RockNow #3

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#3

103% METALCORE & POWER

GREEN DAY ALL TIME LOW

Mensile – Anno 1 – Settembre 2012

Agnostic Front Slipknot Frank Turner Gojira Serj Tankian Down Yellowcard Spineshank Muse

architects La rabbia dentro

My Dying Bride - Tremonti - Royal Republic - Replosion - Campus - Extrema - Hardcore Superstar


#3

103% PUNK ATTITUDE

ARCHITECTS ALL TIME LOW

Mensile – Anno 1 – Settembre 2012

Agnostic Front Slipknot Frank Turner Gojira Serj Tankian Down Yellowcard Spineshank Muse

n e e gr y a d 1, 2, 3... stella!

My Dying Bride - Tremonti - Royal Republic - Replosion - Campus - Extrema - Hardcore Superstar


#3

103% MUSIC, FUN & NO STRESS

Mensile – Anno 1 – Settembre 2012

GREEN DAY architects Agnostic Front Slipknot Frank Turner Gojira Serj Tankian Down Yellowcard Spineshank Muse

ALL

TIME LOW

Niente panico

My Dying Bride - Tremonti - Royal Republic - Replosion - Campus - Extrema - Hardcore Superstar


OUT

NOW

www.bnow.it


EDITO

Waitand bleed

Foto Arianna Carotta

È appena finita la pausa estiva ed eccoci (poco) puntuali con il terzo numero di RockNow. Questo mese abbiamo veramente fatto il pieno di interviste, spaziando tra i generi musicali a noi cari e artisti di ogni tipo. Sono sicuro che ognuno di voi troverà materiale interessante da leggere e comunque all’altezza delle proprie aspettative. Vi assicuro che tutto questo non è facile in un paese in cui molti gruppi stranieri non fanno promozione e quelli che la fanno, spesso si limitano a round table in cui il giornalista si trova assieme ad altri colleghi e di conseguenza senza la possibilità di fare un’intervista ben strutturata. La cosa è ancora più snervante quando, una volta raggiunto il successo (e dopo aver dedicato loro varie copertine in passato...) mettono la stampa specializzata in secondo piano rispetto a quotidiani o riviste lifestyle in cui mezza pagina vale più di quattro su un mag di musica (parola di discografico illuminato...). Ovviamente, non è tutto così e il numero che avete tra le mani - ops… sulla punta del mouse - lo dimostra in gran parte. D’altronde, sappiamo organizzarci, come abbiamo fatto questo mese con gli All Time Low, raggiunti telefonicamente dal buon De Meo from Belfast alle dieci di sera (con consegna dell’articolo tre ore dopo). In soli tre numeri abbiamo già fatto capire chi siamo e di cosa parliamo. Vabbè, qualcuno continua a chiederci se RN esce anche in edicola o a proporci l’ultima sensazione indie-rock-alternative (quasi sempre noiosa), italiana o straniera, di cui tutte le altre riviste parlano… A parte gli scherzi, la nostra linea editoriale piace e convince, come del resto anche lo stile e l’attitudine che ci contraddistinguono. E siamo solo all’inizio... Prima di lasciarvi, un saluto a Tony Sly, recentemente scomparso. Ci mancherà. Per tutti noi parla chiaro il ricordo di Ste Russo, più avanti. R.I.P Tony. Keep on rockin’!!! Daniel C. Marcoccia PS: È uscito il secondo numero di Bnow.it, c’è tanta musica anche lì.

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ROCKNOW #3 - Settembre 2012 - www.rocknow.it

09-16 PRIMO PIANO: Tony Sly Tremonti Campus All in the name of… Rock Dischi violenti: Extrema Royal Republic Replosion/Rivelardes My Dying Bride Webzone Mixer: Fred Archambault Games Crazy… net Open Store

www.rocknow.it Registrazione al Tribunale di Milano n. 253 del 08/06/2012

Scrivi a: redazione@rocknow.it DIRETTORE Daniel C. Marcoccia dan@rocknow.it ART DIRECTOR Stefania Gabellini stefi@rocknow.it COORDINAMENTO REDAZIONALE ONLINE EDITOR Michele “Mike” Zonelli mike@rocknow.it

24-49 ARTICOLI: 20-23 All Time Low

24-27 Architects

28-31 Green Day

COMITATO DI REDAZIONE Marco De Crescenzo Stefania Gabellini COMUNICAZIONE / PROMOZIONE Valentina Generali vale@rocknow.it

32-34 Frank Turner

36-37 Muse

38-40 Down

COLLABORATORI Arianna Ascione Giorgio Basso Andrea Cantelli Nico D’Aversa Sharon Debussy Luca Garrò Alex De Meo Luca Nobili Eros Pasi Andrea Rock Stefano Russo Piero Ruffolo FOTOGRAFI Arianna Carotta Emanuela Giurano

42-43 Agnostic Front

44-45 Slipknot

46-47 Spineshank

FOTO COPERTINA ALL TIME LOW

Emanuela Giurano

SPIRITUAL GUIDANCE Paul Gray Editore: Gabellini - Marcoccia Via Vanvitelli, 49 - 20129 Milano

48-49 Serj Tankian

51-57 RECENSIONI: 55 56 58 60 62

Disco del mese: Muse Nu rock Pop/Rock Metal/Punk Flight case: Hardcore Superstar

44RockNow RockNow

50-51 Yellowcard

52-53 Gojira

Tutti i diritti di riproduzione degli articoli pubblicati sono riservati. Manoscritti e foto, anche se non pubblicati, non saranno restituiti. Il loro invio implica il consenso alla pubblicazione da parte dell'autore. È vietata la riproduzione anche parziale di testi, documenti e fotografie. La responsabilità dei testi e delle immagini pubblicate è imputabile ai soli autori. L'editore dichiara di aver ottenuto l'autorizzazione alla pubblicazione dei dati riportati nella rivista.



PRIMO PIANO

TONY SLY In loving memory of

Di Stefano Russo

F

a male. Parecchio male. Come e più del solito. Perché non se n’è andato un musicista semi-famoso qualsiasi, uno conosciuto per aver scritto per sbaglio un paio di singoli di discreto successo. Se n’è andato un uomo, un grande uomo, che con la sua musica ha toccato molti più stomaci e cuori di quanto potesse sembrare persino a chi, come il sottoscritto, ha avuto modo più e più volte di incrociare il suo cammino. È sempre fin troppo facile parlare bene di qualcuno quando muore (“Everybody loves

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you when you're six foot in the ground” diceva un certo John Lennon), ma credetemi se vi dico che questo non è proprio il caso di Tony. Il senso di shock generale che ha coinvolto tutti, dai colleghi più o meno giovani, ai fan, agli addetti ai lavori, è stato molto più palpabile che in altre situazioni analoghe che mi è capitato di vivere e si è protratto ben oltre le ore successive alla notizia del suo decesso. Come dicevo qualche riga prima, per tutte queste persone non se n’è andato un idolo o un collega: se n’è andato un amico. Tralascio volutamente le chiacchere da parrucchiera sul

come/quando/perché è morto, preferisco sapere solamente che fino a poche ore prima era sul minuscolo palco di un altrettanto minuscolo locale di Gainsville assieme al suo amico Joey Cape, a cantare le sue canzoni e a suonare la sua musica. Perché è proprio grazie a quest’ultima che vivrà ancora per anni e anni a venire nel ricordo di tutti coloro che hanno ascoltato i suoi dischi, visto i suoi concerti, che ci hanno scambiato due chiacchiere e scattato una foto assieme. Proprio a proposito di foto, in questa risalente al febbraio del 2010 è stato immortalato uno dei ricordi

più belli che ho di Tony, quando io e Andrea 'Canthc' Cantelli realizzammo la più improbabile delle interviste (mai pubblicata) a lui e Joey Cape, dopo aver avuto l'onore di assistere a quel bellissimo ed emozionante live acustico accucciati sul palco ad un metro da loro. Ricordo che Tony era particolarmente felice quella sera, così come noi, e che mi regalò la sua bottiglia di amaro perché a lui non piaceva. Perché la cosa più bella di Tony era esattamente questa: era, in tutto e per tutto, uno di noi. Ciao Tony, ci mancherai tantissimo.



PRIMO PIANO

TREMONTI

Navigando a vista Che Mark Tremonti fosse uno stachanovista lo sapevamo. D’altronde, per capirlo, basta vedere la facilità con la quale riesce a portare avanti due gruppi dalla caratura di Creed e Alter Bridge. Instancabile, il chitarrista esordisce oggi con un progetto che porta il suo nome. Di Daniel C. Marcoccia

S

i intitola “All I was” il disco solista di Mark, un lavoro nato in un momento libero da impegni legati alle sue band: “Fin da ragazzo ho sempre scritto parecchie canzoni, mi sembrava interessante andare a frugare tra

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queste e sviluppare quelle che presentavano le idee migliori. In quel periodo, Myles (Kennedy, cantante degli Alter Bridge, nda) stava suonando con Slash e Scott (Stapp, voce dei Creed, nda) faceva le sue cose da solo, ne ho quindi approfittato invitando anche un paio di amici (il chitarrista/ bassista Eric Friedman e il batterista Garrett Whitlock, nda)”. Il disco, oltre a mettere in evidenza le doti vocali di Tremonti, si rivela anche decisamente più heavy rispetto a quanto fatto abitualmente con Creed e Alter Bridge: “Non è però un disco di heavy metal (ride), anche se sono cresciuto ascoltando quel genere di musica. Ero un fan di tutta la scena thrash e speed metal, adoravo gruppi come Metallica, Death Angel e

Megadeth e in questo disco mi sono un po’ lasciato andare… Tuttavia, non mi sono messo a suonare assoli lunghissimi e troppo tecnici, ho preferito renderli funzionali alle canzoni: melodici o heavy a seconda del tipo di brano. Con l’età si diventa saggi e si mette da parte qualsiasi trip egocentrico”. Alcune delle canzoni erano state in precedenza scartate dagli altri due gruppi e questa era sicuramente l’occasione giusta per registrarle: “Sì, avevo suonato alcuni di questi pezzi ai ragazzi ma non sono mai finiti in uno dei nostri dischi. Allo stesso tempo, non ho tenuto per me canzoni che sarebbero piaciute ai membri delle mie band. Quando scrivo, ho già in testa se una canzone è più adatta ai Creed o agli Alter

Bridge. Tra i due progetti non c’è mai stata competizione, si tratta piuttosto di una sfida per renderli differenti. Myles e Scott sono due cantanti diversi, uno è un tenore e l’altro un baritono. La musica dei Creed, infine, è un po’ più commerciale rispetto a quella più sperimentale degli Alter Bridge”. I testi delle canzoni sono ovviamente molto personali, quasi a confermare il titolo dello stesso disco: “È inevitabile mettere molto di me stesso nel testo di una mia canzone, ma succede anche quando scrivo per le due band. Porto sempre brani con parti vocali che vengono giustamente rielaborate da Myles o da Scott. Sono da sempre convinto che un cantante debba cantare parole scritte da lui”.


Campus I Campus sono una giovane band screamo/core di Tessenderlo in Belgio. Il genere, come sapete, è parecchio inflazionato... e allora? Di Andrea Rock - foto Arianna Carotta

C

osa ci porta a parlare di loro? Innanzitutto la loro partecipazione come opener del live degli Every Time I Die nella data italiana del 29 agosto scorso; in secondo luogo la curiosità di capire come funzionano le cose in Belgio, che non è né l'Olanda, né la Francia. “Ci siamo tolti una bella soddisfazione quest'anno, suonando all'Hard Rock festival in compagnia dei gruppi ai quali ci ispiriamo come While She Sleeps, Gallows e Architects…”, ci racconta il cantante Martijn Leenaers. Avevo conosciuto Tuur, il bassista del gruppo, al GroezRock festival, in Belgio, ed ero rimasto impressionato dalla scena punk hardcore del paese. “Un punto a favore della nostra realtà è la vastità della scena DIY, più forte di quella olandese o di altri stati europei; l'ambiente è

compatto ed è molto supportato dai gruppi underground e da un pubblico attento alla scena locale”. Continua così Tijs Mondelaers (chitarra): “Non essendo un paese troppo vasto, la comunicazione è molto veloce; può capitare di suonare il venerdì con tre band e ritrovare due di quelle la sera successiva. C'è inoltre la possibilità di farsi conoscere prima attraverso i festival più piccoli, fino ad arrivare a realtà di livello internazionale come il GroezRock”. La band sottolinea anche l'aspetto “geografico” del Belgio: esiste un buon circuito di “venues” e sono tutte facilmente raggiungibili nel giro di poche ore. Il full length del gruppo dovrebbe vedere la luce tra febbraio e giugno. Sperando di riuscire a risollevare anche in Italia la filosofia DIY, diamo appuntamento ai Campus al 2013.

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PRIMO PIANO All in the name of A cura di Andrea Rock

T

K N U F A T A H W

NOME: ll'Emilia : Reggio ne A Z N IE N sco E PROV e voce), Bo o s s a (b a m as voce) LINE-UP: H (batteria e ) s u ri to re P na Records a g a (B (chitarra), re b otto in uscita a DISCO: EP sover e/funk/cros g n na, ru g : E R pers, Nirva p GENE e P i il h C a t E: Red Ho tta la music tu e ts a o b INFLUENZ ve And The Lo . Louie Loco 00 0 2 0 e inizio degli anni 9 funk.net www.whata

N W O D S E C ALL FA

NOME: tria) ienna (Aus V : ssner A Z N IE Roman Me ), e PROVEN c o (v r e hitarra), eorg Messn LINE-UP: G e), Alvin Ehrnberger (c er voc pher Stumm to s ri h C (chitarra e ), o scher (bass Florian Rau (batteria) 11) e truth” (20 th e c a “F : DISCO Metalcore To GENERE: Year, A Day e h T f O ry E: Sto INFLUENZ Remember sdown.com www.allface

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rock

roppi concerti in Italia. Possibile che un fan della musica come il sottoscritto abbia detto questo? Facevo questo ragionamento qualche settimana fa su Facebook e si è scatenato un pandemonio. A portarmi verso questa, a prima vista, assurda considerazione è stato il comunicato delle nuove date di Slash: dal giugno 2010 a ottobre 2012 sono sette le date del talentuoso ex Guns nel nostro paese (senza contare poi il featuring con Ozzy del Gods of Metal 2012, che farebbe salire a 8 il numero delle presenze). Mi sembrano un po' tante... e ve lo dice uno che è andato a vederlo 4 volte! Ma non soffermiamoci su Slash che è stato preso semplicemente come esempio. La mia considerazione parte dal fatto che quando ero più giovane, uno dei momenti che ricordo con più piacere era l'attesa per l'arrivo del mio artista preferito in Italia; in molte occasioni ho dovuto aspettare anni, in altre mi sono dovuto arrendere e sono andato all'estero (anche perché, magari, il gruppo in questione, in Italia non aveva mercato). Oggi le occasioni per vedere il proprio artista sono tantissime, forse addirittura troppe. Per spiegarmi meglio vi invito a riflettere su una serie di “contro” rispetto alle tante date di un determinato gruppo nello stesso paese. Le date si ripetono spesso nelle solite grandi città (Milano, Roma, Bologna, qualche raro esempio in Veneto) e quasi mai l'artista visita il Sud o le Isole (dove forse farebbe numeri elevatissimi in termini di pubblico); le date sono troppo frequenti, il numero di presenti diminuisce (e l'artista se ne accorge); il fan è obbligato a spendere veramente una somma ingente in un lasso di tempo circoscritto (vedi il fan dei Refused che ha speso un botto per vederli prima dei Soundgarden e adesso tornano in una data unica). Ma se per questo atteggiamento dovessimo colpevolizzare qualcuno, chi sarebbero? Le agenzie di booking italiane che rischiano di saturare il mercato o quelle d'oltreoceano che pagano oggi meno l'artista “in patria” (causa crisi) e lo costringono ad emigrare per ottenere cachet più gonfi?


DISCHI VIOLENTI

Tommy Massara (Extrema)

Di Daniel C. Marcoccia foto Emanuela Giurano

PRIMO DISCO COMPRATO:

Comprato, penso “Alive” dei Kiss, non ricordo benissimo ma era comunque dei Kiss.

ULTIMO DISCO COMPRATO: Tremonti, “All I was”.

DISCO CHE HA CAMBIATO LA TUA VITA: La mia vita è cambiata il giorno che ho ascoltato “Dynasty” dei Kiss.

DISCO SOPRAVVALUTATO:

Il “black album” dei Metallica. A parte la produzione assolutamente avanti per i tempi, pochissime idee.

DISCO SOTTOVALUTATO:

“Metal on metal” degli Anvil, band della quale molti si sono accorti per il recente docufilm che racconta la loro passione e la quasi impossibilità di riuscire a mettere in pratica le giuste strategie.

DISCO "BOTTA DI VITA":

DISCO DA VIAGGIO:

“All the right reasons”, Nickelback.

DISCO PER UNA NOTTE DI BAGORDI:

I Vio-Lence con “Eternal nightmare”.

DISCO DEL GIORNO DOPO:

“Back in black” degli AC/DC.

“Another perfect day” dei Motörhead.

DISCO "LASSATIVO":

DISCO CHE TI VERGOGNI DI POSSEDERE:

Alice In Chains, “Black gives way to blue”

DISCO PER UNA SERATA ROMANTICA:

Seratona romantica, assolutamente il “Best 1991/2004” di Seal.

DISCO SUL QUALE AVRESTI VOLUTO SUONARE: “Fabulous disaster” degli Exodus.

Una volta ho fatto la follia di comprare per curiosità un disco dei Backstreet Boys, “Millenium”... Una merda terrificante.

CANZONE CHE VORRESTI AL TUO FUNERALE:

Al mio funerale mi piacerebbe che suonassero “For those about to rock” degli AC/DC!!!

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PRIMO PIANO

ROYAL REPUBLIC Tutto Reale

Nel corso degli ultimi due anni i Royal Republic sono passati da band sconosciuta al di fuori dei propri confini a fenomeno internazionale. I quattro di Malmö tornano con "Save the nation", album che conferma ed eleva quanto noto. di Piero Ruffolo

L

a pubblicazione di "We are the Royal", disco di debutto presentato a fine 2010 (in Italia a gennaio 2011) ha segnato un nuovo inizio per Adam Grahn (voce e chitarra) e compagni, aprendo le porte di un mercato vasto ed eterogeneo e permettendo alla band di confrontarsi con blasonate e affini realtà. Oggi i Royal Republic presentano "Save the nation": progetto la cui genesi non è stata priva di incertezze e preoccupazioni.

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"Superato lo smarrimento iniziale, tornare in studio è stato davvero divertente". Ci spiega lo stesso Grahn. "Il piano originale prevedeva l'inizio dei lavori a dicembre e le registrazioni a gennaio, ma i precedenti impegni non ci hanno permesso di rispettare quanto fissato. Siamo tornati a casa a fine novembre, dopo quasi due anni on the road. Eravamo esausti e avevamo bisogno di una pausa, dovevamo ricaricare le batterie per poter affrontare al meglio la nuova sfida. A gennaio abbiamo iniziato a scrivere, senza ottenere alcun risultato: panico. Le ho provate tutte, ma nulla sembrava funzionare. Sono anche tornato a casa, dove sono cresciuto, nei luoghi che avevano ispirato 'We are the Royal'... niente da fare. Chiamavo periodicamente gli altri: 'Avete qualche idea? No? Bene, nemmeno io'. Poi la svolta. Ho scritto 'You ain't nobody ('til somebody hates you)' e 'Be my

baby' e da quel momento non ci siamo più fermati". Un inizio non dei più semplici, dunque, ulteriormente condizionato dalla consapevolezza di quanto ottenuto e dalle molte e conseguenti aspettative da parte di fan e critica. "Quando abbiamo pubblicato 'We are the Royal' nessuno al di fuori dei nostri confini aveva sentito parlare di noi. Da allora sono cambiate molte cose e non potevamo certo ignorarlo. Le attese per questa nuova prova erano molte, noi per primi volevamo scoprire fino a che punto potevamo spingerci. Per quanto riguarda la produzione, abbiamo deciso di limitare al minimo gli interventi digitali e di registrare tutto in presa diretta: raggiungiamo la massima espressione in sede live e volevamo avvicinarci il più possibile a questa dimensione anche su disco. Credo che 'Save the nation' mostri senza alcun dubbio chi siamo. Inutile girarci intorno: con 'We are the Royal'

abbiamo semplicemente cercato di suonare come le band che ci sono sempre piaciute. Oggi il nostro suono è maturo e identificabile. Forse non sarà il più originale in circolazione, ma è solo nostro e questo non si discute". Affrontare una simile evoluzione in così breve tempo non è semplice. Compiere il giusto cammino si dimostra essenziale e, senza rinunciare allo stile introdotto, "Save the nation" riesce nell'intento, sottolineando la cercata maturità. "Non abbiamo cambiato il nostro stile o il nostro modo di scrivere, semplicemente: siamo cresciuti. 'We are the Royal' è un disco diretto e non eccessivamente ragionato, 'Save the nation' è l'opposto. Parlare di carriera e considerare questo un lavoro mi sembra ancora assurdo. Ad ogni modo, siamo molto felici di come sono andate le cose e di quanto ottenuto, e speriamo lo siate anche voi!".


REPLOSION Con le proprie forze, gli emiliani Replosion sono arrivati a essere un’entità rispettata a livello globale. Merito di sacrifici e un ottimo debutto come “The Resting Place Of Illusion”. Di Giorgio Basso

I

I media, parlando dei Replosion, citano spesso il prog-metal come fonte artistica, definizione che sembra stare stretta ai diretti interessati, come ci spiega il tastierista Gabriele Marangoni: “I Replosion sono la sintesi di tutte le nostre passioni: il prog anni ’70 (ELP, Genesis), l’hard rock degli anni ’80 (Queen, Savatage) e il prog metal aegli anni ’90 (Dream Theater, Symphony X). A tutto questo si aggiunge la nostra personale reinterpretazione di questi mondi musicali, nella speranza che il nostro pubblico la apprezzi”. A

quanto pare, sono in molti ad averlo fatto con il loro debutto. La loro, però, non è di certo una storia recente visto che parliamo del 2000 come anno di nascita del progetto: “Il 2000 come ‘anno zero’ dei Replosion è fuorviante. In quel periodo nasce l’idea di fondare la band, nella quale io sono stato l’ultimo ad approdare. Attorno al 2005 abbiamo cominciato a mettere ordine a cinque anni di idee musicali e dopo un primo demo nel 2007, è cominciata un’intensa attività live, ma nel 2009 arriva la prima doccia fredda: la nostra sala prove venne incendiata. Perdemmo buona parte della strumentazione e, col morale sotto i tacchi, cominciammo a fare più lavori possibili per ricomprarli. Una volta riacquistato tutto, ci ritroviamo senza bassista. Per fortuna, dopo qualche mese, subentra Enrico col quale riusciamo a fare un’altra serie di live importanti che ci permise di investire nel nostro primo album ‘The resting place of illusion’”.

RIVELARDES

Forte di alcuni cambi di line-up e sonorità, il gruppo bresciano torna alla carica con un EP di tre brani ad alto tasso pop-punk. Incontriamoli per capire meglio cosa bolle in pentola nell'universo Rivelardes. Di Giorgio Basso

P

artiamo dalle presentazioni: “Il progetto Rivelardes prende piede nel 2005, arrivando l'anno successivo alla pubblicazione del debut 'Monkey's hours' e a dividere il palco con Hormonauts, Pornoriviste, Peter Punk e altri nomi noti della scena italiana. Nel 2010 è la volta di 'Fallen off disaster', pubblicato da Indiebox e distribuito persino sul mercato giapponese. Oggi, dopo anni di tour ed esperienze varie eccoci approdati in This Is Core Music con un nostro nuovo EP omonimo!”. “Rivelardes”, per l'appunto. Un tris di brani assai vario, che testimonia la volontà di questi musicisti di spingersi sempre oltre: “Anche nel precedente disco vi erano canzoni che strizzavano l'occhio all'emocore, al brit-rock e al classico punk-hardcore. Questo 'EP è un'anticipazione del nuovo disco al quale stiamo lavorando... Anche se abbiamo pronta qualche chicca che si discosterà parecchio da quello che abbiamo sempre fatto”. Ma parliamo delle nuove canzoni dell’EP: “Siamo abbastanza autocritici, cerchiamo sempre di fare cose semplici e al meglio. Non ci piace strafare, adoriamo rimanere comunque noi stessi. Abbiamo sempre dato più importanza alla melodia rispetto al testo di una canzone. In questi pezzi si parla soprattutto di stati d'animo, litigi, paranoie, relazioni finite o che stanno per finire, tradimenti, appuntamenti mancati... Sono testi abbastanza malinconici, ma cantati su una base aggressiva, come per dire che in fondo non frega nulla e si guarda avanti”. Chiudiamo con i prossimi appuntamenti targati Rivelardes: “In attesa del nuovo disco, abbiamo in cantiere un mini-tour per promuovere l'EP e la pubblicazione del video del singolo 'Tremble like afraid'. Inoltre stiamo progettando un tour europeo. Insomma, di carne al fuoco ce n'è parecchia!”.

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PRIMO PIANO

MY DYING

BRIDE

Naviganti oscuri

“La Sposa Morente” è tutto meno che in fin di vita! Il conto è aggiornato a dodici album in studio, ventidue anni di attività e tanti fan sparsi in tutto il globo. Niente male per una band dal sound difficile e ricercato… Di Luca Nobili

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ffidabile. Questo è uno dei primi aggettivi che mi ispirano i britannici My Dying Bride; una band che ha regalato al pubblico metal oltre vent'anni di ottima musica, con pochissimi passi falsi e una capacità innata di scrivere buona musica senza palesare alcuno sforzo. Ne parlo in un assolato mezzogiorno milanese con il cantante Aaron Stainthorpe e la giovane bassista Lena Abé, qui da noi in giro promozionale in attesa di tornare a farci visita a dicembre per due date del loro tour invernale. "Quando ho cominciato a suonare con i My Dying Bride avevo un obiettivo semplice e preciso: riuscire a pubblicare un album!" - mi racconta il simpatico e rilassato Aaron, personaggio molto lontano dallo stereotipo del cantante metal!

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- "pensavo che riuscire a vedere nei negozi un disco con il nostro nome stampato sopra sarebbe stato il massimo... e ci siamo riusciti. Il mio desiderio successivo fu di riuscire a suonare fuori dal mio paese... e dopo qualche anno l'abbiamo fatto. Quindi ho cominciato a fantasticare di fare un tour con una band di quelle enormi, tipo gli Iron Maiden... ed è successo! Credo che ora io e la band siamo in una posizione invidiabile: i nostri obiettivi ambiziosi li abbiamo raggiunti tutti ormai da anni, possiamo semplicemente fare quello che ci piace senza l'ansia di dover raggiungere qualcosa a tutti i costi. Insomma, ci possiamo godere la corsa senza patemi o stress”. "A map of all our failures", il nuovo album della band inglese in uscita a metà ottobre, è come da tradizione

un vero e proprio viaggio nei meandri del cupo e decadente immaginario doom del gruppo “perché vedo la nostra musica come un mezzo tramite cui i nostri fan evadono dalla realtà quotidiana verso un universo onirico. In particolare abbiamo scelto con cura il titolo in modo trasmettesse un feeling grigio e oscuro, ma allo stesso tempo generasse curiosità nell'ascoltatore. Ci piace pensare che i testi siano una parte fondamentale della nostra musica e che i fan leggano il booklet del CD immersi nell'ascolto. Personalmente non amo troppo i titoli brevi, non potrei mai concepire il titolo di un nostro album - o anche solo di una nostra canzone - composto da una sola parola... non avrebbe quel potere evocativo che è fondamentale per

i My Dying Bride”. Saranno anche una band dalla proposta musicale cupa e dal sound oscuro, ma lo scorso gennaio i My Dying Bride, insieme ad altre band del panorama metal mondiale, hanno preso parte alla crociera "70,000 tons of metal", cinque giorni ai Caraibi che “sono stati un'esperienza incredibile, ed un modo bellissimo per stare in contatto con i fan” - racconta entusiasta la bassista Lena, nella sezione ritmica del gruppo ormai dal 2006 - “c'era questa enorme nave da crociera contenente duemila ragazzi impazziti e decine di band heavy metal, musica live tutti i giorni dalle 12 alle 3 del mattino... perfino il metal karaoke!! Se avrai mai la possibilità di partecipare a qualcosa del genere fallo, ti posso assicurare che non te ne pentirai”.


A cura di Michele Zonelli

WEBZONE

HI-TECH

ALLTIMELOW.COM

Il sito degli All Time Low si rinnova per assolvere il semplice compito di vetrina e affidare la comunicazione diretta ai classici social network. Una scelta adottata ormai da molti e nelle corde della band già da tempo, visti gli scarsi aggiornamenti riservati alla precedente versione. È interamente incentrata su "Don't Panic" l'unica pagina (ora) attiva, dove troneggia un video di presentazione e da dove è possibile ordinare bundle di svariata natura dedicati all'album. Per tutto il resto, non resta che affidarsi a Facebook, Twitter e affini. Design: 4 Accessibilità: 4 Contenuti: 2 Pro: Essenziale e mirata Contro: Inutile se non si vuole prenotare il disco

MIIA TOUCH TAB7 L'azienda italiana Miia, specializzata nella realizzazionie di accessori per dispositivi Apple, Nintendo, Samsung e universali, debutta nel mercato dei tablet con il Touch TAB7. Robusto, leggero e dal

PEARLTREES.COM

SERJTANKIAN.COM

Di servizi che offrono la possibilità di catalogare segnalibri, prendere note, salvare contenuti online e via dicendo ne esistono molti e Pearltrees rientra nella categoria, ma si distingue grazie a gestione e impatto. Il portale permette di salvare quanto ci interessa, da link a immagini, passando per note e video. A fare la differenza: come tutto è mostrato e catalogato. Pearltrees si avvale di una visualizzazione ad albero tramite la quale è facile e intuitivo richiamare contenuti, creare collegamenti e avere ogni cosa a portata di click. Design: 4 Accessibilità: 5 Contenuti: 5 Pro: Visualizzazione intuitiva e di facile assimilazione Contro: Presente da anni ma poco conosciuto

Serj Tankian si dimostra attento al popolo della Rete e offre uno spazio web ricco di contenuti e utili informazioni. La grafica richiama l'album (senza sprecarsi troppo, in realtà), ma non è questo che interessa particolarmente. Tramite le molte pagine attive, è possibile ripercorrere le tappe fondamentali della carriera di Tankian e, sebbene la bio sia legata a "Harakiri", accenni al passato non mancano. Sotto la voce Projects ritroviamo tutti i progetti vicini al cantante, sia personali sia collaborativi. Chiudono Community e Board: classico forum per i fan. Design: 2 Accessibilità: 4 Contenuti: 4 Pro: Molte le informazioni proposte Contro: Testi a schermo non sempre facili da leggere

TONYSLY.ORG

La prematura e triste scomparsa di Tony Sly ha inevitabilmente scosso il mondo della musica. Amici, fan, appassionati di vecchia data ed estimatori dell'ultima era hanno affidato pensieri e parole al web, in un tributo in grado di andare oltre quello che può essere il lascito musicale dell'artista, dipingendo una persona unica e sincera. La necessità di raccogliere e spartire le personali esperienze legate a Sly e alle sue produzioni, ha portato al debutto online di TonySly.org. A fronte della natura del progetto, ogni aspetto puramente tecnico ed estetico passa in secondo piano. Gli autori si sono (giustamente) preoccupati di includere sezioni all'interno delle quali ritrovare notizie legate alla vita artistica e personale dell'artista, gli album, i video, le foto, la musica... ma il vero fulcro resta la pagina Stories: una sorta di blog tra le cui righe gli utenti (previa autenticazione) hanno la possibilità di raccontare, condividere e commentare le personali riflessioni. Presente anche un canale dedicato alle donazioni, per chi volesse aiutare economicamente la famiglia e le figlie di Sly. La speranza è che il sito

design minimalista, il TAB7 presenta uno schermo touch-screen da 7 pollici, con retroilluminazione a LED e orientamento automatico (G-Sensor), sistema operativo Android 4.0, webcam e microfono incorporati (con supporto a chat e chiamate Skype), uscita HDMI, porta mini USB (predisposta per chiavette 3G) e connessione wi-fi. Tutto questo disponibile al prezzo più basso dell'attuale mercato di riferimento (143,00 € iva inclusa). www.miiastyle.com BOSE SOUNDLINK AIR Sinonimo di qualità e prestazioni sopra la media, Bose presenta il SoundLink Air: suo primo prodotto compatibile con la tecnologia Apple AirPlay. Progettato per performance ottimali, il nuovo SoundLink

non passi inosservato, per essere poi dimenticato col trascorrere del tempo... come spesso accade. R.I.P. Tony. Design: 3 Accessibilità: 4 Contenuti: 5 Pro: Un luogo per tutti i fan di Sly Contro: Visto il motivo, forse non avremmo mai voluto vederlo online

incorpora la tecnologia proprietaria per speaker a guida d'onda, trasduttori al neodimio e sistema di gestione del segnale digitale. Grazie al supporto AirPlay è possibile riprodurre brani tramite qualsiasi dispositivo Apple (o computer con iTunes) in completa libertà utilizzando la propria rete wireless. I componenti impiegati, infine, garantiscono una riproduzione accurata e senza distorsioni, a qualsiasi frequenza e volume. www.bose.it

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mixer

FRED ARCHAMBAULT Questo mese inauguriamo una nuova rubrica dedicata ai produttori, personaggi di peso nella realizzazione di un disco. Il primo che abbiamo incontrato, direttamente nel suo studio di Los Angeles mentre stava ultimando il nuovo lavoro dei Living Dead Lights, è Fred Archambault. Nel suo curriculum: Avenged Sevenfold, Death By Stereo, Lostprophets… Di Daniel C. Marcoccia (thanks to Barbara Giovinazzo) - foto Ricky Monti

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Qual è il tuo background? Credo che tutto sia iniziato all’età di 10 anni. Non ero uno sportivo, non ero molto popolare a scuola, ero uno studente nella media, né bravo, né pessimo. A quell’età ho iniziato a suonare la chitarra, senza sapere cosa fosse un produttore, un tecnico del suono, un manager o un’etichetta discografica. A quell’età ti interessano solo i tuoi gruppi preferiti e cerchi di emularli. La prima grossa botta l’ho avuto con “Appetite for destruction” dei Guns N’ Roses. In quel disco c’erano l’energia del rock’n’roll e molte influenze che sono andato poi a cercare. Ho quindi suonato in alcuni gruppi ho assaporato la vita della band, suonare dal vivo e andare in giro con il furgone. Quest’esperienza mi permette oggi di capire i musicisti, i loro dubbi e le loro incertezze. È stato invece al college che ho avuto l’opportunità di entrare in uno studio di registrazione e lì ho capito che se non fossi diventato una rockstar, sarei rimasto comunque attaccato a questo mondo facendo il produttore. Come e quanto pensi che sia cambiato il ruolo del produttore in questi anni? Parecchio, soprattutto perché è cambiata l’industria discografica. Ci sono meno budget a disposizione e di conseguenza, oggi, devi essere anche un abile compositore, un buon tecnico e un bravo fonico. Devi sapere fare un po’ tutto mentre prima i ruoli erano molto più definiti. Ogni progetto poi è diverso. Ritengo di essere ancora agli inizi, anche se sono già 14 anni che faccio questo lavoro. Il produttore deve capire la band, la sua anima e cercare di

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realizzare quelle che sono le sue idee. Alla fine, ritengo che siano le grandi canzoni e le grandi band a fare i grandi dischi. Mi sento come un regista o, nel mixare un disco, un pittore: ho già una visione di come deve diventare una canzone o un album e quindi cerco i colori che mi porteranno al risultato finale. Cosa ti interessa di una band per decidere di lavorarci assieme? Prima di tutto le canzoni. E poi capire qual è l’intento del gruppo con quel disco, il suo obiettivo. Mi è capitato di rimpiangere alcune scelte fatte, perché alla fine non lavori bene e si creano anche delle tensioni con i musicisti. Ti rendi conto che non ci metti il cuore. Sono cose che capitano, come il fatto che una band non ami il tuo modo di lavorare. Questo non mi impedisce comunque di ascoltare e amare i dischi che hanno fatto dopo. Le cose, a volte, vanno male quando tu ti aspetti troppo da un artista o viceversa, e questo crea soprattutto uno stato di frustrazione. Quando lavori con i ragazzini, poi, devi essere molto gentile con loro; è capitato di vederne qualcuno piangere e ti senti male, magari perché pensi ai tuoi figli nella stessa situazione. Poi pensi che alla fine li aiuterà a crescere (ride). Quale artista ti ha sorpreso di più? Wow, questa è una domanda difficile. Credo alla fine di essere rimasto sorpreso dal successo commerciale del primo disco degli Avenged Sevenfold che abbiamo fatto, ovvero il loro secondo lavoro “Waking the Fallen”. Mai, lavorandoci, avevamo pensato che sarebbe diventato così popolare. Le canzoni erano lunghe, con un suono particolarmente aggressivo. Ma i fan amano quel disco, è davvero impressionante perché non è mai passato in radio e poco su Mtv. Ha però creato quel fan-base che non li abbandonerà mai. Un’altra cosa bella è capitata con un grande artista, Brandon Saller, batterista e secondo cantante degli Atreyu. Ha dato vita a un progetto parallelo chiamato Hell Or Highwater e nel loro disco c’è un brano intitolato “Tragedy”, dedicato a un suo amico scomparso tragicamente. E in quel periodo avevo anch’io perso un amico in maniera simile, ovvero Jimmy “The Rev” degli Avenged Sevenfold, ed è stato commovente ascoltare quella canzone.


A cura di Michele Zonelli

TRANSFORMERS LA CADUTA DI CYBERTRON

X360/PS3/PC High Moon Studios/Activision Cronologicamente antecedente alle ultime vicende narrate su grande schermo, "Transformers La Caduta Di Cybertron" riporta in primo piano i momenti più cupi della guerra tra Autobot e Decepticon. In un pianeta il cui avvenire è ormai segnato, affronterete epiche battaglie ed esplorerete ambienti post apocalittici vestendo i panni di vecchie e nuove (per il mondo videoludico) conoscenze. Gameplay unico per ciascun personaggio e un inedito editor fanno il resto.

PES 2013

X360/PS3/PC Konami/Halifax Con l'inizio della nuova stagione calcistica molti sono gli appuntamenti che si rinnovano e tra questi non può mancare quello con il noto prodotto Konami. Come di consueto, "PES 2013" riprende quanto visto in precedenza e lo amplia introducendo nuove e interessanti feature. Tra queste, il "PES Full Control" (potrete controllare manualmente tutti i passaggi e i tiri) e la "Pro Active AI" (pronta ad assicurare movimenti sempre più vicini alla realtà).

ROCKSMITH

Piattaforma: X360/PS3/PC Produttore: Ubisoft Genere: Musica Protagonisti di un'ascesa in grado di portare importanti rivoluzioni e aprire la strada a innovative soluzioni, i videogiochi musicali sono lentamente passati in secondo piano, complice una necessaria e mai giunta rivisitazione. Un destino che sembrava ormai certo... fino a oggi. Pronti a rimettere tutto in gioco (è il caso di dirlo), i responsabili di casa Ubisoft hanno deciso di puntare nuovamente sul brand. Come detto, per tornare in auge erano necessarie soluzioni inedite e decise. In cosa si differenzia, dunque, "Rocksmith" dai suoi predecessori? Semplice: niente più controller studiati ad hoc ma una vera chitarra, la vostra chitarra (o basso). Questo è possibile grazie al

games

Real Tone Cable: cavo ideato dagli sviluppatori (e incluso nel gioco) il cui compito è quello di convertire il segnale della chitarra da analogico a digitale, permettendone l'amplificazione tramite TV (o impianto stereo) senza perdere la qualità del suono. Il titolo va oltre il semplice aspetto ludico. Per ottenere i cercati risultati, infatti, non è necessario essere musicisti provetti. "Rocksmith" è in grado di adattarsi alle vostre capacità e di offrire un percorso formativo che vi accompagnerà dal primo accordo alla completa indipendenza musicale (con la possibilità di suonare senza alcuna indicazione a schermo). Anche gli effetti sono stati presi in considerazione e suoni e distorsioni dei più famosi pedali e amplificatori sono qui riprodotti al meglio. 50 i brani presenti al momento del lancio, per una raccolta pronta ad abbracciare svariati generi (punk, rock, metal, funk) e riproporre successi di artisti come Nirvana, Muse, Rolling Stone, Lenny Kravitz e Radiohead.

TEKKEN TAG TOURNAMENT 2

X360/PS3/Wii U/PS Vita Namco Bandai Costola di una delle serie più amate dagli appassionati di picchiaduro, "Tekken Tag Tournament" giunge al secondo capitolo. Raccolti tutti i personaggi delle passate edizioni, per una rosa che rasenta i 60 lottatori, il progetto si presenta in grande forma, elevandosi dal ruolo di semplice spin-off e offrendo un'esperienza completa e divertente. Da segnalare: supporto a 3D e "Tekken Tunes" (possibilità di caricare i propri file audio nella colonna sonora).

BORDERLANDS 2

Piattaforma: X360/PS3/PC Produttore: Gearbox Software/2K Games Genere: GDR/Sparatutto in prima persona Creduto morto e abbandonato nella tundra ghiacciata di Pandora inizierete un lungo cammino volto a vendetta e redenzione: così avrà inizio la vostra avventura in "Bordelands 2". Sequel di uno dei più blasonati e appassionanti giochi del 2009, la nuova fatica promossa da 2K Games non teme in alcun modo il confronto con il passato, dimostrando una maniacale cura dei particolari e un continuo desiderio di crescere e stupire. Lo stile grafico si mantiene pressoché inalterato, forte delle migliorie offerte dalle nuove tecnologie e da mirate scelte operate dagli sviluppatori di Gearbox Software. Se da un lato fa piacere ritrovare tutto quanto abbiamo amato, dall'altro fa ancora più piacere scoprire le molte e interessanti novità. Riviste e ampliate, classi e specializzazioni offrono infinite soluzioni e peculiarità uniche e ben distinte il cui sviluppo (soprattutto per le skill più letali) richiederà non poca dedizione. La crescita del personaggio e l'assegnazione dei punti esperienza amplierà di molto le possibilità di sviluppo del gameplay. Le armi a disposizione sono pressoché illimitate e il loro

utilizzo sarà condizionato unicamente dalla vostra fantasia. I nemici si fanno ora più forti e agguerriti, e i giocatori più accaniti troveranno finalmente pane per i loro denti, come dimostra la presenza dei Raid Boss (antagonisti dalla forza immensa che potranno essere sconfitti solo da gruppi di giocatori ben organizzati e al massimo livello). Vestire i panni di uno dei quattro cacciatori della Cripta ed eliminare una volta per tutte lo spregevole direttore dell'Hyperion Corporation: questo il destino che vi attende.

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crazy net

A cura di Michele Zonelli

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Il te con gli amici... detto così suona decisamente poco rock'n'roll. Ma se proprio non riuscite a rinunciare all'appuntamento delle cinque, vi proponiamo la linea Sugar Cube Skull di Dem Bones, un'elegante alternativa alle classiche zollette. www.etsy.com/shop/ dembones

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ALL TIME LOW

Alex Gaskarth non è solo un “belloccio” coi tatuaggi che suona in un gruppo cool, ma è anche una persona divertente che sa stare allo scherzo senza trovarsi in imbarazzo. Lo abbiamo “acchiappato” al telefono dopo un soundcheck per fare una chiacchierata sugli All Time Low, sul loro nuovo disco, del ritorno alla Hopeless Records dopo la parentesi major e parecchio altro. Di Alex de Meo & Stefano Russo - foto Emanuela Giurano

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bbiamo letto alcune tue dichiarazioni in cui sostieni che “Don't panic” è sostanzialmente il riassunto della vostra esperienza con i dischi precedenti... Alex Gaskarth (voce/chitarra): Quello che abbiamo cercato di fare è stato prendere l'energia e in qualche modo anche l'innocenza dei vecchi lavori per capire cosa di noi è piaciuto alla gente in questi anni. Abbiamo in qualche modo unito quello che abbiamo fatto nei primi dischi con un po' della maturità acquisita dopo gli ultimi due lavori. Credo sia davvero un ottimo album, sicuramente più coerente con quello che vogliamo essere. Fingendo che tu non sia il cantante del tuo gruppo ma un dipendente di Hopeless Records, come cercheresti di vendere il tuo nuovo disco? Come ci convinceresti a mettere gli All Time Low sulla copertina della nostra rivista? A.G.: Mi volete mettere subito in difficoltà?! Non ho mai dovuto vendere un prodotto in questo modo. Pensandoci bene, direi sicuramente che uno dei motivi principali perché gli All Time Low funzionano sono i nostri live. Allora direi: andate a vederli dal vivo e vi convincerete subito! Mi piace pensare che siamo in grado di mettere in piedi un tipo di spettacolo che sia una sorta d’ispirazione per la gente che ci vede. Perché allora, a questo punto, non pensare di fare solamente dischi live? A.G.: Certo, sarebbe interessante, però effettivamente credo che per un gruppo ci sia sempre qualcosa da dire in studio, ovvero poter presentare una canzone nella maniera più pulita possibile, come se fosse vestita per un matrimonio. In un concerto la canzone sarebbe un po' più con la barba di un paio di giorni, un po' sciatta, magari più in versione festaiola. Parliamo sempre del disco, ma soprattutto del

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stadio

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ALL TIME LOW vostro ritorno in Hopeless dopo essere stati su major: siete stati voi ad andarvene o di fatto siete stati “cacciati” da loro? A.G.: Semplicemente ce ne siamo andati: avevamo un contratto che prevedeva un disco solo e poi l'opzione di rimanere o andarcene. A dicembre dello scorso anno è scaduto l'accordo e abbiamo deciso di lasciare, anche perché era da tempo che parlavamo con loro del fatto che non eravamo molto felici di come andavano le cose e che non sentivamo assolutamente che il rapporto con loro fosse “sano e salutare” per entrambi. Tornare con Hopeless ci sembrava decisamente la scelta migliore: la cosa fantastica è che abbiamo fatto il disco di fatto senza un'etichetta e una volta finito, ci siamo ritrovati a parlare con loro e siamo rimasti colpiti dall'entusiasmo che hanno subito mostrato. C'erano altre opzioni ma alla fine sono certo che abbiamo preso la strada giusta: il problema con la major era il fatto che non ci sembrava credessero più di tanto nel disco, mentre con i ragazzi di Hopeless è sempre stato l'esatto contrario. Ci sono diverse collaborazioni su questo disco, ma quella che ci ha incuriosito di più è quella con Jason Vena, cantante degli Acceptance. Sapevamo che ormai si era ritirato dalla vita di musicista, nonostante avesse fatto grandi cose con quel gruppo: come avete fatto a tirarlo dentro? A.G.: Abbiamo incontrato Jason attraverso Sean degli Yellowcard a Seattle, dove lui vive, e siamo diventati velocemente amici. Cazzeggiando assieme un paio di volte durante il nostro tour con gli Yellowcard, ci siamo trovati abbastanza bene da proporgli un po' a sorpresa di cantare su “Outlines” e lui ha accettato subito dopo aver sentito il pezzo. Inutile dire che la cosa è stata entusiasmante, perché tutti noi siamo grandi fan degli Acceptance e io, soprattutto, da cantante, l'ho sempre apprezzato particolarmente. Hai appena nominato gli Yellowcard. Il giorno dopo la notizia della morte di Tony Sly avete suonato assieme a loro una cover dei No Use For A Name. Vi sarà certamente capitato di incontrare Tony in passato: quanto ha significato per voi la sua musica? A.G.: In realtà non ho mai avuto occasione di incontrarlo, ma sicuramente sono cresciuto coi No Use For A Name, che hanno influenzato tantissimo i nostri gusti e soprattutto anche il nostro approccio verso la musica quando abbiamo iniziato a suonare assieme. Per gli Yellowcard la cosa è stata anche più grande, perché hanno fatto uno dei loro primi tour importanti proprio con i NUFAN. Sicuramente è stata una di quelle cose che ci andava di fare perché entrambe le band sono state parecchio ispirate da lui e dalla sua musica: per noi è stato importante testimoniare il fatto che Tony ci ha lasciato qualcosa di così bello come la sua arte. Passando a un argomento decisamente più “leggero”, ti volevamo chiedere una cosa molto semplice riguardante l'Italia: cosa ti piace e cosa non ti piace del nostro Paese? A.G.: In realtà non c'è molto che non mi piaccia. Probabilmente non mi piace il fatto di non aver mai potuto vedere molto dell'Italia: stare in tour vuol dire perdersi parecchio dei luoghi che si visitano e sicuramente in Italia ci sono tantissimi posti che vorrei vedere, ma che non sono mai riuscito a raggiungere. Quello che mi piace è la gente: sappiamo che il pubblico italiano non è

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così propenso ad ascoltare i gruppi di supporto e quando abbiamo suonato prima di Vasco Rossi, che ha un seguito pazzesco in Italia, ci siamo un po' preoccupati, perché sapevamo che alla gente non fregava niente di noi quel giorno. A quel punto ci siamo resi conto che il modo per venirne fuori era “lottare” per farci apprezzare dal pubblico e il fatto di esserci, anche se solo in parte, riusciti è stato un grosso risultato: la soddisfazione di ricevere dei consensi anche da un pubblico ostico è una di quelle cose che mi ha fatto apprezzare l'Italia. Quando poi siamo tornati di recente per suonare coi Green Day ci siamo accorti di aver fatto certamente dei gran passi avanti.

po' più tranquilli, ma ci rendiamo conto di avere tanta fortuna nel poter fare questo lavoro. Alle volte mi ritrovo a pensare a quanto sono ingrato rispetto a quello che ho: dovremmo sempre tenere a mente quanta buona sorte ci sia dalla nostra parte.

Sei sicuro di non dare la stessa risposta ai colleghi tedeschi o francesi? A.G.: Ve lo giuro! Direi la stessa cosa forse solo agli spagnoli, che sono “caldi” almeno quanto voi.

Qual è la domanda che vi fanno sempre e alla quale vi siete stufati di rispondere? A.G.: Non so come mai, ma ci chiedono sempre come ci prepariamo prima di salire sul palco. In tutta onestà vorrei poter dire che facciamo cose pazzesche ma di fatto non facciamo niente di che: cazzeggiamo, beviamo qualcosa e poi saliamo sul palco. Di fatto è come chiedere a una persona che cosa fa prima di andare a lavoro: ti dirà che si alza, si lava i denti e si prepara. Mi chiedo se qualcuno davvero si aspetta che diciamo che sacrifichiamo delle capre, spariamo a qualcuno o bruciamo delle gomme.

Domanda un po' stupida: c'è un altro gruppo che si chiama All Time Low e che ha depositato il proprio nome e vi chiede di cambiarlo. Come lo cambieresti? A.G.: Cambierei il nome in Fuck You All Time Low. Probabilmente non faremmo successo ma ci toglieremmo la soddisfazione di mandarli a fare in culo. Se dovessi menzionare un frontman che ti ha sempre ispirato come performer che nome ti viene in mente? A.G.: Così, al volo, me ne vengono in mente quattro: Iggy Pop, Freddie Mercury, Billie Joe Armstrong e Dave Grohl. Tralasciando Freddie Mercury per più o meno ovvi motivi, hai avuto occasione di incontrare gli altri tre? A.G.: Purtroppo non ho mai incontrato Iggy Pop. Sono riuscito a fare due chiacchiere con Dave durante qualche festival e Billie Joe è stato sempre molto gentile quando abbiamo recentemente suonato coi Green Day in Europa. È davvero una gran persona. Ti senti fortunato a fare questo mestiere? Ti consideri un musicista o semplicemente uno che suona in un gruppo che, guarda caso, è anche abbastanza conosciuto? A.G.: Bella domanda... Direi entrambe le cose: mi considero sicuramente un musicista e sono molto orgoglioso dei brani che scrivo e sono veramente felice di saper scrivere, però è ovvio che ci voglia anche tanta fortuna ad avere successo come musicista. Ti capita mai di sentirti stressato, magari durante un tour, e pensare che alla fine è sempre meglio che svegliarsi alle 5 di mattina per andare in fabbrica a lavorare? A.G.: Sicuramente sì. Tante volte siamo in tour per mesi e magari l'unico pensiero è quello di tornare a casa per stare un

Hai mai detto una bugia durante un'intervista? A.G.: Una volta ho raccontato che stavo uscendo con Taylor Swift, cosa assolutamente non vera. La notizia è stata anche pubblicata perché qualcuno ci ha creduto: in tutta onestà l'ho fatto solo per attirare la sua attenzione, ma purtroppo non mi ha mai cagato! Però ammetto che ci sto ancora provando con lei.

Concludiamo rapidamente: tre domande per nove risposte. Senza questi tre dischi non esisterebbero gli All Time Low: A.G.: “Enema of the state” dei Blink 182, l'album omonimo dei Foo Fighters e “Dookie” dei Green Day. Senza questi tre film Alex non sarebbe un uomo: A.G.: “Il quinto elemento”, “Alla ricerca di Nemo” e “Bad Boys”. Senza questi tre Paesi il mondo sarebbe un luogo peggiore: A.G.: Il Regno Unito, perché sono nato lì, poi l'Italia e il Giappone. E gli Stati Uniti? A.G.: Mmm, no! Il mondo starebbe benissimo anche senza gli Stati Uniti.


“Quando abbiamo suonato prima di Vasco Rossi, che ha un seguito pazzesco in Italia, ci siamo un po' preoccupati, perché sapevamo che alla gente non fregava niente di noi quel giorno”

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ARCHITECTS Anno zero per la band inglese, tornata all’antico splendore dopo un album poco esaltante (a detta loro) come “The here and now” e mai così schierata contro capitalismo e società odierna nel nuovo “Daybreaker”. Di Eros Pasi - Foto Tom Barnes

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ualità e continuità. Due termini molto cari agli Architects, mosca bianca in una scena – quella alternative britannica – dove apparire sembra essere la parola d’ordine. Band come i Bring Me The Horizon hanno fatto la loro fortuna anche attraverso tatuaggi e look trasgressivo, modo di operare in totale contrapposizione rispetto a quello del quintetto di Sheffield. Da musicisti a 360° quali sono, Sam Carter e soci vedono nella musica la propria visione di felicità, alimentandola a furia di ottime produzioni e live in tutto il mondo, il tutto tenendo un profilo basso nonostante la fama non manchi. Un gruppo vecchia scuola? Nell’attitudine potremmo tranquillamente dire di sì, così come nel modo di concepire musica. Sperimentare sembra essere il loro imperativo, ogni produzione targata Architects deve infatti saper stupire, poco importa se le vendite siano all’altezza delle aspettative o meno, il lato artistico viene prima di tutto, come ci spiega il chitarrista Tom Searle, interpellato per questa intervista. L’idea che si ha dopo aver ascoltato “Daybreaker” è che per gli Architects, dopo anni di ricerca sonora, sia giunto il momento di avere delle basi solide sulle quali costruire il futuro. Sei d’accordo? Tom Searle (chitarra): È un percorso iniziato con “Hollow crown” che non ha avuto sviluppi con il suo successore “The here and now” e che invece è ripreso con “Daybreaker”. Con questo non sto rinnegando “The here and now”, ma semplicemente quel disco non ha soddisfatto le nostre attese e quelle dei nostri fan, pur avendo al suo interno alcuni brani che potrei definire semplicemente perfetti. Quando iniziammo a pensare al suo successore la prima considerazione generale fu quella che dovevamo riprendere il discorso aperto in “Hollow crown” e così è stato. Un viaggio a ritroso nel tempo quindi? T.S.: Sì, direi proprio di sì. Quando parlavamo di questa nostra scelta con altri musicisti, tutti ci davano per pazzi, in quanto effettivamente a mente sgombra non è semplice andare a riprendere soluzioni sonore datate e renderle poi moderne e adatte al mood odierno di una band. Ma ognuno di noi ama il suo lavoro, comporre musica è il nostro hobby principale, adoriamo creare riff e passare nottate davanti a un computer per ascoltare e modificare il tutto. Ci siamo presi tutto il tempo necessario per non fallire, incuranti delle pressioni esercitate dai fan e dalle continue novità apportate dalle nuove leve alla scena alternative. L’aiuto di John Mitchell e Ben Humphreys degli Outhouse Studios (entrambi produttori del nuovo disco – nda) è stato fondamentale, in quanto hanno creduto nelle nostre idee fin dall’inizio, aiutandoci a esplorare nuovi lidi e a essere sempre

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SOCIET


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ARCHITECTS

convinti che quella era la strada giusta da percorrere. Iniziammo a pensare a “Daybreaker” nel luglio 2010, lavorandolo nel 2011 e arrivando a registrarlo nel gennaio 2012. Un lasso di tempo imponente rispetto ai ritmi di una qualsiasi band odierna. Altra “novità” - se così possiamo definirla – è rappresentata dai testi, mai così impegnati… T.S.: “Daybreaker” è un disco volutamente socio-politico. L’obiettivo era esprimere in maniera cristallina il nostro sgomento, senza paletti. Affrontare certi temi a cuor leggero è molto semplice e credo lo faccia

buona parte delle band che si etichetta “impegnata”. Noi non abbiamo mai voluto far parte di nessuna categoria, ancor meno oggigiorno ma sentivamo il bisogno di esprimere concetti che sfortunatamente ci fanno incazzare ogni giorno da qualche tempo a questa parte… Come la maggior parte delle persone, siamo stufi di tutto ciò che ci circonda: capitalismo, religioni, istituzioni, politica e tutto il sistema in sé. Quanto siete cambiati dall’esordio a oggi? T.S.: Moltissimo. Potrei quasi dire che siamo due band diverse. La foga e la fame di venire allo

“Come la maggior parte delle persone, siamo stufi di tutto ciò che ci circonda: capitalismo, religioni, istituzioni, politica e tutto il sistema in sé” 26 RockNow


scoperto degli esordi hanno lasciato posto alla meditazione e allo studio di ogni aspetto legato alla band. Oggi siamo una sorta di macchina, che va oliata e controllata con cura di tanto in tanto per girare sempre ai massimi regimi.

La miglior band inglese? T.S.: Domanda complessa. Personalmente credo che a livello artistico Coldplay e Muse rappresentino il must per ogni musicista e amante di musica.

Il primo videoclip estratto da “Daybreaker” è esempio lampante dei vostri intenti nei confronti della società odierna, come è nato? T.S.: Il video di “Alpha Omega” credo riassuma i motivi per i quali siamo atei. Quando parlammo a riguardo con il regista Stuart Birchall, la prima considerazione fatta fu quella che non volevamo un clip ricco di dettagli o effetti speciali, il testo doveva essere protagonista assoluto perché descrive le mie/nostre idee. Il capitalismo fatto di manager allo sbaraglio ha esasperato la popolazione mondiale, portando distruzione. Le religioni hanno causato, causano e causeranno guerre, con il risultato che milioni di innocenti si troveranno in mezzo a faide senza senso, creando odio e divisioni… Cose inconcepibili se si tratta di religione no?! Le persone convivono ogni giorno con il terrore: povertà, malattie, guerre… una situazione orrenda.

La scena alternative britannica da qualche anno gode di notorietà grazie a band costantemente sulla cresta dell’onda. A cosa dobbiamo questo successo? T.S.: Non saprei… Però è un dato di fatto che oggigiorno la nostra scena sforni band qualitativamente eccelse, al punto da essere a mio avviso superiore alla scena statunitense. In Gran Bretagna i giovani amano la musica e se la ami è logico volersi cimentare in un progetto personale.

C’è una band che a vostro avviso ha influenzato “Daybreaker”? T.S.: Non credo… Ma in generale potrei citarti Pink Floyd e Dillinger Escape Plan, gruppi che amiamo da sempre.

Quali band inglesi ti senti di consigliare? T.S.: Heights e Lower Than Atlantis. Due grandissime band a mio avviso, assai diverse tra loro ma ugualmente capaci di emozionare e creare ottima musica. Un messaggio per i lettori di RockNow? T.S.: In autunno saremo quasi sicuramente in Italia, incrociamo le dita. Amiamo il vostro Paese e soprattutto il modo con il quale il pubblico italiano ci segue nei nostri show. Per il resto fatevi sentire e combattete per i vostri ideali.

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Con tre dischi in arrivo da qui a gennaio, nei prossimi mesi sarà piuttosto difficile per tutti non imbattersi nelle facce di Billie Joe, Mike e Trè. Nell’attesa di scoprire canzone per canzone quest’ambiziosa trilogia, eccovi una rinfrescata sulle cose da sapere a proposito della più importante punk band del pianeta. Di Stefano Russo

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H B I C J D k E L F M g A - American idiot: se i Green Day oggi sono una delle più grandi band del mondo, il merito è anche di questa pietra miliare targata 2004. Quando tutti ormai li davano per finiti, Billie Joe e soci mettono da parte masturbazione e apatia e si reinventano in chiave socio-politica, dando alle stampe quello che è a tutti gli effetti uno degli album più importanti del decennio scorso e tornando ad essere, a dieci anni di distanza da “Dookie”, la band sulla bocca di tutti.

H - Holden Caulfield: “The catcher in the rye” (meglio noto da noi come “Il giovane Holden”) è un romanzo generazionale, scritto da JD Salinger, che colpisce a tal punto un Billie Joe in piena fase tardoadolescenziale da fargli scrivere una canzone sul protagonista. Canzone, questa, che prenderà il titolo di “Who wrote Holden Caulfield?” e che ancora oggi viene ripescata piuttosto di frequente durante i live, quasi sempre presentata come “il mio pezzo preferito da ‘Kerplunk’”.

B - Billie Joe Armstrong: il timido adolescente nato nell’angolo sbagliato della California, poco incline allo studio e molto impacciato con le ragazze, che ha conquistato il mondo con una chitarra e una manciata di accordi. Cosa raccontarvi che non sappiate già? La firma sulla quasi totalità dei brani dei Green Day è la sua, così come suo è il carisma che ne ha fatto uno dei migliori frontman di sempre dal vivo. Devo continuare?

I - Insomniac: quando pubblichi un album come “Dookie”, il disco successivo può diventare un vero problema. “Insomniac” arriva sugli scaffali dei negozi solamente un anno e mezzo dopo il suo fortunato predecessore e, nonostante il suo sound più ruvido e le sue liriche più cupe (dovute in gran parte a diverse vicissitudini della vita privata della band), viene accolto piuttosto bene da critica e pubblico. Anche se oggi viene quasi del tutto snobbato dal vivo, rimane comunque il disco più strettamente punk della loro discografia nonché il più venduto dopo “Dookie” e “American idiot”.

C - Cigarettes and Valentines: aka la leggenda del disco scomparso. La storia, mai confermata né smentita, racconta che il processo di creazione di “American idiot” sia iniziato dopo che i master di un intero album, intitolato appunto “Cigarettes and Valentines”, sarebbero misteriosamente scomparsi nel nulla. L’unica “traccia” lasciata da questo disco è quella che gli avrebbe dato il titolo, inclusa anni dopo nel live “Awesome as f ** k”.

D - Dookie: tre giovani e talentuosi punk rocker della scena della Bay Area, con una spiccata inclinazione verso le melodie pop, abbandonano l’etichetta indipendente che li ha lanciati e firmano un contratto con una major, attirando molte critiche da parte dei puristi e rischiando di bruciarsi la carriera finendo nel dimenticatoio come molti altri prima di loro. Il resto, come si suol dire, è storia. E - Eeeeeeh oooooooh!: come trasformare due vocali in un marchio di fabbrica. Se non siete così pazzi da non essere mai stati ad un concerto dei Green Day, è assai improbabile che non abbiate intonato almeno una volta questo urlo di battaglia. F - Foxboro Hot Tubs: cosa fai quando sei una rockstar mondiale e arrivi da tre anni fatti di milioni di copie vendute, singoli di successo, tour trionfali in ogni angolo del globo e premi come se piovessero? Fondi una “nuova” band e ti diverti come un pazzo a suonare del 60’s garage rock’n’roll! Che domanda!

G - Good Riddance (Time of your life): nel 2012 un brano acustico dei Green Day potrà anche sembrarvi normale, ma vi posso assicurare che nel 1997 non lo era affatto. Alla sua uscita, “Nimrod” fu un disco sorprendente sotto molti aspetti, ma di sicuro questo brano era l’episodio più spiazzante, quello che nessuno si sarebbe mai aspettato. Da lì al diventare una superhit internazionale, il passo fu davvero brevissimo.

J - Jaded in Chicago: “Bullet in a Bible” e “Awesome as f ** k”, gli unici due live video ufficiali pubblicati a oggi, rappresentano alla perfezione i Green Day del periodo “American idiot/21st century breakdown”. Ma se volete il documento più bello ed autentico della “Dookie-era”, questo concerto, registrato dalle telecamere di MTV all’Aragon Ballroom di Chicago il 18 novembre 1994 e facilmente reperibile sul web, è senza dubbio il migliore. K - Kerplunk: il primo disco con Trè dietro le pelli e l’ultimo prima del successo mondiale. Per i puristi, è il loro disco migliore, e in effetti nessuno può negare che (produzione cheap a parte) il livello del songwriting sia già altissimo. Il titolo del disco è, a detta della band, il rumore prodotto dalla cacca che cade nel water, il che crea automaticamente una, ehm… “connessione logica” con il suo blasonato successore. L - Longview: primissimo singolo estratto da “Dookie”, il cui video vede i tre suonare e cazzeggiare nel seminterrato dove Billie Joe e Mike vivevano all’epoca. Anche se in molti lo considerano un inno alla masturbazione, il testo in realtà utilizza il tema per analizzare noia, solitudine e quella situazione tipicamente adolescenziale del provare in ogni modo a non sentirsi un totale sfigato. La struttura del brano è costruita su un giro di basso ai limiti del geniale, scritto da Mike sotto l’effetto di un acido. M - Mike Dirnt: se la sezione ritmica dei Green Day è, oggettivamente, una macchina da guerra, il 50% del merito va ovviamente a lui. Culo e camicia con Billie Joe dall’età di 10 anni, Mike non solo è sempre stato il “bassista di fiducia” ma ha anche disseminato qua e là alcuni suoi brani, tra cui “JAR” e “Emenius Sleepus”.

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GREEN DAY

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N O P q R

O - Only Of You: brano sconosciuto ai più (anche se ogni tanto viene ancora ripescato durante i live), pubblicato per la prima volta nel 1989 sul lato B dell’EP “1000 hours”. Questa canzone, la serenata pop-punk che al liceo ogni loser vorrebbe aver scritto per la più carina della classe, è una delle prime mai composte da Billie Joe. Chi ben comincia… P - Pop Disaster: durante quello che con ogni probabilità è stato il periodo di minima popolarità mai raggiunto dall’esplosione del 1994, i Green Day si imbarcano in un co-headlining tour assieme alla band pop-punk di maggior successo in quel momento: i Blink 182. Siamo nella primavera del 2002 e sono in molti (inclusi probabilmente gli stessi Blink) a darli ormai sul viale del tramonto, complice anche lo scarso successo commerciale di “Warning” e la recente uscita del best of “International superhits”. Madornale errore: il tour diventa ben presto una lotta per il potere tra le due band e anche se nulla è mai stato detto o scritto in via ufficiale pare che il clima fosse piuttosto teso. Q - Quotes: “Ogni sera suono come se la mia vita dipendesse da quello” (Billie Joe - NME giugno 2009) R - Redundant: come decine di altri brani dei Green Day, anche questo parla di Adrienne, la moglie di Billie Joe. A differenza di altri, però, analizza un periodo di crisi della coppia, in cui sussiste un conflitto tra la passione ancora viva e la pesantezza della routine. Memorabile e ambiziosissimo il video: la band suona in primo piano davanti ad una camera fissa all’interno di un appartamento, mentre sullo sfondo una serie di bizzarri personaggi (tra cui Dita Von Teese) ripetono ciclicamente la stesse azioni. Se siete curiosi di sapere a cosa si è ispirato il regista Mark Kohr, provate a "googlare" un corto dal titolo “Tango”.

S

T U V W

T - Trè Cool: sempre per la serie “sfatiamo il mito dei musicisti punk che non sanno suonare”, ecco a voi uno dei migliori batteristi rock del mondo! Il tassello mancante del trio fa il suo debutto su “Kerplunk”, apportando all’economia della band molto più che le sue già all’epoca straordinarie doti tecniche. Il motivo? Semplice: è un pazzo totale! E chiunque conosca i suoi finali a sorpresa delle esibizioni al Letterman Show, le sue risposte non-sense durante le interviste o le mille altre geniali stranezze (sapientemente immortalate nei minuti a lui dedicati in “Bullet in a Bible”) sa perfettamente di cosa parlo.

N - Nimrod: i primi, chiari segnali che i Green Day non fossero solamente un’ottima band pop-punk arrivano nel 1997, quando nei negozi esce il loro quinto album. Ben 18 canzoni per quasi un’ora di musica, durante la quale trovano il loro spazio anche delle inedite chitarre crunchy (“The grouch”), un pezzo surf strumentale (“Last ride in), un esperimento di country-punk (“Walking alone”) e la ballata acustica di cui avete già letto alla lettera G e che risulta essere, ad oggi, il principale motivo di popolarità di questo disco. Tutto questo oltre, ovviamente, a delle gemme punk rock di rara bellezza.

U - ¡Uno! ¡Dos! ¡Tré!: preparatevi, perché nei prossimi mesi sarete letteralmente bombardati da una quantità spropositata di nuova musica dei Green Day. Il merito è tutto di questa trilogia, nuova sfida che sta già facendo parlare parecchio di sé. 37 canzoni (divise, appunto, in tre dischi) che nelle intenzioni di Billie Joe prenderanno le distanze dalle composizioni “quadropheniane” dei due lavori precedenti e riporteranno la band alla semplicità dei primi anni. Ma, a scanso di equivoci, non aspettatevi un “Dookie 2012”. V - VH1 Storytellers: uno dei modi migliori per capire la profondità e lo spessore dei brani che compongono “American idiot” è sentirli raccontare dalle parole dei suoi creatori. Questo show è senza dubbio uno dei momenti più alti di quel periodo, complice anche una performance live memorabile e di rara intensità emotiva. Assieme a “Bullet in a Bible” è probabilmente l’istantanea migliore che potrete mostrare ai vostri figli quando racconterete loro di come, verso la metà dei ’00, il mondo impazzì totalmente (per la seconda volta) per i Green Day. W - Woodstock 1994: ovvero “come entrare nella storia dall’ingresso principale”. All’interno della riedizione “moderna” dello storico festival, i Green Day erano semplicemente una delle band che avrebbero scaldato il pubblico in attesa dei grandi nomi in cartellone quella sera. Nessuno quel giorno avrebbe mai pensato che il loro set si sarebbe trasformato in una delle più gigantesche ed anarchiche mud fight di sempre. Risultato finale: palco invaso dal fango, Mike con un dente in meno a causa di un misunderstanding con la security, e un posto assicurato nella storia del rock. Per dirla con le parole di Billie Joe: “This isn’t love and peace, it’s fuckin’ anarchy!”.

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S - Sonic/Supersonic: c’è anche un po’ di Italia nella storia dei Green Day. Se girate su Youtube in cerca di live televisivi della band è difatti assai probabile che vi imbattiate nelle registrazioni di questi due show: il primo, datato 1997, vede il nostro trio ospite (assieme ai Prozac+, ndr) di Enrico Silvestrin in quello che fu uno dei primissimi programmi di musica dal vivo della neonata MTV Italia. Il momento in cui Trè Cool crea imbarazzo durante l’intervista citando Danny DeVito in “Goodfellas” è da oscar. Il secondo è un memorabile live di un’ora scarsa risalente al gennaio 2005 che né i presenti, né gli addetti alla security dimenticheranno facilmente. E, se me lo concedete, posso dire “Io c’ero!”.

X - Xanax: noto farmaco usato per placare gli attacchi di panico. Considerando i testi di canzoni come “Basket case”, “Panic song” e diverse altre del periodo “Dookie”/“Insomniac”, non è proprio da escludere che Billie Joe e Mike abbiano una discreta familiarità con questo medicinale. Y - Y'know?: avete mai visto/ascoltato un’intervista di Billie Joe? Ecco, prendetene una qualsiasi e provate a trovare più di una o due risposte che non inizino così!

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Z - Zuckerberg: a quanto pare Mr. Facebook e Billie Joe sono in ottimi rapporti, tanto che al matrimonio del primo il secondo si è presentato chitarra alla mano e ha dedicato agli sposi una versione acustica di “Last night on earth”. Non so voi, ma io lo invidio più per questo che per i milioni di dollari in banca.

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FRANK TURNER Qui da noi il suo nome risulta ancora sconosciuto ai più, ma nella sua Inghilterra è già arrivato a conquistarsi sul campo il palco della Wembley Arena. Ecco cosa ci ha raccontato pochi minuti dopo il suo show al Rock In IdRho. Ladies and gentlemen: Mr. Frank Turner! Di Stefano Russo

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rima di tutto, com’è andato lo show? Frank Turner: Lo show è stato grandioso! Non ho mai suonato abbastanza in Italia, credo che questa sia solamente la quarta volta che mi esibisco nel vostro paese e mi dispiace parecchio. È bellissimo per me poter tornare qui, anche perché la fuori c’era qualcuno che già conosceva i pezzi ma soprattutto c’erano un sacco di altre persone che mi vedevano per la prima volta. È davvero un peccato che abbiano dovuto cancellare il resto del festival, mi sarebbe piaciuto vedere suonare i Rancid! Sembra che il recente successo non abbia avuto una particolare influenza su di te: cos’è cambiato rispetto agli inizi della tua carriera solista? F.T.: Penso di essere stato molto fortunato. A un sacco di band capita di svegliarsi una mattina ed accorgersi che tutto è cambiato, tutto d’un tratto c’è qualcuno che spende un sacco di soldi per farti pubblicità in TV o ti ritrovi sulla copertina di qualche rivista. A me invece è andata diversamente perché non ho dovuto affrontare situazioni simili, ogni cosa che mi è accaduta è stata un piccolo passo avanti e gran parte della gente che mi segue mi conosce principalmente perché ho fatto un sacco di concerti e di tour. Non ho mai avuto quel momento di stacco, per me si è sempre trattato di continuare a fare quello che già facevo. Ovviamente adesso le cose sono differenti rispetto al 2005, ma non è come se fossi passato improvvisamente dal dormire sul pavimento al vivere in una megavilla. Anche perché non vivo in una villa, sono ancora un senzatetto! (ride) Cosa ti passava per la testa durante il tuo concerto da headliner alla Wembley Arena? F.T.: Vuoi sapere sinceramente cosa pensavo mentre suonavo? “Non fare cazzate! Non fare cazzate!” (ride). No, seriamente, dopo tanti concerti non mi capita mai di essere nervoso prima di salire sul palco ma questo era diverso: una quantità pazzesca di gente, mesi passati a preparare lo show e a provare la scaletta, continuavo a ripetermi “Non fare cazzate proprio adesso, qualsiasi cosa succeda non fare cazzate!”. Devo ammetterlo, ero un po’ nervoso. Non ti mancano un po’ i tuoi concerti da solista? F.T.: Non direi che mi mancano perché in reatà continuo a farne e per me è davvero grandioso. Al momento faccio più concerti con la band ma amo suonare da solo ed è fantastico poter fare entrambe le cose, perché hai due diverse prospettive sugli stessi brani e questo ti permette di rimanere concentrato. Ogni volta che passo una settimana a fare concerti da solo poi torno dai ragazzi della band pieno di nuove idee e questo mi piace, perché così riesco a mantenermi fresco. Suoni ancora “Linouleum” dei NOFX durante quegli show? F.T.: Oh si! La prima volta l’ho suonata perché Fat Mike era presente e volevo che salisse sul palco a cantarla. Oltretutto, quella sera l’ho anche sbagliata, che idiota! Ad ogni modo è molto divertente, in fondo quelle sono le mie vere radici. La cosa figa è che i NOFX dal vivo suonano la loro personale versione della tua “Glory Halleluja”… F.T.: Quando l’hanno suonata per la prima volta, l’ho saputo da un amico via mail e non potevo crederci! Cazzo, sono i NOFX, una delle mie band preferite di tutti i tempi! L’estate scorsa eravamo in cartellone assieme in un festival in Germania e decidemmo che Fat Mike sarebbe salito sul palco per suonarla con noi durante il nostro set. Ci sembrava un’idea fantastica, ovviamente, il problema è che loro sono soliti suonarla con un tempo totalmente diverso e così ha finito per sbagliarla tutta ed è stato un gran casino! Parlaci un po’ dei Mongol Horde, il tuo nuovo progetto hardcore… F.T.: (Eravamo a una settimana esatta dalla prima pubblicazione, nda) Il problema con questo progetto è che mi ci posso dedicare quando non sono occupato con il mio “lavoro” - odio chiamarlo così - ma è comunque molto divertente, siamo in tre e il batterista è lo stesso con cui suonavo già nei Million Dead. Tra le altre cose usiamo una chitarra baritona e, credimi, ha un

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That’s


sall folks!!!

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FRANK TURNER

“Non conosco la situazione in Italia, ma in UK riviste e webzine hanno ancora buoni riscontri perché sono portate avanti da persone intelligenti che hanno qualcosa da dire. Prima di Internet, la cosa difficile era far arrivare la musica alla gente, oggi invece la difficoltà maggiore è farla emergere dalla giungla” suono veramente da fine del mondo. Ma nonostante il suono sia potente ed estremo, abbiamo una vena molto ironica, ho sempre preferito le band che accostano un suono heavy al sense of humor. Pensi che, oggigiorno, le canzoni siano ancora la cosa più importante nel mondo della musica? F.T.: Internet ha cambiato quasi tutto nel music business, ma non nella musica. Questo per me è un concetto molto importante. Anni fa era più difficile scoprire nuova musica perché eri costretto ad ascoltare quello che radio e TV ti proponevano, mentre oggi puoi avere accesso in pochi secondi alla musica di qualsiasi artista attiri in qualche modo la tua attenzione. Quindi, per rispondere alla tua domanda, penso proprio di si. Sai, grazie alle nuove tecnologie tutti hanno sempre di più la possibilità di arrivare ad ogni tipo di musica e di artista. Di conseguenza, coloro a cui importa ancora della qualità del songwriting non devono preoccuparsi di combattere contro il Justin Bieber di turno che monopolizza i media e possono semplicemente ascoltare quello che gli pare.

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Restiamo in argomento: secondo te, nell’era di Internet, la gente ha ancora voglia di leggere delle riviste musicali? F.T.: È una domanda interessante, potremmo fare lo stesso discorso anche sulle radio e sulle webzine. Ovviamente il ruolo delle riviste era diverso prima di Internet, ma credo che, se sei bravo in quello che fai, abbia ancora un senso farlo. Non conosco la situazione in Italia, ma in UK riviste e webzine hanno ancora buoni riscontri perché sono portate avanti da persone intelligenti che hanno qualcosa da dire. Prima di Internet, la cosa difficile era far arrivare la musica alla gente, oggi invece la difficoltà maggiore è farla emergere dalla giungla. Ci sono così tante band in circolazione, non è per niente facile. Prendi me ad esempio: ogni giorno ricevo centinaia di messaggi e giuro che ci provo a sentire tutti i gruppi che mi vengono proposti, ma vorrei anche ascoltare ancora un po’ il buon vecchio Springsteen, dannazione! Per questo penso che il ruolo delle riviste, delle webzine e delle radio debba essere quello di guida, qualcuno di affidabile che ti dica “Questa band spacca, vale la pena di ascoltarla”, piuttosto che “Questi sono una merda, non stare a perderci del tempo”.


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MUSE Di questo sesto album dei Muse si parla già da qualche mese, complici un paio di singoli un po’ diversi e qualche indiscrezione in merito a una svolta dubstep del trio inglese. Alla fine, “The 2nd law” è un ottimo disco rock che accrescerà ulteriormente la popolarità del gruppo nel mondo. Di Daniel C. Marcoccia

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opo l’enorme successo di “The resistance”, il vostro precedente disco, questo nuovo lavoro diventava forse una sfida per voi? Dominic Howard (batteria): La vera sfida, questa volta, se proprio vogliamo utilizzare questa parola, è stata più nel modo in cui dovevamo registrare alcune delle canzoni. Dopo poche settimane in studio avevamo già una trentina di brani, a livello di demo e idee da sviluppare; dovevamo quindi scegliere quelli che sarebbero finiti nel disco e amalgamare il tutto ben sapendo che non erano tutti pezzi dello stesso stampo. Ad esempio, sapevamo che in “Madness” ci sarebbero state delle parti elettroniche molto importanti, mentre, all’opposto, “Supremacy” era invece un brano marcatamente rock e perfetto per essere suonato dal vivo in posti enormi. Volevamo veramente un grosso suono (“a big sound”, nda). Alla fine è stato un disco molto rilassante da fare, probabilmente anche per il fatto che eravamo a Londra, dove viviamo. Erano anni che non lavoravamo “a casa”. È stato un disco relativamente facile da fare, le canzoni sono venute fuori in fretta, anche se poi ci abbiamo messo sei mesi per registrarle. (ride) Matthew Bellamy (voce e chitarra): Per lo scorso album, Chris e Dom mi avevano fatto un gran favore per permettermi di registrare il disco a Como, dove vivevo. Non era stato facile per loro, soprattutto per Chris che era lontano dalla sua famiglia. Avevamo quindi fatto un patto, ovvero che il prossimo disco sarebbe stato registrato in un posto in cui vivevamo tutti e tre. Nell’ultimo anno e mezzo siamo stati a Londra - io e Dom abitiamo in città e Chris appena fuori -, quindi è stato molto importante poter lavorare all’album e poi tornare a casa ogni sera. Per tornare alla

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domanda, non vedo l’ora di iniziare il tour perché queste canzoni hanno quasi tutte una maggiore predisposizione per essere suonate dal vivo e in spazi grossi. Lo scorso disco, che era davvero ottimo, ne aveva forse solo quattro. I vostri fan erano un po’ spaventati dalle voci che annunciavano un disco più elettronico o addirittura dubstep… D.H.: Sì, ho letto alcuni commenti, ma non puoi mai piacere a tutti. Molti vorrebbero ogni volta un nuovo “Origin of symmetry” e, francamente, preferisco provocare una reazione piuttosto che fare sempre lo stesso disco per accontentare tutti. “The 2nd law” non è comunque un disco di elettronica… ma con dell’elettronica. M.B.: Tutto è nato da uno scherzo, da un mio messaggio su Twitter in cui dicevo che avevamo registrato un disco dubstep, ma era per ridere e non pensavo che avrebbe avuto così tanto rilievo. Capisco che “Madness”, il nuovo singolo, possa sorprendere alcuni perché, in effetti, è un brano diverso da tutto quello che abbiamo fatto in precedenza. Ma allo stesso tempo sono convinto che quest’album, nel suo insieme, sia rock quanto ogni altro nostro lavoro. Quando scrivo la mia musica, c’è sempre una


battaglia dentro di me, una voglia di crescere, di evolvere, di raggiungere nuove dimensioni, come può esserlo il fatto di suonare in uno stadio. Ma, allo stesso tempo, vedo attorno un mondo che sta crollando, con delle problematiche ambientali piuttosto serie, e sono ben consapevole anche di questo. Il titolo è ben rappresentativo della battaglia dentro ognuno di noi, tra le proprie volontà e i propri desideri e la realtà circostante. Chris Wolstenholmes (basso e voce): In questi anni abbiamo visto fenomeni musicali esplodere e poi scomparire. Se noi ci siamo ancora è forse perché siamo imprevedibili. Matt, per la prima volta lasci il microfono a un altro componente della band, in questo caso Chris, che ha scritto e cantato due canzoni (“Save me” e “Liquid state”) del nuovo disco. M.B.: Ho sempre amato le band che avevano più componenti che cantavano, basta pensare ai Beatles. Questo apre nuove porte alla nostra musica e per la prima volta, durante i concerti, potrò dedicarmi solo a quello che suono (ride). Ci sono stati dei momenti, in passato, in cui sentivo troppa pressione addosso: ero quello che doveva scrivere tutte le canzoni di un disco e poi cantarle dal vivo.

C.W.: È una cosa completamente nuova per la band e sicuramente per me. Le prime due o tre volte che abbiamo provato le canzoni, ho pensato “ma che cosa folle, non posso farlo”, ma per fortuna suono in una band dove tutti sono molto aperti e quando ho parlato delle mie canzoni, la reazione degli altri è stata molto entusiasta. Adesso mi toccherà suonarle e cantarle dal vivo, soprattutto “Liquid state” che ha anche un giro di basso piuttosto complesso (ride). Come sarà il prossimo show? Ormai avete sempre delle mega produzioni. D.H.: Sarà così anche questa volta, con tanti effetti e una grande piramide rovesciata sui cui lati verranno proiettati video e altre immagini. Non vi manca, a volte, l’intimità dei club? C.W.: Non tanto. Abbiamo suonato per anni e anni, all’inizio di questa band, nei piccoli locali ed è vero che c’è un maggiore contatto con la gente. Puoi capire, guardando i loro volti, l’effetto che procura la tua musica. Nelle arene, invece, non succede, quello che avverti è una reazione collettiva.

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Poche band nella storia del metal hanno potuto permettersi un disco ogni lustro senza perdersi (e perdere fan) per strada: i Down sono senza dubbio soci onorari di questo esclusivo club! Di questo e del nuovo album parliamo con Pepper Keenan, chitarrista e leader della band insieme all'ex-Pantera Phil Anselmo. Di Luca Nobili

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“Down IV part 1 - The purple EP” esce in un formato inedito per il gruppo, visto che i vostri tre precedenti lavori sono sempre stati full length. Come mai questa scelta? Pepper Keenan (chitarra): Sostanzialmente per due ragioni. Per prima cosa, in questo modo siamo riusciti ad uscire con qualcosa di nuovo per i fan più velocemente, sono passati 5 anni dall’ultimo album in studio dei Down ed era sicuramente ora! E poi abbiamo voglia di tornare in fretta on the road... Inoltre, dividendo in due l’album, avremo anche due sound volontariamente differenti, due direzioni musicali diverse per ciascun EP. Mi piace molto la copertina, come mai l’avete scelta? P.K.: La cover di “The purple EP” e quella del secondo EP che uscirà nel prossimo futuro (Pepper non si è voluto sbilanciare sul quando, nda) sono due immagini che andranno unite ed avranno insieme un significato più compiuto; questa idea di dividere in due non solo la musica ma anche l’artwork del nuovo album ci è piaciuta molto da subito. Chiedo quindi a te ed ai nostri fan di pazientare un po’ per vedere cosa rappresenta l’immagine di copertina nella sua interezza! Nell’artwork dei vostri album ci sono spesso riferimenti religiosi (croci, una faccia che ricorda Gesù sul retro cover di "Down II"…), una scelta

particolare che ricorda un po’ i Black Sabbath... P.K.: Personalmente non sono interessato alla religione organizzata, penso che la spiritualità sia un aspetto personale della vita. Il motivo per cui si possono trovare diversi simboli religiosi nei nostri album non ha quindi a che fare con la “chiesa” in senso stretto ma con il posto in cui tutti noi della band viviamo, New Orleans. La Louisiana è un luogo in cui puoi vedere croci e immagini religiose davvero ovunque, gran parte della popolazione è profondamente credente. Per noi un certo tipo di immagine è un omaggio alla nostra terra e non certo una professione di fede. I Down hanno potuto contare fin dagli esordi su una base di fan molto fedeli (era il 1990 quando Pepper Keenan e Phil Anselmo hanno cominciato a suonare insieme e a concepire i Down). Sei d’accordo con me se dico che molte nuove band non riescono a creare un legame così intenso con il proprio pubblico, nonostante una forte presenza sui social network? Che consiglio ti senti di dare alle nuove leve del rock? P.K.: Quello che più conta - e che molte band giovani sembrano aver completamente dimenticato - è rimanere sempre se stessi e veri. Non ha senso cambiare sound ogni due mesi per cavalcare il trend del momento, devi cercare di creare il tuo suono e non inseguire quello degli altri... Diversamente, non è possibile creare un legame vero con il pubblico. Se vuoi

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DOWN

“Se “Se vuoi vuoi costruirti costruirtiun un seguito seguito fedele fedeleeeleale leale devi devi far far percepire percepire l'onesta l'onestaeela la purezza purezzaininquello quello che che fai” fai”

costruirti un seguito fedele e leale devi far percepire l'onesta e la purezza in quello che fai. “Witchtripper” è il primo singolo estratto dal nuovo disco: la canzone mette in mostra il lato più psichedelico dei Down. Almeno parzialmente, un ritorno alle sonorità di “NOLA”... P.K.: Sicuramente sono d'accordo, il pezzo - come del resto il mood generale di tutto l'EP - ha vibrazioni che ricordano un certo tipo di sound acido e psichedelico: non direi però che è un ritorno a qualcosa, non voluto per lo meno. E come dicevo prima, la “parte 2” che uscirà successivamente avrà una direzione musicale diversa, mostrerà un'ulteriore sfaccettatura della nostra musica. I Down sono nati musicalmente ad inizio anni ’90; tu, Pepper, fai musica ad un certo livello già dagli eighties (con i Corrosion Of Conformity). Meglio la scena rock/metal di allora o dei giorni nostri?

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P.K.: Credo che al giorno d'oggi ci siano troppe rock band senza personalità, che non fanno altro che copiare il modo di fare musica creato da altri. Se ci pensi, il numero di gruppi metal definibili come "importanti" che non abbiano avuto origine negli anni '80 o '90 è vicino allo zero (effettivamente, è difficile dargli torto, nda). Se ti chiedo di dirmi quali sono a tuo parere la più grande forza e la più grande debolezza della band, cosa mi rispondi? P.K.: La nostra più grande forza credo proprio sia l'alchimia che esiste tra di noi: quando siamo tutti e cinque nella stessa stanza a suonare, l'energia che si sprigiona è incredibile, pazzesca! Riguardo la nostra debolezza... beh, non so se definirla tale, certo sarebbe bello riuscissimo in futuro a essere più "produttivi" e a far uscire un nuovo disco dei Down più spesso di quanto successo fino ad ora. Devo però dire che i nostri fan hanno sempre capito il nostro modo di lavorare e ci hanno sempre aspettato pazientemente.


www.skunkanansie.net

MEDIOLANUM FORUM 19 NOVEMBRE 2012 MILANO MARTEDÌ ROMA 20 NOVEMBRE 2012 PALALOTTOMATICA MERCOLEDÌ JESOLO (VE) 21 NOVEMBRE 2012 PALA ARREX LUNEDÌ


AGNOSTIC FRONT In occasione del tour che celebra i trent’anni di carriera degli Agnostic Front abbiamo incontrato il “Godfather of hardcore”, il mitico chitarrista Vinnie Stigma. Di Andrea “Canthc” Cantelli

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ey Vinnie, bentornato in Italia per celebrare i trent’anni di carriera degli Agnostic Front. Avresti immaginato all’inizio di arrivare così lontano? Vinnie Stigma: Guarda, sì e no, no perché all’inizio ero giovane e non guardavo mai troppo avanti nel futuro ma poi, con il tempo e crescendo, ho preso coscienza e creduto nelle mie capacità. Sapevo che non avrei mollato e ho voluto portare avanti questa band, il che comporta anche tante scelte di vita. Di questi trent’anni dimmi una cosa in particolare che vuoi salvare e una che invece vorresti dimenticare? V.S.: Di sicuro voglio salvare il fatto che con gli Agnostic Front siamo stati una famiglia, per noi è come essere fratelli, nel bene e nel male, siamo cresciuti insieme e ci siamo guardati le spalle a vicenda. È stata una vita dura ma anche le cose peggiori non le voglio dimenticare, forse sono quelle che, con il senno di poi, sono state più utili per la nostra crescita. Nei primi tempi abbiamo dovuto lottare per emergere, è stato difficile ma oggi mi posso guardare indietro con orgoglio. Per questo non mi voglio dimenticare di niente. Durante questi anni avete praticamente suonato ovunque in giro per il mondo. C’è un Paese nel quale sei particolarmente orgoglioso di avere suonato? V.S.: In Italia, ovvio! Non lo dico perché sono qua ma perché io sono di origini italiane e mi fa un immenso piacere tornare nella nazione da dove partì la mia famiglia tanti anni fa. La gente sa bene delle mie origini e l’entusiasmo è tanto… a volte fin troppo, qualcuno è stato persino invasivo, ma che ci vuoi fare? A proposito di Italia, proprio ieri sera sono stato a uno show dei Raw Power. So che tu sei un loro grandissimo fan, giusto? V.S.: Sì che lo sono! La prima volta che vennero a New York al CBGB’s, ero molto orgoglioso del fatto che suonasse lì, vicino a casa mia, una band italiana. Avevo seguito tutto il concerto dalla prima fila! A proposito di CBGB’s, come è la situazione locali a New York in questo periodo? Purtroppo so che non ve la passate molto bene! V.S.: Sì, è vero, la situazione è triste, al momento ci servono i locali underground dove sviluppare la scena e permettere alle nuove band di suonare e proporsi. Soprattutto nella zona di Manhattan mancano i punti di aggregazione, per cui è pressoché impossibile sviluppare una nuova scena. Io, con il mio negozio di tatuaggi, cerco di fare un punto di aggregazione in città e spesso vengono a trovarmi ragazzi delle band per fare dei photoshooting o per portare i volantini, e nel mio piccolo cerco di aiutare tutti. Qualche nuova band da segnalarci, Vinnie? V.S.: Sinceramente io continuo ad ascoltare le vecchie band. Lo faccio anche per i giovani ragazzi che vengono spesso a trovarmi quando sono in tour o in negozio, mi metto a canticchiare una canzone e subito chiedo a uno di loro: “di chi è questa?”, se non mi rispondono al volo mi arrabbio! Quindi se devo

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dirti la verità, continuo ad ascoltare essenzialmente i dischi della mia gioventù. E quando non sei impegnato con gli Agnostic Front come passi le tue giornate? V.S.: Sono sempre molto impegnato. Mando avanti il mio negozio di tatuaggi, ho un gruppo, gli Stigma, con cui a breve farò uscire un nuovo album e da non molto ho cominciato a fare il regista: il mio primo documentario si chiama “New York blood”. E nel poco tempo libero cerco di fare il padre il meglio che posso.

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Concludendo… 30 anni: a che punto della loro carriera sono gli Agnostic Front? V.S.: Poco più che a metà, il giro di boa è passato ormai… ma noi siamo ancora qui con la nostra passione e sentirete ancora parlare di noi per un po’, te lo assicuro! Grazie Vinnie, è sempre un piacere incontrarti e parlare con te! V.S.: Grazie a te e un saluto a tutti i miei compaesani Italiani, continuate a supportare la vostra scena.


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SLIPKNOT

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l l Heawaits

a pubblicazione di "Antennas to hell" non coglie impreparati, sebbene la sua natura sia stata causa di non poche domande... Shawn "Clown" Crahan (percussioni): Ho sempre odiato best of e greatest hits, per questo considero "Antennas to hell" una compilation. Non si tratta di un'operazione commerciale e nemmeno di una specie di canto del cigno. Abbiamo personalmente seguito ogni fase del lavoro e preso tutte le decisioni. Abbiamo scelto le tracce, deciso in quale ordine presentarle, realizzato artwork e booklet e lo abbiamo fatto pensando ai fan e a cosa avrebbero voluto ascoltare. Corey Taylor (voce): Siamo dove siamo grazie ai nostri fan e sono assolutamente d'accordo con Shawn riguardo il significato di questo progetto. Il lavoro ripercorre cronologicamente la nostra storia. Era giunto il momento di compiere un simile passo e, dopo anni trascorsi insieme, sapevamo che il nostro pensiero non sarebbe stato frainteso. "Antennas to hell" è anche, e soprattutto, un tributo a Paul Gray. Questi sono gli anni di Paul e questo è il nostro modo di celebrare la sua vita. Tutto ha avuto inizio con "Slipknot", album che ha letteralmente cambiato le vostre vite. Cosa ricordate della prima prova in studio a fianco di Ross Robinson? C.T.: Non avevamo alcuna esperienza e la nostra maggior preoccupazione era di riuscire a imbrigliare l'essenza propria dei live. Da questo punto di vista, l'apporto di Ross è stato determinante: la persona giusta al momento giusto. Grazie a lui abbiamo acquisito la consapevolezza che ci ha permesso di diventare gli Slipknot. Eravamo pronti a combattere ma non sapevamo come muoverci. Ross ci ha aperto gli occhi e ci ha mostrato come utilizzare le nostre qualità. Da essere negli Slipknot siamo passati a essere gli Slipknot, una sottile ma significativa differenza.

Il futuro degli Slipknot è stato ormai discusso e analizzato da ogni possibile angolazione, senza giungere a una tangibile conclusione. Chi voleva la band finita deve però ricredersi: i nostri tornano, infatti, con una raccolta/tributo dedicata a Paul Gray e con la promessa di continuare a essere la band che tutti amiamo. Di Piero Ruffolo

preso finalmente vita: gli Slipknot erano una realtà. Lato melodico che sembra aver raggiunto il proprio apice in "Snuff"... C.T.: Ho discusso con parecchie persone riguardo la natura di questa canzone. Dopo un primo ascolto, la domanda era sempre la stessa: è un brano per gli Stone Sour? No, è un brano per gli Slipknot. Sapevo che la band aveva il potenziale per un pezzo del genere ed ero inamovibile su questo. S.C.: Ho amato immediatamente "Snuff". Ricordo che quando Corey me l'ha presentata, eravamo in macchina e ho pensato: la gente deve ascoltarla, deve sapere. Dovevamo farlo e dovevamo farlo come Slipknot. Sono successe molte cose da allora e tante sono le domande ancora senza risposta. Stiamo

assistendo alla fine di un'era o, più semplicemente, all'inevitabile progresso di ciò che siete sempre stati? S.C.: Non finisce e non inizia alcuna era. Slipknot è quello che siamo e che continueremo a essere. Abbiamo iniziato in 9 e siamo ancora in 9. Potranno esserci sostituti, ma nessuno prenderà mai il posto di Paul. Lui è parte di noi, è parte dei 9 e nulla potrà mai cambiare questo. Tutti ci fanno domande riguardo il futuro, riguardo il nostro prossimo passo, riguardo un nuovo album. La realtà è che non abbiamo una risposta. Non siamo ancora tornati in studio perché non è facile varcare quella soglia senza Paul. È qualcosa che va ben oltre la musica. Siamo una famiglia e abbiamo tutti sofferto per quanto accaduto. Non voglio fare previsioni e non voglio parlare per gli altri, quando saremo pronti ci muoveremo di conseguenza.

Ne sono una chiara testimonianza brani come "Spit it out" e "Wait and bleed", ancora oggi considerati tra i più significativi della vostra carriera... C.T.: Se non ricordo male, "Wait and bleed" è stata la seconda canzone che abbiamo scritto insieme. Ho composto il coro, ho iniziato a cantarlo e gli altri mi hanno immediatamente seguito. È stato incredibile. S.C.: La prima canzone fatta insieme è stata "Spit it out", dopo qualche giorno "Wait and bleed", poi "Livery" e "No life". Volevamo includere più elementi possibili nel nostro suono ma non avevamo mai realmente affrontato la questione melodia. Poi è arrivato Corey e con lui il nostro lato melodico ha

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SPINESHANK

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Stati di rabbia

Il successo non è mai facile da gestire, soprattutto se arriva presto, e spesso crea delle tensioni anche tra amici. È quello che è successo agli Spineshank, che dopo una salutare pausa di ben 9 anni fanno il loro ritorno con l’ottimo “Anger denial acceptance”. Di Daniel C. Marcoccia - Foto Kevin Estrada

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ommy, com’è essere di nuovo in giro con gli Spineshank? Tommy Decker (batteria): È assolutamente fantastico. Siamo tornati finalmente a fare musica assieme, non perché costretti ma perché ci piace farlo. Essere stati lontani per un bel po’ ci ha permesso di apprezzare ancora di più il fatto di ritrovarci e ricominciare a suonare assieme. Nove anni tra un disco e l’altro sono davvero tanti. La gente cambia, i gusti pure. Com’è stato accolto il disco? T.D.: Per fortuna è piaciuto subito e stiamo suonando parecchio in giro. Devo dire che siamo fortunati ad avere dei fan così legati alla band ed è stato bello ritrovarli dopo tutto questo tempo. Oggi come ieri, la gente si ritrova nelle nostre canzoni e nei testi che scriviamo. Parliamo di cose vere, di situazioni reali che ognuno vive sulla propria pelle giorno dopo giorno. Alcuni di noi, nella band, hanno dovuto confrontarsi in questi anni con perdite gravi e relazioni difficili o che finivano. Parliamo di questo e “Anger denial acceptance” è probabilmente il disco più personale che abbiamo mai registrato. È tutto vero: il dolore, la rabbia e la tristezza di cui parliamo nelle canzoni le abbiamo vissute sulla nostra pelle. Ed è anche il disco più estremo che abbiamo fatto, è più heavy, più melodico e allo stesso tempo più oscuro. Adesso che tutto sembra sistemato tra di voi, e soprattutto con il vostro cantante Jonny Santos, quali furono le vere cause dello scioglimento tra di voi? T.D.: Eravamo soltanto esausti. Per anni non abbiamo smesso di registrare e suonare dal vivo, in maniera costante. Abbiamo passato la maggior parte di quegli anni in tour bus, aerei e furgoni e quando resti troppo tempo assieme alle stesse persone c’è sempre il rischio che tutto finisca per creare delle tensioni. Abbiamo quindi iniziato a litigare tra di noi. Poi c’erano altre cose, ad esempio

alcuni di noi hanno iniziato ad avere delle famiglie, dei figli e non riuscivamo più a conciliare il tutto. Avevamo veramente bisogno di una pausa. Qualcosa, davvero, non funzionava più tra di noi ed è stato salutare farlo. Se ci pensi, abbiamo vissuto molte cose assieme, come la gioia di creare una band, di avere un brano alla radio e una nomination per un Grammy. Tutte queste cose ci hanno comunque uniti. Anche nelle migliori famiglie, tuttavia, si litiga… Ora che siamo tornati assieme, suonare è di nuovo divertente. Com’è stato ritrovarsi in studio con la vecchia formazione e registrare delle nuove canzoni? T.D.: È stato diverso rispetto al passato. Per la prima volta non abbiamo avuto un produttore in studio con noi ma abbiamo fatto tutto da soli. Anche il metodo di lavoro, di conseguenza, era diverso. Provavamo 3 o 4 canzoni e le registravamo, poi altre 3 e via dicendo. Abbiamo cercato di isolarci dal resto del mondo in modo da focalizzare tutta la nostra attenzione sul disco. Come giudichi questo nuovo disco nella discografia del gruppo? T.D.: Si tratta del nostro lavoro più personale e completo, c’è dentro tutto quello che abbiamo fatto come Spineshank ma portato all’ennesima potenza. Abbiamo veramente migliorato tutto. C’è rabbia, aggressività ma allo stesso tempo molti momenti melodici. Ci sono tanti riff pesanti e, come sempre, molti loop elettronici che vanno a dare ulteriore potenza all’insieme. Abbiamo seguito il nostro cuore, evitando di farci influenzare da trend o regole varie. Con noi non funziona, lo sappiamo benissimo. Questo disco rappresenta bene quello che sono gli Spineshank 9 anni dopo. Sarebbe stato triste se non fosse stato così, se la band non fosse stata capace di mostrare una certa crescita album dopo album. Per questo considero “Anger denial acceptance” il nostro disco più onesto.

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SERJ TANKIAN

Oltre il sistema Atmosfere apocalittiche e cattivi presagi: nel terzo capitolo da solista, Serj Tankian racconta in musica la crisi e i problemi ambientali che affliggono il nostro pianeta. Il passato ritorna… “Same old story”. Di Arianna Ascione

I

l tuo nuovo disco suona molto più punk e aggressivo. Se “Imperfect harmonies” era quasi un esperimento orchestrale non apprezzato dai tuoi fan più “elettrici” - “Harakiri” sviluppa il lavoro già iniziato con “Elect the dead”. Serj Tankian: È stato in realtà un processo molto naturale. In “Elect the dead”, le canzoni erano mid-tempo e dal vivo le suonavamo molto più veloci. Di conseguenza, in questo disco abbiamo prestato più attenzione all’aspetto live dei pezzi. Sarà un live elettrico immagino, un po’ diverso dal tour teatrale di “Imperfect harmonies”. Quelle di “Harakiri” non mi sembrano canzoni da poltroncine rosse. S.T.: Sì, sono un po’ più toste. Faremo un tour vero e proprio nei locali, non gireremo i teatri.

Ti faccio i complimenti per le linee vocali del disco: sembrano molto, per così dire, “reali”. S.T.: Sì, ho curato parecchio quell’aspetto. Ci tengo sempre molto. Veniamo ai contenuti dell’album: è un disco importante per quanto riguarda le tematiche che tratti. Tiri in ballo le società, gli amministratori delegati, la crisi economica, i problemi dell’ambiente, la dittatura del denaro… S.T.: Negli anni scorsi ho lavorato davvero sodo, specialmente nel 2011. Mi sono occupato del musical, della produzione del disco, per non parlare dei tour. Sono molto fortunato, quello che riesco a fare oggi è possibile perché ho alle spalle la storia con i System Of A Down. La motivazione che muove ogni mio progetto è la pura passione e non il denaro. I gruppi che escono oggi invece non sono altrettanto fortunati. C’è una crisi economica pazzesca. C’è qualcosa che ti senti di dire ai gruppi emergenti, come consiglio per avere successo? S.T.: Non è affatto facile in questo periodo avere successo: prima di tutto perché ci sono meno soldi in giro. Anche le case discografiche, ad esempio, fanno meno investimenti. Allo stesso tempo però, un gruppo oggi ha molte più possibilità di farsi conoscere e di promuoversi: grazie ai social network, come Facebook o

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Twitter, le band possono avere promozione senza spendere. Il successo è ancora possibile, ma bisogna percorrere strade diverse. C’è un aspetto a monte però da tenere presente. Serve il talento. Oggi come oggi c’è un’offerta sterminata, letteralmente, ma molto spesso la qualità lascia un po’ a desiderare. Ci sono poi alcune band che curano più l’aspetto estetico della qualità delle canzoni. S.T.: Di sicuro è calata la qualità. Sia che tu ascolti una canzone in studio che sullo stereo di casa, o dopo averla scaricata, deve suonare bene. Tornando al disco: c’è un verso di un brano in cui poni l’accento sull’educazione, sulla cultura. Se un popolo perde di vista la sua storia, non può avere il polso sulla storia attuale. Le persone, oggi, nei Paesi Occidentali, hanno ogni possibilità per conoscere e istruirsi, ma forse proprio per questa abbondanza mancano gli stimoli che spingano a volerne sapere di più. S.T.: La cultura è fondamentale: ci sono tanti aspetti che la compongono, come il cibo, la lingua, la storia. Ogni popolo ha le sue caratteristiche e condividendo il proprio background ci si può solo arricchire. La diversità è importante e l’educazione gioca un ruolo fondamentale. Bisogna assolutamente insegnare la storia e bisogna essere persone curiose. Pensa che oggi, anche solo con un cellulare puoi ottenere tutte le informazioni che vuoi quasi istantaneamente. Le possibilità ci sono. Leggevo in un articolo che da qualche tempo a questa parte c’è un fenomeno di ritorno dei movimenti di estrema destra. A questo punto ti chiedi se la storia non ha insegnato nulla. S.T.: Capisco cosa vuoi dire: è triste ma le cose possono solo peggiorare, perché se aumenta l’immigrazione nei Paesi più ricchi, è facile che aumenti l’intolleranza. E lì c’è terreno fertile per quel genere di idee. Invece bisognerebbe riuscire ad andare oltre certi ostacoli. Molti ad esempio rimarcano la distinzione tra “noi” e “loro”. Lo fanno, purtroppo, anche le persone più giovani.

S.T.: Esatto, sono d’accordo. Questo non è un progresso salutare. Ti sei mai chiesto se quello che cerchi di comunicare con le tue canzoni arrivi davvero a destinazione? S.T.: Fa tutto parte del gioco. Ogni mio ascoltatore prende dalla mia musica quello che vuole: c’è chi condivide le mie idee in tutto e per tutto, c’è chi ne condivide solo alcune, chi, dall’altra parte, adora solo la musica perché ama ballare. È come in pizzeria: c’è a chi piace la pizza margherita, chi adora i peperoni, chi mangia la crosta e chi no. Ogni persona è diversa. E mi va bene anche se i miei ascoltatori non sono d’accordo con le mie posizioni. Poco fa mi dicevi del musical, “Prometeo incatenato”, a cui hai collaborato. Com’è andato? S.T.: Il musical è piaciuto davvero molto, abbiamo avuto ottimi riscontri. Non sono mai stato un grande appassionato della mitologia greca, ma l’opera “Prometeo incatenato” (di Eschilo, tragediografo greco, ndr) è stata una delle prime ad essere rappresentata in Grecia. Inoltre la storia di Prometeo mostra l’inizio della civiltà e in “Elect the dead” parlavo della fine della civiltà. È un cerchio che si chiude in un certo senso.


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YELLOWCARD Per tanti, soprattutto in Italia, gli Yellowcard sono “nati e morti” nel 2003 con “Ocean Avenue”. La band capitanata da Ryan Key ha invece continuato a macinare album e chilometri in tour fin da allora (anche se con una breve pausa dal 2008 al 2010) e in questa estate ci ha regalato un nuovo bel capitolo della propria storia: “Southern air”. Abbiamo fatto quattro chiacchiere sul nuovo disco della band di Jacksonville proprio con Ryan. Di Alex de Meo

C

ome ogni band all'uscita di un nuovo album, immagino siate tutti parecchio carichi. Andiamo subito al sodo: pensi che “Southern air” sia il miglior disco che avete prodotto finora? Ryan Key (voce): Penso proprio di sì. All'inizio forse è stato un po' strano avere quel tipo di sensazione, perché onestamente qualche piccolo dubbio lo avevo, ma dopo aver ricevuto diverse opinioni da persone di cui mi fido ciecamente e che la pensavano allo stesso modo, me ne sono convinto del tutto: sì, “Southern air” è decisamente il nostro miglior disco. Che tipo di stimoli ci sono nel fare un nuovo album dopo così tanti anni di carriera? R.K.: Gli stimoli sono sempre rimasti gli stessi. In fondo ogni volta diventiamo matti per scrivere le migliori canzoni che possano permetterci di allungare ancora di più la nostra già lunga carriera: ci sarà un buon motivo se lo facciamo ancora, no? Di fatto avete trascorso un'intera vita (artistica) in studio con Neal Avron. Pensi che lui sia il miglior produttore per la vostra musica? Cosa vi ha spinto a decidere di lavorare con lui fin da “Ocean Avenue”? R.K.: Neal è come se fosse il sesto membro degli Yellowcard, perché è ormai parte integrante del nostro processo di produzione e di scrittura delle canzoni. C'è un livello incredibile di fiducia tra lui e la band: questo ci permette di capire assieme a lui quando stiamo dando il meglio o quando c'è ancora da lavorare su qualcosa. Pensi che siate tornati più forti dopo quella pausa di due anni? Se sì, credi che questo si rispecchi chiaramente nel vostro precedente album, “When you're through thinking, say yes”, e anche in “Southern air?” R.K.: Credo che entrambi i dischi abbiano questa “forza” che hai menzionato. Sicuramente siamo tornati ispirati e determinati per riportare la band esattamente come e dove volevamo che fosse. Credo che dopo un anno e mezzo in tour, oltre trenta nazioni visitate e due dischi, possiamo tranquillamente dire di essere tornati più forti di prima. Parlando ancora di “When you're through thinking, say yes”: la ragazza a cui mandasti quel messaggio ti ha poi detto di sì?

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R.K.: Non ha mai detto di sì, ma in tutta onestà ora sto con una persona che mi ha reso più felice di chiunque altra prima di lei, quindi non sono troppo deluso da quel risultato! Tornando a “Southern air”: credi che la vostra musica abbia avuto una buona “evoluzione” o pensi che possiate mettere assieme a questo disco le canzoni di tutti i vostri dischi precedenti, facendo uscire una raccolta senza trovarvi a dire “quella canzone non suona per niente bene con le altre”? R.K.: Penso che con “Lights and sounds” ci siamo discostati parecchio dal nostro sound tipico. Abbiamo provato a fare qualcosa di diverso con quel disco, spingendoci il più in là possibile a livello musicale. Nonostante ciò, credo che comunque quell'album si collochi perfettamente nel processo di evoluzione degli Yellowcard. Ascoltare i nostri dischi in ordine è un po' come guardare un film che narra la storia delle nostre vite: ogni nostro album, nello specifico, rappresenta perfettamente il periodo e i luoghi che racconta, ma di sicuro quei dischi possono stare tutti insieme nella stessa raccolta. Siete passati dal DIY al mondo indipendente per poi approdare ad una major, per tornare poi ad essere indipendenti. Tralasciando il discorso economico, quale credi sia onestamente la migliore condizione per una band? R.K.: La gran parte dei soldi che abbiamo guadagnato quando stavamo su major è arrivata dalla rotazione dei pezzi in radio più che dalle vendite dei dischi. Vedendo la situazione attuale delle radio e rendendoci conto che non c'è più un vero e proprio spazio per una band come la nostra in quel mondo, uscire con un'etichetta indipendente è la migliore situazione possibile. In questo modo abbiamo il completo e determinato supporto di un fantastico gruppo di persone e per la prima volta nella nostra carriera probabilmente riusciremo a guadagnare con le vendite dei dischi. Questa è una gran bella sensazione. “Quel gruppo rock con il violino” è probabilmente una delle definizioni che più spesso vi rifilano. Credi che sia il modo migliore per descrivere quello che sono gli Yellowcard o si tratta di una definizione decisamente troppo riduttiva? R.K.: Ovviamente penso che siamo molto più di quello. Ad ogni modo l'opinione delle persone riguardo gli Yellowcard non mi preoccupa più di tanto. Adoro il mio lavoro e amo la mia band: finché la gente viene a vederci suonare dal vivo, non mi interessa come veniamo etichettati. “Martin Sheen or JFK” e “Five becomes four”: anche io sono un grande fan dei “Goonies”, come lo è anche Kris Roe per esempio. Cosa pensi ci sia di così speciale in quel film per molti della nostra generazione? R.K.: Sono cresciuto con quel film: è così importante tra i ricordi della mia infanzia che sarò sempre un fan dei “Goonies” anche io. Credo tranquillamente di poter dire che molta della mia creatività di quando ero ragazzino prendesse spunto proprio dai “Goonies”. Prima di salutarci voglio citare un vostro brano, “Be the young”: voi sarete sempre “giovani”? R.K.: Facciamo il possibile! Non c'è nulla come suonare in una rock band che ti possa far sempre sentire giovane!

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GOJIRA

Il gruppo francese è una delle migliori realtà dell’attuale panorama metal mondiale. Il loro quinto e ultimo album, “L’enfant sauvage”, è un lavoro complesso e decisamente brillante, sia nei suoni che nei testi, che porta una boccata d’aria fresca in un genere che non sempre ama rinnovarsi. A parlare con noi è il cantante/ chitarrista Joe Duplantier, direttamente da New York, città in cui vive da qualche mese. Di Daniel C. Marcoccia

L’enfant sauvage” è sicuramente un disco molto importante nella carriera del gruppo, il primo per una grossa etichetta. Come ci si trova a lavorare con una label americana come la Roadrunner? Joe Duplantier (voce, chitarra): È l’etichetta per la quale incidono molte delle band che ascoltiamo da anni e quindi è sicuramente un motivo d’orgoglio per noi, ma non ha influito sul nostro modo di comporre e fare musica. Lavorare con Roadrunner ci permette sicuramente di avere alle spalle una realtà discografica più solida e ben organizzata e di fare arrivare la nostra musica ovunque nel mondo. Suoniamo da quando eravamo adolescenti e con gli anni abbiamo sviluppato una nostra personalità, dei nostri codici e un linguaggio proprio. Se siamo cambiati negli anni è dovuto all’esperienza maggiore che abbiamo acquisito suonando dal vivo. Ogni disco dei Gojira presenta delle nuove influenze ma racchiude allo stesso tempo una componente molto sperimentale. Non ci sono regole prestabilite, solo del lavoro e tanto sudore.

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Veniamo al disco e al concetto di “bambino selvaggio”. C’è forse un tema ricorrente nelle nuove canzoni? J.D.: Non c’è un vero concept dietro questo titolo o in questo album. Il titolo “L’enfant sauvage” è venuto fuori in maniera piuttosto spontanea e riflette bene un certo tipo di tematiche a noi care come l’ecologia e la natura. La canzone parla di questo bambino che cresce nella foresta, senza contatto umano e quindi senza l’influenza della società. Sarebbe interessante studiare un individuo così, che non perde quella fiamma che abbiamo dentro alla nascita ma che soffochiamo inserendoci in una logica di vita quotidiana fatta di limiti e vincoli che ci imponiamo. Siamo troppo influenzati dall’educazione e tendiamo a colpevolizzarci a oltranza. Dare un titolo in francese a un album che esce per un’etichetta americana e destinato a far conoscere il gruppo nel mondo è alquanto spiazzante… J.D.: È vero, ma intitolarlo “wild child” avrebbe reso meno affascinante il tema della canzone e, inoltre, è un titolo già utilizzato in molte canzoni e film. In francese mantiene invece tutta la sua bellezza e riesce bene a evocare qualcosa di puro. A livello musicale, questo nuovo disco sembra molto più tecnico del precedente. Sei d’accordo? J.D.: Sì e credo che sia dovuto soprattutto ai numerosi concerti che abbiamo fatto dall’uscita del precedente “The way of all flesh” fino a oggi. Suonare dal vivo è fondamentale per un gruppo, ti permette di crescere e di sviluppare la tua tecnica. Anche quando sono stanco cerco comunque di dare il massimo e di superarmi. Suonare dal vivo è l’unica scuola valida per una band e quando lo fai per mesi e mesi, diventi un altro musicista.

Parlando di live, vi siete recentemente esibiti allo Stade de France, in apertura dei Metallica e davanti a 75.000 persone. Cosa ricordi di quella giornata? J.D.: Suonare in quello stadio ti regala una sensazione unica, che non si esaurisce appena scendi dal palco ma che ti porti dentro per molti giorni ancora. Avevamo avuto modo di suonare già in precedenza con i Metallica, quindi eravamo un po’ preparati, ma suonare davanti a tutta quella gente è stato davvero emozionante e ci ha caricati a mille. Avete anche fatto un tour negli Stati Uniti. Come viene vista una band francese che suona heavy metal da quelle parti? J.D.: In effetti, non capita spesso di vedere un gruppo metal di origine francese e questo può tornare a nostro vantaggio e creare curiosità. Suonare in America è stato importante per noi, volevamo farlo da un po’. Era necessario e utile per confrontarci con un pubblico diverso e gruppi che vantano una notorietà maggiore della nostra. È stata una vera sfida, abbiamo dimostrato agli americani di essere un gruppo con un suono potente e delle canzoni valide, ma anche capace di stare su un palco e offrire uno show solido e intenso. Eravamo headliner da dieci anni nel nostro paese quando siamo andati per la prima volta a suonare negli States e ci siamo ritrovati ad aprire i concerti di grossi nomi. È stato come tornare alle origini e partire alla conquista del nostro pubblico.

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THE WORLD’S GREATEST

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DOM. 11/11 > PADOVA - GRAN TEATRO GEOX LUN. 12/11 > FIRENZE - TEATRO VERDI

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LUN. 26/11 > MILANO - TEATRO FRANCO PARENTI

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METAL

DISCO DEL MESE

MUSE

“The 2nd law” (Warner) ★★★★

Parlare di un nuovo disco dei Muse è sempre un lavoro minuzioso da fare. Il gruppo del Devon ha questa particolarità di infilare nella propria musica le più disparate influenze, oltre al fatto di essere degli eccellenti musicisti che non mancano di ricordarcelo in tutte le loro canzoni. Questa sesta fatica non sfugge ovviamente alla regola, risultando, fin dai primi due singoli estratti, piuttosto spiazzante anche per il fan più incallito. In effetti, l’inno olimpico “Survival” stupisce per il suo incedere apocalittico, tra sonorità epiche dal lirismo

accentuato e mega esplosione di chitarre alla Brian May. Roba da rendere felice qualsiasi nostalgico dei Queen. "Madness", attualmente in rotazione, è invece un brano minimale che poggia su un loop electro e vede il cantato di Matthew Bellamy volutamente pop, a metà strada tra il George Michael di "I want your sex" e il Freddie Mercury più commerciale. Il nuovo album si apre comunque con "Supremacy", canzone dall'arrangiamento magniloquente e guidata da un giro di basso potente e vibrante. Nello stesso brano si passa da suoni superprodotti e puliti a una ruvidezza quasi grunge, citando perfino i Wings di "Live and let die". Decisamente un must. Il falsetto e il groove funky di

"Panic station" ci ricordano invece gli Inxs e con un valido remix il pezzo potrebbe sicuramente movimentare i dancefloor. Con "Follow me" ci si tuffa invece in un rock digitale, tra Giorgio Moroder, i soliti Queen e i Justice, con tastiere a fare da leggero sottofondo prima dell’inserimento di una ritmica più sostenuta e delle chitarre. "Animals" è un brano “passepartout”, di quelli che possono starci ma anche non esserci. Racchiude essenzialmente cambi di tempo, melodia e il frastuono di alcune persone che parlano e applaudono nel finale, mentre "Explorers" è una bella ballata, pomposa e dalle belle armonie, con un Bellamy particolarmente ispirato quando canta "free me from this world", riferito allo sfruttamento dell'energia del pianeta e delle risorse (tema che ritorna più avanti anche nella title-track). "Big freeze" è un altro brano destinato a spiazzare, più che altro per i suoi coretti iniziali in falsetto e le sonorità molto anni 80. "Save me" e “Liquid state” sono

infine i due brani scritti e cantati dal bassista Chris Wolstenholme. Il primo è una bellissima ballata che richiama non poco i Beach Boys nelle armonie e nella voce, come nel modo in cui si struttura e sviluppa. Il secondo è invece un boogie più ritmato, con un arrangiamento ancora una volta eighties, tipico dei film di quel periodo (a me fa pensare a “Miami Vice”…). Il gran finale è affidato alla title-track, divisa in due parti: "Unsustainable", che racchiude di tutto in pochi minuti, dai richiami alla musica classica fino all’electro, con una voce robotica che narra problemi di ecosostenibiltà (la classica che si imbatte nei Daft Punk), e "Isolated system”, ovvero una base elettronica molto bella, tra Jarre, i Depeche Mode e di nuovo i Justice. “The 2nd law” è senza dubbio un buon lavoro, composto pensando sicuramente alla sua resa ottimale negli stadi e nelle arene di mezzo mondo. Probabilmente la dimensione preferita dai Muse. Daniel C. Marcoccia

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nu rock

BLACK LIGHT BURNS

"The moment you realiza you're going to fall" (Rocket Science/THC)

★★★

Secondo disco per i Black Light Burns, band capitanata da Wes Borland che oggi può essere definitivamente slegata dal solo nome del chitarrista per diventare una situazione del tutto autonoma. Quanto visto nell'album di debutto trova nuova forza in "The moment...", un prodotto che alterna svariati generi, spiazzando in più occasioni ma riuscendo sempre a non far perdere il filo del discorso. Rock, metal, rock'n'roll, garage, industrial, post quello-

chevipare... tutto è presente. L'ottima "We light up", l'ubriacante "I want you to", la tetra "The girl in black", la mansoniana "Because of you" e la trascinante "Scream Hallelujah" dipingono solo in parte un quadro aperto a molteplici e articolate interpretazioni. Michele Zonelli

CARCER CITY "The road journals" (Carcer City)

★★★ Sacrifici, dedizione e buone doti artistiche: questa la formula che ha permesso ai Carcer City di abbandonare l'anonimato, conquistare la scena

BILLY TALENT “Dead silence" (Warner)

★★★★

Insieme agli Hives, i Billy Talent sono stati tra i protagonisti della preview del Rock In IdRho di qualche settimana fa (e protagonisti lo sono stati nel vero senso della parola, anche perché era qualche anno che non li si vedeva dalle nostre parti e la curiosità nei loro confronti era ai massimi livelli). È bastata solo un po’ di pazienza in più ed eccoci di fronte a “Dead silence”, il loro nuovo lavoro di studio. Un disco da tenere sott’occhio: già qualche anno fa avevo in "heavy rotation" nella mia personale classifica la loro hit - un po’ emo(tional) - “River below”, ma poi avevo perso di vista la band. E l’ho ritrovata adesso, più matura, con un sound tirato e decisamente più street punk, che per certi versi ricorda la produzione degli AFI nel periodo post “Sing the sorrow”, ma anche Good Charlotte e My Chemical Romance. Il background di riferimento è un po’ quello lì, ma brani come “Running across the tracks”, che in un solo titolo sintetizza il sound generale del disco, “Stand up and run” o anche “Man alive” fanno storia a sé. Superiore oltre ogni aspettativa “Viking death march”, che ascolterò in loop per molto tempo. Arianna Ascione

recen underground e arrivare all'attenzione dei grandi media... il tutto nel corso di un solo anno e con un album distribuito gratuitamente online. Sebbene parlare di metalcore sarà inevitabile, è doveroso fare una precisazione. Il suono della band trae sì spunto da questa scena ma si orienta verso la scuola modern metal d'oltreoceano, facendo propri improvvisi stacchi, epiche costruzioni, violenti riff e ritmiche compatte. Prendete il meglio dei due generi citati, aggiungete una composizione non scontata e otterrete uno dei debutti autoprodotti più competitivi degli ultimi tempi. Michele Zonelli

FEED THE RHINO "The burning sons" (In At the Deep End)

★★★★

I Feed The Rhino hanno lavorato molto per giungere a questo punto e, mentre intorno a loro il panorama musicale andava incontro a inevitabili mutamenti, la band non ha mai rinunciato al proprio suono. "The burning sons" emerge oggi non come un tuffo nel passato ma come una solida e competitiva proposta. La formazione anglosassone unisce le ruvide strutture dei Gallows alle moderne soluzioni degli Every Time I Die, il tutto all'insegna di un post-hardcore coinvolgente e selvaggio, caratterizzato da accenni stoner e metalcore (termine che più si avvicina). Diciamola tutta: i Feed The Rhino non hanno inventato nulla e non hanno rivoluzionato alcuna scena, semplicemente fanno ciò che vogliono e lo fanno maledettamente bene. Piero Ruffolo

JUST LIKE VINYL "Black mass"

(Superball Music/EMI)

★★★

Seguito dell'omonimo "Just Like Vinyl", "Black mass" si presenta come il vero debutto dei Just Like Vinyl, progetto nato dall'ex The Fall Of Troy Thomas Erak e da Jake Carden (The Filthy None). Con assonanze vicine a Coheed And Cambria, Faith No More e At The Drive-In, la formazione propone un post-hardcore maturo e complesso, contaminato da costrutti hard rock e liriche

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melodiche dalla spiccata attitudine screamo. Basta un rapido ascolto delle opening "Safety word" e "Bitches get stitches" per rendersi conto del potenziale espresso. Erak non sembra essere incline a paragoni col passato, ma la realtà è una: chi ha amato i The Fall Of Troy amerà i Just Like Vinyl. Per gli altri, un'occasione (la seconda) da non perdere. Michele Zonelli

MISSIVA

“Niente addosso” (Orquestra)

★★★

I pugliesi Missiva ci regalano tredici tracce di rock energico e dal forte impatto, prodotto assieme ad Amerigo Verardi (nome storico dell’indie-rock di casa nostra). Le canzoni del gruppo sono parecchio coinvolgenti, tra crossover, nu metal e inserimenti di loop elettronici che vanno a renderne ancora più spesse le trame sonore. I testi, parecchio diretti e intensi, diventano delle piccole bombe e slogan efficaci da riprendere in coro (“L’alternativa”, “Ign(i)orante” o ancora “Il disegno”, che vede l’aggiunta di una voce femminile, e “In faccia”). I Missiva riescono a regalarci una bella prova di nu rock adrenalinico che non perde mai un colpo per tutta la durata del disco. Cosa non da poco, credetemi. Piero Ruffolo

OUR LAST NIGHT "Age of ignorance" (Epitaph/Self)

★★

Eccoci a parlare ancora una volta di metalcore... Come sempre accade quando una nuova corrente prende piede, il numero delle band che ne sposano la causa aumenta a dismisura e questo porta a condannare anche chi davvero non lo merita. E gli Our Last Night? Gli Our Last Night devono ancora trovare la propria dimensione. La formazione presenta brani dal forte impatto metal(core), altri pop rock o vicini al nu metal degli anni 90, con intro rubate qua e là da qualche disco power (a quale scopo, poi, non è chiaro). Piacevoli spunti non mancano ("Send me to hell", "Age of ignorance", "Liberate me", "Enemy") ma la ricerca è ancora


nsioni PAPA ROACH "The connection"

(Nuclear Blast/Warner)

★★★★

Esplosi nel 2000 con "Infest", i Papa Roach sono stati tra i portabandiera

dell'allora fiorente scena nu metal. Sopravvissuti al trascorrere di tempo e mode, Jacoby Shaddix e compagni si sono rimessi spesso in gioco, commettendo alcuni passi falsi, è vero, ma riuscendo sempre a raggiungere l'obiettivo. Nessun passo falso e nessuna incertezza in "The connection": la miglior prova della recente discografia della band. Fin dalle prime note di "Still swingin" il messaggio è chiaro: riscoprire il passato e unire tutto quanto fatto dagli inizi a oggi. La formula nu metal torna protagonista, il pop degli ultimi anni passa in secondo piano, non abbandonato ma utilizzato solo quando necessario, e le liriche ritrovano versatilità e credibilità. Ne è un chiaro esempio "Where did the angels go", con aperture metal, ammiccanti ritornelli e strofe ora urlate ora rappate. L'incipit di "Silence in the enemy" trae in inganno, ma il deciso nu rock che ne segue sciama anche gli ultimi dubbi. Col procedere il disco non delude e non perde tono. La parte centrale, la più melodica e sperimentale, non stona e non stanca, riservando piacevoli sorprese. Il tiro si rialza e le conclusive "Walking dead" e "Won't let up" confermano l'idea iniziale. I Papa Roach sono tornati, questa volta sul serio. Michele Zonelli agli inizi e senza una decisa presa di posizione potrebbe non concludersi mai. Michele Zonelli

The Maine

“Pioneer & the good love” (Rude Records)

★★★

Un disco di 19 canzoni? No. Non che sia pigro e non abbia voglia di ascoltarlo, però in un’epoca di “consumo rapido” anche nella musica (soprattutto quando i dischi non si comprano ma si scaricano), fare un disco così lungo equivale a segarsi le

gambe. Sì, lo so che si tratta della ri-edizione di “Pioneer”, mai uscito sul mercato europeo, con delle tracce in più, però davvero: no! Avevo apprezzato tantissimo i Maine di “Can’t stop won’t stop”, se non altro per l’innocenza e l’ingenuità mostrate su quello che era il loro primo disco. Nel frattempo me li sono persi un po’ per strada e ora sono tornati nel nostro continente con un disco certamente buono, ma che non aggiunge più di tanto al già “florido” panorama delle classiche rock band con venatura pop che strizza l’occhio alle radio che non passano solo r’n’b e disco tunz tunz. Il mio pezzo preferito è “Some days”, che sembra un qualsiasi brano

NU ROCK degli ultimi All-American Rejects: ruffiano ma nel complesso piacevole, giusto per salvare il disco con una sufficienza... tirata. Alex de Meo

SHADOWS FALL "Fire from the sky" (Razor & Tie)

★★★

Difficile fare previsioni avvicinandosi a una nuova fatica firmata Shadows Fall. Protagonisti di una lunga carriera costellata di successi, assestamenti e cambi di rotta, i nostri tornano oggi con "Fire from the sky". Abituati al suono della band, il disco non sorprende particolarmente, consolidando quanto fatto in passato. In sostanza è come avere a che fare con una sorta di best of ma non in termini di brani, piuttosto dal punto di vista compositivo e musicale. Metal, hardcore, thrash, liriche tra urlato e melodico e scelte che giustificano la presenza di Adam D (Killswitch Engage) dietro le quinte sono gli ingredienti principali. Una prova che supera le precedenti senza urlare al miracolo. Piero Ruffolo

STEALING AXION

"Moments" (Inside Out/EMI)

★★★

L'ascesa di band votate a un prog metal moderno e contaminato ha contribuito alla crescita di giovani realtà dalle invidiabili doti artistiche. Dopo Periphery e TesseracT, è ora la volta degli Stealing Axion. Notato dal chitarrista/ produttore dei citati TessaracT, il combo americano propone lunghe cavalcate progressive animate da suoni di casa Meshuggah, epiche aperture, devastanti excursus e studiati virtuosismi. Tecnica e capacità non sono in discussione, resta chiara la difficoltà di affrontare un simile ascolto. "Moments" è un concentrato di tutto, troppo, e molti sono i passaggi necessari per una completa assimilazione. Il rischio è di abbandonare la sfida prima del tempo, possibilità che non ci sentiamo di condannare. Piero Ruffolo

SHINEBOX

“Into the great void” (This Is Core Music)

★★★★

Questi Shinebox sono l’ennesima conferma dell’ottimo stato di salute della scena alternative italiana: grintosi al punto giusto e bravi nel trasmettere la giusta carica a chi ascolta. Il loro è un lavoro che si potrebbe quasi catalogare come post-hardcore o versione particolare di ciò che oggi viene comunemente definito hardcore new school, un album fatto di brani carichi di sfumature e pathos, dai sentimenti contrastanti posti in evidenza dall’ottimo lavoro svolto sulla parte vocale. I riferimenti alla scena statunitense sono forti e chiari, ciò nonostante “Into the great void” ha molto da raccontare, storie personali e battaglie in corso. Un lavoro da godere in tutta tranquillità. Giorgio Basso

WE ARE THE OCEAN

“Maybe today, maybe tomorrow” (Hassle/Rude Records)

★★★★

Mi sono sempre state un po’ in culo le band inglesi un po’ indie e un po’ semplicemente British. Il vantaggio dei britannici (dell’Essex) We Are The Ocean è che fondamentalmente, tolti un paio di pezzi scritti apposta per fare contento il pubblico locale dal main stage dei vari Download, Reading e Leeds, suonano tanto piacevolmente americani. Non fraintendete, non sto facendo la sviolinata settembrina alla “God bless America”, ma ho sempre trovato i gruppi americani paradossalmente più “europei”, e quindi per me più adatti ai diversi gusti, rispetto a quelli inglesi. Se il singolo “Bleed” è la tipica canzone da rock club inglese, il resto del disco è un ottimo viaggio tra sonorità decisamente sorprendenti che passano dal “road rock” in stile Foo Fighters (come in “Young heart”) agli anthem da stadio di scuola 30 Seconds To Mars (vedi “Machine”). Approvatissimi come colonna sonora di fine 2012. Alex De Meo

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ROCK/POP CAT POWER “Sun”

(Matador/Self)

★★★★

Personaggio incredibile, Chan Marshall ci ha regalato in questi anni alcuni album bellissimi - su tutti “Moon pix” (1998) e l’incredibile “The greatest” (2006) – che ne lasciavano trasparire tutta la sensibilità e i tormenti. Cat Power è così, un’artista in lotta perenne contro i suoi fantasmi e un titolo così solare sembra racchiudere finalmente un certo ottimismo. A dire il vero, anche se rimane profondamente inquieta, la cantante ci propone una collezione di canzoni che vanno a costituire un patchwork sonoro fresco e accattivante, in cui si mescolano loop elettronici e aperture dance, richiami krautrock e chitarre elettriche lo-fi. “Cherokee”, “3,6,9”, la stessa title-track e “Human being” colpiscono per la loro freschezza, mentre “Nothin’ but time”, con i suoi quasi 11 minuti, è il vero manifesto di Cat Power (con Iggy

Pop che si inserisce nel finale). Sublime. Daniel C. Marcoccia

DANKO JONES

“Rock and roll is black and blue” (Rude Records)

★★★★

Sono pienamente convinta che quando il rock’n’roll si scontra con Danko Jones, sia lui (il rock intendo) quello che esce con le ossa a pezzi: ogni volta che viene pubblicato qualcosa di nuovo ci troviamo davanti a un match senza esclusione di colpi e ci vuole un fisico allenato come quello dei canadesi per reggere il tiro (anche al sesto disco). “Rock and roll is black and blue” raccoglie dodici brani potenti e diretti che si inseriscono sulla linea già tracciata nel predecessore “Below the belt”, altro masterpiece uscito soltanto due anni fa. Senza però dimenticare di rendere sempre un doveroso omaggio a chi ha fatto la storia (notare l’ammiccante citazione degli AC/DC in “Always away”). Arianna Ascione

recen MOUSTACHE PRAWN “Biscuits”

(Piccola bottega popolare)

★★★★

Dal cuore della Puglia, precisamente da Fasano, ecco l’ennesimo trio di ventenni di belle speranze. Stavolta però i “Baffi di Gambero” sembrano avere davvero una marcia in più. Solidi punti di riferimento anglosassoni sono band come Arctic Monkeys e The Strokes, ma si possono evidenziare altre influenze più acustiche e lo-fi. In ogni caso, originalità e idee non mancano loro di sicuro. Lo si denota anche da una spiccata attitudine surreale, psichedelica, persino naif, ben evidente nella grafica e nei testi. Date un’occhiata al video dell’incredibile singolo “Never thing so long” per averne prova. Ma è l’intero album ad essere costellato di episodi validissimi, come “Oil” o “Aeroplane”. Dal vivo poi paiono essere già dei veterani. Se non faranno passi indietro come i

58 RockNow

“A tremula terra” (Pelagogna)

★★★

Ecco una band che meriterebbe una maggiore esposizione ma che continua comunque il suo percorso artistico e sonoro in maniera tranquilla. A questo aggiungete anche la solita ricchezza di scrittura, (“Romeo disoccupato”, “Non ci resta che il mare”), che rende il folk-rock dei Leitmotiv interessante anche a chi non è particolarmente amante del genere (il sottoscritto), e arrangiamenti curati e attenti a regalare colori diversi alle varie tracce di questo terzo album. Si balla, ci si diverte e si pensa, anche, con la musica di questi bravissimi musicisti pugliesi. Un bel mix di suoni e di culture che trova il suo punto d’incontro in questo “A tremula terra”. Daniel C. Marcoccia

“Come of age” (Columbia/Sony)

★★★★

“Black traffic”

★★★★

La seconda vita che si sono concessi gli Skunk Anansie, dopo la pausa di ben 8 anni e iniziata con “Wonderlustre” del 2010, sembra avere regalato un’iniezione di adrenalina alla band. Infatti, questo “Black traffic” è probabilmente uno dei migliori album del quartetto londinese, un lavoro decisamente heavy che trova in Chris Sheldon (Foo Fighters, Biffy Clyro, Pixies) il produttore ideale. Canzoni come “Spit you out”, “I will break you”, “Satisfied” e “Sticky fingers in your honey” sprigionano energia da tutte le note, con la chitarra di Ace

LEITMOTIV

THE VACCINES

SKUNK ANANSIE (Carosello)

gamberi siamo certi che ne risentiremo parlare a breve. Nico D’Aversa

sempre in primo piano, la ritmica potente degli affidabili Mark (batteria) e Cass (basso) e, ovviamente, la voce inconfondibile e selvaggia della sempre brava Skin. È sempre lei, comunque, la marcia in più degli Skunk Anansie rispetto a tanti altri gruppi. Ruggisce e graffia nei brani più tirati e seduce irrimediabilmente nei momenti più lenti, come nel caso delle ballate “I hope you get to meet your hero” e “Our summer kills the sun”. Tutto questo a conferma che fare una lunga pausa può essere anche molto salutare. Michele Zonelli

Se la tappa del secondo album non è mai facile per molti gruppi, lo è stato probabilmente di più per i Vaccines. Soprattutto quando c’è di mezzo anche un settimanale musicale inglese, da sempre molto attento a trovare nuovi miti, esaltarli fino all’inverosimile per poi affondarli meglio. A due anni dal fortunato esordio con “What did you expect from The Vaccines?”, Il quartetto di West London ci regala invece una seconda prova di rara bellezza che ne evidenzia fin dal titolo, la crescita. Anche il look è cambiato, con facce dai capelli arruffati al posto della precedente immagine da bravi ragazzi. Prodotto da Ethan Jones (Kings Of Leon), l’album racchiude undici tracce orecchiabili in cui le chitarre ricamano melodie accattivanti e allineano riff su riff, come nel caso di “No hope”, “I wish I was a girl”, “Bad mood” e “Ghost town”. Più sporchi e più rock, i Vaccines di “Come of age” ci piacciono sicuramente di più. Daniel C. Marcoccia


nsioni

ROCK/POP “100”, il numero in cui si intrecciano religione, stato ed economia. Una voce graffiante che racconta di fallimenti umani, drammi personali, dei centri gravitazionali dell’anima e della voglia di superarli. Gli arrangiamenti alternano sonorità post grunge ad altre più vicine al rock britannico, attingendo alla tradizione cantautoriale italiana. Energico e nostalgico allo stesso tempo, “100” è un disco che scorre veloce, che non indugia in sovrastrutture armoniche inutili, arriva dritto, senza deviazioni. Da ascoltare come prova della forza, spesso sottovalutata, del rock indipendente italiano. Sharon Debussy

THE CRIBS

“In the belly of the brazen bull” (Wichita/Goodfellas)

★★★★

AMANDA PALMER “Theatre is evil”

(Cooking Vinyl/Edel)

★★★★

Per realizzare il suo nuovo disco ha soltanto chiesto un piccolo aiuto economico ai suoi fan e si è ritrovata con più di un milione di dollari a disposizione. Grazie a un mezzo innovativo come la piattaforma Kickstarter, Amanda Palmer, fascinosa artista che molti avranno già conosciuto grazie ai Dresden Dolls, per il nuovo capitolo della sua avventura solista è stata ampiamente ricompensata dei suoi ammiratori. Che hanno versato il loro obolo così, a scatola chiusa, fidandosi ciecamente solo del talento di Amanda. E hanno fatto bene: “Theatre is evil”, un disco che difficilmente sentirete per radio, merita ogni singolo centesimo speso. Uno dei lavori più interessanti del 2012, io ve lo dico già. Arianna Ascione

Füsch! “Corinto”

(Jestrai/Venus)

★★★

I Füsch! sono una nuova band composta da Amaury Cambuzat (Ulan Bator), Pierangelo Mecca (Fiub), Mario Moleri e Mariateresa Regazzoni, tutti personaggi che animano da anni il sottobosco musicale di casa nostra. I quattro musicisti ci propongono un indie-ock dalle tonalità new wave (soprattutto nell’approccio alle tastiere), digressioni post-rock (“Misantropo"), episodi psichedelici (“Sento”, “Medicina rossa”) e distorsioni (“Medicina rossa”) che

rendono questo primo lavoro particolarmente oscuro (qualche sprazzo di luce arriva con “Tropical fish”). “Corinto” è un lavoro decisamente particolare, a tratti ostico, e non vuole essere una critica. Piero Ruffolo

LE CARTE “100”

(La Rivolta)

★★★

Ottima terza prova per Le Carte, band del Salento, terra feconda di rock schietto e spontaneo. Dodici tracce di rabbia che vertono sulla centralità del

Nuovo album per i Cribs, band britannica composta dai fratelli Jarman, che ha esordito nel 2001. “In the belly of the brazen bull” offre 14 pezzi che viaggiano nel tempo, soffermandosi principalmente negli anni 60, con richiami decisamente beat e qua e là balzi in avanti nel rock anni Novanta (“Chi-Town”). L’album resta tuttavia prevalentemente sixties, con suoni che si riconoscono già nei primi pezzi come “Glitters like gold” e “Come on, be a no-one” (usciti anche come singoli). Di semplice ascolto, per nostalgici del genere, chitarrine e coretti cantilenanti e un sound sbarazzino fatto comunque e sempre di buona musica, per un pomeriggio “easy going”. Se proprio non piace il genere, un paio di canzoni sono più che sufficienti. Valentina Generali

THE CROOKES “Hold fast”

(Fierce Panda/Goodfellas)

★★★★

Secondo album della band inglese originaria di Sheffield, “Hold fast” racchiude un indie-pop che sorride, nostalgico ma energico, sbarazzino ma emotivo. Leggero senza essere ripetitivo, la sua impronta segue la linea del precedente e si capisce subito con “Afterglow” e “Maybe in the dark”, dove la batteria rulla veloce ma senza infastidire, la chitarra svolazza sulle note leggere di pezzi come “Stars” che

accompagnano la voce assolutamente british di Waite. “American girls” ci fa fare un tuffo in atmosfere da film anni ’50. Decisamente anni sixties invece “The cooler king”. Nel complesso un album vivace che mette allegria, romantico senza troppe pretese. Valentina Generali

VIOLADIMARTE

“La sindrome dei panda” (MK Records/Self)

★★★

Tra rock e psichedelia, con piacevoli sbandamenti prog, “La sindrome dei panda” è un disco decisamente riuscito (fin dalla curiosa copertina) in cui fanno capolino suoni distorti che vanno a intrecciarsi con quelli altrettanto accattivanti delle tastiere. A questi si sovrappongono i testi, curati e personali, che rendono particolarmente gradevoli canzoni quali “Lacrime di vetro blu”, “A testa in giù” e “Paragioia”. I Violadimarte, che a tratti possono ricordare gruppi come Afterhours e affini, hanno sicuramente delle belle idee e le capacità compositive ideali per regalarci altri lavori di qualità in futuro. Nel frattempo, lasciatevi conquistare da “La sindrome dei panda”. Daniel C. Marcoccia

BLOC PARTY “Four”

(Cooperative/Self)

★★★

“Silent alarm”, il primo album dei Bloc Party, rimane ancora oggi un gran bel lavoro, all’insegna di un pop rock ritmato, particolarmente accattivante e dalla scrittura fresca e originale. In seguito, il gruppo londinese si è un po’ perso per strada, tra deliri electro e alcuni dissidi interni. Fatto sta che a 4 anni dal poco memorabile “Intimacy” (e dopo l’esordio solista del frontman Kele Okereke), i quattro musicisti fanno il loro ritorno con un disco quasi sorprendente. In effetti, se siamo ancora lontani dallo splendore del già citato “Silent alarm”, “Four” prende le distanze dalle sonorità fuorvianti dei dancefloor e si tuffa nuovamente nel rock fatto di chitarre, come ben evidenziano le varie “So he begins to lie”, “3X3” o ancora “Coliseum” (quest’ultima quasi stoner). Degne di note, infine, “Kettling” e “Real talk”. Un gruppo ritrovato. Daniel C. Marcoccia

RockNow 59


METAL DOWN

"Down IV part. I - The purple EP" (Roadrunner/Warner)

★★★★

Dopo tre studio album, i Down segnano l'avvio di una nuova era: quella degli EP. Il primo di questa serie conferma che se esiste una band che non è mai scesa a compromessi, beh, si chiama Down. Nonostante l'uscita di Rex Brown, rimpiazzato da Patrick Bruders al basso, i Down rimangono i Down, whatever. Sei tracce lunghe registrate al Nodferatu's Liar di New Orleans: 100% oscure, 100% sporche, 100% distorte: 100% Down. "The purple EP" è la summa di tutto quello che la band rappresenta: quel sound profondamente sudista che è la sua magica quintessenza.

Phil Anselmo lo ha sempre detto: i Down non hanno bisogno di mostrare - o di dimostrare - nulla. Amen. Sharon Debussy

SLIPKNOT

“Antennas to hell” (Roadrunner/Warner)

★★★★

“Antennas to hell” racchiude quello che può essere considerato il primo periodo di vita degli Slipknot, ovvero il meglio (e non solo) di quattro album stupendi che hanno creato lo scompiglio all’interno della scena metal. Allo stesso tempo, questa compilation vuole essere anche un omaggio allo scomparso Paul Gray, bassista e elemento importante della formazione. Il gruppo di Des Moines non ama tuttavia fare le

CRADLE OF FILTH "The manticore and other horrors" (Peaceville/Audioglobe)

★★★★★

È arrivato. O almeno, ci siamo così vicini che mi sento di metterlo nero su bianco senza timore di rimpiangerlo un domani: “The manticore and other horrors” è il disco extreme-metal del 2012. Senza se e senza ma, una prova maiuscola per i Cradle Of Filth, un album che ci restituisce in maniera definitiva i veri fuoriclasse della frangia più estrema dell’heavy metal: dopo qualche album non riuscito al 100% e l’ottimo “Darlkly darkly venus aversa” di due anni fa’, il 31/10/2012 i Cradle Of Filth piazzeranno il vero colpo del K.O.! “The Manticore...” è praticamente perfetto, un parziale ritorno alla furia “punk” dei primi dischi (virgolettato d’obbligo, i Green Day non abitano qui!) con le dolci aggravanti della maestosità e della potenza imparate nell’ultimo decennio. Se mi consentite il vilipendio, considerato l’amore per certi riff che impregna tutte le tracce del disco mi azzardo a candidare i Cradle Of Filth come gli Iron Maiden della decade; c’è molto della band di Paul Harris in “The manticore and other horrors”, un gusto per melodie veloci e tirate che non possono che ricordare i primissimi dischi dei maestri inglesi. Di sicuro non un lavoro per tutti, di certo un album immancabile per i palati musicali più forti. Luca Nobili

60 RockNow

recen cose come gli altri e limitarsi a un semplice dischetto: ecco quindi una bella confezione digipack con in più un bonus CD con il concerto dei 9 al Download Festival del 2009 e un DVD con tutti i video (anche la versione “animated” di “Wait and bleed”). Abbastanza, sicuramente, per soddisfare i numerosi fan della band. L’avevo già detto ma lo ripeto, gli Slipknot sono la cosa migliore capitata alla musica metal negli ultimi tredici anni. Daniel C. Marcoccia

icone del doom metal mondiale, "A map of all our failures" è precisamente quello che i fans del genere vogliono e amano: ritmi lenti e schiacciati, chitarre apocalittiche, vocals profondi e testi depressi. Come d'ordinanza la band spergiura che è il suo disco migliore da "x" anni, onestà mi forza a segnalare che così non è... Ma è un buon disco doom, merce abbastanza rara di questi tempi. Luca Nobili

HOTEL DIABLO

NEKROSUN

“The return to psycho California” (Scarlet Records)

★★★★

Se vi piace un certo tipo di hard rock/ metal, di quello melodico ma comunque potente e marcatamente 80’s, ecco una band che farà sicuramente al caso vostro. Gli Hotel Diablo sono il nuovo progetto di Rick Stitch e Alex Grossi, in passato voce e chitarra degli Adler’s Appetite e oggi in cerca di una dimensione musicale sicuramente più personale rispetto al progetto del primo batterista dei Guns N’ Roses. Con “The return to psycho California”, prodotto da Gilby Clarke (ex GN’R anche lui, tanto per rimanere in tema), i due mettono a segno un grande colpo con un ottimo disco di heavy rock tutto riffoni, assoli e ritornelli a impatto immediato. Brani quali “Taken”, “Psycho, California” e “All these years” faranno impazzire chi è ancora alla ricerca di gruppi quali Bang Tango, Slaughter o Skid Row. L’inutile cover di “Wonderwall” degli Oasis è probabilmente l’unica nota stonata di questo disco, soprattutto considerando che i nostri hanno una loro ballata, “What you do to me”, decisamente più bella. Daniel C. Marcoccia

MY DYING BRIDE "A map of all our failures" (Peaceville/Audioglobe)

★★★

Scrivere di un nuovo album dei My Dying Bride è fin troppo semplice. Pur nella totale diversità musicale (e ben diversa "stazza artistica"), è paragonabile a recensire un lavoro degli AC/DC o dei Motörhead...chiunque conosce la band sa cosa aspettarsi e apprezzerà, chi non vuole saperne non cambierà idea mai e poi mai. Dodicesimo album per questi inglesi che da oltre vent'anni sono vere e proprie

“The grace of Oxymoron” (Crash And Burn Records)

★★★★

Come definire un disco ricchissimo di spunti? Semplicemente non c’è definizione. E proprio su questo aspetto puntano tutto i varesini Nekrosun, che in “The grace of Oxymoron” riescono nella difficile impresa di unire un’unico disco una quantità impressionante di idee assai diverse tra loro. Lirica, growl, heavy, prog-metal e molto altro all’interno dei loro brani, studiati in modo maniacale e decisamente gradevoli all’ascolto. Definirlo un disco immediato sarebbe esagerato, in quanto servono diversi ascolti per comprendere ogni sua sfumatura, ciò nonostante rimane un toccasana per chi è ormai stufo di produzioni fatte con lo stampino e prive di personalità. Una piacevole sorpresa. Giorgio Basso

SYLOSIS "Monolith"

(Nuclear Blast/Warner)

★★★★

Quinto album per i Sylosis che, a dispetto di mode e tendenze, proseguono sulla strada intrapresa anni fa e i risultati non possono che dare loro ragione. Registrato sotto la supervisione di Romesh Dodangoda (Funeral For A Friend, Earthtones), "Monolith" si presenta come il perfetto punto di incontro tra modern thrash e melodic metal. Concept album dedicato al Mito di Orfeo ed Euridice, il disco si apre con "Out from below", brano di quasi 7 minuti all'interno del quale presentano tutto quanto sviluppato in seguito. Brutali cavalcate e cupe aperture melodiche si alternano senza sosta, mentre intro dai toni epici traggono in inganno per lasciare immediatamente il posto a veloci riff e profondi growl. Da avere. Michele Zonelli


nsioni ALL TIME LOW

“Don’t panic”

★★★★

(Hopeless/Rude Records)

Brevemente: se vi piacciono gli All Time Low dei dischi precedenti questo album non vi deluderà. La formula vincente dei pezzi pop punk funziona sempre, soprattutto quando la qualità delle canzoni è sempre alta ed è la produzione a migliorare di volta in volta adeguandosi ai tempi. Ad Alex Gaskarth e compagni il voto massimo non lo darò mai (credo di non averlo mai dato a nessuno), ma so che avrò sempre a che fare con una band per cui potrei fare una buona recensione senza nemmeno ascoltare il disco (non succede a RockNow, non preoccupatevi, ma altrove e c’è chi lo fa e ci campa da anni...). Ascoltatevi le ottime “The reckless and the braveless” e “For Baltimore” per non perdere l’orecchio con il loro sound tipico, ma godetevi anche la piacevole sorpresa di “So long soldier”, che rivela un po’ di anima metallara e hardcore melodica degli All Time Low, con l’aggiunta di un testo che non parla delle solite cazzate. Alex de Meo

DEROZER

“Fedeli alla tribù” (Indiebox)

★★★

Non si può certo dire che per il loro ritorno sulle scene i Derozer si siano risparmiati in quanto a carne sul fuoco: 24 brani più un inedito e un DVD con mezz’ora scarsa di filmati (d’epoca e non) che con ogni probabilità rischieranno di far scendere qualche lacrimuccia ai fan più datati. La tracklist è né più né meno la scaletta-tipo che stanno portando in giro per l’Italia da quest’estate, e al suo interno non manca davvero nessuna delle canzoni che anno dopo anno, disco dopo disco, li hanno resi una delle punk band più amate e longeve del nostro Paese. Fan sfegatati,

nostalgici, nuove leve: avete tutti almeno un buon motivo per portarvi a casa questo cofanetto che racchiude in sé un bel pezzo di storia del punk rock nostrano. Stefano Russo

GALLOWS “Gallows”

(Venn Records)

★★

Mi piacerebbe essere qui a raccontarvi di una band in grado di zittire tutti gli "haters" e di riprendersi tutti i fan della prima ora, pesantemente delusi dall’abbandono definitivo di Frank Carter e dal conseguente cambio di singer. Mi piacerebbe davvero. Purtroppo, però, la storia è un’altra: con la dipartita di Carter, i Gallows hanno perso tanto,

PUNK/HC tantissimo. Forse troppo. Non me ne voglia Wade MacNeil, che nello scomodo ruolo di “quello nuovo” fa onestamente il suo, come già faceva negli Alexisonfire, ma l’energia distruttiva e la personalità della band erano evidentemente farina del sacco dello smilzo tatuatore dai capelli rossi. Il quale, andandosene, ha di fatto declassato la band al livello “buon gruppo come ce ne sono tanti in giro”. Mezz’ora scarsa di musica che, anche dopo svariati ascolti, proprio non arriva. Stefano Russo

NOFX

“Self/Entitled”

(Fat Wreck Chords/Self)

★★★

Dopo 20 anni forse non serve nemmeno più dirvelo, ma ad ogni modo: si, anche questo è inequivocabilmente un disco dei NOFX! Rispetto ai dischi più recenti della band di Fat Mike, questo Self Entiltled si distingue principalmente per l’assenza di pezzi ska-oriented e ci regala un altro paio di pezzi dal taglio molto personale (stile “My orphan year” sul precedente “Coaster”, per intenderci) che invece latitavano sugli album più datati. Per il resto, una manciata di pezzi grandiosi (“72 Hookers” e “This machine is 4” su tutti) e tutti gli altri tranquillamente nella media di una band ancora in grado di fare scuola. Il voto finale è più politico di quanto possa sembrare... Quindi se siete già loro fan, alzatelo tranquillamente di una tacca. Stefano Russo

THE CROOKS “Atomic rock” (Dischi Volo Libero)

★★★

Se c’è una cosa che all’Italia del punk è sempre riuscita bene, almeno fino a qualche anno fa, è quella di sfornare band oneste e dirette che non stanno troppo a menarsela sul taglio di capelli o sul trend musicale del momento e pensano semplicemente alla loro musica. Una di queste sono senza dubbio i Crooks, che compiono il 15esimo anno di attività e arrivano con “Atomic rock” al traguardo del quarto full length. Le dieci tracce puzzano di CBGB lontano un

miglio, gli echi di Ramones, New York Dolls e Stooges sono riconoscibili in un secondo e il loro punk rock’n’roll fila senza particolari intoppi dall’inizio alla fine del disco senza farti venire voglia di skippare o, ancora peggio, di premere stop. E di questi tempi non è poco. Stefano Russo

RIVELARDES “Rivelardes EP”” (This Is Core Music)

★★★

Un mini di soli tre brani può aiutare un ascoltatore a capire la nuova direzione stilistica presa dai Rivelardes? A detta loro sì e proprio per questo motivo eccoci dinnanzi a questo “Rivelardes EP”, prodotto che mette in risalto un DNA prettamente pop-punk fatto di melodie azzeccate e cantato a rischio diabete talmente è dolce. I cambi di line-up hanno sicuramente inciso in positivo, spingendo il gruppo bresciano verso orizzonti rock mai sperimentati finora. Rimaniamo in attesa dell’album per giudizi più ponderati, per il momento avanti così. Giorgio Basso

IGNITE

“Our darkest day live” (Century Media)

★★★

Non si può certo dire che gli Ignite siano una band prolissa dal punto di vista discografico, né tantomeno che siano specializzati in uscite lampo: questo CD/DVD live è la prima uscita della band dal 2006, anno in cui pubblicarono il bellissimo “Our darkest day”, e documenta un concerto registrato nell’aprile 2008 a Leipzig, in Germania. Il perché di questa lunga attesa hanno provato a spiegarcelo nell’intervista uscita sullo scorso numero di RockNow, perciò vi basti sapere che la qualità del prodotto finale giustifica questi 4 anni di lavoro. L’energia e l’attitudine della band capitanata da Zoli Teglas sono fotografati alla perfezione (merito anche di un montaggio molto curato) e la ciliegina sulla torta è il docufilm di mezz’ora sulla realizzazione dell’album sopracitato. Stefano Russo

RockNow 61


FLIGHT CASE

Un disco, un tour, un disco, un tour… Questa è più o meno la routine per molti degli artisti che avete incontrato nelle pagine precedenti. Ed è proprio ai concerti che è dedicata questa rubrica, con tuttavia una piccola differenza: questa volta vi portiamo dietro il palco alla scoperta di piccoli rituali e abitudini varie.

jocke berg (Hardcore Superstar)

Di Arianna Ascione - foto Arianna Carotta Qual è stato finora il concerto più bello che avete fatto e perché? Quando abbiamo suonato con gli AC/DC a Goteborg: ho anche dedicato una canzone a mia mamma perché era il suo compleanno. Il concerto peggiore? Stavamo suonando in Spagna e abbiamo dovuto interrompere il concerto perché si era rotta tutta la strumentazione! Il posto più bello in cui avete suonato? Australia, è un posto stupendo. Qual è il pubblico più strano che avete incontrato? Una volta in Austria il pubblico era totalmente immobile, con le braccia incrociate. Come se ci dicessero “Hey ragazzi, cosa sta succedendo qui?”. Cosa non dimenticate mai di portare con te in tour? Il mio Mac e il tabacco svedese, lo ‘snus’. Come passi il tuo tempo tra una data e l’altra? Faccio ginnastica, vado a correre, 5 chilometri più o meno. Provo a esplorare le città in cui siamo. Cosa non deve mai mancare nel vostro camerino? Avete richieste particolari? Il nostro whisky preferito! Avete delle regole da rispettare sul tour bus? Non cagare sul tour bus. C’è una cover che vi piace suonare durante il soundcheck? “Shout at the Devil” dei Mötley Crüe… ma facciamo davvero un sacco di cover nei soundcheck. Avete un rito particolare prima di salire sul palco? Facciamo uno “shout at the devil” collettivo! Qual è la figuraccia peggiore che avete fatto dal vivo? Avevo perso la mia bottiglia di whisky dietro al ride della batteria. Ero un po’ su di giri perché era il mio compleanno ed ero arrabbiatissimo. Suona un po’ stupido a raccontarlo.

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