità della vostra band e il livello che i Maine hanno raggiunto in sei anni di attività? John O'Callaghan (voce, chitarra): Questo album è semplicemente la rappresentazione delle nostre capacità musicali a questo punto della nostra carriera. Tutte le passioni, le speranze e i desideri sono centralizzati in un unico lavoro. Un'immagine pura e onesta di chi siamo in questo momento, sia come individui che come band.

Dietro l

In che modo pensi che il vostro stile musicale sia evoluto negli ultimi due anni? J.O’C.: Qualsiasi sviluppo si percepisca nella nostra musica, è sicuramente stato frutto di un processo completamente naturale e incontaminato. È stato molto importante lasciare che le cose accadessero da sole, senza forzature e concederci molto spazio per poterci muovere liberamente. È indispensabile credere in quello che stai facendo e al momento siamo davvero fieri e orgogliosi del disco che abbiamo prodotto.

Parlando proprio del disco, quanto a lungo avete lavorato alla scrittura e registrazione e inoltre, pensi che abbiate pienamente realizzato l'idea che avevate in mente per l'album? J.O’C.: È difficile quantificare il tempo che è stato dedicato al processo di scrittura perché abbiamo usato sia materiale che avevamo precedentemente, che materiale scritto solo alcuni giorni prima di recarci a Nashville. Per la registrazione abbiamo impiegato soltanto un mese. Non abbiamo voluto pensare troppo per questo album. Immagino che si potrebbe passare un’intera vita a cercare di perfezionare qualcosa che non può essere perfetto... Ho letto che per la registrazione di “Forever halloween” avete utilizzato un approccio diverso, avete registrato l'album dal vivo. Secondo te, che tipo d’influenza questo approccio ha avuto sul risultato dell'album e pensi che, confrontandolo con i dischi precedenti, sia stato aggiunto qualcosa di nuovo? J.O’C.: Il processo analogico porta un certo calore alla musica. L'approccio che abbiamo adottato ha richiesto prima di tutto che


la maschera credessimo fermamente nelle canzoni e che investessimo tutte le nostre forze nell’esecuzione di queste dal vivo. Quello che si sente sul disco è quello che la band è veramente in grado di fare, non una versione ritoccata di ciò che la nostra band "potrebbe" essere o “potrebbe” fare.

Pensi che questa esperienza di registrazione abbia in qualche modo rafforzato il gruppo? J.O’C.: Sono pienamente convinto che questa esperienza ci abbia reso una band più coesa, ci ha fatto acquistare una maggiore fiducia nei nostri istinti e ci ha insegnato a fidarci l'uno dell'altro. Queste sono state tutte cose grandiose, risultate dalla registrazione dell’album. Pensi che al giorno d'oggi, considerando l’importanza della performance live per una band, registrare tutti insieme dal vivo sia l'opzione migliore per dare anche sul disco un’idea più precisa di quanto una band possa essere valida dal vivo? J.O’C.: Assolutamente! Abbiamo imparato molto su quali sono i nostri

punti di forza e di debolezza e crediamo davvero che il modo in cui abbiamo registrato l’album avrà benefici sulla nostra performance dal vivo. Avremmo dovuto pensarci prima! Che cosa ha ispirato il titolo "Forever halloween" e come si relaziona al contenuto del disco? J.O’C.: A mio parere è stato un abbinamento armonioso, quello del titolo e la copertina con il metodo che abbiamo utilizzato. La mia intenzione era di trasmettere l’idea che, in quanto esseri umani, possiamo facilmente ingannare noi stessi pensando di essere qualcosa che non siamo, semplicemente cambiando costumi.

Per questo album avete lavorato con Brendan Benson, come ha contribuito all’album? J.O’C.: Brendan riconosce e rispetta l'essenza del songwriting e non ci ha mai fatto fare qualcosa per cui non ci sentivamo a nostro agio. Ci ha insegnato ad arrivare dritti al

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THE MAINE punto e a dire esattamente quello che volevamo dire. Lavorare con lui è stato assolutamente un piacere e ci siamo divertiti molto. Avete scelto "Happy" come primo singolo dell'album, come mai? J.O’C.: Innanzitutto perché dovevamo far uscire un singolo. Abbiamo pensato che "Happy" mescolasse le sensazioni del nuovo suono con quelle del materiale più vecchio. Pensiamo che questo brano catturi in pieno le sonorità dell’intero disco. "Love & drugs" è una di quelle canzoni che sono molto difficili da dimenticare una volta che le ascolti. Come è nata questa canzone? J.O’C.: Ho scritto questo brano molto tempo fa, ero seduto nella mia stanza dopo una notte di bagordi con alcuni amici. È una di quelle canzoni per cui non ho pensato troppo, ho solamente raccontato una storia e sono rimasto molto soddisfatto del risultato. C'è una canzone di un album a cui sei particolarmente legato? J.O’C.: Sono affezionato a "Sad songs" per il modo in cui è nata.

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Ero in un taxi a Newcastle e il nostro autista mi stava raccontando la storia tragica di come aveva perso l'unica donna che avesse mai amato a causa di un matrimonio combinato e che dal 1978 non aveva fatto altro che ascoltare canzoni tristi. Spero che prima o poi ascolterà la canzone... Nella canzone “Kennedy curse” menzioni una figura femminile… A chi ti riferisci? J.O’C.: Mi riferisco alla donna che ruberà il mio cuore per poi infrangerlo in piccoli pezzi... La canzone "These four words” è basata su una tua esperienza personale? Nella tua vita, hai mai rimpianto di aver lasciato andare qualcuno? J.O’C.: Sì, è certamente basata su qualcosa di molto reale. Mi rammarico per molte cose ma il mio obiettivo è di vivere in modo tale da non avere rimpianti. Non ho mai voluto ferire emotivamente qualcuno, ma purtroppo è capitato e scrivere questa canzone è stata una sorta di liberazione...


Durante la registrazione del disco avete registrato inoltre molti video brevi del lavoro in studio. Pensi che questo abbia creato una maggiore connessione con i vostri fan? J.O’C.: Al giorno d’oggi è indispensabile mantenere le persone informate. I video sembravano entusiasmare i nostri fan e farli sentire come se fossero parte del disco. Perché in tutta onestà, sono loro il motivo per cui siamo arrivati a fare quello che facciamo. Avete inoltre pubblicato un libro fotografico, “Roads”... J.O’C.: È stata un’idea comune tra noi e Dirk (Mai, il fotografo - nda). Abbiamo cercato di mantenere le immagini il più possibile senza filtri, per dare genuinamente alle persone una prospettiva che non hanno mai visto prima. Sono stato davvero contento del risultato del libro!

“La mia intenzione era di trasmettere l’idea che, in quanto esseri umani, possiamo facilmente ingannare noi stessi pensando di essere qualcosa che non siamo, semplicemente cambiando costumi”

Quali sono i piani futuri per il gruppo? J.O’C.: Saremo in tour per un po’ di tempo. Questa è la parte più divertente, poter condividere il disco con la gente e suonare ovunque! www.wearethemaine.net

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ESCAPE THE FATE La band di Las Vegas torna con "Ungrateful", disco dalla produzione più heavy rock che li consacra tra i nomi di punta della scena alternative internazionale. Abbiamo raggiunto telefonicamente il cantante Craig Mabbitt. Di Giorgio Basso - foto David Jackson

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opo anni irrequieti (tra galera e cambi di line-up vari) possiamo dire che questo nuovo disco sia stato il lavoro più semplice da mettere in piedi? Craig Mabbitt (voce): Per certi versi sì. Sicuramente ora siamo una band che riesce a tener testa a ogni problema, forse per il semplice fatto che col passare degli anni abbiamo trovato quella stabilità che ci è sempre mancata. Gli Escape The Fate hanno cicatrici pesanti addosso, un passato ingombrante che a volte portava a credere che ripartire fosse impossibile… E invece eccoci nuovamente qui. Di sicuro la triste storia di Ronnie (Radke, ex voce finito in carcere per concorso in omicidio - ndr) non deve essere stata una situazione semplice da gestire… C.M.: Quello è passato, Ronnie ha rappresentato una parte della storia degli Escape The Fate che sinceramente non ha nulla a che vedere con quella contemporanea. Ognuno è libero di scegliere la propria strada, non mi sento di giudicare qualcuno, specie chi è venuto prima di me al microfono. Ti sei mai sentito in difficoltà nel dover sostituire una figura che grazie a un evento tragico si è trovato al centro dell'attenzione? C.M.: Siamo due persone completamente diverse, se finisci in situazioni complicate è perché fondamentalmente sei portato di natura ad avvicinarti a esse. Io sono l'esatto contrario, ho una famiglia che adoro e la musica mi permette di viaggiare e scoprire posti fantastici. Non potrei chiedere di meglio. "Ungrateful" è forse il vostro album più commerciale, sei d'accordo? C.M.: I continui cambi di line-up avvenuti in passato hanno fatto degli Escape The Fate un'entità senza anima, non a caso i primi due lavori venivano definiti emocore e post-hardcore, due generi distanti anni luce l'uno dall'altro.

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ESCAPE THE FATE

“Con l’album omonimo del 2010 trovammo ciò che veramente volevamo essere, una rock band moderna e al tempo stesso fottutamente heavy” Serviva quindi trovare una direzione stabile in cui muoversi e credo sia stata trovata con l’album omonimo del 2010. In quel lavoro trovammo ciò che veramente volevamo essere, una rock band moderna e al tempo stesso fottutamente heavy. Da quel disco fino a "Ungrateful" sono trascorsi tre anni, passati a suonare in giro per il mondo, a cercare un'etichetta discografica che credesse in noi e a mettere in piedi i migliori brani mai scritti dagli Escape The Fate. Obiettivi pienamente raggiunti a tuo avviso? C.M.: Suonare non è mai stato un problema nel nostro caso, quindi direi di sì. Sul fattore etichetta è stata un'autentica epopea, ci siamo confrontati con manager di ogni sorta, dall'autentico businessman a quello molto disponibile ma senza mezzi per poter supportare una nostra uscita. Di tutto. Col passare del tempo abbiamo trovato il giusto team… Per fortuna! Sul terzo punto credo sia tu a dovermelo dire…

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Se l'obiettivo era quello di essere catchy, allora l’avete centrato in pieno… C.M.: Non parlerei di obiettivi perché altrimenti significherebbe che questo disco è stato pensato a tavolino, cosa assolutamente errata nel nostro caso. Ognuno di noi ha espresso la sua personalità, c'è chi è più heavy e chi invece è più rock oriented. Il disco riflette pienamente tutto ciò, un mix di idee e soluzioni che hanno fornito un risultato incredibile. Dal punto di vista live cosa bisogna aspettarsi da un vostro show? C.M.: Energia, headbanging, brani da cantare e situazioni dov’è persino possibile commuoversi. www.escapethefate.com


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THE COMPUTERS

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Secondo lavoro per gli inglesi The Computers, “Love triangles hate squares” si distacca dal sound proposto nel debut album “This is the computers”. Ecco cosa ci ha raccontato il cantante Alex Kershaw. Di Silvia Richichi

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l vostro nuovo album è un miscuglio ben riuscito di diversi generi musicali. Come siete arrivati a tale risultato e, a posteriori, c’è qualcosa che cambieresti? Alex Kershaw (Voce, chitarra): La combinazione di differenti stili musicali è la conseguenza del mio approccio: cerco di prendere spunti da generi musicali diversi, per esempio soul e rock’n’roll, e dal tipo di canzoni che mi piace ascoltare. Quando compongo parto sempre dal presupposto di voler scrivere qualcosa che io stesso ascolterei. Per quanto riguarda cambiare qualcosa a posteriori, capita sempre di ascoltare l’album e pensare “oh dannazione, perché non abbiamo fatto così” oppure “perché non ho cantato in questo modo” ma in ogni caso, nel bene o nel male, penso tutt’ora che questo disco sia qualcosa di speciale. Due anni fa usciva l’album di debutto “This is the computers”, il cui stile era parecchio diverso rispetto a “Love triangles hate squares”. Cos’ha determinato questo cambiamento? A.K.: Ho semplicemente capito come scrivere e comporre canzoni. Ho ricevuto un grande aiuto dal mio amico John Reis dei Rocket From The Crypt che mi ha indirizzato e dato consigli sulle cose a cui avrei dovuto prestare una maggiore attenzione... Pensando a “Love triangles hate squares”, c’è un brano del disco che ami particolarmente? A.K.: A dir la verità non c’è una canzone in particolare, mi piacciono tutte. Una che ha un posto speciale nel mio cuore è però “C.R.U.E.L.”! Per questo disco avete lavorato con Mark Neill. Che tipo di impatto ha avuto la sua collaborazione sul risultato? A.K.: Mark ci ha fatto riflettere su quanto la nostra musica possa essere dura e morbida. L’impatto che il suo contributo ha avuto sul disco è impossibile da dire, l’unico modo in cui lo potremmo sapere sarebbe se registrassimo nuovamente il disco con qualcun altro, confrontassimo i due prodotti per capirne le differenze. Sicuramente sa come comportarsi dietro a un mixer... Il testo e il video del brano “Love triangles, hate squares” sembrano basati sulla sensazione di sentirsi bloccati nella vita e non riuscire a realizzare i propri obiettivi. Dando uno sguardo agli esordi dei Computers, pensi che la band stia raggiungendo quanto prefissato inizialmente? A.K.: Quando la tua band inizia a ingranare, di conseguenza aumentano le aspettative. Abbiamo iniziato la band solo per fare qualche concerto e adesso viaggiamo in continuazione per il mondo, facciamo show grandiosi e suoniamo la nostra musica a persone incredibili... Canzoni come “Call on you!” o “Sex texts” sono molto accattivanti e coinvolgenti, sicuramente perfette per ballare. Che cosa le ha ispirate? A.K.: Amore, odio, vita e l’inevitabile morte con l’aggiunta di una gran voglia di far ballare la gente! L’album include inoltre ballate come “Single beds” or “C.R.U.E.L.”. Sono basate su esperienze personali? A.K.: Certamente! Queste canzoni sono state ispirate sia da esperienze che ho provato in prima persona che altre vissute da altri ma di cui sono stato testimone. La canzone di apertura al disco s’intitola “Bring me the head of a hipster”. Cosa ne pensi degli hipster di oggi? A.K.: Mi piacciono molto, anzi, li amo! Mi fanno sembrare un figo. www.thisisthecomputers.com

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THE DILLINGER ESCAPE PLAN Una band semplicemente unica nel panorama del rock mondiale, un nome che riporta a uno dei più famosi gangster americani degli anni ‘20. Se vi piace la musica estrema ma intelligente e non conoscete i The Dillinger Escape Plan, avete un problema… Di Luca Nobili

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vete iniziato il tour americano prima che “One of us is the killer” fosse nei negozi. Com’è stata l’accoglienza tributata ai nuovi pezzi nonostante fossero sconosciuti? Ben Weinman (chitarra): L’accoglienza è stata sicuramente buona, il nostro pubblico sembrava apprezzare le nuove canzoni… ma indubbiamente la reazione dei fan è cambiata dopo che il disco è apparso nei negozi. C’è più eccitazione quando suoniamo una delle nuove canzoni, è tutta un’altra cosa in rapporto alle prime date. “When I lost my bet”, in particolare, è un pezzo che dal vivo rende benissimo e il pubblico apprezza enormemente, soprattutto ora che ha avuto modo di ascoltarlo a casa prima che live. Vi piace cambiare la scaletta dei pezzi ogni sera? Ormai i TDEP hanno una carriera relativamente lunga e una buona quantità di canzoni da cui pescare. B.W.: La scaletta dei pezzi rimane fondamentalmente la stessa a ogni concerto, non ci piacciono le sorprese su questo aspetto del nostro lavoro. Avere una tracklist prevedibile e stabile a mio parere ti rende più rilassato come musicista, sai sempre quello che sta per succedere e puoi quindi concentrarti meglio sullo strumento. Ti mantiene focalizzato sulla musica e sulla performance insomma, non sei “distratto” da altro. “One of us is the killer” è, a mio parere, un disco di grande maturità per la band. E devo dire che è probabilmente anche il vostro lavoro più melodico e accessibile, nonostante non si possa certo definire la vostra musica come “easy listening”… B.W.: Faccio fatica a definire un nostro album, per me “One of us is the killer” è semplicemente un’altra tappa del nostro percorso musicale. Se lo paragono al nostro materiale passato la prima differenza che mi viene in mente è che questo è il secondo disco con alla batteria Billy Rymer e la band, rispetto a “Option paralysis”, è di conseguenza più affiatata e sa lavorare meglio insieme. In studio avevamo più confidenza e ci siamo permessi anche di provare cose nuove. E per quanto riguarda la melodia? B.W.: Riguardo all’aspetto melodico, non so se questo album è il più accessibile della nostra carriera. Di certo, a livello vocale Greg (Puciato, cantante della band - nda) ha osato di più e esplorato territori nuovi, pur mantenendo un approccio aggressivo e adatto alla musica dei Dillinger. In questo senso forse abbiamo guadagnato in melodia e facilità di ascolto. I TDEP sono noti anche per l’ottima tecnica strumentale che vi caratterizza, tanto che avete un certo seguito anche presso il pubblico prog-metal. Quanto è importante la tecnica strumentale per chi fa musica? B.W.: Non siamo proprio il tipo di band che ha messo la tecnica al primo posto nelle proprie canzoni. Ci piace suonare musica violenta e d’impatto, e in questo indubbiamente essere tecnicamente dei buoni musicisti aiuta molto; ma senza cuore, senza emozioni la musica non è nulla… non avrebbe ragione d’esistere. Quando hai capito che saresti diventato un musicista professionista? B.W.: Sarò onesto, suonare è sempre stata la cosa che mi riusciva meglio del resto, è per questo che sono arrivato fin qui. Ho studiato fino a laurearmi in psicologia e ho pensato per molti anni che la musica non sarebbe mai stata il mio lavoro ma solo un hobby… ero mentalmente preparato a fare altro, insomma. In un certo senso si può dire che è stata la musica ad avermi scelto, più di quanto io abbia scelto la musica!

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Assass


sini nati

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THE DILLINGER ESCAPE PLAN

“Senza cuore, senza emozioni la musica non è nulla…”

Domanda da un milione di dollari: cos’è il “successo” per te? B.W.: Di sicuro (credimi!) non ha nulla a che fare con l’aspetto finanziario del mio lavoro. Per me successo è essere orgoglioso di quello che faccio, della musica che scrivo, delle performance dal vivo. Per cui sì, dentro di me sento di avere avuto il successo che volevo durante la mia carriera. Musicalmente senti che c’è qualcosa che vorresti realizzare ma che non ne hai ancora avuto l’occasione di fare? B.W.: La band non si è mai posta limiti, abbiamo anche lavorato per colonne sonore (“Underworld” del 2003 ha un pezzo dei TDEP nella track list, nda) e collaborato con molti artisti... e personalmente ho avuto modo di lavorare anche con personaggi completamente

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estranei al rock, sono state tutte esperienze che mi hanno arricchito musicalmente e umanamente. Mi ritengo fortunato, non c’è nulla che mi manca e non mi sono mai sentito “musicalmente frustrato” in alcun modo. Come ti piacerebbe fossero ricordati i Dillinger Escape Plan quando tra, facciamo trent'anni, la band sarà storia? B.W.: Vorrei fossimo ricordati come una band che non è mai scesa a compromessi. Una band che non ha mai inseguito il trend del momento solo per vendere qualche disco in più. Una band onesta, insomma. www.dillingerescapeplan.org


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PULLEY Dopo dieci anni di assenza tornano in Europa i Pulley, una delle band simbolo del punk rock melodico Californiano. In occasione della loro esibizione al Groezrock Festival in Belgio, abbiamo avuto l’opportunità di sederci con Tyler Rebbe (bassista) e parlare un po’ del passato e del futuro della band. Di Andrea “Canthc” Cantelli

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i sono voluti dieci anni ma alla fine ce l’avete fatta a tornare in Europa a suonare. Bentornati! Tyler Rebbe (basso): Alla fine sì, ce l’abbiamo fatta! Per noi non è affatto semplice spostarci per fare concerti, tutti ora abbiamo un lavoro e la band è diventata un bellissimo hobby e una scusa per passare del tempo insieme. Fino allo scorso anno, poi, Scott (Radinsky, il cantante - nda) era l’allenatore dei Cleveland Indians (squadra di baseball che milita in Major League - nda) e questo impegno rendeva quasi impossibile prenderci un weekend per venire in Europa a fare un solo concerto come in questa occasione. Nonostante facciate pochi concerti, la vostra attività in studio sta comunque proseguendo con la pubblicazione di alcuni EP. Come mai questa scelta piuttosto che un disco intero? T.R.: Come ti dicevo prima, il tempo a disposizione è per noi sempre piuttosto ridotto e quindi ci viene più comodo ritrovarci per registrare piccole uscite di quattro/cinque canzoni piuttosto che affrontare un disco intero di dodici pezzi. In questo modo riusciamo a mantenere la band viva e a proporre materiale nuovo ogni due anni.

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Avete scelto di autoprodurvi per lo stesso motivo, suppongo? T.R.: Le offerte non mancano ma autoproducendoci riusciamo a lavorare con più calma e senza scadenze imposte. Per quel che riguarda la distribuzione, riusciamo ad affrontare il problema vendendo direttamente le copie dal nostro sito o appoggiandoci a qualche sito di distribuzione. Abbiamo la fortuna di potere contare su una fan-base importante e quindi per noi è un privilegio poter fare una scelta del genere. I testi delle vostre canzoni, con il passare degli anni, sono diventati sempre più introspettivi e personali. A volte sembrano quasi in contrasto con la musica che proponete e che a un primo ascolto può sembrare perfino spensierata. Come nascono? T.R.: I testi li scrive tutti Scott e se a inizio carriera le nostre canzoni


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Fu così che una canzone su una delusione amorosa prese il titolo da una bottiglia di vodka!

parlavano di tematiche più simili a quelle che una punk band può affrontare, tra politica, sociale, con il passare del tempo l’attenzione si è spostata più verso problemi individuali e introspettivi. Capita poi spesso che alcune persone ci vengano a dire che si ritrovano in queste situazioni. A proposito di canzoni, uno dei vostri pezzi più famosi è “Mandarin” e il titolo non c’entra assolutamente niente con il testo. Mi potresti spiegare l’origine? T.R.: Eravamo in studio a registrare “Time-insensitive material”, era tutto pronto e definito per l’uscita del disco, mancava però il titolo e non avevamo nessuna idea. Passammo la notte a mixare il disco e intanto bevevamo vodka/tonic a ripetizione. Quando finì l’ultima bottiglia di vodka liscia, ne rimase solamente una al mandarino e al primo sorso il titolo era stato deciso.

Dimmi la verità, non ti manca un po’ lo stare in tour tutto il tempo come facevate una volta? T.R.: Per lo più mi manca lo stare sul palco, ma non la routine da tour: dopo diciotto anni non rimpiango minimamente né gli spostamenti né i soundcheck, trovo invece molto stimolante andare avanti con la band e continuare a scrivere insieme. Quindi cosa possiamo aspettarci dal futuro prossimo dei Pulley? T.R.: Quest’anno abbiamo in programma diversi concerti per lo più nei posti dove non siamo stati in questi ultimi dieci anni, come in Giappone e in Sud America; poi stiamo già scrivendo del materiale per una prossima uscita che, come ti ho detto prima, sarà probabilmente un altro EP o un 7”. Insomma andiamo avanti come in quest’ultimo decennio, siamo sì una band part-time ma più attiva che mai! www.x-members.com

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VOLBEAT Dalla classifica danese ai primi posti di quella USA, una progressione degna di Usain Bolt. Riuscirà “Outlaw gentleman & shady ladies” a regalare ulteriore fama a una delle migliori metal band in circolazione? Noi di RockNow diciamo di sì e il neo-chitarrista Rob Caggiano non può che confermare. Di Luca Nobili

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ob, com'è maturata la decisione di unirti ai Volbeat in pianta stabile? Rob Caggiano (chitarra): È cominciato tutto nel periodo successivo alla mia decisione di lasciare gli Anthrax: ricevetti una telefonata da Michael (Poulsen, cantante e chitarrista della band - nda) che mi chiedeva se ero disponibile per produrre il loro nuovo album... e naturalmente lo ero. Per me era l’occasione perfetta nel momento perfetto! Ho quindi incontrato i ragazzi a New York dopo qualche giorno e abbiamo discusso di questo loro nuovo album, delle idee che avevano in mente e di cosa si aspettavano da me. Insomma, per farla breve, un paio di settimane dopo ero a Copenaghen per cominciare con le registrazioni del materiale. Si è creato fin da subito un grandissimo feeling tra me e la band, tanto che ho collaborato alla stesura di un paio di pezzi dopo pochi giorni che lavoravamo insieme. La cosa è cresciuta pian piano, le registrazioni proseguivano, le canzoni prendevano forma e ci sentivamo sempre più a nostro agio a fare e creare musica insieme. Se ricordo bene, passarono due settimane e i Volbeat mi chiesero di entrare a far parte della band: ammetto però che, per quanto fosse bello registrare con loro, non avevo proprio pensato a diventare un elemento dei Volbeat finché non me l’hanno proposto esplicitamente. Sicuramente è una scelta inusuale entrare in una band danese per un americano come te... Come ti trovi con la popolazione nordica? R.C.: Anche prima di entrare in contatto con i Volbeat avevo diversi amici scandinavi, tutta gente con cui mi sono trovato sempre bene e in sintonia. Quando sei un musicista, è facile andare d’accordo anche con chi non è del tuo paese e non ha le tue stesse abitudini, la musica è un linguaggio universale che unisce e cancella le differenze. Tra me e il resto della band c’è feeling proprio perché abbiamo questa “connessione musicale”, è facile andare d’accordo su questa base. “Beyond hell/Above heaven” ha riscosso un grandissimo successo commerciale, rendendo la band popolare anche negli Stati Uniti. C’era particolare pressione in studio durante le registrazioni di “Outlaw gentleman & shady ladies”? Bissare un così grande successo (750.000 copie vendute - nda) non è impresa semplice… R.C.: Essere troppo tranquilli quando si entra in studio di registrazione

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VOLBEAT non è mai positivo, troppa rilassatezza può trasformarsi in scarso impegno e in un risultato sotto le potenzialità: il fatto che la band fosse “sotto pressione” lo vedo come un approccio positivo per fare un grande disco. Detto questo, non credo nessuno fosse nervoso perché poco confidente della bontà della nuova musica che stavamo scrivendo. L’atmosfera in questo senso era molto positiva, pensavamo solo a cavalcare l’onda creativa e incidere grandi canzoni. "Outlaw gentleman & shady ladies" ha liriche decisamente incentrate sul tema del "vecchio west". La domanda sorge spontanea: com'è venuta un'idea del genere a una band danese? R.C.: È il nostro cantante, Michael, il colpevole, è lui che ha avuto l’idea di dare un’ambientazione omogenea ai testi dell’album e a scegliere il West come filo conduttore. Quello che secondo me è particolarmente cool è che i personaggi descritti nelle canzoni non sono i classici cliché a cui i film western ci hanno abituato, sono decisamente più oscuri e realistici. E poi la musica completa e

accompagna perfettamente questi testi, c’è un tocco country che credo sia riuscito molto bene. Ritengo che la band sia una di quelle che conta le più diverse definizioni nel panorama rock/metal mondiale. Tu come descriveresti il “Volbeat-sound”? R.C.: Quando ascoltai i Volbeat per la prima volta nel 2010, quello che più mi colpì e mi piacque furono i riferimenti molto classici su cui si basa il sound della band. Perché da una parte sicuramente i Volbeat sono un gruppo moderno e originale, ma d’altro canto si possono rilevare in modo chiaro influenze di rock più datato: da Elvis Presley fino ai Misfits, passando per i Metallica… tutta la migliore musica rock! È una miscela che credo sia assolutamente unica nel panorama musicale odierno: il meglio della storia del rock rimescolato fino ad ottenere qualcosa di nuovo. www.volbeat.dk

“Essere troppo tranquilli quando si entra in studio di registrazione non è mai positivo, troppa rilassatezza può trasformarsi in scarso impegno”

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FIVE FINGER DEATH PUNCH

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Dopo sei anni di carriera, tre dischi all’attivo e migliaia di concerti attorno al globo, i californiani Five Finger Death Punch tornano con ben due album di inediti. Il tour mondiale che ne seguirà toccherà la nostra penisola il 23 novembre 2013 a Milano insieme agli amici Avenged Sevenfold. Di Mattia Borella

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o ascoltato in anteprima il nuovo disco e sono rimasto davvero impressionato dai suoni così curati e compatti, una vera evoluzione da “American capitalist”. Com’è stato l’approccio a questo nuovo lavoro? Zoltan Batory (chitarre): Siamo stati molto in giro e abbiamo avuto un tour davvero entusiasmante! Abbiamo fatto concerti ininterrottamente per quasi due anni. Cavolo viviamo praticamente in tour. Il tour è andato davvero alla grande, la band continuava a scrivere e inventare, continuavamo a ripeterci che avevamo bisogno di entrare in studio! È stata come una tempesta perfetta. Appena entrati in studio, abbiamo iniziato semplicemente a registrare e tra una sessione e l’altra abbiamo continuato a scrivere sempre più canzoni. Ad un certo punto ci siamo accorti di avere più di 20 grandiosi pezzi e alla fine abbiamo deciso di utilizzarli tutti e di registrare due album. Pubblicare un doppio album al giorno d’oggi, in un’epoca nella quale è difficile che la gente ascolti per intero anche solo una canzone, può sembrare un azzardo? Ivan L. Moody (voce): Non penso che sia un periodo sbagliato, abbiamo così tanto buon materiale, 25 pezzi, che sarebbe stato ingiusto non pubblicarli e così abbiamo scelto di dividere il lavoro in due dischi distinti. Non c’è una canzone più bella rispetto alle altre, dico sul serio! Siamo orgogliosi di questo! L’abbiamo proposto alla nostra casa discografica pensando che fosse una buona idea, hanno risposto positivamente e ci siamo detti “facciamolo”! Ho ascoltato il nuovo singolo “Lift me up". Come mai avete deciso di collaborare con un mito come Rob Halford dei Judas Priest? È un vostro idolo? I.M.: È un’icona, una vera icona. Ci siamo avvicinati a Rob sicuri che anche lui avrebbe voluto farlo e così è successo, una volta tornato a Las Vegas dopo aver suonato coi Judas Priest. È una cosa che speri di fare per un’intera carriera. Z.B.: Abbiamo ascoltato un’intervista di Rob nella quale raccontava quali sono le sue band preferite e i Five Finger Death Punch erano tra quelle. Così, quando siamo entrati in studio per registrare, sapevamo di piacere a Rob e alla fine abbiamo tirato fuori davvero il massimo dalla band. Come avete deciso la scaletta dei due nuovi album? I.M.: Questa è una domanda davvero interessante. È stato come giocare a poker o a goldfish, ognuno di noi ha dei pezzi preferiti tra i brani che abbiamo composto. A me piace più questo, a Zoran un altro e così anche per Jeremy e Jason. Molti dei pezzi che preferisco sono sul secondo album. Sul taxi che ci portava in aeroporto abbiamo ascoltato tutto il secondo disco... Non posso più aspettare, non vedo l’ora che venga pubblicato! Z.B.: Entrambi i dischi sono fantastici. Ci sono parti più pesanti e parti più leggere. Non volevamo creare discordia e divisione tra i fan, il risultato è qualcosa

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FIVE FINGER DEATH PUNCH che ti trasporta dall’inizio alla fine. Non c’è una divisione tra i vari stili, è un vero e proprio viaggio lungo l’intero lavoro. Le canzoni dei vostri dischi hanno un genere molto diverso l’una dall’altra, personalmente faccio davvero fatica a definire un genere per la vostra band. Voi come vi definireste? Z.B.: Penso che siamo una band che suona “melodic heavy metal”. Qualcuno ci definisce hard rock, altri thrash metal. Il concetto è che abbiamo davvero gusti diversi all’interno della band. I.M.: Ascoltiamo tutti cose diverse, a Zoltan piacciono gli Iron Maiden, gli Accept e i Motörhead, a Jeremy piace tutto. Cerchiamo di mescolare insieme i nostri gusti, noi siamo fan dell’intera musica. Abbiamo un sapore diverso in ogni album ma rimaniamo sempre “super super heavy”. Non scriveremo mai delle ballate, è chiaro, ma vogliamo solo fare buona musica. Z.B.: È tutto diverso rispetto al passato. Anni fa l’heavy metal era solo heavy metal! Oggi abbiamo heavy, death, slowcore, metalcore... Ma quanti cazzo sono?! Ad esempio, a me piacciono gli Slayer ma anche gli Scorpions, i WASP, ogni cosa per me è heavy metal! Le band che si definiscono di un genere ben preciso, è come se volessero suicidarsi. Non puoi fare qualcosa solo perché la ritieni fashion. I.M.: I nostri fan apprezzano tantissimo il fatto che ascoltiamo gli Scorpions, gli Iron Maiden, i Pantera, gli Alice In Chains e il segreto sta nell’apprezzare tutte le cose belle di queste band. La forza di volontà è stata la vostra arma vincente fin dall’inizio della vostra carriera. Oggi sembra che siano i talent show a scandire il futuro della musica mainstream.

Che messaggio volete dare alle giovani generazioni che vogliono fare musica? I.M.: Penso che ci sia ancora tanto da scrivere nel mondo della musica. Io sono così orgoglioso quando vedo mia sorella che prende in mano una chitarra e cerca di imparare a suonarla. È una speranza! La forza di volontà è stata determinante per noi ma alla fine anche i giovani musicisti riusciranno a trovare il loro spazio, è come un cerchio, arriverà anche il loro turno. Z.B.: Sono d’accordo. Ogni cosa che fai nella vita deve venire dal cuore. Guarda alcuni artisti come BB King, suona da tutta la vita ma non fa altro che ispirare e spingere i giovani musicisti. Io vengo dall’Ungheria, non è stato facile per me arrivare dove sono ora. Basta essere costanti, lavorare duro e perseguire il proprio obiettivo con la volontà. Zoltan, so che tu hai un rapporto di lunga data con l’Italia e in particolare con la Costa Adriatica. Cosa vi aspettate dal vostro primo concerto nel nostro paese? Z.B.: L’Italia è fantastica, qui tutto è diverso, tutto è più sentito e le emozioni hanno una scala totalmente differente dagli altri paesi. Basta guardati qui attorno! Siamo impazienti, non vedo davvero l’ora di tornare in Italia per suonare con la mia band. I.M.: Saremo a Milano in novembre coi nostri fratelli Avenged Sevenfold. Sarà fantastico, sarà una delle date più importanti del nostro tour. Sicuramente un’emozione particolare anche per noi, una prima volta nella quale vogliamo far contenta e far divertire più gente possibile. www.fivefingerdeathpunch.com

“Anni fa l’heavy metal era solo heavy metal! Oggi abbiamo heavy, death, slowcore, metalcore...” 46 RockNow


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PARAMORE Il quarto disco si chiama come loro: per cui quella dei Paramore, rimasti in tre, è una forte e decisa rivendicazione della propria identità. Anche se qualche dubbio resta... Di Piero Ruffolo - Foto Reid Rolls

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opo l'abbandono di Josh e Zac Farro siete rimasti in tre, come vi trovate? Hayley Williams (voce): Abbiamo dovuto guardare la band in un modo diverso, nuovo. Noi abbiamo ancora fissi i nostri obiettivi: vogliamo essere una rock band e scrivere delle grandi canzoni, anche provando cose che non avevamo mai fatto in precedenza. Siamo riusciti a mostrare un nuovo lato di noi stessi, è un nuovo modo di essere i Paramore. E dal vivo? Taylor York (chitarra): Il pubblico ha reagito decisamente bene. Noi eravamo molto nervosi a riguardo, è stato un rischio ma abbiamo avuto un grande feedback, soprattutto a livello di energia del pubblico. H.W.: Siamo felici anche in tre. È strano perché sul palco siamo in sei in realtà, ci sono tre nostri amici che si sono uniti a noi per il tour, per suonare gli altri strumenti. Non sentiamo che manchi qualcosa: noi tre registriamo i dischi, incontriamo i giornalisti, ci troviamo bene anche in tre. Non abbiamo mai chiesto che accadesse quello che è successo, non avremmo mai voluto affrontare un periodo così difficile a livello di band e non avremmo mai pensato di ritrovarci in tre, da cinque che eravamo. Ma adesso tutto funziona. Non sentiamo la necessità di aggiungere altre persone in formazione. A proposito di live, com'è andato il concerto di Milano (la band ha suonato all'interno della rassegna City Sound lo scorso 10 giugno, ndr)? T.Y.: La data è andata davvero molto bene, siamo molto contenti di essere riusciti a tornare in Italia a suonare. Il vostro nuovo disco, “Paramore”, lo avete descritto come “più felice”. H.W.: Molte canzoni vecchie parlavano di cuori spezzati. Anche qualcuna in questo disco ne parla, ma abbiamo capito che non avevamo bisogno della tristezza. Non ci servono grossi stravolgimenti emozionali per fare delle belle canzoni. Non ti accorgi veramente di essere maturato finché non ti guardi indietro. Siamo persone diverse oggi, siamo molto più onesti con noi stessi e con i fan. Sappiamo chi siamo e cosa vogliamo. Credo che dipenda dal tempo che è passato, dal fatto che siamo cresciuti. Siamo più felici, ci sono ancora conflitti ma fa parte dell'animo umano. Abbiamo raccontato di tutti i problemi che stavamo affrontando come band nel disco precedente. I nostri fan invece vogliono sapere come stiamo adesso e noi abbiamo provato a raccontarlo con questo nuovo lavoro. Abbiamo fatto il disco che sentivamo di dover di fare. Come avete affrontato la composizione delle canzoni di “Paramore”? H.W.: Ero molto impaziente di lavorarci. I nostri anni adolescenziali sono passati molto veloci e poi tutto è rallentato. È stato come tornare alla vita. T.Y.: Il processo di creazione non è una cosa semplice, è difficile, è incasinato. L'importante è che quello che stai facendo sia vero. Hayley, moltissime ragazze ti scelgono come modello di riferimento. Come ti rapporti con questo aspetto? H.W.: Non conosco molto bene il mondo fashion, ma so bene le pressioni che le ragazze subiscono durante la loro vita per l'abbigliamento. Per me è sempre stato importante esprimermi, adoro le figure femminili indipendenti che si sanno far valere al di là dell'aspetto estetico, come Debbie Harry o Siouxsie Sioux. Sono onorata del fatto che le ragazze mi emulino, così come facevo io con le TLC quando ero più piccola. www.paramore.net

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SKILLET 17 anni di carriera, 8 album, 2 nomination ai Grammy e oltre due milioni di dischi venduti solo negli Stati Uniti: i numeri non mentono e gli Skillet sono tra le realtà più importanti della scena rock alternative americana. Con noi John Cooper: fondatore e carismatico leader della band. Di Piero Ruffolo - Foto Reid Rolls

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Rise" non si mostra come un concept-album, sebbene la presenza di un unico tema conduttore sia innegabile. Quale ideologia si cela alla base del progetto? John Cooper (voce): Ogni giorno ascoltiamo e leggiamo di eventi tragici, di persone che, messe alle strette, commettono azioni terribili rivolgendo la propria rabbia su se stesse e su chi le circonda. "Rise" parla di questo, di come è possibile rialzarsi e di come è possibile guardare oltre il quotidiano alla ricerca di una speranza che sembra ormai perduta. Ho letto in Rete che avete composto 61 canzoni per questo disco... J.C.: In realtà ne abbiamo scritte 62 (ride, nda). Come avete scelto i brani da registrare? J.C.: Selezionare le 15 canzoni per il disco non è stato facile e molte persone sono state coinvolte in questo processo. Abbiamo scelto i brani migliori, li abbiamo messi insieme e suonati come se fossero un'unica e inscindibile entità. In effetti, il legame che unisce i diversi episodi è evidente fin da subito... J.C.: Adoro ascoltare album dall'inizio alla fine senza stravolgere l'ordine originale dei brani. Con questo disco, in particolare, abbiamo tracciato un viaggio dinamico e, per molti aspetti, naturale. La linearità con cui la storia si è dipanata sotto i nostri occhi ci ha spiazzato, è semplicemente successo e noi abbiamo seguito l'evolversi degli eventi senza forzare la mano. "Rise" e "Sick of it" assolvono al meglio il ruolo riservato, introducendo quanto segue. Cosa puoi dirci di questi due brani? J.C.: "Rise" crea una solida connessione tra noi e l'ascoltatore: presenta ciò che siamo anche a chi non si è mai avvicinato alla nostra musica e non lascia dubbi sulla nostra reale natura. "Sick of it" approfondisce questo concetto, risolvendo possibili dubbi e portando in primo piano assonanze e aperture proprie del nostro stile. Altro brano ad avermi colpito è "Circus for a psycho"... J.C.: Si tratta della prima canzone che ho scritto per il disco e la adoro. A ispirarmi è stato un video apparso su YouTube alcuni anni fa. Non so se ricordate la storia di Casey "The Punisher" Haynes: un ragazzo vittima di bullismo che alla fine esplode e si ribella scagliandosi contro il proprio aggressore. Casey è stato portato al limite, dopo continui e ripetuti soprusi... un limite che tutti noi abbiamo e superato il quale scatta qualcosa e perdiamo inevitabilmente il controllo. "Circus for a psycho" parla di come la società e chi ci circonda ci porta a scoprire lati di noi che non immaginavamo esistere. Grazie all'esperienza acquisita negli anni potreste tranquillamente produrre un album senza interventi esterni. Ciò nonostante vi siete affidati alle sapienti cure di Howard Benson. Quanto è importante per te la figura del produttore? J.C.: È vero: probabilmente avremmo potuto fare tutto da soli, ma non credo avremmo ottenuto gli stessi risultati. Non si tratta semplicemente di sapere elaborare suoni o rifinire quanto registrato. Quello che cerco in un produttore è la capacità di interpretare ciò che scrivo e di aiutarmi nell'operare le scelte giuste. Una figura esterna e competente si rivela essenziale in queste situazioni, esattamente come Howard lo è stato per noi. Da musicista, come vedi oggi il rapporto tra musica e ascoltatori? J.C.: Contrariamente a quanto molti sono portati a pensare, credo che oggi si ascolti più musica rispetto al passato. Esistono molti più canali e le barriere dettate dai media tradizionali sono ormai un ricordo. Detto questo, sono convinto che siano ancora radio e televisioni a condizionare gli ascolti... Come musicista penso sia importante fare ciò in cui davvero si crede e non scrivere canzoni giusto per il gusto di farlo. Seguire mode e correnti non vi porterà da nessuna parte e sarà solo colpa vostra. Non prendetevi in giro e, soprattutto, non prendete in giro chi vi ascolta. www.skillet.com

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Psycho circus

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DISCO DEL MESE

QUEENS OF THE STONE AGE "…Like clockwork" (Matador/Self) ★★★★ Josh Homme ha promesso mesì fa che “i robot sarebbero tornati”. Ha promesso un album malato, frutto amaro di un periodo della vita per lui difficile, vissuto sull’orlo (e forse oltre) della depressione a causa di seri problemi fisici che lo hanno afflitto per lungo tempo. Ma sappiamo bene, noi amanti del rock, che le promesse dei nostri beniamini sono troppo spesso destinate a essere affidabili come le promesse di un marinaio. Parte “Keep your eyes peeled” e il blues sporco e splendidamente ripetitivo che esce dalle casse è la prima

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conferma che non rimarrò deluso, che i Queens Of The Stone Age “ci sono”, che il robot-rock per eccellenza (definizione cara a Josh e quantomeno azzeccata) riempirà le orecchie dei rocker di mezzo globo per i mesi a venire. Insomma, la prova che esistono ancora nel 2013 musicisti in grado di scrivere musica fatta per durare e non per essere masticata e gettata al ritmo con cui si consuma un chewingum. “…Like clockwork” è un grande disco scritto da un grande musicista che ha assemblato una grande band; e registrato con una sfilza

recen di collaboratori da far scomparire i “featuring” di un qualsiasi disco hip hop. Mark Lanegan, Dave Grohl (è l’ex-Nirvana a suonare la batteria in ben cinque tracce), Trent Reznor, Elton John… questi i nomi più noti e altisonanti che hanno dato il loro contributo all’ottimo risultato finale. Le dieci canzoni scivolano via lisce, pur sopra il ruvido sound a marchio di fabbrica QOTSA, e si ha una sensazione di amalgama invidiabile per del materiale così eterogeneo. Tutto è come deve essere, un riff insegue il successivo e ogni passaggio sembra il dettaglio di un quadro più ampio. Non amo per principio snocciolare elenchi di canzoni quando devo scrivere di un album, ma credetemi nel caso specifico l’esercizio sarebbe anche più inutile del solito; questo è uno dei pochi casi in cui il disco va ascoltato per intero, in cui premere il tasto “skip” è un sacrilegio che spero proprio non vorrete mai compiere. O dovrete smettere di leggere RockNow! “Song for the deaf” è inevitabilmente la pietra di paragone per qualsiasi cosa esca

sul mercato a nome Queens Of The Stone Age, e “…Like clockwork” ne è sicuramente all’altezza. E non solo per la copertina, che ricorda l’antenato in maniera sfacciata e certamente voluta. Forse appare oggi più commerciale “Song…”, mentre “…Like clockwork” è di sicuro più vario e profondo, se per forza volete un confronto diretto. Ma è un po’ come scegliere chi dei propri figli si ama di più. Sono certo che Josh disapproverebbe. E chi sono io per contraddirlo? Luca Nobili


nsioni FALLING IN REVERSE

"Faschionably late" (Epitaph/Self)

★★★

Album coraggioso e in grado di spiazzare in più occasioni: questo in poche parole "Faschionably late". La formula che tutti conosciamo, quella metalcore per intenderci, è ancora presente ma non più protagonista. La band, infatti, si diverte a mischiare continuamente le carte in tavola, aggiungendo (a quanto noto) rap, pop-punk, dance, rock'n'roll, metal e hard rock andando a chiudere anthem ed episodi che divertono e convincono senza chiedere troppo

in cambio. I puristi e chi proprio non digerisce simili sperimentazioni metteranno ben presto in croce i Falling In Reverse... Un peccato, visto che dietro la tanto discussa immagine si celano ottime idee e buona interpretazione. Certo, non si tratta dell'album dell'anno, ma nemmeno dell'ennesima prova da affossare per partito preso. Michele Zonelli

FIGHT OR FLIGHT “A life by design?” (Warner)

★★★

Messi i Disturbed nel congelatore a tempo (in) determinato, il chitarrista Dan Donegan e il batterista Mike

ESCAPE THE FATE “Ungrateful”

(Eleven Seven Music)

★★★

Foto David Jackson

A tre anni dal terzo (e omonimo) lavoro in studio, gli Escape The Fate escono finalmente con un nuovo album che sembra voler confermare il definitivo riassetto sonoro intrapreso da un paio di dischi a questa parte con l’intento di staccarsi un attimo dal metalcore degli esordi e guardare verso altre sonorità. A dar man forte ci pensa poi la produzione di John Feldmann, già con loro ai tempi di “This war is ours” e sicuramente scelta ideale. “Ungrateful” è un ottimo disco che porta la band verso sonorità più vicine a Avenged Sevenfold (“Forget about me”, “You’re insane”) e, perché no, ai compagni di etichetta Papa Roach (“Risk it all”, “Desire”). Le nuove canzoni viaggiano su ritmi sempre molto sostenuti, con la voce di Craig Mabbitt che risulta decisamente perfetta per questo nuovo corso della formazione di Las Vegas. Ci sono perfino momenti più pacati e intrisi di electro che fanno pensare ai Linkin Park (quelli di “Minutes to midnight”) come “Picture perfect” e “One for the money”. Un disco per niente rivoluzionario (hard rock classico con una produzione al passo con i tempi?) ma allo stesso tempo fatto bene e piacevole da ascoltare. E destinato probabilmente a funzionare. Piero Ruffolo

nu rock

Wengren hanno pensato bene di creare un loro side-project (si spera) di successo, tanto per non essere da meno del singer David Draiman e i suoi Device. Al contrario della creatura di quest’ultimo, però, i Fight Or Flight si muovono su coordinate sonore differenti rispetto alla band madre: tranquilli, sempre di rock duro parliamo, ma credo ci sarà una fetta dei fan dei Disturbed che storcerà un poco il naso ascoltando “A life by design?”. Niente metal cibernetico per i FoF, insomma! Stone Sour, Shinedown, Three Days Grace… questi i primi nomi che l’ascolto del singolo “First of the last” e del resto dell’album mi portano alla mente. Hard rock melodico ma moderno che piace, anche se impantanato nella triste definizione “senza infamia e senza lode”. Luca Nobili

FIVE FINGER DEATH PUNCH

“The wrong side of heaven” (Prospect Park/UMG)

★★★★

A due anni di distanza da "American capitalist", i Five Finger Death Punch tornano con "The wrong side of heaven", primo capitolo di un album doppio (il secondo uscirà più avanti). Il disco si apre subito alla grande con la potentissima "Lift me up", primo singolo estratto che vede la collaborazione con il grande frontman dei Judas Priest Rob Haltford. Si continua con la freschissima e potente "Watch you bleed", melodica ed energica allo stesso modo, e capace di catapultare anche l'ascoltatore più distratto in un turbine sonoro che difficilmente lo invoglierà a cambiare traccia. Una doppietta che delinea pienamente l'identità sonora di questo nuovo e ispiratissimo album della band californiana. La title-track non delude le aspettative e, con il consueto marchio di fabbrica melodico, racconta la filosofia del gruppo curando ogni minimo particolare del sound scandito dalla potenza del testo interpretato magistralmente dal cantante Ivan L. Moody. Un album spontaneo e potente, frutto di un periodo di incredibile ispirazione per la band, capace di farlo trasparire da ogni brano creando un'esperienza sonora che trasporta chiunque per quasi un'ora di puro e sano metal made in U.S.A. Mattia Borella

MY TIE IS EVIL “Camouflage” (Like Me Studios)

★★★

Ecco finalmente l’opera prima dei padovani My Tie Is Evil, dopo l’ottimo EP di qualche mese fa (e vari demo spediti nell’ultimo anno alla mia attenzione dal batterista della band). “Camouflage” rispetta tutte le attese e riflette magnificamente l’attitudine del quartetto. Abbiamo a che fare con un lavoro ricco di suoni e capace di balzare con coerenza e gusto da un genere all’altro. Anzi, forse è meglio dire che tutti i generi confluiscono nella musica dei My Tie Is Evil. Di conseguenza, se “For you, sucker” si presenta con un tiro pop/punk che non dispiacerebbe ai fan di Sum 41 e Yellowcard, “Jump” racchiude quella buona dose di elettronica che ne fa un brano con un groove travolgente e addirittura ballabile. “Silence will fall” parte piano e si trasforma in un brano electro-rock dal crescendo travolgente e in linea con le migliori cose che vanno di moda in Inghilterra di questi tempi. “Interlude” potrebbe essere farina del sacco dei Pendulum, mentre “Insomnia” chiude il disco in maniera sublime con un calderone di suoni tra aperture pop e slanci nu metal. Sicuramente uno dei dischi migliori usciti quest’anno in Italia. Daniel C. Marcoccia

SKILLET "Rise"

(Atlantic Records/Warner)

★★★

Band di indubbio successo negli USA ma ben poco nota nel Vecchio Continente, gli Skillet con “Rise” timbrano il cartellino dell’ottavo album, lavoro che succede ad “Awake”, disco di assoluto valore e dal forte appeal commerciale che li ha lanciati in maniera definitiva in patria. Definiti dai più come band di christian rock, va sottolineato come gli Skillet siano un’entità un po’ diversa dai vari Switchfoot o Third Day. Sì dichiaratamente cristiani ma meno concentrati su argomenti religiosi, il sound del quartetto di Memphis è decisamente più roccioso e moderno rispetto ai compagni di genere. Tanto che per descriverne all’ignaro ascoltatore la musica sono di sicuro più pertinenti riferimenti quali Disturbed, Evanescence o (addirittura) Nightwish dei succitati “colleghi di credo”. Un suono che sa di metal moderno e rock sinfonico quindi, potenzialmente interessante a una buona fetta dei nostri lettori. Luca Nobili

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ROCK/POP BEADY EYE

MARYDOLLS

(Sony)

(IndieBox/Self)

“BE”

“La calma”

★★★

★★★★

Cosa aspettarsi da Liam Gallagher se non un disco di pop/ rock marcatamente brit? Ed è proprio quello che ci propone in questo secondo capitolo dei suoi Beady Eye, gruppo formato con i musicisti dell’ultima formazione degli Oasis (meno il fratello “nemico” Noel, ovviamente). D’altronde lui è l’ultima inconfondibile grande voce uscita dal Regno Uniti negli ultimi 15 anni, anche l’ultima rockstar inglese probabilmente (cari Kasabian, i fatti sono questi…) e ce lo dimostra fin dall’opener “Flick of the finger”. “BE” si srotola piacevolmente tra pezzi più ritmati (“Face the crowd”, “I’m just saying”), ballate (“Soon come tomorrow”, “Don’t brother me”) e richiami a 50 anni di british pop (“Second bite of the apple”), lasciando anche spazio a qualche leggera sperimentazione (“Shine a light”, la psichedelica “Iz rite”). Ideale, quanto inaspettata, la produzione di David Sitek dei TV On The Radio. Daniel C. Marcoccia

recen

Secondo album per la band bresciana, artefice di un post-grunge molto equilibrato e tecnicamente ineccepibile. Il disco promette subito bene con l’ottimo singolo “Non mi passa” (molto interessante l’inserimento dei fiati), seguito dall’originale testo di “Mi faccio a fette”. Altri episodi degni di nota sono “Docce”, “A testa in giù” e “Tangenziale”, non a caso tra i brani più heavy. La voce di Paolo Morandi, infatti, appare un po’ troppo pulita, tale che i pezzi più melodici possono risultare decisamente mainstream. Innumerevoli cambi di ritmo sono forse un segnale d’incertezza sulla direzione da prendere, sarebbe il caso di sviluppare con maggior coraggio e personalità alcune buone idee che si intravedono. Segnaliamo infine la partecipazione agli archi di Nicola Manzan aka Bologna Violenta e che “La calma” è stato masterizzato da Jo Ferliga degli Aucan. Nico D’Aversa

PHINX “Hòltzar”

(Irma Records)

★★★

Avevamo lasciato i veneti Phinx a “Login”, la loro prima prova del 2010 all’insegna di un pop/rock decisamente orecchiabile e fresco e li ritroviamo tre anni dopo con un secondo disco completamente diverso. “Hòltzar”, infatti, prende talmente le distanze dal precedente lavoro da sembrare firmato da un’altra band. Le atmosfere si sono fatte cupe, intense, mentre le sonorità rock privilegiano l’elettronica e la sperimentazione, con richiami evidenti ai Depeche Mode più introspettivi (“Hoarn de holtzar”, in apertura, sembra quasi una rivisitazione di un loro brano). Quella dei Phinx è una scelta sicuramente coraggiosa, ma sicuramente più appagante dal punto di vista creativo e capace di offrire alla band un’apertura fuori dall’Italia. Non tutto è perfetto, molte idee sono probabilmente da mettere bene a fuoco ma la strada è quella giusta e brani quali ““Crystals, flames and cities”, “Ministry of fog” e “Kubla Khan” (con il feat di Reanimation Squad) lo confermano. Daniel C. Marcoccia

PHOENIX “Bankrupt”

(Loyalité/Warner)

★★★★★

Credo di non aver mai dato, finora, il massimo dei voti a un disco. Di ottimi lavori ne arrivano in continuazione, per fortuna, ma pochi sono riusciti a “catturarmi” come questa nuova fatica dei Phoenix. E “fatica” è proprio la parola giusta visto che arriva a ben quattro anni dal precedente “Wolfgang Amadeus Phoenix”, l’album della definitiva conquista dell’America (non sono molti i francesi capaci di riempire sia l’Hollywood Bowl che il Madison Square Garden). Due anni di tour e altrettanti in studio, tanto tempo ma il risultato è encomiabile: un piccolo manifesto della musica pop in tutte le sue sfaccettature e qualitativamente eccellente. Il quartetto transalpino continua il suo viaggio esplorativo tra melodie euforiche di facile presa (“Entertainment”, “Trying to be cool”), acrobazie ritmiche (“SOS in Bel Air”), richiami eighties (“Drakkar noir”), synth vintage (“Oblique city”) e sperimentazione (l’incredibile title-track), il tutto condensato in 10 brani dal tiro accattivante, spensierato e da ascoltare in loop. Perché dei francesi dovrebbero sfondare negli Stati Uniti cantando in inglese? È solo una questione di personalità e i Phoenix ne hanno da vendere. Daniel C. Marcoccia

CELEB CAR CRASH “Ambush!”

(Antstreet Records)

★★★

Ormai sull'argomento sono smaccatamente di parte: quantoci(mi)-manca-il-grunge-o-chi-per-esso. E deve mancare anche agli italianissimi Celeb Car Crash. “Ambush!” vanta tredici brani dalla struttura portante batteria-chitarre davvero invidiabile (è incredibile come questo aspetto spesso venga invece ignorato da molte band nostrane): un fortissimo imprinting seattleiano miscelato a qualche venatura hard rock (come già Alice in Chains/Stone Temple Pilots). Considerando che si tratta di un disco di debutto, ci sono ancora margini di miglioramento – solo qualche piccola limatura per ottenere più riconoscibilità -, ma nel complesso “Ambush!” è davvero un buon lavoro. Arianna Ascione

FILTER

"The sun comes out tonight" (Wind-up Records)

★★★★

Definitivamente accantonati i problemi personali che lo hanno costretto lontano dalle scene per lungo tempo, Richard Patrick torna prepotentemente alla ribalta, con un album (il sesto) che può essere considerato alla pari (se non superiore) del mai dimenticato "Title of record" (1999). Come da copione, sonorità di pura estrazione metal e nu rock si alternano a suadenti melodie, il tutto senza rinunciare al mai celato amore per rock e industrial. Ancora una volta, i Filter riescono a mettere d'accordo fan di diversi generi e, ancora una volta, il citato e tormentato frontman riesce a fare la differenza. Correnti e mode perdono inevitabilmente significato e a noi non resta che inchinarci davanti a un'opera di indubbia qualità. Michele Zonelli

GAVIN ROSSDALE “Wanderlust” Foto Editrid

(Ear Music)

54 RockNow

★★★

Il disco solista di Gavin Rossdale ha già cinque anni (è del 2008). Ma anche riascoltato oggi, in occasione della ristampa proposta da Ear Music con quattro bonus


nsioni track (“Jungle in the circus”, “Lose myself tonight”, “You can't run from what you forget”, “Vaya con Dios”), mostra delle ottime intuizioni che in qualche modo anticipano quello che Rossdale avrebbe poi concretizzato con la sua band, i Bush, nel 2011 (vedi il mood di “Baby come home”, contenuta in “The Sea of Memories”). “Wanderlust” è un disco decisamente più caldo, pulito e meno oscuro, e vanta diverse collaborazioni guidate dalla sapiente mano di Bob Rock, anche questa volta riconoscibilissima. Arianna Ascione

HIM

“Tears on tape” (Universal)

★★★

Ville Valo & Co, dopo tre anni, tornano con un album di inediti e non ci sorprendono con effetti speciali. Aggiungono poco a quanto detto dal 1991 a oggi, ma riescono sempre a creare un connubio a tratti interessante tra metal, hard rock e emo/gothic, con quelle tastiere anni ’80 e la ruffianaggine di certi riff. Melodie carine, amore e depressione che vanno a braccetto nei testi alla “love is not in the air” di Ville Valo. Quattro pezzi brevi e strumentali, se così si possono definire, su 13. In coda agli inediti, per i nostalgici degli HIM, ci sono anche 5 pezzi storici della band, live in studio, che chiudono il cerchio con la blasonata “Wings of a butterfly”. No surprises. Sharon Debussy

KUTSO

“Decadendo (su un materasso sporco)” (22R)

★★★

Disco d’esordio per i romani KuTso, dopo un EP di successo e una marea di riconoscimenti dal vivo. Il loro suono mescola con disinvoltura rock, punk e pop con alcune digressioni in levare. I loro testi si prendono gioco della disperazione contemporanea con ironia e autoironia (“Alé”, “Lo sanno tutti”) oppure narrano di amori stralunati (“Marzia”, “Canzone dell’amor perduto”), senza omettere qualche intelligente provocazione (“Siamo tutti buoni”, “Stai morendo”) e invettiva sociale (“Questa società” ,“Via dal mondo”). Nel disco anche una nuova versione del primo successo “Aiutatemi” cantata con alcuni artisti romani come Fabrizio

ROCK/POP

Moro e Pierluigi Ferrantini (cantante dei Velvet). Meglio riderci su se la vita pare un vicolo cieco, tanto siamo felicemente adagiati sul nostro materasso, anche se è sempre più zozzo. Nico D’Aversa

LUMINAL

“Amatoriale Italia” (Le Narcisse)

★★★★

I Luminal sono band arcinota nell’ambiente romano. Giunti al terzo capitolo sentono però l’urgenza di rovesciare il tavolo: la lineup si snellisce all’estremo, il sound di conseguenza si fa crudo e violento, mentre i testi da sibillini e visionari si trasformano in calci dritti allo stomaco. Calci diretti all’Italia della televisione, i cui nomi dei protagonisti vengono scanditi come un mantra quasi ad esorcizzarli. Ne hanno per la generazione di Internet e per i mostri che ne son venuti fuori. E ne hanno per la cosiddetta scena musicale indipendente, “un po’ dipendente”, così autoreferenziale e ricca di contraddizioni. Si parla spesso a sproposito di “attitudine punk”, stavolta la definizione mi sembra indovinata: è davvero un disco scomodo, politicamente scorretto, irriverente, apocalittico. E soprattutto un album necessario, almeno per qualcuno. Nico D’Aversa

VIDIAM “Farewell” (This Is Core)

★★★

Unite il rock di stampo statunitense a ciò che va di moda oggi in ambito alternative/metal e il risultato si avvicinerebbe molto a ciò che hanno messo in piedi i Vidiam all’interno di “Farewell”. Un EP semplice e immediato, adatto a un pubblico giovane bisognoso più di adrenalina che di passaggi strumentali da capogiro e che ha come maggiore qualità il suo alto tasso commerciale. Dote portata in dono dal buon lavoro svolto in chiave vocale e dalla volontà dei nostri di non passare per una metal band a tutti gli effetti, in quanto seppur presente il lato heavy rappresenta una piccola parte del DNA dei Vidiam, molto più tendenti al rock commerciale di stampo statunitense. Un EP da ascoltare senza troppe pretese, divertente e semplice al tempo stesso. Giorgio Basso

RockNow 55


METAL CHILDREN OF BODOM "Halo of blood" (Nuclear Blast)

★★★★

Tornano a picchiare davvero duro i finlandesi Children Of Bodom in questo ottavo disco della loro fortunata e lunga carriera! Tra i nomi più illustri e noti di quel “melodic death” che tanto ha influenzato il metal scandinavo negli anni ’90 e 2000, con “Halo of blood” la band intraprende una chiara inversione di marcia, lasciando per strada le influenze più rock ascoltate in “Blooddrunk” e “Relentless reckless forever” a favore di un ritorno alle origini che ricorda tanto i primi tre dischi. Come sempre in questi casi, ci sarà chi amerà il ritorno al passato del figliol prodigo e chi lo osteggerà, ma mi sembra indubbio che il quintetto abbia per l’ennesima volta sfoderato un disco bello, fresco e potente, che pur nel suo suono un po’ più conservatore dei predecessori lascia spazio alle idee e a grandi cori che fanno dei Children Of Bodom quello che sono. Luca Nobili

recen

ALICE IN CHAINS “The devil put dinosaurs here” (Capitol/Universal)

★★★★

Ci sono band che non riescono a superare la perdita del proprio cantante. Quando quel cantante si chiama Layne Staley ed è stato il portavoce del suono sofferente e straziato della band, le probabilità diminuiscono ulteriormente. Jerry, Mike e Sean ci mettono anni a capire che fare: passare a miglior vita è quasi impossibile, trovare nuovi modi per riaffermarsi un po’ meno. I tre si armano di William DuVall e partoriscono “Black gives way to blue”. Gran comeback. A quattro anni di distanza tornano con la seconda prova post-risveglio, “The devil put dinosaurs here”, un lavoro lungo e monolitico. C'è il sound che da sempre li caratterizza, le chitarre metalliche e le melodie vocali alienanti. A parte “Voices” e “Hollow”, gli Alice In Chains riescono ancora a esaltare i lati più claustrofobici del metal, amplificandone i toni più cupi. Come se il suono brulicasse di tossine, si respira un’aria piena di fumo, come in quelle stanze chiuse dove ti bruciano gli occhi. Alla fine si rimane quasi senza respiro, ma la tentazione è quella di ricominciare da capo. Perché l’album è malato e alienante al punto giusto. Da avere. Sharon Debussy

SKID ROW

“United world rebellion Chapter one” (Megaforce/Audioglobe)

★★★★

Adoro da sempre questa band e per questo mi esalta vedere il bassista Rachel Bolan in un video dei Trust Company e soprattutto leggere il suo nome tra i credits dell’ultimo doppio lavoro degli Stone Sour. Senza dimenticarci degli Asking Alexandria e degli Halestorm che hanno ripreso brani della formazione del New Jersey. Una giusta riconoscenza per gli Skid Row che tornano oggi con un nuovo lavoro suddiviso in tre EP. Il primo capitolo parte subito alla grande con una “King of demolition” che non avrebbe sfigurato su “Slave to the grind” (assomiglia parecchio infatti a “Livin’ on a chain gang”) e forte di un ritornello come solo l’accoppiata Snake/Bolan sa scrivere. Stesso discorso con “Let go” mentre “This is killing me” è la tipica ballata che solo certi gruppi di un certo periodo sanno scrivere senza sputtanarsi. Se “Get up” è una heavy track piuttosto classica, “Stitches” chiude l’EP con un ritmo frenetico (ottimo il drumming di Rob Hammersmith). Alla voce un Johnny Solinger più in forma che mai e con questo ho detto tutto. Meno “youth”, sempre “wild”, lunga vita agli Skid Row. Daniel C. Marcoccia

56 RockNow

DAGOBA

GARDENJIA

THE RESISTANCE

(Ear Music/Edel)

(Memorial Records)

(Ear Music)

"Post mortem nihil est"

★★★

Testimoni di una costante (e pregevole) evoluzione, i francesi Dagoba si sono rimessi in gioco in svariate occasioni, fino a giungere a quello che può essere considerato il punto più alto della personale carriera. Brutale ed estremo, "Post mortem nihil est" abbandona solo in parte le aperture melodiche del passato a favore di strutture in bilico tra death, modern metal e progressive. "When winter...", "Yes, we did", "The great wonder" e "Son of ghost" ben incarnano lo spirito dell'opera, sostenendo le doti degli autori e allontanando ogni possibile dubbio legato ad abilità tecniche e compositive. Assimilare quanto proposto non è impresa facile ma la soddisfazione che ne deriva ripaga appieno ogni sforzo. Michele Zonelli

"EPO"

★★★★

Estro al servizio della musica, questo in sintesi sono i Gardenjia. Una band che ha fatto dell'espressività sonora il proprio cavallo di battaglia, agevolati da una tecnica strumentale eccelsa e la giusta dose di sacrifici. "EPO" è l'esempio perfetto di quanto detto, un album dove al suo interno troviamo una vasta gamma di elementi, dal tech death metal al prog, dal rock più virtuoso all'elettronica. La loro idea di musica è futurista e coraggiosa, ogni brano è figlio della sperimentazione più estrema, di uno studio articolato che a tratti lascia a bocca aperta. Giovani adepti di Tool, Meshuggah e Cynic, i Gardenjia sono sicuramente tra le band italiane più interessanti da seguire. Daniel C. Marcoccia

“Scars”

★★★

“Bye bye death metal”! Sembra salutarci facendo ciao con la manina il chitarrista ex-In Flames Jesper Strombland. Di sicuro uno che di musica estrema se ne intende, avendo fatto parte per lungo tempo di una delle band più importanti e innovative del panorama death mondiale… che è riuscito almeno in parte a spiazzarmi con la sua nuova creatura sonora chiamata The Resistance. Giunto al debutto discografico con “Scars”, questo quartetto svedese di veterani del metallo si lancia a capofitto in un hardcore di buon impatto, che tradisce qua e là le influenze degli ultimi Entombed e soprattutto dei grandissimi Hatebreed. Complessivamente un discreto disco con qualche pezzo davvero bello (“Clearing the slate”, “Imperfected”). Luca Nobili


nsioni ASHPIPE

“Too much focused about the currentpolitical and economical situation so let’s talk about ironic and thoughtful matters” (Kok Records/Mad Butcher)

★★★

Attivi sulla scena italiana ed europea dal 2007, gli Ashpipe fanno parte di quella schiera di band italiane militanti piuttosto diffuse nella seconda metà degli anni 90. Non è un caso, difatti, che le sonorità e i temi trattati siano spesso molto vicini a quelli di nomi ormai storici come i Los Fastidios. Gli Ashpipe aggiungono un pizzico di folk alla ricetta, anche grazie alla presenza di un violino, ma in ogni caso non ha molto senso dilungarsi troppo in un’analisi approfondita di musica che vuole fare della semplicità uno dei suoi punti forti. Vi basti sapere, quindi, che è un EP ben suonato, ben prodotto e che se apprezzate il genere rimarrete probabilmente soddisfatti dall’ascolto. Stefano Russo

GNARWOLVES “Funemployed”

(Tangled Talk Records)

★★★★

In genere sono sempre un po’ scettico nei confronti di band inglesi osannate dalla stampa del loro paese e inizialmente lo fui anche con questo trio di Brighton. Ma lo scetticismo è durato fino all’ascolto del loro primo EP, capace di fugare ogni dubbio, e ora posso tranquillamente dire che assieme ai Bangers, gli Gnarwolves sono tra le migliori realtà punk indipendenti che vengono dal Regno Unito. “Funemployed” è un Ep uscito in edizione limitata che farà contenti i collezionisti (7” a tiratura piuttosto bassa su vinile colorato), ma soprattutto gli ascoltatori. Infatti il sound degli Gnarwolves non si distacca da quello proposto nelle uscite precedenti: hardcore/punk potentissimo e melodico. Insomma un EP fresco, perfetto per l’estate che sta per cominciare, ottimo anche

PUNK/HC per approcciarsi a questa giovane band che, ci scommetto, farà parlare parecchio di sé in futuro. Andrea “Canthc” Cantelli

PIG-TAILS

giuste per rilanciare la formazione Mantovana (e la sua nuovissima veste) nel panorama indie-rock italiano. Stefano Russo

“So what?”

RETOX

★★★

(Epitaph/Self)

(autoprodotto)

Di loro si era un po’ parlato qualche annetto fa in occasione dell’uscita del loro album “Brainwash”, che li aveva fatti salire in graduatoria tra i nuovi nomi del punk rock nostrano. Oggi, dopo un periodo di pausa, ritornano con questo “So what?”, ripresentandosi come duo chitarra-batteria (eh si, niente più basso) ed allontanandosi dalle precedenti sonorità a favore di un rock’n’roll più essenziale e spesso parecchio sporco, ma allo stesso tempo piuttosto incline a reminescenze 60’s e 70’s (soprattutto nei riff e nelle melodie vocali). Forse chi già li apprezzava rischierà di rimanere spiazzato, ma “So what?” ha le carte

“YPLL”

★★★ Seconda prova sulla lunga distanza per i Retox che, freschi di firma con la Epitaph di Mr. Brett Gurewitz, danno alle stampe un album meravigliosamente genuino in tutta la sua vena incendiaria. E, francamente, in questo mare di band “qualcosacore” più adatte a 13enni in piena tempesta ormonale che non ai fan delle sonorità più violente e selvagge, se ne sentiva davvero il bisogno. 12 pezzi per poco più di 20 minuti di pura urgenza musicale, con elementi di destrutturazione tipici del post-hardcore e suoni acidi e taglienti almeno quanto i testi del frontman Justin Pearson (che alcuni di voi forse conosceranno come cantante dei The Locust). Un distillato di pura ed estrema furia rock’n’roll. Stefano Russo

THE WONDER YEARS

““The greatest generation” (Hopeless Records)

★★★

JIMMY EAT WORLD

“Damage” (RCA/Sony)

★★★★

Jim Adkins e soci sono tornati a tre anni dall'uscita di “Invented” con l'ottavo album della saga Jimmy Eat World. La band di Mesa, Arizona, era uscita momentaneamente dal giro delle major per autoprodursi questo disco (per mesi abbiamo seguito gli aggiornamenti sul loro sito), ma alla fine “Damage” è uscito comunque per RCA (controllata da Sony) negli Stati Uniti. Pochi giri di parole: il nuovo album dei Jimmy Eat World è un altro… album dei Jimmy Eat World. Squadra che vince non si cambia, si dice nel mondo del pallone, e i maggiori esponenti di quello che mi piace definire emo-pop hanno riproposto la loro classica formula fatta di melodie morbide miste a ritmiche sapientemente sostenute. La domanda sorge comunque spontanea: dobbiamo parlare di pericoloso déjà vu oppure i Jimmy Eat World possono tirare avanti così per anni senza alcun problema? “Damage” rimane un ottimo disco nel suo genere, ma se l'album piace a me, che trovo a fatica nuovi suoni che mi entusiasmino, c'è il rischio che la band possa aver fatto un “danno” dal punto di vista del richiamo per eventuali nuove generazioni di fan. Alex De Meo

I Wonder Years sono una di quelle band che mi fa incazzare in maniera particolare, perché se uno dovesse basarsi sul loro sound solo ascoltando i loro dischi non andrebbe neanche a vederli dal vivo: non capisco infatti il motivo per cui tutti questi gruppi nella “new school” pop/punk debbano avere i suoni tutti “morbidini” e tutti uguali, ma soprattutto non capisco come faccia la gente a non stufarsi di sentirli. Ad ogni modo ho avuto il piacere di vedere questa band live di recente e posso certamente dire che ascoltarli su disco dà una visione limitata di quello che in realtà i sei della Pennsylvania sono in grado di fare. L'album in sé non è un abominio, ma sarebbe forse il caso di “sporcare” un po' di più i suoni e di non partire con la marcia ridotta nella opening track (forse una delle peggiori tracce del disco): avete visto come dispenso consigli a Steve Evetts, già produttore di Dillinger Escape Plan, Story Of The Year ed Every Time I Die? Miglior pezzo del disco? “We could die like this”: ecco, cambiate produttore per evitarlo. Alex De Meo

RockNow 57


THE LINE

In collaborazione con Extreme Playlist

VANS SPRING CLASSIC

Ormai alla sua quinta edizione, il Vans Spring Classic ha raggiunto una notorietà non indifferente. Sempre più nomi importanti della scena skate internazionale e sempre più gente accorrono a godersi la gara e la serata del concerto, che da un paio di anni è stato spostato nella piazza principale di Varazze, dato il gran numero di persone che accorre per questo incredibile show gratuito.

Testo di Markino - foto skate: Ilaria Troisi - www.ilariatroisi.com foto concerto: Arianna Carotta - www.ariannacarotta.com

58 RockNow


L

’evento si è svolto nella cittadina ligure dal 3 al 5 Maggio, con una mega rampa costruita nel pezzo di spiaggia libera che si trova vicino alla scogliera, dove si trova anche il chiosco del surf. Molti i partecipati da tutta Europa che sono accorsi per cercare di aggiudicarsi i 15.000 euro del montepremi. Il primo giorno, oltre al freeskate e un bel BBQ per tutti i partecipanti, si è svolto il Mini Ramp Best Trick e di seguito un beach party. Nella giornata di sabato, tutti alla rampa per le qualifiche del contest e nel tardo pomeriggio un altro Best Trick nell'area street. Sul molo si potevano invece avere lezioni di skate gratuite per i più piccoli, c’era uno shop con tutti i prodotti consigliati da Vans, uno stand per farsi splendide acconciature stile anni 50 e un altro dove stampavano magliette ricordo dell’evento. La giornata prosegue alla grande e alle prime luci del sabato sera vengono stimate circa 20.000 persone, tutte pronte di fronte al palco di Monster Energy in attesa del concerto. La serata inizia a suon di focacce e birrette… che nella riviera ligure non mancano mai. Il primo a salire sul palco è Ensi, il rapper torinese scalda subito e senza problemi il pubblico, seguito dagli Extrema, la thrash metal band milanese che i lettori di RockNow conoscono bene. Arriva poi il momento dei californiani Strung Out e infine i tanto attesi Millencolin, la band svedese legata persino nel nome all’ambiente skate ("melanholy" è infatti un trick). La band apre il concerto con “No cigar” e nonostante la tempe-

ratura continui a diminuire, in mezzo al pubblico si scatena l'inferno e la scaletta prosegue con “Fox, penguins & polarbear”, “Kemp”, “Bullion”… Suoni perfetti, grande performance, peccato che a soli 6 pezzi dall'inizio il concerto viene interrotto per motivi di sicurezza dovuti alla troppa gente schiacciata contro le transenne sotto il palco. Dopo 10 minuti, però, i Millencolin tornano sul palco intonando “The ballad” ma purtroppo - non c’è niente da fare - le transenne non tengono e il concerto viene definitivamente sospeso. Tutti un po’ delusi lasciano l'area concerti ma in molti proseguono la serata tra le vie e i bar di Varazze per finire poi all'afterparty Invidia dove ha suonato DJ Mike Rock. La serata sembrava non finire mai e dalle innumerevoli birrette e cocktail si è passati alla colazione a base di focaccia ligure che non guasta mai. La mattina dopo tutti si svegliano in attesa della finale ma purtroppo la pioggia incessante obbliga gli organizzatori a rimandarla. In molti iniziano a tornare a casa ma i più accaniti skater e i pochi del settore si trovano ancora all’Invidia per tutte le premiazioni, tra le quali anche quella di Vans Lovenskate che dava l’opportunità di customizzare delle scarpe in cartoncino e vincere dei premi in gadget. Nonostante il maltempo e gli inconvenienti della sicurezza, questo resta uno degli eventi italiani di maggior successo sia per il livello di riding degli skater che per la scena musicale. Il tutto reso speciale da tutte le persone che hanno partecipato. Stay tuned for next year!!!!

RockNow 59


THE LINE

Extreme Playlist

Ogni mercoledĂŹ, su rocknrollradio.it dalle 19 alle 21, Markino e Fumaz ci raccontano cosa succede nel mondo degli action sport attraverso le parole e i gusti musicali dei suoi protagonisti. Stay tuned!!!

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RockNow 61


FLIGHT CASE

Un disco, un tour, un disco, un tour… Questa è più o meno la routine per molti degli artisti che avete incontrato nelle pagine precedenti. Ed è proprio ai concerti che è dedicata questa rubrica, con tuttavia una piccola differenza: questa volta vi portiamo dietro il palco alla scoperta di piccoli rituali e abitudini varie.

SHANE TOLD (SILVERSTEIN)

Di Michele Zonelli - Foto Emanuela Giurano Qual è stato finora il concerto più bello che avete fatto e perché? Shane Told (voce): Santa Ana (CA) alcuni mesi fa. Perfetto sotto ogni punto di vista, pubblico, location, set... non ci siamo mai divertiti tanto. Il concerto peggiore? S.T.: Saint John (NB), Canada, 2003: allo show erano presenti 2 persone. Ho suonato per loro in acustico, da solo, lo staff del locale non ha ritenuto fosse il caso di montare strumenti e impianto. Il posto più bello in cui avete suonato? S.T.: Sicuramente Australia, difficile immaginare posto migliore per noi. Qual è il pubblico più strano che avete incontrato?

62 RockNow

S.T.: Hong Kong! Non potete neanche immaginare quanto sono fuori di testa da quelle parti!

Avete delle regole da rispettare sul tour bus? S.T.: Niente genitori, niente regole!!

Cosa non dimentichi mai di portare con te in tour? S.T.: Foto delle persone che amo, della famiglia e degli amici più cari.

C’è una cover che vi piace suonare durante il soundcheck? S.T.: Green Day, un brano qualsiasi, li adoriamo.

Come passi il tuo tempo tra una data e l’altra? S.T.: Tornei di NBA e NHL sull'Xbox, feste con i fan e, ovviamente, dormendo!

Avete un rito particolare prima di salire sul palco? S.T.: Semplice riscaldamento... occasionalmente sacrifichiamo una vergine! (ride)

Cosa non deve mai mancare nel vostro camerino? Avete richieste particolari? S.T.: Ogni tanto avanziamo qualche richiesta, come tutti, ma non ci formalizziamo. Qualsiasi cosa troviamo per noi va sempre bene. Alla fine siamo lì per suonare e non per trascorrere la serata nei camerini.

Qual è la figuraccia peggiore che hai fatto dal vivo? S.T.: Nessuna... No, non è vero ma, a essere completamente onesto, preferisco non parlarne... www.silversteinmusic.com


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