Il fantasma di Dio

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Ferruccio Parazzoli Il fantasma di Dio Ricognizioni dal sottosuolo

Postfazione di Giuseppe Genna


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il fantasma di dio



Introito

Camminavo una mattina lungo la riva del mare, una graziosa baia ligure che non conosce se non limitate vastità, e tra me e me riandavo, come spesso mi accade nei momenti di ozio, al problema di Dio cercando di comprenderne la grandezza, la potenza e il mistero senza per altro, come di consueto, venirne a capo. Sulla spiaggia, in quell’ora deserta, tra i minuscoli relitti abbandonati dagli uomini e dal mare, un bambino aveva rinvenuto un ditale e con quello andava portando acqua dal mare a una buca poco profonda che aveva scavato con le mani. Era un bambino bellissimo, biondo, ricciolino, i piedi nudi rosa e grassocci, il visetto serio intento al gioco. Già questa sua stucchevole perfezione aveva cominciato a irritarmi senza altro motivo se non l’assurdità di quel suo andare e venire. Tuttavia, per quella vana curiosità che nasce dall’ozio, oltre che per autorizzarmi a sospendere quei miei vani pensieri su Dio, mi fermai a guardarlo. Trotterellava fra l’acqua del mare e quella sua buca, trasportando ogni volta dall’una all’altra, nel fondo del ditale rugginoso, solo poche gocce che la sabbia immediatamente assorbiva. Stanco di osservarlo: «Che fai bambino?» gli chiesi. «Cosa pretendi di fare con quel ditale?»

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«Pretendo di versare in quella buca tutta l’acqua di questo mare» rispose lui senza nemmeno alzare il capo. «Non potresti farlo nemmeno se tu avessi un barile al posto di quel ditale.» «Sarà più facile a me trasportare il mare in quella buca che a te trasportare Dio nella tua testa» mi rimbeccò il putto con aria saputa. Ho capito, dissi tra me, è il solito angelo. L’episodio non mi riusciva del tutto nuovo. Doveva essere capitato, più o meno uguale, a qualcun altro nel passato. Quanto a me, non avevo alcuna intenzione di darla per vinta al piccolo disfattista. «Stupido bambino» gli dissi riempiendo di sabbia con un colpo di tallone la sua buca vuota. «Il mare è già tutto in quelle poche gocce in fondo al tuo ditale: il resto è soltanto altra acqua. Così anche per Dio.» Il bambino levò finalmente la testa: «Do you speak Dio?» balbettò sorridendo fra le lacrime. Oddio, anche lui? E, voltate le spalle, me ne andai.

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Do you speak Dio?

Avevo raccontato la mia storia già quattro o cinque volte quando mi si avvicinò un ometto nero. Aveva i capelli lisciati sul cranio come fosse riemerso appena allora dalle acque del canale. «Vorrei che mi spiegasse con chi andava a letto quella donna.» Aveva in mano una tartina rosa pallido sulla quale stava compostamente disteso un gamberetto gonfio e soddisfatto della propria aristocratica sorte. «Quale donna?» Ero certo che il gamberetto si fosse mosso e avesse trovato una posizione decisamente più comoda in mezzo alla tartina. «Quella del romanzo. Con tutti, non è così? Con tutti andava a letto tranne che col marito.» Si ficcò improvvisamente in bocca la tartina e per il gamberetto finì lì. «Non dica sciocchezze. Nei miei romanzi nessuno va a letto con nessuno.» Le mandibole dell’ometto lavoravano con paziente determinazione. Evidentemente il gambero opponeva resistenza. Ma i suoi occhietti erano tutti per me. Mandavano scintille di complicità.

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«Sono dell’Avvisatore Marittimo» annunciò appena l’ebbe vinta sul crostaceo. Questa notizia, secondo lui, risolveva ogni questione perché non aggiunse altro, girò sui tacchi, e mi piantò. Diedi un’occhiata oltre il vassoio delle trote lessate per vedere se mia moglie fosse nelle vicinanze pronta a soccorrermi. Non c’era: doveva essere stata coinvolta nella mischia attorno al tavolo del salmone affumicato. Cercai di scivolare verso la terrazza rischiarata da lampadari rosa. Era un buon posto per aspettare che tutto finisse. Da lì si potevano vedere il Canal Grande e le luci dei motoscafi sull’acqua. Presso la vetrata, accanto alla tenda cremisi, la scrittrice Longarini stava dichiarando per la terza volta che non si era mai sentita tanto emozionata. Era il Premio a emozionarla? No, le avevano telefonato che sua figlia aveva le doglie: stava quindi per diventare nonna. Come la protagonista della sua Casa sul fiume? Esattamente. La realtà è una copia fedele della fiction. Dovette sembrare un’ottima battuta perché seguì un breve applauso e ciascuno trascrisse la risposta sul proprio taccuino. Cercai di afferrare al volo un calice colmo di un liquido azzurro prima di scivolare dietro la tenda. «Si può forse sfuggire allo sguardo di Dio?» «Lo sguardo di chi, scusi?» chiesi scioccamente. Il liquido era schizzato sul risvolto della mia giacca. Avrebbe o no lasciato la macchia? E perché era azzurro?

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Mentre afferravo il bicchiere non ci avevo pensato. Adesso quel colore mi inquietava. «Di Dio, naturalmente.» «No, non si può. Non gliel’hanno insegnato da bambino?» «Sono dell’Araldo di San Leone Magno» enunciò la voce. «Alle volte sembrerebbe che lei voglia mettere Dio sotto accusa.» Aveva una specie di Bibbia nera e quadrata fra le mani e cercava di mettermela in bocca. «Mi scusi, non avevo capito la domanda.» La Bibbia era un registratore portatile. «Vorrei parlare con lei di questo preciso argomento.» «Non ha visto, per caso, mia moglie?» «Non ho il piacere di conoscerla.» «Qual era la domanda? Vuole ripeterla?» «Cosa intende lei quando dice, e cito testualmente: “Lo sguardo di Dio”?» La macchia sul risvolto non sarebbe sparita tanto facilmente. Avrei avuto il vestito macchiato durante la cerimonia della premiazione. Ma forse in televisione non si sarebbe notato. Davvero avevo parlato dello sguardo di Dio, e perché mai lo avevo fatto? Lo guardai in faccia: non era un uomo, era una donna. Non so perché mi fossi messo in testa che fosse un uomo. Doveva essere stata la voce a sviarmi. Alle volte sono distratto. Aveva una voce eccezionalmente bassa e cupa e

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alzava la Bibbia fin sopra la testa cercando di metterla in qualche modo alla portata delle mie labbra. «Venga a sedersi di là. Dobbiamo parlare. Farò un articolo di seimila battute.» Ero certo che mi odiava. Lo capivo dal modo come aveva detto «battute». Quella donna mi guardava in bocca e mi odiava. Provai a sorriderle: «Mi lasci il registratore. Domani mattina glielo riporto pieno». Ero in preda al panico. La pancia aveva cominciato a gorgogliarmi. Doveva essere stato quel liquido azzurro. Mi accorsi di non avere più il bicchiere in mano. Che ne avevo fatto del bicchiere? «Forse lei non vuole parlare di Dio? È anche lei di quelli che hanno paura di Dio?» «No, no. Posso parlarne, glielo assicuro. Non sarei qui se non potessi parlarne. L’altro giorno ne ho parlato per un’ora e mezzo al Circolo dei Piccoli Samaritani. Devo avere ancora il testo da qualche parte. Facciamo così: io le trovo quel testo e lei lo pubblica pari pari. C’erano tre o quattro cosette niente male su Dio. Se ricordo bene c’era anche quello che vuole lei: quella faccenda dello sguardo. Anzi, ne sono sicuro. Ne ho parlato almeno per dieci minuti. Era un punto essenziale, lo ricordo benissimo. Era, più o meno, una cosa così: Dio ci guarda ma non ci vede. Ecco, non era precisamente così. Voglio dire che ogni cosa avviene sotto lo sguardo di Dio, non le pare? Anche la più banale, anche questa nostra conversazione, per esempio. Oppure basterebbe schioccare le dita, così, per…»

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Feci il gesto di schioccare le dita e mi accorsi con terrore di essere decisamente andato fuori strada. Non era questa nana che mi stava mandando fuori di cervello, che mi faceva venire voglia di rimpinzare di sciocchezze quel suo registratore che continuava a tenere sollevato all’altezza dei miei denti. «Perché si è fermato? Continui, continui, vada avanti.» «Non ricordo cosa stessi dicendo. Mi scusi, ho mal di pancia.» «Mi parli del diavolo.» «Ho mal di pancia, le dico.» «Il diavolo. Ci sguazza dentro, lei, a parlare del diavolo. Non è forse una creatura che le piace, il diavolo? Non è di lui che intende parlare quando pretende di parlare di Dio?» «Le ho detto che non sto niente bene. Non sente anche lei come mi cigolano le viscere?» «Adesso le faccio una domanda. Perché mai lei, che si professa cattolico, non parla mai di sua madre? Tutti gli scrittori cattolici parlano della loro madre.» «Mia madre è morta.» «Ah, dunque, lo ammette.» «Non l’ho uccisa io. Almeno non credo. Non si può mai essere sicuri di nulla, specie di queste cose. Dovrebbe saperlo.» «Oh, oh, continui, continui a parlare. Devo arrivare a seimila battute. Forse il direttore me ne concederà anche settemila. Cos’è che l’affascina tanto nella tonaca dei preti?»

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«Le ripeto che non è il momento. Devo assolutamente trovare un gabinetto.» «Vuole forse che le dia uno schiaffo? Non abbiamo ancora parlato della castità.» «Ma lei non ha bevuto quell’intruglio azzurro?» «È lei che ha detto che la castità rende più felici. L’ha scritto. Ricordo titolo, capitolo, pagina. Potrei metterglielo sotto il naso in qualunque momento.» «Chiami mia moglie. Sto per vomitare.» «Più felici, vero, più felici. Questa è ipocrisia bella e buona, mio caro. La sua è una castità da latrina.» «Allora chiami il portiere. Vorrei appunto scoprire quella latrina.» «Ci andrà, ci andrà, non ne dubiti. E così, Dio nisba, non se ne parla proprio, eh? E della necessità della preghiera sugli autobus, niente? E non ha nemmeno da raccontarmi di un industriale che si è fatto terziario francescano? E via, non le sembra davvero troppo poco per uno scrittore che si fa passare per cattolico? L’ha fatta la contestazione? E le veglie di preghiera? E i giovedì in Duomo? E don Giussani: è mai andato a una cena di servizio con don Giussani? Ha mai provato a convertire Montanelli? Lo sa che lo scopo di ogni vero scrittore cattolico è stato quello di convertire Montanelli?»

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La divina commedia [In cima alle scale, sotto il basamento dell’angelo]

«Tengo tra le mani questo libricino e posso dissetarmene come d’un’acqua pura. Oh, la dolcezza di queste parole: ecco il riposo, la quiete, il balsamo a ogni afflizione. È il Vangelo di Cristo…» Nell’androne profondo del tiburio, fra le colonne che salivano a perdersi nel buio delle volte, un vecchione dalla faccia bianca e il ventre idropico chiuso nello smoking si aggrappava al leggìo di legno posto su un’invisibile predella. La folla, che gremiva la navata della Cattedrale e alzava nella penombra la luce dei volti verso il pulpito, era sommersa da quel buio su cui il Vecchio Poeta pencolava riversando la propria voce modulata dalla commozione. «Qui, sul margine, trovo annotata una frase di Rousseau. Sono tratti sbiaditi ma ancora leggibili. Ero ragazzo quando li tracciai e li leggo con rinnovata trepidazione. Queste illuminazioni della prima giovinezza, che poi l’età matura seppellisce e scolora, le riscopriamo nella vecchiaia e ne torniamo a gioire ritrovando intatto l’animo di un tempo, la stessa grazia inviolata. Proprio allora, avendo per maestro il sublime Rousseau, scoprii la divinità delle parole di Cristo. Essa è racchiusa nella loro bellezza, una divina bellezza che nessuno scrittore

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avrebbe mai potuto inventare. Signore, non perché voi mi avete detto che siete figlio di Dio, ascolto la vostra parola, ma perché la vostra parola è bella oltre ogni parola umana. Ora, Signore, soltanto ora posso venire finalmente a voi come un fanciullo, quel fanciullo pensoso che voi volete che io divenga…» Tremava il grosso vecchio corpo di commozione, mai aveva sentito quella sensazione così alta, così pura, che somigliava alla gioia della creazione, ma più vasta, più sublime ancora. «Ho riletto il racconto della resurrezione di Lazzaro e ne ho tremato!» la voce del Vecchio Poeta era tornata sicura, ma la faccia si torceva contrariamente alla voce che andava facendosi sempre più dolce ed estatica. «Quale argomento per un poema! La nostra stanca immaginazione ignora la sconvolgente bellezza del miracolo.» Ruotando sui piccoli piedi, non potendo volgere la testa sul collo, il Poeta fece scendere uno sguardo severo e invitante sulla calca invisibile. «Ecco, Gesù piange dinanzi alla tomba dell’amico. Al grande grido il corpo si leva fasciato dalle bende. Torna alla vita, ma conosce il mistero della morte, egli ha veduto ciò che è di là. Gesù riprende la via verso il deserto, ma colto da un’ansia improvvisa torna indietro solo, a notte fonda, batte alla porta di Lazzaro. Io vorrei aver la forza di immaginare, di scrivere quel colloquio notturno, il dubbio estremo infiltratosi dietro la fronte divina di Cristo, l’angoscia che la incrina: l’amico ha veduto quanto egli stesso non ha visto ma che presto vedrà, il mistero spaventoso che lo farà sudare sangue in Getsemani, lo

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stesso lancinante spasimo che lo farà pronunciare l’unica frase terribilmente umana uscita dalla sua bocca, il grido disperato sulla croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.» Correndo a passettini rapidi e sapienti su un filo invisibile, un ometto calvo è sbucato dal buio. È rosso in faccia, qualche ciuffo di capelli bianco argento sulle tempie, occhialetti cerchiati d’oro, vestito scuro di ottimo taglio, un’enorme catena d’oro sulla pancia rotonda. Si ferma dondolandosi sulla gambetta alzata a mantenere l’equilibrio. «Ponzio, ricordi quell’uomo?» esclama. Dietro il leggìo, Ponzio Pilato, ineccepibile nel suo smoking da Premio Nobel, inarca le sopracciglia e si porta la mano alla fronte come cercando nella propria memoria. «Gesù?» mormora. «Gesù Nazareno? Non ricordo.» Dal buio delle navate, dai transetti, dal fondo delle absidi si levò un tramestìo, e un volo di piccioni accecati, scaruffati attraversò il fascio di luce che pioveva sul leggìo. L’ometto con la catena d’oro è già scomparso e il Vecchio Poeta è di nuovo solo a pencolarsi sul buio. «Chi c’è laggiù?» gridò. «Aspettate, non bisogna aver fretta nel giudizio. La morte del Giusto sconcerta voi quanto me. Ma io ragiono, vedete, non mi lascio sopraffare dalle apparenze. Da un punto di vista strettamente politico la scelta di Caifa non fa una grinza: “È meglio la morte di un uomo che la rovina di un popolo”. La morte di Cristo fu soltanto un omicidio politico, un atto di ottuso patriottismo per prevenire una tumultuosa effusione di

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sangue. Lasciato libero, Gesù si sarebbe consumato in una lotta disperata; l’odio cieco dei suoi nemici assicurò invece il trionfo della sua opera. Lasciandosi uccidere, Cristo ha fatto il gioco dei conservatori per riceverne in cambio il suggello della propria divinità. Ecco, voi tacete, ma è la grandezza di un uomo che vi propongo in cambio della morte di un dio.» Dall’ombra, proditoriamente salita fino alla bolla di luce in cui galleggia il Poeta, una femmina scomposta gli è addosso, lo interpella: «Non sei forse tu che hai ucciso tutti quei bambini?». Il Poeta, imperturbabile, ha chinato lievemente il capo, assentisce paternamente; è placido, distaccato, regale. «Grazie, signora. Sono lieto di questa sua domanda perché mi offre l’occasione per chiarire un imperdonabile equivoco nei miei riguardi che, purtroppo, si perpetua nel tempo. L’uomo al quale lei accenna, il mostro che si macchiò del sangue degli innocenti, non sono io, anche se ne porto il nome. Quell’uomo era mio padre, eppure non esito a chiamarlo pazzo. Egli soffriva, come è risaputo, di fastidiose allucinazioni e gravi perversioni. No, Erode il Grande non vide mai Gesù, ma io sì, Erode il Piccolo, lo incontrai. Stava dinanzi a me, quel giorno, e le giuro, signora, tentai di salvarlo, ma egli non volle. Ricordo quanto fui lieto nel vederlo; da tempo, infatti, desideravo conoscerlo perché molti mi avevano parlato di lui e ne ero sommamente curioso. Le confesso, anzi, che speravo di vedergli compiere uno di quei prodigi per cui andava famoso fra il popolino. Lo interrogai a lungo, molte erano

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le cose che desideravo sapere, nella mia vita ho prediletto la conoscenza, mai mi sono fermato sgomento di fronte ad alcun mistero: l’uomo, la natura, il perché della gioia, del dolore, la fortuna e la sventura, la silenziosa ruota degli astri che trascina con sé i destini degli uomini; di tutto ero assetato, di tutto gli chiesi: ma egli tacque. Capisce, signora, non volle essere di aiuto né a me né a se stesso, rimase muto nella sua follia, sdegnando non me, ma le angosce più profonde che tormentano da sempre il genere umano. Mi stava di fronte immobile, guardandomi come un fanciullo osserva la formica agitarsi intorno a un carico troppo pesante, e allora, lo confesso, lo schernii, sì, lo schernii anch’io assieme a tutto il mio seguito, lo sbeffeggiai, gli diedi del cialtrone, dell’impostore, del guaritore da fiera. Fu allora che gli feci indossare quell’abito principesco, una splendente veste e lo rimandai a Pilato.» La femmina ripiombò nel buio e il vecchio fu di nuovo solo nella sua mandorla di luce. È visibilmente stanco, il volto gli si stravolge in smorfie sempre più complicate, a fatica controlla ormai i muscoli facciali, eppure in quello stravolgimento, nella sua infinita stanchezza, il Vecchio Poeta appare consapevole della sua responsabilità, del peso dolce e terribile della sua umana sapienza. Dopo aver fermato la voce in una lunga pausa di raccoglimento, riportò lo sguardo saltellante, smarrito, sul fascio di fogli aperti sul leggìo, il suo corpo, mangiato dall’ombra, annega nel buio come in un’acqua putrida. «Qui potrei di nuovo incontrarlo. Non avrei nessuna

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sorpresa e saprei ancora cosa dirgli: “Nessuno ha colpa di questo mondo sorto dopo di te e dove io sono nato. È troppo vasto e troppo vuoto anche per la tua forza. La pratica dell’orrore ha distrutto l’inganno di possedere un’anima, quell’inganno così caro al mio piccolo mondo infantile”.» Gli occhi del povero volto tormentato si sono fermati come smarriti, vedono qualcosa lontano, oltre tutto quel buio. «Non in questa alluvione di ferocie e di annientamenti. Dio non può condannare una ragione che non vuole mentire a se stessa.» La voce, ormai ridotta a un sussurro, tacque. La grossa carcassa dentro lo smoking è scossa da profondi sussulti. Ma il Vecchio Poeta sembra avere ancora una scena da recitare. Accanto al leggìo è sorto un alberello artificiale, tutto di legno ben piallato, senza foglie e senza frutti, una semplice sagoma come le disegnano i bambini, con il grosso tronco informe e il profilo a nuvoletta della chioma. Nonostante gli spasimi, il vecchio, a passetti da gottoso, si portò sotto la sagoma dell’alberello. La sua voce, impastata di tristezza, biascica ancora poche parole col tono nostalgico di chi recita le filastrocche apprese da bambino: «Vi era colà un uomo chiamato Zaccheo il quale era a capo dei pubblicani e ricco. Cercava egli di vedere Gesù per sapere chi fosse; ma non vi riusciva perché era piccolo di statura». Il Poeta si è lasciato scivolare accanto al sicomoro di legno piallato. Dorme. La luce del sole piove polverosa sulle navate della Cattedrale.

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La vita eterna [Dietro la porta, lungo il corridoio]

Depose con dolcezza la brioche accanto alla tazza, si guardò un attimo attorno come a chiedere scusa a chi la stesse osservando, e uscì in fretta dal bar, diritta, col suo passo danzante. Ritrovò i larghi gradini chiazzati dallo spiumaticcio dei piccioni e la chiesa severa e fredda che lei conosceva così bene, che non le faceva paura ma le dava un senso tranquillo di sicurezza, le ricordava buffamente suo padre. Andò diritta al terzo confessionale a sinistra. Vide subito la grossa testa spelacchiata e sorrise. Si sorprese a tirare un sospiro, a riprendere fiato e si accorse di avere quasi corso per tutta la strada. Adesso che vedeva la robusta testa del prete imballata dentro la scatola del confessionale, pazientemente china sul libro aperto, in attesa di tutti quei poveri peccati uguali che venivano da anni a urtare e sciogliersi contro quel testone, Anna si lasciò cadere su una panca, il busto chino, le braccia appoggiate sulle ginocchia, i piedi bene puntati sulla predella, a sorridere di sé come una bambina che ha avuto paura del buio. Quanto rimase così, su quella panca? Ricordava che aveva cominciato a parlarsi lentamente, con quella dolcezza, pietà e riconoscenza che provava per se stessa. Era

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un dialogo che spesso riaffiorava in lei nei momenti di maggiore quiete e gioia tranquilla, ma un dialogo che avveniva come di fronte a una presenza più alta che la rassicurava, che le permetteva di essere sincera senza crudeltà e di amarsi senza egoismo. «Anna, bambina» si diceva, e si rivedeva davvero come una bambina o, per lo meno, prestava l’immagine bambina di se stessa a quella della bambina che non aveva avuto. Eppure sì, l’aveva avuta la sua bambina, ma non voleva rammentarla così come l’aveva vista quella sera che si era trascinata nel bagno, povero grumo di vita, piccola informe bambina mia che te ne vai così, mai amata, ancora mai nella brevissima tua vita, e amata adesso, in questo solo istante miserabile, adesso che ti avrei difesa con tutta la mia vita, grumo trasparente, perla di vita, poiché soltanto allora, mentre le pareti bianche traballavano dietro le lacrime calde e dolci, non disperate, dolci come già l’inizio promesso di quella gioia che l’avrebbe invasa poi, sorgente nuova dentro tua madre, bambina, allora soltanto aveva sentito il legame incancellabile, fisico, corpo a corpo, con quella creatura viva e lontana ma già presente come l’odore della pioggia al mattino, la luce che ritorna e sta per sorgere e si annuncia proprio dove il cielo sembra più scuro. Sapeva che la sua gioia era nata allora, in un risultato assurdo di colpa, sofferenza e dolore, ma non rimorso, assurdamente non rimorso, non odio verso di sé, ma una tranquilla comprensione dietro le lacrime, il perdono come in una carezza di quella sua bambina che se ne andava, venuta alla luce, sì, alla luce,

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di tre mesi appena, ma alla luce; e non solo il perdono ma il regalo della gioia, un’altra gioia diversa da quella che avrebbe potuto dare, la gioia miracolosa di una bambina aborto di tre mesi appena, alla sua mamma che l’ha voluta soltanto ora, mentre la espelleva nel bagno, voluta con tutte le forze di un amore bruciante e vuoto. Quanto tempo era passato? Forse pochi secondi, la grossa testa era sempre piegata nella cassa buia del confessionale, forse più di un’ora perché la luce scendeva più viva dalle vetrate ocra e il mattino si era fatto rumoroso, denso e lontano. Salì al confessionale e si inginocchiò. Dietro la grata ricomparve, punteggiata, la testa del prete. Dentro quella testa spelacchiata, dietro quegli occhietti che ora si sforzavano di sorridere, c’era già tutto il suo segreto, il suo delitto e la sua gioia. Aveva imparato a parlare sotto quello sguardo in cui ritrovava il riflesso della propria allegria, ma già maturato, tenuto a bada al suo giusto posto anche se si accende ancora di una luce che potrebbe dirsi infantile, sorridente, ma che è solo un lampo di ironia verso la propria debolezza, proprio quella che gli mette negli occhi il sorriso mentre ascolta le voci delle creature che Dio agita e sospinge come un vento forte e gentile e approdano sui vecchi legni del confessionale, il sorriso che si sforza di spegnere, di cui il vecchio prete si fa scrupolo e che pure non riesce a vincere e ne chiede di continuo perdono al Signore e gli rispunta mentre chiede perdono, e allora lo subisce così come umilmente si accettano la malattia e il miracolo.

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«Ego te absolvo» e ritorna e s’incontra e si riconosce con l’altro sguardo al di là della grata, e ognuno abbassa il proprio, anche se non può cancellarlo, solo esserne geloso come cosa di Dio.

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Camerati [Oltre il cancello, nel freddo del cortile]

Tacere, mi dico, tacere finché la più essenziale natura di prete, il Sacramento del mio sacerdozio non abbia il sopravvento su qualunque altro sentimento anche se lecito e umano. Mi sono imposto di tacere finché non mi sia chiaro il carico diverso che la vita e Dio impongono a ciascuno. In altre parole: alla consueta, tante volte proposta riflessione sul particolare disegno che Dio ha per ciascuno di noi. È una considerazione che mi ha turbato fin da ragazzo. Seminarista, passavo le ore con i pugni alle tempie; ho ancora la sensazione del mio testone rapato stretto fra le mani rotte dai geloni. Come si poteva dunque giustificare la piccola Marta caduta nel tino, e perché Neno si ubriacava e picchiava la moglie e i bambini? Ecco, come allora, non riesco a vedere a tutti i costi un disegno di Dio in tutto questo. Ma questo voglio dire: che non ne provo più alcun turbamento. Non credo così necessario che Dio debba mostrare a me il suo disegno e accetto il mio stato anche se è quello di una quotidiana, centellinata disperazione. Come un asino vado dove vuole il padrone, assaporo i miei cardi lungo la strada. Non vedo il grande disegno di Dio, ma vedo i suoi cardi polverosi e gliene sono grato.

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Non so essere prete altro che con il mio corpo. Oh, non pretendo di saper fare del mio corpo un sacerdozio, dico solo che esso ne è la misura e neppure questa riesco a dare colma, ben scossa, pigiata. Quanto mi è difficile spiegarmi! Eppure è qui dentro il mistero della santità. Gli è mancato di colpo il respiro. L’hanno ricoverato al Civico, padiglione di cardiologia. Sono andato a trovarlo. Don Gino era steso in letto con la sua faccia da ragazzo accaldato dove pare che la barba non sia ancora mai spuntata, i capelli di quel suo color carota, per cui lo prendevamo in giro in seminario, appiccicati sulla fronte, infilato in una di quelle camicie di tela grossa, senza colletto, che noi preti di campagna ci portiamo per corredo e che mi fanno sempre venire in mente i carcerati e i pazzi. C’era un vecchio nell’altro letto, steso supino con due cannucce nel naso: nell’ampolla, appesa sopra la testa, la bolla d’aria saliva nel liquido a intervalli regolari. Ci sono stato anch’io al Civico, ma nell’altro padiglione prima che mi mandassero a San Severino, e ancora oggi provo uno stringimento a passare quei cancelli, o anche solo a vedere i quattro coni dei cipressi piantati avanti all’ingresso. È proprio quella pretesa di rendere il luogo piacevole, quell’assurda volontà di fingere, che mi disturba. Così i parenti: si aggirano con le loro borse gonfie, con quella gran fretta di ritrovare il loro, quello che ben conoscono, fra tutti quei corpi ammalati, poi subito la smania di uscire, ritrovarsi all’aria, l’avidità rinnovata per

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le cose comuni, consumate tutti i giorni; sono loro a mettermi addosso questa terribile apprensione, questo abbattimento contro ogni speranza, non i malati, oh no, così reali, così attenti, profondamente protesi come avessero adottato nuove insospettate misure, come se la malattia avesse insegnato loro il segreto di un nuovo modo di esistere, di respirare. Stavo lì, dunque, in silenzio, fra don Gino e il vecchietto col suo vaso gorgogliante sospeso sopra la testa; e don Gino ogni tanto mi sorrideva. Eravamo in pace, era come un nostro modo di pregare insieme, con i nostri corpi che valevano quel che valevano, accostati con rassegnazione, i nostri corpi consacrati, intatti, ancora quelli di ragazzi in seminario quando si aveva freddo e si saltava in cortile con in mano un gran pezzo di pane e imbruniva e veniva su dalle cucine quel consueto odore di mangiare comune che si univa a quel nostro pane scuro e ci chiudeva la gola, così come adesso quel rozzo odore di ospedale, di letti e di minestra. Oh, perché ci sprecano così dopo tutto il fervore, la speranza che ci ha fatto superare quegli anni di silenzio, di minestre, di pane sbocconcellato al freddo in un cortile, di nostalgie da strappare il cuore, di paure terribili superate solo non gettandoci ai piedi dell’altare, ma guardandoci in faccia noi ragazzi già chiusi in quelle tonache nere e impataccate, sorprendendo negli occhi uno dell’altro quella stessa tranquilla volontà di andare avanti, quel lampo di allegria, quella sfida a voler costruire davvero ciò che le nostre tonache volevano prematuramente annunciare come già raggiunto.

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Quello stesso sorriso ci rimandavamo ora io e il mio povero compagno, ma vi mancava ormai la sfida, no, non c’era più sfida in quello sguardo, in quelle nostre rozze facce da preti che si specchiavano in modo persino ridicolo l’una nell’altra; non c’era più nulla che potessimo sfidare, ma c’era qualcosa di più dolce, di più pericoloso, c’era quella pietà per l’uomo, per la creatura umana quando è abbandonata e inutile, che non viene consolata da nulla e da nessuno, neppure da Dio. Quella tanto decantata consolazione divina, no, noi non l’abbiamo mai provata, ed è giusto: ne avrei sospetto e paura; la nostra vita è come una tana di talpa e camminarvi ogni giorno è la nostra fede. Certo, è così lontano tutto questo dalla santità alla quale non osiamo più neppure pensare, quella santità di cui si parlava tanto nelle nostre conversazioni spirituali, così come le reclute cianciano di medaglie. Forse è per questo che non ho mai avuto il coraggio di guardarla in faccia la santità, neppure di avvicinarmene abbastanza da poterne osservare le tracce, da sopportare quegli umili segni come il più sprovveduto dei nostri contadini sa ancora fare. L’orrore è venuto a farmi visita anche oggi, poco prima del tramonto. Era una bambina. Stava in piedi in mezzo alle felci sull’altro argine del sentiero, ma già più in alto come si stesse arrampicando per la scoscesa di acacie e si fosse fermata a mezza costa a guardare qualcosa di doloroso e inevitabile. Era vestita con l’abito della Prima Comunione, quelli che si usano qui in campagna, con tanti pizzi

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e fiorellini e persino la borsettina bianca di incerata che le penzolava dalla manina inguantata. Forse provai a chiamarla, non ricordo, ma attraversai il sentiero e rincalzandomi la veste e aggrappandomi alle acacie le giunsi alle spalle. Dietro il goffo involucro della cuffia la testa si scuoteva a piccoli sussulti, in un pianto dimesso e ormai rassegnato. Ma ecco, stavo per toccarla, per chiamarla, quando vidi ciò che la bambina stessa vedeva. In cima a quel rigonfio di terra, dove finivano le acacie, un uomo, certo suo padre perché era vestito con il nostro povero abito da cerimonia nero svanito sulla camicia candida, era accovacciato sulla forcella di un castagno. Aveva fissato a un ramo alto il capo di una corda e, con un sorriso triste e balordo sulla faccia rossa, stava passandosi l’altro capo attorno al collo. Ed ecco, ancora una volta io comprendevo tutto. Quella scena assurda non aveva segreti per me, potevo capirla e compatirla nel senso fondo di questa parola, quello che noi diamo alla passione di Cristo: patire insieme, incarnarsi della stessa passione. Non c’è più distacco possibile: il volto della vittima è il nostro volto, la sua sofferenza è la nostra, il suo corpo è il nostro stesso corpo. Aggrappandomi alle acacie mi buttai attraverso la macchia fino a uscire allo scoperto. L’orrore di me stesso mi accecava e vedevo solo i tronchi spinosi delle acacie ordinate assurdamente e le mie mani che cercavano appigli. Non so quando scomparve l’immagine ma quando arrivai sotto il castagno non c’era più nessuno, i rami erano immobili e sereni. Anche la bambina era scomparsa

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e non c’era traccia del suo abito bianco in mezzo alla macchia delle acacie. Mi lasciai cadere ai piedi del castagno e allora vidi le palme delle mie mani: si erano spinate e facevano sangue. Le strusciai dolcemente sulla terra, sul muschio. La giornata stava per finire e il sole era basso. Allora, a vedere quelle mie mani imbrattate, la mia veste inzaccherata, mi riempì una grande allegria, sì, ridevo senza potermi trattenere, ridevo come un bambino al primo scherzo del padre dopo la sgridata. Come è stupido il Male, e ingenuo e come ci appare ridicolo appena ci si sveglia dalla sua ipnosi! Ci prende in quello che abbiamo di più caro, si maschera coi panni del nostro amore. Che dico, non con quelli dell’amore, con quelli della pietà. Sono salito alle Monachelle. Lungo la strada ha cominciato a piovere. La pioggia è venuta giù di colpo, a rovesci. Mi son messo a correre finché ho incontrato un vecchio con un gran fascio d’erba. Camminava tranquillo sotto l’acqua senza neppure tentare di ripararsi o di affrettare il passo. Allora ho smesso di correre e mi sono affiancato a lui. Mi ha guardato appena di sotto al fascio d’erba e poi si è messo a parlare come se continuasse un discorso già avviato: «Non sono uno che sta distratto in chiesa. Quando voi parlate ascolto e ci penso su. Io sono vecchio e dormo poco, così alla notte mi sveglio e ci penso. Anche quando sono nei campi ci penso».

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Parlava con frasi corte estremamente precise, come avesse fatto quel discorso infinite altre volte: «Il diavolo ha in tutto la sua parte, è lui il vero vincitore su questa terra. Ha avuto la sua parte anche nella morte del Figlio di Dio. Gli uomini sono burattini nelle sue mani. È impossibile cercare di trattenere il seme perché siamo in mano al diavolo che vuole la sua parte. Così è anche per voi preti». Gli ho detto che la Chiesa non insegna così, che aveva capito male quello che aveva sentito. Allora mi ha guardato con gli occhietti azzurri, furbi, con un’aria di malizia. «Eh, eh» ha detto «la Chiesa vince sempre, è come un macigno. Un macigno, davvero, proprio un macigno.» Cosa voleva dire? Aveva paura di me, del mio abito di prete? No, non credo avesse paura e anche ora mi chiedo che significato volesse dare a quella sua frase, e mi domando se non ho io la paura di intenderlo. Ha voluto che entrassi nella sua casa. Eravamo ancora fuori dal paese, alle prime costruzioni basse che seguono lo stradale, né vecchie né nuove; tre, quattro casolari in fila, le porte strette e allineate sul davanti, i tetti ad altezza diversa e dietro, ancora, il portico per i polli e i conigli. La cucina era buia e piena di gente e appena dentro mi accorsi che il vecchio non era più niente, nessuno gli badava, era uno dei tanti vecchi che sopravvivono nelle famiglie di campagna. Nessuno ci bada; sono morti in un giorno qualunque, camminando lungo la strada, o a far legna, o rivoltando una zolla, e da allora nessuno gli bada più. Appena entrato il vecchio era sparito fra tutta quella gente che

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riempiva lo stanzone largo e oscuro e sembrava convergere verso un unico punto dove c’era qualcuno seduto in un grande seggiolone. Sembravano abituati alle visite perché ci fu un gran movimento di sedie e di persone e si sentiva dire «Entrate, entrate» ma ancora non avevano dovuto vedermi bene perché quando mi avanzai di qualche passo e dovettero vedere la mia veste lunga e inzuppata, ci fu un altro movimento di sedie e di persone, più frettoloso e riverente del primo, e le mani mi spingevano avanti con cautela come non volessero arrivassi troppo presto a quel seggiolone, senza la giusta preparazione, mentre continuavano a ripetere «Entrate, entrate» e dicevano: «O Tonino, vedi chi c’è» quasi a imbonirlo, a prepararlo all’incontro. Allora si fece avanti un uomo con un gran zinale da ciabattino e mi prese per le braccia e sembrava volesse farmi strada anche lui ma in realtà mi teneva indietro da quel seggiolone mentre mi soffiava sulla faccia «Cancro, cancro, reverendo. Anche agli angeli tocca. Ce lo benedica, è entrata la mano del Signore. I genitori, poverelli, non intendono più». E poi forte, anche lui «O Tonino, o Tonino, vedi chi è venuto a trovarti». Di Tonino non si vedeva nulla perché se ne stava incassato in quel suo seggiolone e non si muoveva ma dovette un poco girare il capo perché un po’ di luce gli arrivò sulla faccia e si intravide un istante la macchia bianca del volto. Dovetti spingere da una parte l’uomo con il zinale per arrivare fino a lui. Era un bambino di forse dieci anni, ricciolino, senza più carne addosso, ma lo sguardo, in quello sguardo che alzò su di me… Certo, nell’infanzia c’è già

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tutta la vita. Per un istante ebbi chiaro come esista in ciascuno di noi un preciso momento per morire e questo fin dall’atto del concepimento; così non c’è più alcuna oscurità nella nostra morte, ma ciascuna ha la propria irrefutabile motivazione: nel feto come nel vecchione, nella fanciulla alle soglie del matrimonio come nel suicida. Ecco, non c’era più mistero, e questo era insopportabile. Allora mi misi in ginocchio, appoggiai le mie mani sopra le sue che teneva abbandonate in grembo e dissi: «Se puoi, bambino, se puoi. Con me: Padre nostro che sei nei cieli…». E ogni parola aveva un senso nuovo, vasto, così enorme e sconvolgente che quando arrivai a «sia fatta la Tua volontà» non potei andare oltre, ero come fulminato da quelle due parole che pure avevo ripetuto infinite volte, il loro significato senza più ombra mi annichiliva. Mi alzai, con la punta del pollice tracciai un segno di Croce sulla fronte del bambino, ma senza toccarla, ritrovai la porta non so come e fui fuori sullo stradale. Allora mi misi a correre, a correre fino a che ritrovai il sentiero che saliva alla mia chiesa spalancata in cima al sabbione, e mi buttai a sedere su un sasso, lì, sotto le acacie che gocciolavano. Non sapevo più niente. Tutta quella luce era finita, niente era più giustificabile, tutto mi era egualmente oscuro e gratuito, solo la mia voce continuava a balbettare «la Tua volontà, la Tua volontà»: e allora, per la prima volta, ho pregato davvero, disperatamente, anche per me.

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