Luigi Manconi Valentina Brinis
Accogliamoli tutti Una ragionevole proposta per salvare l’Italia, gli italiani e gli immigrati Prefazione di CÊcile Kyenge
Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreED Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore © il Saggiatore S.r.l., Milano 2013
Accogliamoli tutti A Pap Khouma e a Oreste Pivetta che, nel 1990, scrissero Io, venditore di elefanti e a Cecilia Milagros Aldazabal Alzamora
Sommario
Prefazione di Cécile Kyenge 1. Il nome e il cognome dell’altro Sassari, 1988 Ma ci conviene espellerli?
2. Prove di accoglienza Una concretissima utopia Lavoro rubato? Forse ritrovato o inventato Badanti, infermieri, pizzaioli e altri ancora E se andassero tutti via? E se non venissero più?
3. Non sono tutte rose e fiori Tutti delinquenti? Infibulazione, poligamia e altri pasticci etici
9 15 15 21 25 25 37 44 60 67 68 75
4. Accogliamoli tutti
85 Voler bene agli immigrati (e ai profughi)? 85 «Portateli a casa vostra!» Ovvero: accoglierli, ma dove? 94
Conclusione. Una ragionevole proposta
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Note
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Prefazione
Non è un precetto evangelico, non è l’utopia di un estremista, non è nemmeno una provocazione (come spiegheranno gli autori): il titolo di questo libro esprime un’eventualità necessaria e perfino conveniente. Perché fare dell’Italia un paese aperto e capace di accogliere? Le ragioni di fondo che individuano Manconi e Brinis, dopo anni di serio impegno e di approfondito studio su questi temi, sono due: perché non si può fare diversamente e perché, a certe condizioni, l’arrivo di nuovi cittadini da altre nazioni può portare sorprendenti benefici al paese. L’Italia, come tutti gli stati che hanno raggiunto un certo grado di benessere e rispetto dei diritti, è un luogo che attira persone in fuga da fame, guerre e dittature; che richiama individui che aspirano a dare una svolta positiva alla loro vita e intendono esercitare la loro libertà di movimento cambiando orizzonte. Un fenomeno sociale come le migrazioni – che coinvolge elevati numeri di uomini e donne, che si dipana in un ampissimo arco temporale, che muove da motivazioni profonde, urgenti bisogni e potenti desideri – non può dunque essere fermato se non per una quota irrisoria. Tutti coloro che hanno provato ad attuare il proibizioni-
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smo delle migrazioni ne sono usciti praticamente sconfitti. Inoltre, tali politiche hanno imposto costi elevatissimi in termini di vite umane: ricordiamo le decine di migliaia di morti alle frontiere d’Europa. Ma non solo: pattugliare, recludere, espellere e respingere comporta un’imponente spesa pubblica, tale che, stando ai numeri, il gioco non sembra valere la candela. Tutto ciò non significa che le migrazioni vadano subite passivamente: gli autori sono lucidi da questo punto di vista. L’arrivo consistente di persone provenienti da diversi contesti geografici e culturali, con storie di vita spesso travagliate ed esposte a situazioni di marginalità, apre una serie di difficoltà e dilemmi di non semplice risoluzione. L’immigrazione dunque non può essere semplicemente osteggiata, né deve essere banalmente subita, né ricevuta con ingenuo e paternalistico sentimentalismo. L’immigrazione va governata affinché divenga la risorsa che può e dovrà essere. E qui gli autori esprimono la loro critica severa alla politica italiana: l’immigrazione – sostengono – non è stata sufficientemente governata, non è stata resa progetto. Io leggo il loro severo giudizio come un invito a realizzare politiche lungimiranti ed efficaci che includano vecchi e nuovi cittadini in un’idea di paese innovativa e al contempo radicata nei valori che l’hanno fondato. Un progetto d’Italia che prenda sul serio l’uguaglianza dei diritti, che sappia valorizzare il capitale umano nelle sue specificità, che sia in grado di far fiorire i territori grazie all’apporto che ciascuno è in grado di offrire indipendentemente dalla propria genealogia, che sappia promuovere un rinnovato patto sociale, in cui il conflitto si esercita attraverso i mezzi della democrazia e la solidarietà è frutto di un’operosa condivisione. Ma come può accadere che tutto questo si realizzi? Com’è possibile che tra i poveri della terra che entrano nel Belpae-
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se e i poveri italiani non si scateni una guerra? È ammissibile che in tempo di crisi si accolgano nuovi venuti, si distribuiscano servizi sociali e si accrescano i diritti di tutti, pure dei migranti? L’interessante tesi che questo libro promuove, avvalorata da diversi esempi, è che tutto ciò è possibile, perché i diritti sono tra loro indivisibili e addirittura sinergici. Dati incontrovertibili dimostrano che l’uscita dalla condizione di irregolarità (quindi un avanzamento in termini di diritti e opportunità) diminuisce drasticamente il tasso di reati commessi, con un evidente vantaggio per l’intera comunità. Si può quindi affermare che, ai fini della sicurezza, fanno più i diritti della repressione. Inoltre, ampliare le maglie della regolarizzazione dei migranti significa emersione del lavoro nero e dunque minore evasione fiscale, con beneficio delle casse pubbliche. In alcuni comuni della Calabria, come Riace, Caulonia e Acquaformosa, poi, si è scoperto che l’accoglienza dei rifugiati poteva essere la risposta giusta per far rinascere e crescere anche economicamente un paese invecchiato e spopolato dall’emigrazione. Questi e numerosi altri esempi ben argomentati nel presente volume dimostrano che, in presenza di un progetto politico serio, l’immigrazione può divenire davvero un’occasione di ripresa e «risorgimento». Ma affinché ciò avvenga occorre vincere l’idea che la coperta sia troppo corta. La tela va ancora tessuta e, se lo facciamo insieme, la coperta potrà diventare più lunga di quella che da soli avremmo mai potuto sperare di ottenere. Cécile Kyenge Ministro per l’Integrazione
7 agosto 2013, Agenzia Adnkronos. Sono state trovate, ieri pomeriggio a Milano, nude, con ecchimosi e segni di costrizione a polsi e caviglie. Si tratta di tre giovani ragazze cinesi che sarebbero riuscite a scappare da un presunto aguzzino che le avrebbe segregate in casa, ma non si sa ancora per quanto. 7 agosto 2013, Unioncamere. Quasi 18 000 le assunzioni non stagionali in meno rispetto al 2012. Cali più forti nelle micro e medio-grandi imprese, entrate quasi dimezzate al Sud. La contrazione maggiore del fabbisogno di lavoratori immigrati interessa più il comparto dei servizi, dove quest’anno sono previste 13 430 assunzioni in meno rispetto al 2012 (-31,7 per cento in termini relativi), e meno quello dell’industria, che complessivamente riduce di 4180 unità il suo fabbisogno (-22,9 per cento sull’anno precedente). Mentre scriviamo questo libretto, le due notizie qui sopra riportate sembrano voler mettere in discussione alla radice quanto intendiamo argomentare. La prima evoca scenari inquietanti non solo di mancata integrazione, ma forse anche di una sorta di vita criminale parallela, che si sviluppa nelle nostre città a seguito di alcuni effetti incontrollabili dei fenome-
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ni migratori. La seconda notizia evidenzia l’instabilità di quei processi, da tempo documentati, di positivo inserimento del lavoro straniero all’interno del nostro sistema produttivo. In realtà, a nostro avviso, quei due dispacci di agenzia raccontano solo di quanta fatica comporti la dinamica delle relazioni interetniche nelle fasi di più acuta crisi economica e sociale. Con questo testo abbiamo voluto provare a completare il racconto, integrandolo con altre informazioni e altre esperienze, quadri inediti e prospettive ancora sfocate, che pure cominciano a delinearsi. Abbiamo scelto di farlo attraverso un pamphlet perché la discussione pubblica italiana in materia di immigrazione sembra oscillare un po’ affannosamente tra i toni accaldati della polemica politica e quelli pacati dell’analisi scientifica. In tale contesto, pensiamo che possa risultare utile un intervento di non troppe pagine che, ricorrendo ad alcuni dati economici e sociali o limitandosi a evocarli, si prenda la responsabilità di formulare una proposta radicale. Eppure – riteniamo – plausibile e attendibile. In altre parole, scandalosa in apparenza, ragionevolissima nei fatti. L.M. V.B. 30 settembre 2013
1. Il nome e il cognome dell’altro
Sassari, 1988 Tutto ebbe inizio nell’autunno del 1988, a Sassari. Almeno per noi, ebbe inizio allora. Ci trovavamo da Benito, il forno della fainé (la farinata di ceci che è, di per sé, una traccia significativa delle nostre migrazioni interne) di via Sant’Apollinare, nel quartiere che porta lo stesso nome. Era il tardo pomeriggio e ci si era seduti da poco a un tavolino, quando un uomo, che aveva evidente familiarità con il locale e i suoi frequentatori, si rivolse al titolare. Il volume della voce era quello consueto delle ordinarie conversazioni familiari e, in generale, della quotidianità: era, cioè, elevatissimo. Quella voce domandò: «Hai visto Carboni?». La risposta: «Ancora no, ma verrà». Non facemmo particolare caso a quel dialogo, e continuammo a mangiare le nostre fette di fainé. Dopo qualche decina di minuti, sentimmo lo stesso Benito rivolgersi a qualcuno: «Buonasera Carboni». Ci voltammo senza particolare curiosità, ma non potemmo non sorprenderci nel realizzare che «Carboni» era un africano di altissima statura che, sorridente, rispondeva al saluto. La mano destra stringeva un enorme borsone celeste di tela plastificata (polipropilene?). La sua presenza e la sua attività non costituivano,
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nemmeno allora, un evento così raro: già al tempo in Italia, e anche nell’isola, i venditori ambulanti erano numerosi, e molti di essi erano senegalesi. Palesemente Carboni era uno di loro, e quel borsone non nascondeva alcun mistero. Rivolgendosi al nuovo arrivato, Benito gli disse che qualcuno lo aveva cercato. E così Carboni si sedette su una panca, chiese una Ichnusa (birra sarda considerata di notevole pregio) e si mise in attesa. A questo punto, incuriositi, notammo che Benito segnava su un suo quadernetto il costo della consumazione (si trattava dunque di un cliente abituale) e seguimmo la scena successiva, quando Carboni venne raggiunto dalla persona che prima lo aveva cercato. Poche parole e, in cambio di non sappiamo quale cifra, ci fu un passaggio di bombolette di butano per accendino. Poi, a breve distanza l’uno dall’altro, i due si allontanarono. Quando ci recammo alla cassa, chi tra noi aveva più confidenza con Benito chiese come mai il venditore ambulante avesse un nome «così sardo». La risposta giunse con sorprendente semplicità: piuttosto che imparare nomi stranieri «strani» e, soprattutto, difficili da ricordare e pronunciare, si preferiva ricorrere a cognomi locali molto diffusi – Carboni, dunque, o Nieddu (nero in lingua sarda) – che richiamavano la peculiarità fisica di quegli stranieri (il colore della pelle, appunto). La nostra ipersensibilità, propria di persone politicamente correttissime, ci fece registrare un lieve sbandamento (troppo anonima, generica e omologante appariva quella denominazione), ma la tranquillità con cui veniva accolta dal diretto interessato ci rassicurò un po’. D’altra parte, Carboni o Nieddu erano sempre meglio, infinitamente meglio, di quel vu’ cumprà all’epoca dominante. È probabile che gli oltre due decenni passati abbiano fatto dimenticare quanto questa formula fosse allora diffusa, penetrata fino in fondo nel linguaggio pubblico e indiffe-
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rentemente accolta fino a perdere parte della sua originaria connotazione stigmatizzante, e a diventare una sorta di neologismo destinato a indicare un fenomeno prima sconosciuto. Eppure, rimaneva chiaramente percepibile, in quella definizione, un senso denigratorio o, perlomeno, di netta presa di distanza: tanto più perché, come ogni formula generica e omologante, enfatizzava il carattere anonimo e indistinto di coloro ai quali veniva attribuita. Per giunta, quella medesima definizione conobbe, nella trascrizione giornalistica, una serie di slittamenti, che intervenivano a meglio precisare, ma sempre in termini squalificanti, i destinatari. I lavavetri diventarono vu’ lavà, preparando la deriva ostile che portò all’uso di altre due specificazioni criminologiche: vu’ rubà e, infine, lo scelleratissimo vu’ stuprà. Con ciò, il processo di stigmatizzazione linguistica poté dirsi concluso, e nel peggiore dei modi. Da un dato di partenza problematico – la povertà del vocabolario dei residenti nel definire i nuovi soggetti – si arriva, assai rapidamente, a una serie di manifestazioni di quella «cultura del disgusto» di cui scriverà Martha Nussbaum. Rispetto a tutto ciò, l’ingenua e volenterosa esercitazione di convivenza tentata dagli abitanti di quel quartiere (e forse della città) rappresentava evidentemente un tentativo goffo e approssimativo, e tuttavia meritevole di attenzione. Certo, quei venditori ambulanti di origine africana venivano chiamati con un cognome non loro – «imposto», in qualche modo – e comunque generico e generalizzante; un cognome riconoscibile, però, dalla comunità locale, che consentiva un’approssimativa identificazione e agevolava una qualche integrazione. D’altra parte, ciò sembrava incentivare un altro fattore di «normalizzazione» di quella nuova presenza: i Nieddu e i Carboni fornivano un servizio, modesto, agevolmente accoglibile nelle pieghe della vita quotidiana e della sua economia, e in ogni caso assai utile.
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Il piccolo commercio ambulante costituisce un’attività sempre presente nella vita urbana, ma soggetta alla periodicità di cicli di maggiore o minore vivacità, legati a fenomeni come i flussi migratori interni (in specie provenienti dalle zone rurali) e allo sviluppo o alla crisi di particolari settori economici. Quando, nella seconda metà degli anni ottanta, cresce il numero di venditori ambulanti stranieri (in particolare africani), quel tipo di commercio è ormai quasi esaurito, ed è limitato comunque ad alcune aree territoriali (città di medie e piccole dimensioni) e zone periferiche, oltre che a luoghi circoscritti, come quelli destinati ai mercati all’aperto. I venditori ambulanti italiani sono notevolmente diminuiti di numero e hanno acquisito, allo stesso tempo, una loro «residenzialità». In altre parole, sono infinitamente meno mobili (meno «ambulanti») di quanto fossero in passato. Quella stessa mobilità perduta sembra essersi trasferita a persone «più giovani» sotto tutti i punti di vista. Questo del muoversi e della disponibilità alla fatica che comporta è un dato importante: basti pensare che, tra gli italiani, solo i venditori di cocco sembrano disposti a quell’onerosissimo esercizio fisico che è l’ambulantato di spiaggia (l’infinito percorrere i bagnasciuga estivi alla ricerca di possibili acquirenti), mentre il numero di venditori ambulanti stranieri cresce in misura rilevante. In effetti, la disponibilità al sacrificio, a guadagni assai modesti e, soprattutto, a un moto pressoché perpetuo, costituisce l’elemento essenziale di un’attività che – salvo rare eccezioni – solo uomini giovani e dotati possono svolgere. A ben guardare, nonostante l’ostilità dei titolari degli stabilimenti e la frequente opera di repressione da parte della polizia municipale, la comparsa sulle spiagge di tutto il territorio nazionale di quella nuova figura di commerciante ha ottenuto sin dal primo momento un grande successo. Anche perché questi venditori sembrano conoscere in maniera ap-
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profondita – si potrebbe dire «quasi naturale» – la tecnica della vendita porta a porta (in questo caso, da ombrellone a ombrellone). È, certamente, una tecnica fatta di pressione e insistenza che possono diventare anche moleste e assillanti, fino a determinare irritazione o addirittura ostilità, ma che – nella gran parte dei casi – si rivela invece assai efficace. Una tecnica che si affida a un’attitudine all’immediata familiarità e a una negoziazione praticamente infinita, e pure a una certa disponibilità a scendere a patti, a trovare un compromesso, ad accordarsi. Un metodo «da bazar» o «da suk» che, dapprima guardato con sospetto, diviene presto consueto e perfino divertente. Giorno dopo giorno, nel tempo circoscritto di una vacanza al mare, si crea una particolare forma di rapporto di fiducia tra venditore e acquirente, che induce a qualche confidenza e riduce in maniera significativa un certo numero di pregiudizi e stereotipi. Accade così che, con frequenza stagionale, si abbia notizia di episodi che vedono i frequentatori di una o di un’altra spiaggia «insorgere» in difesa degli ambulanti che la polizia municipale vorrebbe allontanare. In quel rapporto tra venditori e bagnanti, indubbiamente assai superficiale e occasionale, pesa assai poco la consapevolezza di come i primi siano alle dipendenze di strutture illegali che ne sfruttano il lavoro e la fatica, ne regolano i tempi e ne controllano i movimenti, imponendo spazi di mercato limitatissimi ed esili margini di guadagno e ricavandone, infine, ingenti profitti. Si pensa, piuttosto, a un’opportunità di sopravvivenza che, in ogni caso, va accettata e, nei confini delle disponibilità di ciascuno, alimentata. Anche perché quell’attività lavorativa così faticosa e palesemente poco remunerativa – ecco il secondo e ancora più importante fattore che crea empatia – non entra in concorrenza (o finora non è entrata in concorrenza) con il lavoro svolto da italiani.
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Questo aspetto, avvertito in modo più o meno consapevole, è una componente essenziale della mancata ostilità tra residenti e nuovi arrivati: tanto più se il commercio ambulante, in particolare quello di spiaggia, resta tutt’ora, dopo un quarto di secolo, interamente presidiato da stranieri. Qui la concorrenza non esiste, o comunque non si manifesta, e per una singolare e assai misteriosa legge di mercato si realizza una sorta di spontanea diversificazione merceologica, che continua ad assegnare in prevalenza a italiani la vendita del cocco e a stranieri quella di tutte le altre merci. La ragione è da ricercarsi probabilmente nel controllo monopolistico del piccolo settore delle noci di cocco da parte di poche famiglie e pochi distributori, che amministrano una rete di venditori legata alle realtà territoriali. Ciò produce uno sviluppo non competitivo dell’attività commerciale e disinnesca potenziali conflitti. In altre parole, è come se alcune dinamiche di mercato si articolassero secondo uno schema duale, che prevede una concentrazione per nazionalità in distinti comparti lavorativi. E questo, naturalmente, non vale solo per la differenziazione di attività tra «venditori di elefanti» e «venditori di cocco», ma anche per settori più robusti e a maggior tasso di occupazione del nostro sistema economico. Lo vedremo più avanti. Forse, però, va presa in considerazione anche un’altra ipotesi: che la distribuzione di compiti tra italiani venditori di alimenti e africani venditori di oggetti si debba anche a una sottile e non dichiarata resistenza da parte dei bagnanti ad acquistare e consumare cibo manipolato da «mani nere». Un atteggiamento comunque contraddetto dalla crescente presenza di stranieri nel settore della ristorazione, ben rappresentata dal fenomeno, ormai radicato nella percezione comune, del «pizzaiolo egiziano» (oltre che dalla massiccia diffusione dei «kebabbari»).
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Al di là delle ragioni non facilmente decifrabili di tali dinamiche, ciò che qui ci preme sottolineare è come quel dato di «familiarità» tra bagnanti e ambulanti di spiaggia possa aiutare a comprendere diversi fenomeni di portata assai più ampia.
Ma ci conviene espellerli? Questo libretto ha un titolo, Accogliamoli tutti, che non intende in alcun modo suonare provocatorio. In genere si proclama «farò una provocazione» proprio quando si sta per dire qualcosa di infinitamente banale o comunque prevedibile, o quando si vuole anticipatamente disinnescare il presunto scandalo di ciò che si sta per affermare. Qui, nulla del genere. La nostra è una dichiarazione politica, che – allo stesso tempo – allude alla sostanza di un possibile programma economico, sociale, culturale e legislativo. Qui si vuole provare come l’accoglienza sia possibile e utile. Comporta, è ovvio, costi anche molto rilevanti, e fatiche assai onerose, ma resta un progetto plausibile e realizzabile. Tanto più che il suo contrario – la non accoglienza – è certamente più difficile (impossibile) e inutile (dannoso) da perseguire. Questo vale anche e soprattutto per i richiedenti asilo, protetti da precisi obblighi internazionali sottoscritti dall’Italia. Nei confronti di questi ultimi, così come in genere di tutti i migranti, devono valere, dunque, considerazioni e politiche concrete, che appartengano a un campo, anche linguistico, alquanto differente da quello definito dai buoni sentimenti e da virtù come la solidarietà. Solidarietà è parola che non ci piace affatto. E per più di una ragione. Intanto, la questione dell’immigrazione ha dato luogo a una lettura sempre oscillante tra ideologia e sentimento.
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La versione virtuosa di questa interpretazione, nelle sue proiezioni sul sistema (la società multietnica, multiculturale, multireligiosa…), venne intesa da una parte tutt’altro che trascurabile della sinistra e del cattolicesimo sociale come un orizzonte ideale, un’aspettativa di emancipazione e di rinnovamento, un modello di società desiderabile. Per alcuni, e per certi settori della sinistra, una sorta di surrogato del socialismo. Il che non solo ha portato, com’era inevitabile, a sottovalutare, talvolta addirittura irresponsabilmente, le fatiche e le contraddizioni che il fenomeno migratorio comporta (specie per gli strati più deboli della società, quelli che vivono un rapporto di maggior «prossimità» con gli stranieri); ma ha indotto anche a enfatizzare il contrasto tra un’interpretazione tutta positiva dell’immigrazione e una tutta negativa. Ciò ha quasi del tutto relegato il discorso pubblico sull’immigrazione a una dimensione binaria: razzismo/antirazzismo. Ne deriva un atteggiamento tutto solidaristico a opera di quanti stanno sul primo versante (antirazzismo), con il rischio, presto e spesso tradottosi in parole e atti conseguenti, di un approccio interamente fondato sui «buoni sentimenti». Gli immigrati come «fratelli» o come «compagni», il rapporto con loro affidato a una mera scelta volontaristica e altruistica. Praticamente un disastro.1 E ciò aiuta a comprendere anche perché il linguaggio e la gestualità «antirazzisti» si sono rivelati poco efficaci e ampiamente usurati. Per capirci: l’antirazzismo è una sorta di premessa morale, culturale e politica, essenziale nella definizione dell’identità di un democratico contemporaneo. Ma costituisce, appunto, un presupposto, più che un programma d’azione o una strategia generale. E come programma e strategia rischia, se non applicato in maniera intelligente e sensibile, di limitarsi a petizioni di principio e dichiarazioni d’intenti. Programmi astrattamente antirazzisti, quando
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formulati in termini ideologici, possono addirittura risultare deleteri, se percepiti da coloro cui sarebbero destinati (e che in genere non possono «permetterseli») come pretesa di solidarietà e come ammonimento etico. Insomma, l’antirazzismo è una precondizione, non una bandiera né una prospettiva politico-ideologica. A nostro avviso, la questione dell’immigrazione va affrontata in modo del tutto opposto: sul piano dei diritti, delle garanzie e del sistema di cittadinanza, oltre che dell’interesse economico-sociale, razionalmente inteso. È in particolare di quest’ultimo che parleremo nelle pagine seguenti, a partire dalla constatazione che l’acuto squilibrio demografico tra l’Italia e gli altri paesi europei, da un lato, e le popolazioni rivierasche e dell’intera Africa, dall’altro, costituisce il primo e ineludibile fondamento di ogni riflessione sull’immigrazione nel mondo contemporaneo. In altre parole, «accoglierli tutti» – se intendiamo l’espressione nel suo significato di indirizzo e di programma – è relativamente più facile che respingerli tutti, ma anche più agevole e utile che selezionarli. Questo perché la ragione prima e principale dei movimenti migratori risiede negli squilibri economici e sociali a livello internazionale e nello scarto tra i tassi di natalità dei paesi sviluppati e quello dei paesi non sviluppati. E la conseguente pressione sui nostri confini è infinitamente più forte delle fragili barriere, comprese quelle goffamente militari o pesantemente repressive, che si decida di allestire. E soprattutto, accoglierli tutti è, sotto ogni profilo, più conveniente che respingerli. Più vantaggioso dal punto di vista economico. Più rassicurante da quello sociale. Più efficace sul piano dell’integrazione e della convivenza. Ma, prima di fare riferimento allo scenario globale, vale la pena di partire da ciò che, non percepito o ignorato, accade in mezzo a noi.