Abraham Eraly
Il trono dei Moghul La saga dei grandi imperatori dell’India Traduzione di Maria Eugenia Morin
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Š Abraham Eraly 1997, 2000 Š il Saggiatore s.p.a., Milano 2011 Titolo originale: Emperors of the Peacock Throne
Il trono dei Moghul Per Satish che nell’estate di un anno di crisi domandò: «Che cosa c’è? Non puoi iniziare niente di nuovo alla tua età? Perché no?» e mi dette l’avvio. akbar:
«Dimmi, ti prego, qual è la più grande consolazione dell’uomo in questo mondo?» birbal: «Ah, sire! È quando un padre si trova tra le braccia di suo figlio.»
Sommario
Prefazione 1. L’avvento dei Moghul
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Come un re su una scacchiera, 17 – «Se la fama sarà mia…», 26 – Nero fu il giorno, 38
2. La lotta per la sopravvivenza
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E venne il sognatore, 47 – «La festa è finita…», 54 – «Che cosa devo fare? Dove posso andare?», 63
3. L’intermezzo afghano
74
L’uomo del destino, 74 – Un regno pacifico, 81 – Il rogo finale, 89
4. La restaurazione dei Moghul
97
Humayun in esilio, 97 – Il re-bambino suo malgrado, 107 – Dietro il velo, 116
5. L’impero si consolida
128
Fame di terra, 128 – L’imperatore invincibile, 137– La persona e il personaggio, 149 – Il sapiente analfabeta, 158
6. Un esperimento di sintesi
165
«La mia mente non è in pace…», 165 – «La ragione, non la tradizione…», 171 – Allahu Akbar!, 181 – La tirannia è illecita, 193 – Il lungo addio, 199
7. L’impero di mezzo
207
Figlio di suo padre, 207 – L’imperatore scienziato, 217 – Figli e ribelli, 226 – Un altro figlio, un altro ribelle, 233 – Luce del Mondo, 240 – Un aristocratico inglese alla corte dei Moghul, 246 – Il colpo di mano, 254
8. Il paradiso in terra
263
L’uomo dietro la maschera, 263 – Vittorie di Pirro, 278 – «Ya Takht, Ya Tabut!», 291 – «Per amore della vera Fede», 303 – L’ultima resistenza di Dara, 317
9. Oltre misura
329
Il guardiano eletto da Dio, 329 – «Temi i sospiri degli oppressi», 337 – Nato per infastidire gli altri, 349 – «Più si beve…», 363 – «Ora che calano le ombre…», 373
10. I maratha: la nemesi
379
Gli inizi dei maratha, 379 – Entra Shivaji, 384 – Il Signore dell’ombrello, 397 – Kirti Rupen, 408 – Il crollo dei maratha, 418 – Rafizi-kush, 425 – L’eruzione dei maratha, 435 – «Non c’è speranza nel futuro…», 442
Epilogo
453
La morte del futuro, 453
Dati supplementari Note Ringraziamenti Indice analitico
461 481 483 485
In questa storia mi sono attenuto strettamente alla regola che impone di giungere alla verità in ogni questione e riportare ogni atto esattamente com’è avvenuto… Ho annotato tutto ciò che di bene e di male si conosce… imperatore Babur, Babur-nama
Racconto la storia come mi è pervenuta; contraddirla non è in mio potere. François Bernier nel suo rapporto sull’India dei Moghul
Prefazione
Ho nel mio studio, sulla mia vecchia scrivania di tek mangiata dai tarli, un’antica testa di Buddha in pietra, alta circa un palmo, che ho scovato da un rigattiere molti anni fa a Madras. È un bel pezzo: i lineamenti del volto sono finemente cesellati, il capo è leggermente inclinato da un lato come se tentasse di fissare un ricordo o un sogno e gli occhi sono socchiusi, in meditazione. Una spessa patina di sporco conferisce al bel volto sereno una strana tristezza, l’angoscia di un osservatore compassionevole, preoccupato per la sofferenza umana, ma non coinvolto. Durante gli anni in cui ho lavorato a questo libro, la compassione distaccata di Buddha mi era sembrata l’ideale perfetto degli studiosi di storia, anche se nessuno di noi, naturalmente, riesce a metterlo in pratica, poiché le passioni delle nostre esistenze e i furori della nostra epoca ci manipolano e ci plasmano continuamente con il lento scorrere del tempo. Come il tempo ci plasma, noi plasmiamo la storia. «Tutti i libri di storia sono resoconti provvisori» dice lo storico americano John Noble Wilford. «Quello che le persone hanno fatto in passato non è conservato nell’ambra […] immutabile attraverso i millenni. Ogni generazione guarda indietro e attingendo alla propria esperienza, presume di trovare disegni che illuminano il passato e il presente.» Niente muore del tutto. Il passato è vivo quasi quanto il presente e muta come muta il presente, il passato storico così come il nostro passato personale. Naturalmente, i fatti puri e semplici non mutano, a parte qualche correzione occasionale, ma il modo in cui i fatti s’intrecciano e cambiano colore per formare disegni è tipico di ogni generazione, anzi di ogni storico. Quindi nessuna particolare rappresentazione del passato ha una validità assoluta e il valore di ogni libro di storia dipende in larga misura dalla felice catalisi della visione personale in una visione universale. È essenzialmente un trionfo dell’arte. A parte la mutevolezza delle percezioni umane, esistono altri ostacoli a una
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definitiva comprensione dei processi storici. Come dice Albert Camus nell’Uomo in rivolta, l’uomo non è in grado di afferrare la totalità della storia «dal momento che vive in mezzo a questa totalità. Solo un osservatore al di fuori di essa e al di fuori del mondo potrebbe vedere la storia nella sua interezza». In effetti, è impossibile per l’uomo conoscere la verità definitiva anche su un particolare avvenimento storico, per quanto banale esso sia, giacché lui stesso, turbinando nel tempo, non è in condizione di vedere nella giusta prospettiva tutti i relativi collegamenti e capire quale potrebbe essere lo sbocco finale, dato che le conseguenze dell’evento, intersecandosi con quelle di miriadi di altri eventi, proliferano all’infinito nel futuro. «La ragione storica non verrà mai posta in essere e non acquisterà mai il suo pieno significato o valore fino alla fine della storia» sostiene Camus. «L’assoluto puramente storico non è nemmeno concepibile.» Quando consideriamo questi limiti fin troppo evidenti insiti nello scrivere la storia, sembra davvero stupefacente che gli storici accademici moderni attribuiscano una precisione scientifica alla loro metodologia e una validità oggettiva alle loro teorie. Naturalmente, l’indagine storica è divenuta più sofisticata di recente, specie nella valutazione dei dati archeologici e filologici. Ma questo è dovuto soprattutto ai progressi della scienza e della tecnologia, non a un mutamento radicale della metodologia storica. Il carattere della storia non è mutato. Ma la veste degli storici è mutata perché loro si sono adattati al loro nuovo ruolo di scienziati sociali. Purtroppo, molti di loro, emozionati dal nuovo riconoscimento sociale, hanno trascurato il fatto che mentre le scoperte scientifiche sono sequenziali e procedono con un’andatura lineare – con le nuove scoperte che rimpiazzano o modificano le vecchie teorie – le nuove interpretazioni della storia di rado prendono il posto delle vecchie interpretazioni perché sono semplici opinioni, al massimo filosofie, non scoperte. L’imprevedibilità delle vicende umane fa dell’analisi storica essenzialmente un atto di fede, malgrado la sua tanto decantata metodologia scientifica. Ciò che troviamo dipende in larga misura da ciò che siamo. Vi sono anche altre complicazioni. Il professor di Harvard, Simon Schama, osserva: «Quando gli storici si sono istituzionalizzati in una professione accademica», hanno abbandonato le «realtà storiche» per le «ossessioni storiografiche». Il loro interesse si è spostato dalle persone e dagli avvenimenti, ossa e carne della storia, a strutture astratte costruite da loro. Questa ricerca li ha intrappolati in un labirinto di sofismi, lo sterile e morboso gioco del pensiero, che implica elaborazioni e sottigliezze eccessive che hanno poco senso. Ora finalmente gli storici cominciano a uscire a tentoni dal labirinto. E poco per volta, rinnegando le idee presuntuose del recente passato, stanno tornando alla loro funzione primaria: risuscitare il passato e trasferirlo nel presente. La storia
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è tutta qui. Erodoto, il greco padre della storia vissuto nel v secolo a.C., ha detto tutto nella frase iniziale del suo libro: «Questa è l’esposizione che fa delle sue ricerche Erodoto di Alicarnasso affinché gli avvenimenti umani con il tempo non si dissolvano nella dimenticanza…». La professione dello storico, come affermò lo studioso francese Jules Michelet nel xix secolo, consiste nel «riportare in vita le cose». Dice Schama: «Ho tentato di riportare in vita un mondo invece di seppellirlo in una dissertazione erudita». In questo ruolo, lo storico non si limita a catalogare e interpretare i dati; ritrae la vita e racconta una storia. Una ricerca meticolosa è essenziale, così come uno stile vivido, per permettere ai lettori di sperimentare indirettamente la vita in altri tempi, altri luoghi. Quando la storia è aggiogata a teorie e formule, la sua linfa s’inaridisce. Allora non illumina né sensibilizza. L’abbandono da parte degli storici delle vesti di scienziati a loro così poco congeniali non cancella il valore della storia, ma ne modifica la natura. Sensibilizzare il presente al passato non è un processo neutrale. Ogni nuovo racconto della storia, se è qualcosa più di un banale catalogo di eventi, implica un’ideazione, non fosse altro perché, anche al livello primario, comporta un processo di selezione e valutazione di dati, un disegno. Lo storico può non ergersi apertamente a giudice, ma un giudizio è implicito nel modo in cui racconta la storia. I fatti parlano da soli e quando sono presentati con vivezza, parlano forte e chiaro. Lo storico non è un eunuco morale. Di fatto, è la sua voce morale a dare al suo lavoro un timbro particolare: non levare la voce morale significa trattare la storia come la paleobotanica, con blando distacco. Perciò lo storico, mentre riconosce la natura provvisoria di tutte le percezioni storiche, afferma la sua certezza soggettiva nel mondo delle incertezze oggettive, come Kierkegaard, il filosofo danese del xix secolo. Può non avere conclusioni cosmiche da offrire, ma prende posizioni giuste e necessarie nel suo tempo e luogo. I corollari essenziali di questo atteggiamento relativistico sono la moderazione e la tolleranza. Lo storico espone con fermezza le sue vedute, ma umilmente, consapevole che non sono assolute. Come dice il proverbio, l’airone bianco nella neve ha un colore diverso. Tutte le percezioni, tutte le verità sono relative. Come direbbero i seguaci del Vedanta, sono tutti maya, costruzioni mentali. L’occhio guarda, la mente vede. Riconoscere la natura soggettiva e provvisoria delle percezioni storiche non significa abbandonare il processo di onesta e imparziale raccolta e valutazione dei dati. Adattando il detto di Tom Wolfe, lo storico vede con occhio impersonale, ma parla con voce personale. L’ideale di obiettività storica è stato espresso da parecchi scrittori Moghul. «È dovere di uno storico essere fedele, non sperare nel profitto, non temere danni, non mostrare simpatia per una parte o animosità per l’altra e scrivere sempre con sincerità» dice Khafi Khan, lo storico di corte
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dell’imperatore Aurangzeb. «In questa storia mi sono attenuto strettamente alla regola che impone di giungere alla verità in ogni questione e di riportare ogni atto esattamente com’è avvenuto» scrive l’imperatore Babur nelle sue memorie. Un’esplorazione rigorosa, una percezione limpida e imparziale, un’esposizione schietta erano gli ideali di Babur. Non esistono precetti migliori per gli storici. La schiettezza è una delle principali qualità dell’autobiografia di Babur, come pure la sua ricchezza di particolari. I dettagli, le sottili sfumature sono la linfa della storia, come della letteratura. Dice François Bernier, un viaggiatore francese del xvii secolo nel suo resoconto sull’India dei Moghul: «Convengo con Plutarco che gli incidenti insignificanti non devono essere ignorati e ci permettono spesso di formarci un’opinione più precisa sui costumi e le qualità di un popolo che non gli avvenimenti di grande importanza». I grandi eventi tracciano il profilo della storia, ma sono i particolari a infonderle il soffio vitale. Per conferire completezza alla storia e ricostruire l’intero contesto dell’esistenza, è essenziale esaminare i dettagli della vita quotidiana, come pure degli sviluppi politici, economici e socioculturali. In questo, lo storico dell’India dei Moghul è fortunato perché le sue fonti sono numerose, varie e ricche di particolari su ogni aspetto della vita. E io le ho citate ampiamente, come un reporter che cita testimoni oculari, per conferire immediatezza e autenticità al racconto e per consentire al lettore di osservare la vita dei Moghul attraverso gli occhi di chi l’ha osservata in prima persona. A mio avviso, la preoccupazione basilare dello storico è simile a quella di ogni artista o scrittore serio: condividere l’esperienza e spiegare la condizione umana. Anche lo storico usa l’immaginazione e l’introspezione per visualizzare ciò che è accaduto nella storia e presentare un quadro coerente, anche se, a differenza dello scrittore creativo, deve lavorare nello stretto ambito dei fatti noti e non è libero d’inventare neppure il minimo dettaglio. Quello che Richard Feynman disse dei fisici vale anche per gli storici: «La nostra immaginazione è spinta all’estremo limite, non per immaginare cose che non esistono realmente, come nei romanzi, ma semplicemente per comprendere le cose che esistono». L’immaginazione, dice la storica americana Barbara Tuchman, permette allo storico «di capire le prove che ha raccolto. L’immaginazione va oltre i fatti disponibili […] l’occhio dell’artista ti porta alla cosa giusta». La ricerca metodica costruisce la nave, l’immaginazione la fa navigare. Questo volume sulla storia dell’India nel tardo Medioevo, dal 1526 al 1707, fa parte di uno studio in quattro volumi intitolato L’India raccontata di nuovo, che, una volta completato, dovrebbe coprire la storia indiana dagli inizi al 1858; cronologicamente questo è il terzo volume della serie, ma è il primo a essere stato ultimato.
Prefazione
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In questo volume il mio interesse è focalizzato sull’impero Moghul; mi sono occupato delle storie regionali solo in quanto collegate alla storia dei Moghul. Le storie regionali – in verità, persino gli studi delle sottoregioni e delle città – sono importanti, ma poco pratiche per lo storico generale. Mi sono attenuto quindi al tema dominante del periodo e ho cercato di trattarlo in modo esauriente, tenendo a mente il detto di Thomas Mann che «soltanto la completezza è davvero interessante». Ma la completezza che mi sono prefisso consiste nel presentare la vita nella sua pienezza, non nel catalogare gli eventi. Per esempio, non ho elencato molte battaglie, ma, d’altro canto, ne ho descritte un paio con dovizia di particolari, per mostrare come combattevano i Moghul. Ho parlato anche a lungo della vita quotidiana sia del popolo che dei sovrani, giacché il mio obiettivo è raffigurare la vita e non fare semplicemente cronaca storica. Se la storia è lo specchio in cui ci riconosciamo come popolo, allora gli indiani moderni non possono riconoscersi nello specchio convenzionale che viene loro posto davanti. Oppure, immaginano di essere qualcosa che non sono, giacché le distorsioni nello specchio alterano la percezione che hanno di se stessi. Questa è una condizione moderna, una conseguenza della morfosi psichica dell’India, causata inizialmente dal pregiudizio imperiale britannico, poi dal romanticismo europeo e infine dal nazionalismo indiano. Queste distorsioni prevalgono ancora oggi, anche se i tempi sono cambiati. Durante il dominio britannico, gli indiani, come popolo soggetto, avevano bisogno del conforto e della forza di un passato pseudo dorato per forgiare il sentimento nazionalista e incoraggiare la lotta per la libertà. Ma ora, mezzo secolo dopo l’indipendenza, l’India non può basarsi ancora sul concetto del nazionalismo adolescente, ruminando fantasie romantiche. Per andare avanti, oggi è indispensabile sollevare i veli del pregiudizio, del romanticismo e del mito che celano l’immagine dell’India e guardare la verità negli occhi. L’alternativa è rimanere prigionieri di illusioni, combattere battaglie donchisciottesche contro i fantasmi del passato: l’imperdonabile dominio coloniale o (per alcuni) l’ancora più imperdonabile invasione musulmana dell’India mille anni fa. La tradizione, per quanto gloriosa, è qualcosa che un popolo deve superare. Il futuro non è una replica del passato, ma il suo compimento. In tutte le altre grandi civiltà, il passato è morto per consentire al futuro di nascere, ma sembra che l’India stia uccidendo il futuro perché il passato possa continuare a vivere. Si vanta orgogliosamente di essere la più antica civiltà vivente, ma è davvero una cosa di cui andare fiera non essersi evoluta? C’è qualcosa di molto sbagliato in un popolo che ritiene di aver già raggiunto il suo apice e di poter al massimo duplicare il passato. Naturalmente, nel retaggio indiano c’è molto di cui andare orgogliosi, ma c’è
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anche molto di cui vergognarsi e tutto deve essere esaminato con schiettezza. Non farlo sarebbe irresponsabile. Questa schiettezza potrebbe non essere gradita in un ambiente sociopolitico in cui utili miti tiranneggiano la realtĂ . Come dice un proverbio cinese, quando il dito è puntato verso la luna, l’idiota guarda il dito. Ăˆ inevitabile. Lo storico non si preoccupa di essere politicamente corretto. Madras, dicembre 1995
1. L’avvento dei Moghul
Come un re su una scacchiera «Nel mese del Ramadan dell’anno 899 e nel mio dodicesimo anno di età, divenni sovrano della regione di Fergana.» Così iniziano le memorie di Babur. Il giorno era martedì 9 giugno 1494. Il padre di Babur, Umar Sheikh Mirza, re e allevatore di piccioni, era morto in un incidente anomalo il giorno prima ad Akhsi, un forte nel Nord della Fergana, quando la sua colombaia, costruita sul bordo di un burrone in un angolo del castello, era precipitata nel fiume sottostante a causa di una frana, trascinandolo con sé. «Umar Sheikh Mirza volò via, con i suoi piccioni e la loro casa, e divenne un falco» scrive Babur. Babur nacque il 14 febbraio 1483. Venne chiamato Zahiruddin Muhammad, «difensore della fede, Muhammad», ma era un nome arabo difficile da pronunciare per i rozzi abitanti della Fergana, che soprannominarono il bambino Babur. Il nome significava tigre e si dimostrò azzeccato. Il lignaggio di Babur era impressionante. Dal lato paterno, era nipote del sultano di Herat, Abu Said Mirza, pronipote di Tamerlano, il leggendario eroe tartaro. Dal lato materno, suo nonno era Yunus Khan di Tashkent, il Gran Khan dei mongoli, tredicesimo discendente in linea diretta da Gengis Khan. Quindi Babur era un turco-mongolo, come quasi tutti i membri della classe dirigente nel calderone razziale dell’Asia Centrale; in realtà era più mongolo che turco, poiché anche il suo antenato paterno, Tamerlano, sebbene turco di lingua e di cultura, discendeva dai mongoli. Tuttavia, Babur preferiva definirsi turco: considerava i mongoli un branco di barbari incolti e li disprezzava dicendo: «Anche se i mongoli fossero una razza di angeli, sarebbero pur sempre un popolo spregevole». Non sappiamo molto della madre di Babur, a parte il suo nome, Qutlugh Nigar Khanum, e la sua stirpe mongola. Lo stesso Babur ne parla poco. Ma traccia un profilo vivace e sincero dal padre nelle sue memorie. Stando alla sua descri-
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zione, Umar era un uomo di bassa statura, tarchiato e vigoroso – «tutti cadevano sotto i suoi colpi» scrive – sciatto nel vestire, di abitudini volgari, ma amorevole e dedito all’alcol, all’oppio e al gioco della dama. Era anche, annota sarcastico Babur, un poeta insulso. Quando Babur ricevette la notizia della morte del padre, era accampato, essendo estate, in un giardino alla periferia di Andizhan, la capitale della Fergana. Pur essendo un bambino, la sua immediata preoccupazione, da tipico discendente di Tamerlano, fu assicurarsi il trono. Come figlio maggiore, il trono gli spettava di diritto, ma nell’instabile situazione politica dell’Asia Centrale, poteva far valere il suo diritto solo con la spada. Quindi, tornò in tutta fretta ad Andizhan, scortato dai suoi emiri. E lì, dopo qualche incertezza su come lo avrebbero accolto, se come un re o un prigioniero, ascese al trono. Era un trono traballante. All’epoca dell’ascesa di Babur, la Fergana era sotto attacco di due suoi zii, monarchi confinanti che erano stati provocati da Umar e che ora, morto lui, consideravano il re-bambino una facile preda. E all’interno della Fergana stessa una cricca di nobili stava tramando di mettere sul trono il fratello minore di Babur, Jahangir. Tuttavia, per il momento, la stella di Babur era in ascesa e lui trionfò su tutti i suoi avversari, un po’ per fortuna, ma soprattutto perché i suoi affari vennero presi in mano dalla nonna materna, Aisan-Daulat Begum. Mongola nomade, originaria delle steppe selvagge, era un’anziana signora accorta e formidabile di cui Babur dice: «Poche donne erano pari a mia nonna per discernimento e consiglio; era molto saggia e lungimirante e quasi tutti i miei affari venivano condotti sotto la sua guida». Babur amava la Fergana. Era una bellissima terra di valli e colline, percorsa da fiumi, famosa per i suoi frutteti, i suoi giardini e l’abbondante selvaggina. Ma era troppo piccola per soddisfare l’ambizione di Babur o contenere la sua energia. Il ragazzo era un sognatore, che mirava all’impero e alla gloria. Inoltre, le guerre fratricide erano un rito di passaggio timuride, un obbligo regale. Babur poteva realizzarsi – addirittura sopravvivere – soltanto con la spada. L’intera regione montagnosa dal Mare d’Aral all’Hindu Kush, divisa in una mezza dozzina di principati, era governata dai parenti stretti di Babur, discendenti turbolenti di Tamerlano o Gengis Khan perennemente in lotta tra loro, e offriva a Babur sufficienti opportunità di soddisfare la sua ambizione. Subito a ovest della Fergana c’era il regno di Samarcanda, retto da Baisanghar, un cugino paterno di Babur. Samarcanda, la favolosa capitale di Tamerlano, non era più la grandiosa città imperiale di un tempo, ma per Babur il trono di Tamerlano era ancora il massimo simbolo del potere temporale e impadronirsene divenne la sua magnifica ossessione. Era un sogno realizzabile perché in quell’epoca a Samarcanda regnava il caos, con principi rivali che si contendevano il trono.
1. L’avvento dei Moghul
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A metà del 1496 Babur si unì alla lotta e, sebbene la sua campagna iniziale fosse un insuccesso e l’avvento dell’inverno lo obbligasse a ritirarsi nella Fergana attraverso le montagne, riuscì a conquistare la città l’anno successivo dopo un tenace assedio di sette mesi. Babur aveva allora appena quindici anni. Ma la sua carriera, dal suo punto di vista, aveva già raggiunto l’apice. Sedere sul trono di Tamerlano era la sua massima aspirazione, cosa che nemmeno la successiva conquista dell’India avrebbe eclissato, e fino al termine della sua vita amava cullare il ricordo dolceamaro della conquista e perdita di Samarcanda. Il suo momento di trionfo fu anche troppo breve. Per cento giorni occupò Samarcanda, malgrado le diserzioni nel suo esercito. Poi la fortuna lo abbandonò: si ammalò gravemente a Samarcanda, nel frattempo un gruppo di ribelli, favorevoli a suo fratello Jahangir, s’impadronì della Fergana e quando lui andò a reprimere la ribellione, perse anche Samarcanda che cadde nelle mani di un suo cugino, il sultano di Bukhara, Ali Mirza. L’uccellino che aveva osato librarsi in volo era piombato ignominiosamente al suolo. «Fu molto duro per me» scrive Babur. «Non potei fare a meno di piangere a lungo.» In seguito Babur riconquistò la Fergana e anche Samarcanda, ma soltanto per perderle di nuovo entrambe, battuto questa volta dal temibile capo uzbeco Shaibani Khan, un discendente di Gengis Khan, che si era prefisso come missione nella vita di estirpare i Timuridi dall’Asia Centrale. I dieci anni intercorsi tra l’ascesa al trono della Fergana come re-bambino e l’insediamento come sovrano di Kabul da giovane adulto, furono anni di incessante sfortuna per Babur, punteggiati da rari e troppo brevi trionfi. Per molti anni, dice il cronista dei Moghul Ferishta, «Babur era come un re su una scacchiera, mosso da un posto all’altro e sbattuto di qua e di là come ciottoli sulla battigia». A più riprese era un re senza un regno, a volte persino senza una casa. Babur lamentava: Esiste un giro crudele della ruota della Fortuna che io non abbia visto? Esiste un dolore, una pena che il mio cuore ferito non abbia provato?
Senza casa, per un periodo vagabondò sulle montagne dell’Asia Centrale con un piccolo gruppo di compagni cenciosi, trovando spesso asilo tra le tribù di montanari selvaggi. Alla fine, povero e disperato, si rifugiò dallo zio materno, il capo dei mongoli di Tashkent. Non trovò conforto neppure lì. «Durante il mio soggiorno a Tashkent» scrive «ho sopportato molta povertà e umiliazione. Nessuna
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patria, né speranza di averla!» A un certo momento, per la vergogna e la disperazione, pensò persino di fuggire in Cina. Poi, a un tratto, il corso degli eventi subì una svolta drammatica e il destino strappò Babur alla sua triste condizione e lo pose sul trono di Kabul. Come tutti gli altri regni della regione, Kabul era retta da un parente di Babur, Ulug Beg Mirza, suo zio paterno. Quando Ulug Beg morì, lasciando un bimbo in fasce come unico erede, il principato sprofondò nel caos mentre i ribelli e gli invasori scorrazzavano in tutto il paese. Era un’ottima opportunità per Babur. Teneva lo sguardo puntato su Kabul già da qualche tempo e ora, alla disperata ricerca di un asilo sicuro, piombò sulla sfortunata città e la reclamò per sé. Questo accadeva nel 1504. Babur aveva di nuovo una base di potere. E un futuro. Aveva appena ventidue anni quando prese Kabul. Un’intera vita dinanzi a sé. Non avrebbe più dovuto cercare ansiosamente un trono su cui sedere. Aveva sofferto abbastanza. Ma la sofferenza non lo aveva indurito. Né aveva spento il suo slancio vitale. C’erano momenti in cui piangeva e deplorava la sua sorte, ma mai a lungo. Come diceva lui, Tutto il male, tutto il bene nel conto, sono un guadagno se si guardano nel modo giusto.
Le avversità lo avevano reso saggio, non cinico; gli avevano insegnato quello che gli serviva per meritare quello che avrebbe ottenuto. C’era in lui un candore naturale, un calore e una schiettezza che lo rendevano caro ai suoi uomini, con cui divideva tutti i pericoli e tutte le privazioni, stando sempre alla loro testa. «Questo principe era adorno di molte virtù» scrive suo cugino Mirza Haidar «tra cui primeggiavano il coraggio e l’umanità.» Intelligenza, compassione, energia, ambizione, risolutezza e anche la pura gioia di vivere: sono i tratti che vediamo in Babur a Kabul. Non sappiamo che aspetto avesse. Non esistono descrizioni. In un ritratto nel Baburnama dipinto durante il regno di Akbar, presumibilmente sotto la guida di quelli che lo avevano conosciuto, Babur appare un uomo di media corporatura, con una barba leggera – tanto leggera che dovette iniziare a radersi soltanto a ventitré anni – palpebre pesanti, un naso affilato e una fronte ampia. L’ambientazione del dipinto è pastorale, l’atmosfera serena. Ma Babur, nelle vene il sangue nomade dei suoi antenati, era una persona irrequieta. Sempre in movimento, da quando aveva undici anni non aveva mai «trascorso la festa del Ramadan nello stesso posto per due anni di seguito», annota con orgoglio nel suo diario. Babur amava definirsi un derviscio. La sua generosità era leggendaria. I beni
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materiali non significavano molto per lui. Ma realizzare se stesso sì. E realizzare se stesso significava realizzarsi come monarca e costruttore d’imperi. Per questo Kabul gli offriva opportunità senza precedenti. A Kabul, Babur volse lo sguardo a est, attirato dal ricordo dell’invasione dell’India da parte di Tamerlano e spinto dall’urgente bisogno di compiere scorrerie per integrare le magre entrate del suo regno di montagna. Fin da quando aveva preso Kabul, «l’Indostan è sempre stato in cima ai miei desideri», scrive Babur. Nel 1505, l’anno immediatamente successivo alla presa di Kabul, guidò la sua prima spedizione in India. «Era il mese di Shaban, con il Sole in Acquario, quando lasciammo Kabul diretti nell’Indostan» racconta. Tuttavia, quella campagna fu poco più di una scaramuccia di frontiera attraverso il Khyber Pass. La sua prima spedizione seria in India sarebbe avvenuta vent’anni dopo, nel 1524. Per il momento, doveva ancora occuparsi delle faccende dell’Asia Centrale e soprattutto del suo indomabile avversario Shaibani Khan, una costante minaccia che poteva sempre profilarsi all’orizzonte. Fra Shaibani e i Timuridi non c’era solo una rivalità di potere, ma anche una faida di sangue. Non poteva esserci pace tra loro, e finché Shaibani era in vita, nessun Moghul poteva regnare tranquillo. Così, quando Husain Mirza, sultano di Herat e grande patriarca del clan, invitò i principi Timuridi a unirsi in una lotta all’ultimo sangue contro Shaibani, Babur partì subito con le sue truppe alla volta di Herat. Sfortunatamente, l’anziano sultano morì prima dell’inizio della campagna e i suoi due figli, entrambi sibariti raffinati e ultracolti, che salirono insieme sul trono di Herat, non sopportavano l’idea di sporcarsi le mani in una guerra. Uscirono dalla città e si accamparono sulle rive del Murghab, parlando continuamente di andare in guerra, ma senza spingersi oltre. «I Mirza erano una piacevole compagnia nelle riunioni mondane, nelle feste e nelle conversazioni, ma ignoravano tutto della guerra, della strategia, del combattimento e dello scontro aperto […]. Sognatori, si muovevano in un sogno!» scrive Babur. I Mirza offrirono al loro cugino di campagna una splendida ospitalità, introducendolo alle raffinatezze dell’alta cultura. «I calici vennero riempiti» scrive Babur, descrivendo una festa a cui aveva partecipato, «gli ospiti bevvero il vino come se fosse stato acqua pura; quando salì loro alla testa, l’atmosfera della festa si riscaldò.» Babur non era ancora pronto a violare il divieto islamico di bere alcolici, pur essendo tentato, ma apprezzò molto la compagnia dei Mirza e quando insisterono perché andasse con loro a Herat, non sollevò obiezioni. Il soggiorno a Herat, che era allora la capitale culturale del mondo musulmano orientale, ebbe un grande effetto su di lui. Era al tempo stesso affascinato e nauseato dalla stucchevole decadenza della città, un mondo mellifluo di sfarzo, cultura, sapere e sensualità sfrenata. Gli enigmisti erano l’orgoglio di Herat. Quasi tutte le
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personalità più importanti della città scrivevano poesie, persino i lottatori. Oppure componevano musica, si dedicavano alla calligrafia o alla pittura o ad altre raffinatezze del genere. A Herat gli scacchi erano un’ossessione e le riunioni di giocatori erano all’ordine del giorno come quelle dei bevitori. Città di maestri di eleganza, Herat lanciava la moda per i musulmani colti in tutto il mondo. Naturalmente, era anche un allegro covo di vizi; come osserva Babur con garbata riprovazione, nel sultano Husain Mirza, «nei suoi figli e nelle sue tribù e orde, il vizio e la dissolutezza dominavano». Herat era irrimediabilmente decadente. Ma con stile. Pur divertendosi, Babur si sentiva a disagio in quella città. Sapeva che l’uragano uzbeco si stava addensando al di là del Murghab. I Mirza vivevano in un paradiso degli stolti. Malgrado la sua giovane età, Babur era un veterano temprato dalle battaglie; il suo istinto gli consigliava di fuggire. Così, anche se era pieno inverno e le montagne erano invalicabili, dopo venti giorni di baldoria a Herat, Babur si strappò da quell’ambiente festaiolo e intraprese il lungo cammino di ritorno a Kabul. Poco dopo, come temeva, Herat cadde in mano a Shaibani e i Mirza cercarono salvezza nella fuga. La caduta di Herat lasciò Babur unico principe regnante della casa di Tamerlano. I principi e gli emiri Timuridi di tutta l’Asia Centrale, i residui dell’improvvisa inondazione uzbeca, andarono a Kabul, l’unico luogo al riparo dalla piena dove potevano rifugiarsi. Per marcare il suo nuovo status di capo dei Timuridi, Babur, che al pari di tutti i sovrani di quella stirpe era noto fino allora come Mirza, principe, si fece chiamare Pascià, imperatore. Questo augusto titolo denotava la sua ambizione e preannunciava il suo destino, ma la sua posizione era ancora insignificante e precaria: non soltanto non aveva speranza di riconquistare le terre dei suoi antenati occupate da Shaibani, ma anche il suo minuscolo principato di Kabul era in pericolo. In questa difficile situazione, Babur aveva un disperato bisogno di distanziarsi dal suo spietato avversario e fu così che cominciò a guardare seriamente all’India come a un possibile rifugio. Poi la scena mutò inaspettatamente. Shaibani Khan fece il passo più lungo della gamba e commise l’errore di scontrarsi con lo scià Ismail, il fondatore della dinastia dei Safavidi in Persia, che, ancora più astuto di Shaibani, sgominò gli uzbechi in battaglia e li decimò. Shaibani venne ucciso, il suo corpo smembrato e il suo cranio, incastonato in oro, fu trasformato in una coppa per lo scià. La notizia elettrizzò i Timuridi. Dai loro vari rifugi si affrettarono a riprendersi le terre perdute. Anche Babur entrò subito in azione e, affidando Kabul a suo fratello Nasir Mirza, andò a nord verso la Transoxiana, sognando di nuovo Samarcanda. Ma non era quello il suo destino. Sebbene occupasse la città per la terza volta con l’aiuto di una forza di spedizione persiana, riuscì a tenerla solo per poco, virtualmente come vassallo persiano, prima di essere cacciato via di nuovo dagli uzbechi.
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Si trattenne un poco nel Badakhshan, incapace di rassegnarsi alla perdita di Samarcanda, ma nel 1514, dopo tre anni di assenza, tornò finalmente a Kabul e riprese il trono, ceduto temporaneamente al fratello. Non si sarebbe mai più rivolto a occidente. Il suo destino era in India, a oriente. Tornato a Kabul, Babur condusse una vita abitudinaria, nella misura in cui poteva esserlo la vita di un principe medievale. Era ancora impegnato in frequenti campagne militari: spedizioni punitive contro tribù afghane indocili, razzie attraverso le montagne orientali, azioni coercitive contro nobili ribelli e parenti ambiziosi. Ma gli undici anni che Babur trascorse a Kabul dal suo ritorno dal Badakhshan fino all’ultima spedizione indiana furono, relativamente parlando, un tempo di pace e di tranquillità per lui. Ora la stagione volgeva al bello per Babur. Aveva modo di dedicarsi alla sua passione per la letteratura e le arti, e gustare i piaceri della vita. Amava la buona compagnia e organizzava spesso feste a base di vino e di oppio, che sovente iniziavano all’alba e continuavano fino a tarda notte. Erano divertimenti nuovi per Babur. «Non avevo alcuna predilezione per il vino nella mia infanzia; ignoravo l’allegria e il piacere che poteva procurare» scrive. «Se talvolta mio padre insisteva per farmelo bere, mi rifiutavo […]. Più tardi, con il risveglio della virilità e la spinta della passione sensuale nacque in me il desiderio del vino, ma nessuno mi spronava a berlo, anzi nessuno si accorgeva della mia propensione; quindi, pur desiderandolo, era difficile per me fare qualcosa che non avevo mai fatto prima.» A Herat, i suoi cugini gli avevano offerto del vino, ma lui lo aveva rifiutato per educazione, sperando che glielo offrissero di nuovo. Ma non lo avevano fatto. Così, Babur assaggiò il vino per la prima volta dopo i trent’anni, ma riguadagnò rapidamente il tempo perduto. Strada facendo iniziò anche a fare uso di oppio e forse di marijuana. Ma queste abitudini non lo degradavano: in lui l’ebbrezza non era un vizio, ma piuttosto un raffinamento, un acuirsi dei sensi. Odiava le orge rumorose e spesso interrompeva le feste quando diventavano turbolente. «C’era un chiasso disgustoso» scrive a proposito di un episodio «la festa divenne intollerabile e fu interrotta.» Babur amava anche i piaceri della tavola; la frutta in particolare era una sua passione. Tuttavia, non sembra che fosse entusiasta del quarto componente del paradiso di Omar Khayyam: le donne. Era un capofamiglia attento che non faceva mancare niente alle sue donne, specie alle parenti più anziane, e le trattava con affetto e deferenza, ma, a differenza del suo panciuto genitore, non era un donnaiolo. Babur preferiva la maschia bonomia dei suoi amici ai piaceri dell’harem. La sua prima moglie fu Aisha, una cugina con cui era fidanzato dall’età di cinque anni. Undici anni dopo, lei lo raggiunse nella Fergana e lo trovò un amante
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timido. Come racconta lo stesso Babur: «Pur non essendo maldisposto nei suoi confronti, questo era il mio primo matrimonio, e per pudore e timidezza, solevo vederla una volta ogni dieci, quindici, venti giorni. In seguito, quando anche la mia buona disposizione iniziale finì, la mia timidezza aumentò. Allora mia madre Khanum soleva mandarmi da lei una volta al mese o ogni quaranta giorni, a forza di stimoli, sollecitazioni e tormenti». Aisha gli dette il primo figlio, una bambina, dopo tre anni che lo aveva raggiunto, ma la piccola morì quando era ancora in fasce e Aisha stessa lo abbandonò durante i suoi giorni di vagabondaggi senza casa. Nel corso del tempo Babur ebbe altre mogli e numerose concubine, come si addiceva a un principe, e generò molti figli, com’era suo dovere per assicurare la continuità della stirpe. Ma le donne non suscitavano in lui alcun ardore. C’era una sola infatuazione romantica nella vita di Babur: il suo amore mai celato per un ragazzo del bazar di Andijan. A quell’epoca Babur aveva sedici anni e Aisha lo aveva appena raggiunto. «In quei giorni tranquilli» confessa «scoprii in me una strana inclinazione […] per un ragazzo del bazar, il cui nome, Baburi, si combinava bene con il mio. Fino ad allora non avevo avuto alcuna inclinazione per nessuno, in realtà non sapevo nulla dell’amore e del desiderio, né per sentito dire né per esperienza diretta, non ne avevo mai parlato […]. Di tanto in tanto Baburi soleva venire in mia presenza, ma per pudore e per timidezza, non riuscivo mai a guardarlo in volto; come avrei potuto, quindi, fare conversazione e recitare versi? […] In quel ribollire di desiderio e di passione e sotto la spinta della follia giovanile, solevo vagare scalzo e a testa nuda per le strade e i vicoli, i frutteti e le vigne. Non trattavo con cortesia amici ed estranei, non mi curavo di me stesso né degli altri.» Babur non dice come terminò la vicenda. Ma la superò abbastanza in fretta. Baburi era soltanto un capriccio di adolescente, non insolito in un ambiente dove la bisessualità era comune e la pederastia di gran moda tra gli aristocratici dell’Asia Centrale. Tuttavia, nel caso di Babur, sembra che fosse un amore romantico e virginale, senza espressione carnale. In seguito, a Kabul, quando aveva di nuovo il tempo di divertirsi, preferiva le seduzioni più delicate della letteratura, dell’arte, della musica e del giardinaggio ai piaceri carnali. Babur dedicò tutto se stesso a ognuno dei suoi molti interessi culturali e in alcuni di essi ottenne successi rilevanti. Tuttavia, per lui erano semplici passatempi e non dimenticava mai, neppure per un momento, di essere un re di professione, a cui solo il brivido del pericolo nel campo di battaglia avrebbe procurato l’estasi suprema. A Kabul, pur non sapendo ancora che cosa gli riservasse il fato, Babur iniziò a prepararsi per le battaglie future, trasformando i suoi uomini in una splendida forza combattente. «Mi sono dato molta pena per addestrarli e allenarli al mas-
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simo» scrive. «Le mie truppe non avevano forse mai raggiunto un tale livello di disciplina.» Si preoccupò anche di ammodernare il suo esercito, introducendo moschetti e cannoni (usati fino allora soprattutto negli assedi) nelle battaglie campali, secondo una tattica dei turchi ottomani da lui adottata. Quell’innovazione gli avrebbe assicurato un vantaggio cruciale in India. Frattanto, il mosaico politico in India si era ricomposto, aprendo un varco a Babur che aveva bisogno di quella via di uscita per sfuggire alla perenne minaccia uzbeca. «L’avversario era molto forte, io molto debole senza la possibilità di venire a patti, né la forza di oppormi» lamenta. «In presenza di tale immenso potere e potenza, dovevamo pensare a un luogo dove andare e, in questa crisi e nel breve tempo disponibile, mettere uno spazio più vasto tra noi e il potente avversario. La scelta era tra Badakhshan e Indostan e ora bisognava decidere.» La scelta cadde sull’India. Babur afferma che dal 1519 in poi condusse cinque spedizioni in India, ma già da molto prima, fin dall’epoca della presa di Kabul, era stato attivo lungo le regioni confinarie nordoccidentali dell’India. Tuttavia, queste prime campagne erano state semplici scorrerie e probabilmente Babur non attraversò l’Indo fino al 1519, quando si spinse fino allo Jhelum. Anche allora, fino al 1524, le sue ambizioni non andavano oltre il Punjab, che reclamava come eredità di Tamerlano, in quanto la regione aveva fatto parte di quell’impero un secolo prima. Poi, per un caso fortuito, un’opportunità migliore bussò alla porta. I messaggeri del destino erano Dilawar Khan (figlio di Daulat Khan, il governatore afghano ribelle del Punjab) e Alam Khan (uno zio del sultano di Delhi, Ibrahim Lodi) che arrivarono a Kabul per chiedere a Babur di aiutarli a cacciare Ibrahim. Babur interpretò un presagio che risultò favorevole e accettò la proposta non tanto per aiutare loro quanto se stesso. La campagna del 1524 fu un fiasco. Gli alleati, dopo aver occupato il Punjab, litigarono sulla spartizione della provincia. Daulat Khan voleva tutto il Punjab per sé, mentre Babur aveva altre idee. Perciò, si ritirò prudentemente a Kabul, lasciando una guarnigione a Lahore. Sarebbe stato rischioso per lui addentrarsi di più in India con un violento Daulat Khan alle sue spalle nel Punjab che minacciava di tagliargli la strada. Babur partì da Kabul per l’invasione finale dell’India a metà novembre del 1525, prima che la neve bloccasse i passi montani. Si mosse senza fretta, organizzando frequenti libagioni lungo la strada. A metà dicembre attraversò l’Indo per non passarlo mai più. Il suo avversario immediato era Daulat Khan, che era sceso in campo contro di lui con due spade al fianco per mostrare la sua determinazione a vincere o morire. Risultò poi che la sua era solo una spacconata perché appena Babur si avvicinò, l’esercito del Khan si disperse e il vecchio stesso si arrese docilmente. Venne condotto davanti al vincitore con le due spade appese
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al collo. Babur lo rimproverò: «Ti chiamavo padre. Ti ho dimostrato più onore e rispetto di quanto avresti potuto chiedere […]. Che male ti ho fatto perché tu ti presenti con due spade ai fianchi, conduca un esercito nelle nostre terre e provochi tumulti e ribellioni?». Il Khan restò in silenzio. Ma Daulat Khan non era importante. La vera sfida era dinanzi a lui, a Panipat, dove Ibrahim Lodi lo aspettava con il suo esercito. «Misi il piede nella staffa della determinazione» scrive Babur «presi in mano le redini della fiducia in Dio e mossi contro il sultano Ibrahim.»
«Se la fama sarà mia…» Babur non sostò nel Punjab ma impiegò un po’ di tempo per sistemare le sue faccende e quando attraversò il Sutlej e avanzò verso lo Yamuna, era aprile e la temuta estate indiana era alle porte. Arrivato allo Yamuna, in un punto a est di Kurukshetra, l’epico campo di battaglia del Mahābhārata, Babur si accampò. Frattanto Ibrahim Lodi, ignorando sdegnosamente le disastrose previsioni dei suoi astrologi, si era spinto con le sue truppe fino a Panipat, ottanta chilometri a nord di Delhi, per sfidare l’intruso. Quindi le forze avversarie si trovavano a due marce di distanza l’una dall’altra, gli afghani immediatamente a sud di Panipat e i Moghul un po’ a nord della città. L’avanzata di Babur in India era stata facile fino a quel momento poiché aveva incontrato solo una sporadica resistenza da parte delle forze provinciali afghane nel Punjab. Ora doveva affrontare l’esercito imperiale afghano. Il suo era piccolo per gli standard indiani. Quattro mesi prima, quando aveva attraversato l’Indo, il suo esercito, scrive Babur, contava dodicimila uomini, «grandi e piccoli, buoni e cattivi, servitori e non». In seguito, venne raggiunto dai contingenti che aveva lasciato in India durante la campagna precedente e da alcuni ufficiali e soldati afghani rinnegati. Con queste aggiunte, quando Babur arrivò a Panipat, il suo esercito era probabilmente aumentato a circa ventimila uomini. Non conosciamo la forza effettiva dell’esercito afghano. Babur calcolava che contasse grosso modo centomila uomini, con un migliaio di elefanti. Comunque sia, era sicuramente molto più numeroso dell’esercito Moghul. Questo vantaggio era compensato in parte dalla superiorità di Babur in fatto di armamenti: un treno di artiglieria (le stime variano da appena due a qualche centinaia di pezzi) e un contingente di moschettieri (anche di questi non si conosce il numero esatto, ma probabilmente erano circa quattromila) che sarebbero stati impiegati in India in una battaglia campale per la prima volta a Panipat. Tuttavia, l’equilibrio delle forze era a favore di Ibrahim. Babur poteva vincere solo grazie all’abilità tattica.
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Fino ad allora quasi tutte le battaglie di Babur erano stati scontri ravvicinati nella regione collinosa, in campi di battaglia ristretti dove non si potevano schierare grandi forze, e non era la dimensione dell’esercito ma il suo spirito, l’uso tattico del terreno e l’elemento di sorpresa a decidere l’esito delle battaglie. Ora Babur si trovava in una pianura aperta. Qui i numeri avrebbero contato. C’erano poche opportunità di lanciare un attacco a sorpresa e il terreno non offriva alcun vantaggio tattico. E il valore, la rapidità della risposta e la manovrabilità, anche se potevano fare una qualche differenza, non sarebbero state decisive. Per sconfiggere Ibrahim Lodi, Babur doveva neutralizzare la soverchiante superiorità numerica degli afghani e consentire alle sue forze di cavalleria e di artiglieria di prevalere. A tale scopo doveva assolutamente creare un fronte di battaglia molto stretto per impedire agli afghani di aggirare i fianchi del suo piccolo esercito e accerchiarlo. Ma anche quello non sarebbe stato sufficiente, perché, per quanto stretto fosse il fronte, Babur non avrebbe avuto uno schieramento abbastanza profondo per resistere all’assalto afghano che poteva, solo con la massa e la velocità, sfondare i ranghi Moghul come una gigantesca onda di marea. Babur doveva ideare un modo di rafforzare la sua prima linea e tenere a freno gli afghani abbastanza a lungo per consentire ai suoi cannoni a tiro lento di frantumare la formazione nemica. Se fosse riuscito, la cavalleria Moghul poteva lanciarsi alla carica in mezzo agli afghani e falciarli. Che cosa doveva fare Babur per assicurarsi quel vantaggio tattico? Nel dilemma, invitò i suoi veterani a un consiglio di guerra. Insieme, tornando con la mente alle tradizioni della loro terra turbolenta e al ricordo dei trentadue anni di continue guerre dello stesso Babur, idearono una nuova strategia rivoluzionaria che modificava abilmente la tradizionale formazione di battaglia dei Moghul per adattarla alla tattica ottomana del muro di fuoco d’artiglieria e alla turbinosa carica di cavalleria degli uzbechi, in modo da fermare la valanga afghana e annientarla. Decisa la strategia da seguire, Babur inviò esploratori a perlustrare il futuro campo di battaglia a Panipat. Il tratto di terreno aperto sul fianco orientale di Haryana lungo lo Yamuna era l’accesso tradizionale alla pianura del Gange, un corridoio tra le montagne a nord e il deserto a sud, in fondo a cui sorgeva Delhi. Era il terreno ideale per una battaglia tradizionale in campo aperto. Andava bene per Ibrahim Lodi. Ma non andava bene per Babur. Non c’era nulla che potesse sfruttare a suo vantaggio: era una vasta distesa aperta e solo pochi alberi e cespugli spinosi rompevano la sua monotonia. Babur doveva modificare in qualche modo il campo di battaglia adattandolo alle esigenze della sua particolare strategia. In due rapide marce verso sud lungo lo Yamuna, Babur raggiunse Panipat e schierò l’esercito a est della città, tra la città stessa e il fiume, che nel xvi seco-
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lo scorreva nelle vicinanze. La sua ala destra era addossata agli edifici cittadini, al sicuro da un eventuale aggiramento; per proteggere l’ala sinistra, scavò fossati ed eresse una barriera di alberi tagliati tra il fiume e la sua posizione, restringendo così il campo per essere sicuro che la battaglia sarebbe stata combattuta esattamente lungo il suo schieramento. Il nemico non avrebbe avuto la possibilità di aggirarlo né a sinistra né a destra. Per proteggere la sua linea del fronte e ostacolare l’assalto della cavalleria afghana, Babur eresse lungo tutto il suo schieramento una barriera formata da circa settecento affusti di cannoni e altri carri a circa quattro metri d’intervallo con corde di cuoio greggio tese tra l’uno e l’altro. In ognuno degli spazi vuoti tra i carri, Babur piazzò sei o sette dei suoi moschettieri, difesi da parapetti. E per aggiungere un potenziale offensivo a questo schieramento essenzialmente difensivo, lasciò parecchi varchi larghi circa un tiro d’arco tra i gruppi di carri attraverso cui un paio di centinaia di cavalieri potevano caricare fianco a fianco. Il 12 aprile Babur aveva terminato i suoi preparativi ed era pronto ad affrontare il nemico. La sua era una perfetta disposizione difensiva-offensiva, in grado di tenere a bada il nemico fino al momento di attaccare. Aveva un unico svantaggio, e questo era un fattore cruciale: perché il suo piano avesse successo, bisognava che gli afghani attaccassero la sua posizione trincerata; in caso contrario, tutti i suoi elaborati preparativi non sarebbero serviti a nulla. Ma Babur confidava in un attacco degli afghani: dopotutto, i Moghul si erano introdotti nel dominio di Ibrahim Lodi e toccava a lui scacciarli. Ibrahim Lodi vedeva la situazione in modo diverso. Era vicino, in una buona posizione che gli permetteva di bloccare la strada per Delhi. Mentre Babur preparava le sue difese, il sultano non interferì in alcun modo. Chiaramente non aveva intenzione di attaccare. Non ne aveva bisogno, giacché il suo obiettivo era soltanto impedire a Babur di arrivare a Delhi. In questo caso, la difesa era la migliore forma di offesa. Rimanendo arroccato nella sua posizione, il sultano poteva costringere Babur a lasciare i suoi trinceramenti e attaccarlo. Il tempo giocava a favore di Ibrahim Lodi. Poteva permettersi di aspettare. Ma Babur no. Come aggressore in una terra straniera, di fronte a forze superiori, aveva bisogno di risultati veloci per mantenere alto lo spirito battagliero dei suoi uomini. Per sette giorni, attese con crescente nervosismo l’attacco afghano. Frattanto, il morale del suo esercito cominciò a crollare. «Molte delle truppe» annota «erano in preda a un grande tremore e allarme.» Babur cercò di calmarle mettendo in ridicolo Ibrahim Lodi come «un prode non ancora sperimentato», di cui non avevano nulla da temere. Al tempo stesso tentò d’incitare gli afghani ad agire effettuando sortite provocatorie nel loro campo, lanciando insulti e scagliando frecce. Il nemico le ignorò. «Continuava
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a non fare alcuna mossa e le sue truppe non uscivano dal campo» brontola Babur. Il prode non ancora sperimentato dimostrava di avere una sua strategia ben precisa ed efficace. Alla fine, fu Babur a dover modificare il suo piano di battaglia e sferrare, il 19 aprile, un attacco notturno contro gli afghani, sperando di coglierli di sorpresa. Il grosso della sua ala sinistra, un contingente di quattro o cinquemila uomini, quasi un quarto del suo esercito, andò all’assalto, mentre Babur con il resto dei suoi uomini in assetto di guerra era pronto a sfruttare il vantaggio se gli attaccanti facevano progressi, o a coprire la loro ritirata se l’attacco falliva. L’incursione fu un fiasco. Invece degli afghani, furono i Moghul a essere colti di sorpresa: trovarono i nemici svegli e pronti a riceverli e, per non venire decimati, si ritirarono velocemente senza ingaggiare battaglia. Ma Babur era così fortunato che fu proprio grazie a questa apparente sconfitta che ottenne ciò che voleva: un attacco afghano contro la sua posizione. Il 20 aprile, il giorno dopo lo sfortunato attacco notturno, fu una giornata tranquilla nel campo dei Moghul, mentre Babur aspettava la contromossa degli afghani. Attese invano, anche se a tarda notte il campo venne gettato nel panico per un falso allarme. «Per venti minuti vi fu una grande baraonda e una chiamata alle armi» dice Babur. I Moghul erano nervosi. Poi, sabato 21 aprile, allo spuntare dell’alba, le sentinelle Moghul riferirono che gli afghani si stavano muovendo. Apparentemente, la facile sconfitta degli incursori notturni aveva imbaldanzito gli afghani che, fiutando una facile vittoria, si disponevano a sferrare il colpo di grazia al nemico. Fu un errore fatale. Gli afghani stavano entrando nella trappola astutamente preparata da Babur. Lui attese con la sua cavalleria, la barricata di carri e parapetti, gli artiglieri e i moschettieri, tutti in posizione. Dietro la fila di cannoni, l’esercito Moghul con i soldati e i cavalli protetti da cotte di maglia era schierato nella classica formazione di Tamerlano: l’avanguardia al centro con il contingente principale subito dietro, fiancheggiato dalle due ali, e gli squadroni volanti all’estremità. Nelle retrovie Babur teneva pronta una vasta forza di riserva per ogni eventualità. Gli afghani vennero avanti di gran galoppo, come se intendessero semplicemente passare sopra i Moghul come un rullo compressore. Ma si trovarono in difficoltà ancor prima d’ingaggiare battaglia. Con le mura di Panipat a sinistra e i fossati e le barriere di Babur a destra, finirono in un imbuto quando avanzarono verso i Moghul. Costretta a disporsi di sghembo per passare attraverso la strettoia, la loro ala sinistra superò la linea del fronte per cui gli afghani andarono a incunearsi nell’ala destra dell’esercito Moghul in una strana formazione sbilenca.
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Babur, che si era piazzato vicino al centro del suo schieramento in posizione di controllo, vide gli afghani venire avanti alla sua destra e inviò subito una parte delle truppe di riserva a rafforzare quell’ala. Ma non aveva motivo di angosciarsi. Quando gli afghani arrivarono a ridosso delle difese nemiche e i cannoni Moghul aprirono il fuoco (un terrore inatteso) le loro divisioni avanzate esitarono, e mentre tentavano di trattenere i cavalli, le file dietro di loro, lanciate al galoppo, non riuscirono ad arrestarsi e sbatterono addosso ai compagni, gettando nello scompiglio l’intero esercito afghano, già compresso lateralmente per via della strettoia. Era proprio quello che aveva pianificato Babur. Gli afghani non erano più un esercito, ma una fitta orda disordinata, incapace di battersi efficacemente e neppure di ritirarsi. Babur approfittò del momento favorevole e fece entrare in campo i suoi squadroni volanti con il compito di aggirare il nemico e attaccarlo alle spalle. Simultaneamente, ordinò all’ala destra e sinistra di avanzare. La sua strategia era chiara: costringere le ali nemiche a ripiegare verso il centro del loro schieramento per trasformare l’esercito afghano in una massa di carne per i suoi cannoni e moschetti. Gli afghani combatterono valorosamente, caricando a più riprese la posizione nemica, ma la loro situazione era disperata. Non era più una battaglia, ma una carneficina. «Il sole si era levato ad altezza di lancia sull’orizzonte quando la battaglia era iniziata, e il combattimento durò fino a mezzogiorno, quando il nemico venne completamente sgominato e messo in rotta e i miei amici vittoriosi esultavano» scrive Babur. «Per grazia di Dio Onnipotente, questa ardua impresa mi venne facilitata e questo possente esercito, nello spazio di mezza giornata, giacque nella polvere.» Fu un massacro spaventoso. Babur calcolava che gli afghani morti fossero quindici o sedicimila, un numero verosimile. Lo stesso Ibrahim Lodi giaceva morto su un mucchio di cadaveri, unico sovrano musulmano di Delhi (turco, afghano e Moghul) a cadere in battaglia. Quando i Moghul trovarono il corpo del sultano ucciso, com’era loro costume, gli mozzarono la testa e la portarono come memento a Babur che trattò il macabro trofeo con profondo rispetto. «Onore al tuo coraggio!» esclamò, sollevando la testa con gesto solenne. Prima della battaglia aveva deriso Ibrahim Lodi, ma ora che aveva vinto, rendeva omaggio al valoroso defunto. Fece portare una pezza di broccato per avvolgere il corpo e ordinò a due dei suoi emiri più importanti, Dilawar Khan e Mir Khalifa, di lavare Ibrahim Lodi e seppellirlo con tutti gli onori nel luogo dov’era caduto. Un impero era stato conquistato in una battaglia durata appena cinque ore. «Quello stesso giorno» scrive Babur «ordinai a Humayun Mirza […] di metter-
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si in viaggio senza bagagli o altri impedimenti e andare con la massima sollecitudine a occupare Agra (la capitale dei Lodi) e prendere possesso dei tesori.» Un altro contingente venne inviato in tutta fretta a occupare Delhi. Babur stesso andò a prendere possesso del campo afghano, poi piantò le tende sulle sponde di un fiume vicino per passare la notte. L’indomani, domenica, partì per Agra. Strada facendo, si fermò a Delhi per qualche giorno, mettendo al sicuro tesori e visitando palazzi, giardini e santuari. Dispose anche che la khutba (un sermone formale che comprendeva una preghiera per il sovrano regnante) venisse letta a suo nome nella moschea principale della città il venerdì a mezzogiorno durante la preghiera pubblica, per legittimare la sua sovranità. Arrivò ad Agra il 4 maggio, dopo aver percorso i 280 chilometri da Panipat in due settimane in piena estate. Per una settimana si accampò in uno spiazzo aperto alla periferia della città. Giovedì, 10 maggio, entrò in gran pompa ad Agra e andò a insediarsi nella cittadella di Ibrahim Lodi come imperatore dell’Indostan. Babur aveva quarantatré anni. Trent’anni prima, come re-bambino sul trono traballante di un oscuro principato dilaniato dalle guerre, aveva osato fare sogni grandiosi, e ora finalmente, dopo lotte interminabili e molti insuccessi, aveva conquistato un dominio all’altezza della sua visione. La Fergana, il regno dei suoi antenati ora in mano agli uzbechi, era ormai un lontano ricordo; Samarcanda, la leggendaria capitale di Tamerlano che un tempo aveva desiderato ardentemente, era una passione spenta; e Kabul, che era stata la sua capitale per venticinque anni, era solo un avamposto provinciale. Ora la patria di Babur era l’India. La decisione di insediarsi lì fu una sgradevole sorpresa per i suoi uomini, che si aspettavano di tornare a Kabul, carichi di bottino, com’era avvenuto in precedenti occasioni. Quando Babur aveva lanciato le sue campagne indiane, la sua ambizione si limitava all’annessione del Punjab come provincia del suo regno di Kabul. E sembrava che quello fosse ancora il suo obiettivo quando aveva intrapreso l’ultima invasione indiana, giacché aveva appena concluso un accordo con Alam Khan, il pretendente dei Lodi, in base al quale gli avrebbe ceduto Lahore e tutte le terre a ovest della città in cambio del suo aiuto per cacciare Ibrahim Lodi. Gli ufficiali di Babur avevano, quindi, immaginato che la spedizione nella pianura indogangetica fosse solo un’altra scorreria per razziare un po’ di bottino. L’India era opulenta, ma inospitale. Un buon terreno di caccia, ma non un luogo dove vivere. Gli emiri Moghul la pensavano così ed erano irritati dalla decisione di Babur di rimanere in India. La sua stessa generosità accresceva i suoi problemi. «I tesori di cinque re caddero nelle sue mani» scrive sua figlia, Gulbadan Begum, «diede via ogni cosa.» Tutti i suoi uomini – nobili e soldati, persino mercanti e scribi – ricevettero generosi doni da Babur, come pure i suoi parenti e amici in patria e i santoni a Samarcanda e nel Khorasan. «Ogni anima nella regione di
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Kabul e nella vallata di Varsak, uomo e donna, libero e schiavo, maggiorenne e minorenne» ricevette una moneta d’argento, annota Babur. Il sovrano non tenne niente per sé. I suoi uomini erano soddisfatti. Ora desideravano soltanto tornare sulle fresche montagne dell’Afghanistan e godersi la loro buona sorte. Come avrebbe scritto Khwaja Kalan, uno degli intimi di Babur, al momento di lasciare l’India per Kabul, Se sano e salvo varcherò il Sind, Si annerisca il mio viso se rimpiangerò l’India.
Babur conosceva lo stato d’animo dei suoi uomini. Lui stesso trovava l’India una terra squallida. «L’Indostan è un paese con poche attrattive» lamenta. «I suoi abitanti non hanno un bell’aspetto; non esistono relazioni sociali, nessuno scambio di visite; nessun genio o capacità; nessuna buona educazione; nell’artigianato e nel lavoro non c’è alcuna forma o simmetria, metodo o qualità; non ci sono buoni cavalli, buoni cani, uva, meloni o frutta di prima qualità, niente ghiaccio o acqua fresca, buon pane o cibo cotto nei bazar, niente bagni caldi, scuole superiori, candele, torce o candelieri.» Ma, soprattutto, i Moghul erano oppressi dal clima dell’India. L’estate del 1526 fu feroce ad Agra, una delle peggiori a memoria d’uomo. «Venti violenti, pestilenziali abbattevano in massa le persone» scrive Babur. E non era tutto. Avversari potenti – gli afghani a est e i Rajput a sud – stavano radunando le forze per marciare contro Babur. Chiaramente, i Moghul avrebbero dovuto combattere e vincere molte altre battaglie prima di poter rivendicare il pieno possesso dell’Indostan. In India i Moghul non avevano alcun appoggio. Gli abitanti erano cupi e ostili e infastidivano i Moghul sempre e ovunque. «Al nostro arrivo ad Agra, c’era una notevole antipatia e ostilità tra la gente del luogo e la mia» scrive Babur. «Tutti gli abitanti erano fuggiti terrorizzati. Non si trovava frumento per noi o granturco per i nostri cavalli. I paesani, per ostilità e odio nei nostri confronti, si erano dati alle ruberie e al brigantaggio; le strade divennero intransitabili.» Città e villaggi si fortificavano e non si sottomettevano senza combattere. Sembrava proprio che si sarebbe dovuta conquistare l’India metro per metro. La conquista dell’India valeva uno sforzo così terribile? Babur pensava di sì. L’India, dice, era «un paese molto vasto [… che aveva] oro e argento in grande quantità» e «i lavoratori di ogni professione e mestiere [… erano] innumerevoli e senza fine». Queste erano le attrattive principali. In aggiunta, c’era la prospettiva della gloria che avrebbe conquistato, il posto che avrebbe occupato
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nella storia come fondatore di un grande impero – e forse per Babur tutto questo era molto più seducente di qualsiasi compenso materiale. Come diceva uno dei suoi proverbi preferiti, Datemi soltanto la fama e morirò contento. Se la fama sarà mia, la Morte si prenda pure il mio corpo.
Decidendo di rimanere in India, Babur guardava a un futuro lontano. Tuttavia, le ambizioni dei suoi uomini erano legate ai loro appetiti immediati e tutti chiedevano a gran voce di essere rimandati a Kabul. Ma Babur fu irremovibile. «Faticando per anni, affrontando privazioni e lunghi viaggi, lanciando me stesso e il mio esercito in battaglia e compiendo massacri, siamo riusciti, per grazia di Dio, a sconfiggere queste masse di nemici e a prendere le loro vaste terre» rammentò ai suoi uomini. «Ora quale forza ci costringe, quale nuova necessità c’induce ad abbandonare, senza ragione, paesi conquistati a rischio della vita? Saremmo dovuti rimanere a Kabul, zimbelli di una dura povertà? D’ora in poi, nessun mio sostenitore parli più di queste cose!» Questa esortazione tacitò parecchi obiettori, ma non tutti. Alcuni di loro, tra cui un paio dei suoi più vecchi compagni d’armi come Khwaja Kalan, supplicarono Babur di lasciarli tornare a Kabul. Acconsentì a malincuore, ma soffrì la loro mancanza. Anche Kabul gli mancava. «Sconfinato e infinito è il mio desiderio di andare da quelle parti» scrisse in una lettera a Khwaja Kalan a Kabul. Rosolando nel caldo rovente dell’estate indiana, sognava le montagne. Una volta, quando gli portarono un melone di Kabul che riempì l’aria del suo profumo, fu sopraffatto dalla nostalgia: «Fui assalito da un profondo senso di solitudine e di lontananza dalla mia terra natale e non potei trattenere le lacrime mentre lo mangiavo». Sognava di tornare a Kabul un giorno o l’altro. Ma non ancora. Aveva una missione da compiere in India. Panipat aveva assicurato a Babur un posto nella storia, ma era soltanto un posto provvisorio. Se avesse abbandonato l’India dopo Panipat o i suoi successori non avessero mantenuto la sua conquista (come per poco non accadde), Babur sarebbe stato relegato nelle retrovie della storia affollate di piccoli potentati. Non poteva permettersi di riposare sugli allori. Come annotò enigmaticamente nelle sue memorie, aveva «visto il suo intero compito». Tuttavia, vi fu un momento di stasi dopo Panipat, mentre gli avversari di Babur, i Rajput e gli afghani, aspettavano di vedere quali sarebbero state le sue prossime mosse. Frattanto, la sua decisione di stabilirsi in India gli procurò parecchi alleati indiani, tra cui alcuni nobili afghani che cercavano di agganciare le loro fortune alla stella in ascesa dei Moghul. Inoltre, l’atteggiamento ostile del-
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la gente in India, che aveva infastidito Babur all’inizio, ora stava cambiando perché, come dice Ahmad Yadgar, «durante i primi due mesi di regno, Sua Maestà si comportò con ciascuno con tale gentilezza e generosità che la paura e il terrore furono banditi dai cuori di tutti gli uomini». La posizione di Babur migliorò ancora intorno a questo periodo con l’arrivo di numerosi Moghul dall’Asia Centrale che si unirono a lui dietro suo invito. «L’Altissimo ci ha concesso la sovranità nell’Indostan» aveva scritto. «Venite affinché possiamo vedere la prosperità insieme.» Babur aveva bisogno di tutta la forza disponibile perché la sua posizione in India era ancora malsicura. Secondo il metro centroasiatico, il dominio conquistato da Babur con la sua vittoria su Ibrahim Lodi era immenso, ma rimaneva pur sempre una semplice striscia di terra lungo la fascia Lahore-Delhi-Agra. I Moghul non erano affatto la potenza dominante in India. Gli afghani, sconfitti ma non annientati, rimanevano al potere nel Bihar e nel Bengala. Subito a sud delle terre dei Moghul si stendeva una potente confederazione Rajput sotto Rana Sanga del Mewar, che sognava di far risorgere un impero indù dalle ceneri del sultanato di Delhi. Più a sud c’era il prosperoso regno afghano di Gujarat, un punto di raccolta per gli afghani ambiziosi. Ancora più a sud, oltre i monti Vindhya, c’erano altri regni potenti, il sultanato del Deccan e l’impero di Vijayanagara. La preoccupazione immediata di Babur erano i signorotti afghani che si erano radunati nell’India Orientale e si erano spinti minacciosamente fino a Kanauj, circa duecento chilometri a est di Agra. Ma la minaccia afghana si rivelò un debole bluff. Quando i Moghul avanzarono, si dispersero. I Rajput erano tutt’altra cosa. Tuttavia, Babur si mostrò sempre stranamente compiacente nei loro riguardi, sottovalutando il loro potere. «Rana Sanga» annota nelle sue memorie «viene ritenuto inferiore ai ribelli [afghani].» Era un grave errore di valutazione. Fortunatamente per Babur, i Rajput erano ancora molto lontani. Ed era iniziato il periodo dei monsoni, durante il quale non era possibile effettuare alcuna operazione militare importante in India. Babur avrebbe avuto qualche mese di riposo. Usò questo intervallo di pace per progettare giardini e palazzi ad Agra e rendere la città più congeniale al suo stile di vita. Poco dopo il suo arrivo, aveva perlustrato la sponda sinistra dello Yumana, nell’ansa del fiume di fronte al forte, in cerca di un luogo dove creare un complesso di giardini, ma aveva trovato, a suo dire, «quei terreni […] così brutti e cattivi che li attraversammo pieni di disgusto e di repulsione». Tuttavia, trasformò ugualmente questo paesaggio squallido in un gradevole ritiro, costruendo cisterne, corsi d’acqua, bagni e altri edifici, e progettando giardini con «ordine e simmetria, belle bordure e aiole fiorite in ogni angolo, e rose e narcisi ovunque in perfetta sintonia», come sostiene lui. Gli emiri Moghul seguirono Babur al di là del fiume e ben presto il complesso di giardi-
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ni divenne un sobborgo fiorente e bellissimo. Gli abitanti del luogo, dice Babur, «non avevano mai visto una pianificazione così regolare e così ben studiata» e nella loro prosaica semplicità chiamarono l’insediamento Kabul. Poi le piogge cessarono e per Babur fu di nuovo tempo di tornare sul campo di battaglia. Rana Sanga del Mewar, a capo di una formidabile confederazione Rajput a cui si erano uniti parecchi capi afghani, compreso Mahmud Lodi, fratello di Ibrahim Lodi, stava avanzando rapidamente su Agra. Babur e il Rana erano stati in buoni rapporti prima della battaglia di Panipat, ma ora ognuno aveva aspre lagnanze da muovere all’altro: Babur accusava il Rana di non aver mantenuto l’impegno di compiere un attacco diversivo contro Ibrahim alla vigilia di Panipat e il Rana rimproverava a Babur di aver occupato terre rivendicate da lui. Tuttavia, queste recriminazioni erano semplici pretesti. Il vero problema era a chi spettasse il dominio dell’Indostan. Rana Sanga era un avversario pericoloso. Secondo James Tod, uno storico dei Rajput del primo Ottocento, il Rana era un guerriero così intrepido e feroce che alla fine della sua vita «esibiva […] solo frammenti di un guerriero. Aveva perso un occhio in una lite con suo fratello, un braccio in uno scontro con il re Lodi di Delhi e zoppicava perché una palla di cannone gli aveva fracassato una gamba. Contava ottanta ferite tra spada e lancia in varie parti del corpo». All’avvicinarsi del Rana, Babur, che prima era stato fiducioso riguardo ai Rajput, ammise la gravità della minaccia. «Rana Sanga il pagano… come Satana drizzò il capo e raccolse un esercito di maledetti eretici» scrive Babur. «Dieci capi potenti, ciascuno al comando di un’orda pagana, si levarono in rivolta, come si leva il fumo e si unirono, come incatenati, a quel malvagio.» Babur calcolava che i Rajput disponessero di una forza potenziale di duecentomila uomini, un esercito molto più vasto di quello che Ibrahim Lodi aveva schierato a Panipat. Questo allarmava i Moghul. Ma la superiorità numerica non era l’unico problema. Bisognava fare i conti anche con il valore dei Rajput. Mentre venivano avanti, decimavano ogni contingente che Babur inviava in esplorazione e «la ferocia e il valore dell’esercito pagano» rendevano le truppe Moghul «ansiose e spaventate», ammette Babur. Alcuni dei suoi alleati indiani, in specie gli afghani che si erano uniti a lui dopo Panipat, ora lo stavano abbandonando. Persino i suoi uomini erano accigliati e riluttanti a combattere una battaglia pericolosa e incerta, rischiando tutto il ricco bottino razziato in India, semplicemente per difendere una terra che odiavano e dove non volevano stare. Supplicarono di nuovo Babur di tornare a Kabul. «Nessuna parola virile o parola coraggiosa fu udita da alcuno» deplora Babur. C’erano problemi anche altrove. «Guai e disordini sorgevano ovunque […]. Ogni giorno qualche notizia sgradevole giungeva da un luogo o da un altro» scri-
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ve Babur. Le stelle, a quanto pareva, gli erano di nuovo avverse. A peggiorare le cose, Muhammad Sharif, un famoso astrologo che era appena arrivato da Kabul, predisse che, a causa dell’aspetto contrario di Marte, Babur sarebbe stato sconfitto da Rana Sanga. Questa profezia mandò in briciole il fragile morale dell’esercito Moghul, sebbene Babur, abituato alle avversità, non si lasciasse sgomentare: «Non porgemmo l’orecchio alle sue parole sconsiderate e non modificammo i nostri piani, ma ci preparammo seriamente per la battaglia». L’11 febbraio 1527, dopo aver radunato tutte le sue forze richiamando anche le guarnigioni periferiche, Babur marciò fuori da Agra per affrontare i Rajput. Avanzò con grande cautela, avendo cura a ogni sosta di proteggere il suo campo con fossati, cavalletti di legno con le ruote (che servivano da parapetti mobili, una recente innovazione) e carri uniti insieme con catene e corde di cuoio. Queste precauzioni contribuivano ad attenuare l’ansia dei suoi uomini. Ma non bastava. Non si vincono le battaglie con le truppe acquattate dietro le opere difensive. Per vincere, Babur doveva infiammare il sangue dei suoi guerrieri. Un giorno, rimuginando su quel problema mentre faceva un giro a cavallo, Babur trovò la soluzione perfetta. Per oltre quattordici anni era stato un forte bevitore, un’infrazione grave anche se molto diffusa tra i Moghul. Ora, nel momento di crisi, decise di «tornare all’osservanza» per guadagnarsi il favore divino e, soprattutto, per avere l’autorità morale di dichiarare la guerra contro Rana Sanga (la sua prima guerra contro un sovrano indù), un jihad, una guerra santa, e scatenare così la furia bellicosa dei suoi uomini. Ciò che seguì fu molto teatrale, perché Babur trasformò la sua rinuncia privata in un rito sacramentale molto emozionante. Si volse verso i suoi uomini schierati, perplessi e cupi in volto e levando le braccia per invocare la benedizione di Allah, fece voto solenne di rinunciare al vino. Poi, da attore consumato, ordinò che gli venisse portata la sua ricca provvista di vino, versò tutto il liquido rosso rubino in terra davanti alle sue truppe attonite, fracassò i bottiglioni, i calici d’oro e d’argento e donò i frammenti ai dervisci e ai poveri. Diede l’ordine di scavare un pozzo in cui venne versato il vino rimasto e di costruire un ospizio di carità lì vicino. Per buona misura, Babur giurò anche di non tagliarsi più la barba. Poi parlò ai suoi uomini. «Nobili e soldati! Chiunque partecipi al festino della vita deve, prima della fine, abbeverarsi al calice della morte […]. È molto meglio, quindi, morire con onore che vivere nell’infamia» dichiarò. «L’Altissimo ci è stato propizio. Ora ci ha posti nella situazione per cui se cadremo in battaglia, moriremo da martiri; se sopravviveremo, saremo i vittoriosi vendicatori della sua santa causa. Giuriamo, quindi, di comune accordo, sulla Santa Parola di Dio che nessuno di noi penserà neppure per un attimo di voltare le spalle a questa guerra; o di ritrarsi dalla battaglia e dal massacro che seguirà fino a quando la sua anima non sarà separata dal suo corpo.»
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Queste parole ebbero un impatto folgorante sugli uomini. «Tutti i presenti, ufficiali e servitori, grandi e piccoli, presero gioiosamente il Sacro Libro tra le mani e fecero voto e promessa in questo senso» annota Babur con soddisfazione. «Il piano era perfetto e funzionò a meraviglia.» Lo stato d’animo dell’esercito Moghul passò di colpo dal terrore all’audacia. «Queste parole esaltanti infiammarono tutti i cuori» dice il cronista dei Moghul, Nizamuddin Ahmad. All’alba del 16 marzo, Babur giunse a Khanua, un piccolo villaggio una quarantina di chilometri a ovest di Agra. Là, mentre il suo esercito si stava accampando in un luogo scelto e preparato con cura accanto a una collinetta, venne informato dagli esploratori che i Rajupt si stavano avvicinando. Era sabato, come a Panipat, e sarebbe stato un giorno altrettanto fortunato per Babur. La battaglia di Khanua fu praticamente una replica della battaglia di Panipat, a parte il fatto che durò quasi il doppio del tempo e fu molto più accanita, con pesanti perdite da ambo le parti. Iniziò verso le nove del mattino e continuò a infuriare fino a tarda sera. Il fattore decisivo a Khanua, come a Panipat, fu la potenza di fuoco dei Moghul, concentrata sul nemico «ammassato» da Babur aggirando i fianchi dei Rajput. Mustafa, il turco ottomano al comando dell’artiglieria Moghul, «fece portare avanti i carri e annientò le file dei pagani con fucili a miccia e cannoni» riferisce Babur. E i soldati Moghul, infiammati dall’orazione di Babur, «combatterono con tale gioia e piacere che fu più un tempo di allegrezza che di guerra» osserva Nizamuddin Ahmad. Alla fine i Rajput fuggirono, lasciando talmente tanti morti sul campo di battaglia che, secondo Babur, i Moghul che li inseguivano «non trovavano uno spazio libero dove posare i piedi senza calpestare il corpo di un nemico». Lo stesso Rana Sanga fuggì, tallonato da Babur. Ma dopo averlo inseguito per circa tre chilometri oltre il campo nemico, Babur rinunciò, lasciando ad altri il compito di proseguire la caccia, e ciò permise al Rana di cavarsela. «Vi fu un po’ di rilassatezza; sarei dovuto andare io» scrive Babur. Apparentemente non voleva forzare la mano alla fortuna. E non diede nemmeno seguito alla vittoria, come avrebbe fatto normalmente, con un’invasione del Mewar perché c’era «poca acqua e molto caldo lungo la strada». Tornato sul campo di battaglia, Babur ordinò che venisse eretta sulla collina vicina una catasta di teste nemiche mozzate. Questo era un rito militare che i Moghul svolgevano dopo ogni battaglia o quasi per incutere terrore ai potenziali avversari, fiaccarne lo spirito e sconfiggerli prima ancora di affrontarli sul campo. Al calar della notte Babur fece ritorno al suo campo e assunse il titolo di Ghazi, Sacro Guerriero. Poi si volse all’astrologo, Muhammad Sharif, che aveva predetto una disfatta dei Moghul, ma che ora aspettava di congratularsi con Babur per
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la vittoria. «Lo coprii d’insulti» dice Babur. Ma poi la sua generosità prevalse. «Dopo essermi sfogato, anche se era molto presuntuoso […] e una lingua maligna, rimaneva pur sempre un mio vecchio servitore, così gli donai centomila rupie e lo congedai con l’ordine di andarsene dai miei domini.»
Nero fu il giorno La battaglia di Khanua segnò la fine delle tribolazioni di Babur. C’erano ancora battaglie da combattere – ci sarebbero sempre state – ma ora Babur era l’indiscusso imperatore dell’Indostan. Era contento. La sua esistenza rallentò il passo e lui tornò gradatamente allo stile di vita rilassato dei dolci giorni di Kabul. Tutto lo interessava e moltissime cose lo deliziavano. La sua curiosità era senza limiti e c’era in lui, anche dopo tutto quello che aveva dovuto sopportare nella vita, un’affascinante capacità infantile di gioire delle cose di tutti i giorni, anche le più banali e monotone. Si divertiva, per esempio, a dar fuoco alle fronde di leccio e a guardarle bruciare mentre scoppiettavano allegramente; «è divertente bruciarle!» scrive. Per lui, il chiaro di luna, il cespuglio fiorito, il ruscello che scorreva erano tutti miracoli celebrativi. «Stasera ho deciso di prendere una dose di oppio» scrive «perché la luna splende.» E ancora: «Giovedì al sorgere del sole […] ho ingerito una dose. Mentre ero sotto il suo influsso, mi sono apparsi splendidi campi fioriti […]. C’erano fiori da tutti i lati del monticello, gialli qui, rossi lì, come se fossero stati disposti in modo da formare un sestuplo». Aveva visto l’India per la prima volta nel 1505 con la stessa gioiosa meraviglia: «A Ningnahar apparve un altro mondo: altra erba, altri alberi, altri animali, altri uccelli e altri usi e costumi dei clan e delle tribù. Eravamo stupefatti e c’era davvero motivo di esserlo». In India, dopo Khanua, una sola cosa offuscava la felicità di Babur: il suo voto di astenersi dal vino. «In verità, la nostalgia e il desiderio di una libagione sono stati infiniti e incessanti per i due anni passati, al punto che a volte la brama di vino mi faceva venire le lacrime agli occhi» scriveva a Khwaja Kalan a Kabul e lamentava: Mentre altri si pentono e fanno voto di astenersi, io ho promesso di astenermi e me ne pento.
Avrebbe infranto il suo voto e sarebbe tornato al vino verso la fine della sua vita, ma nel frattempo si consolava con i piaceri della buona compagnia. «In compagnia di amici, la morte è una festa» soleva dire, citando un proverbio persiano. Amava la gente e le riunioni conviviali. «Abbiamo riso e scherzato molto» dice,
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ricordando con piacere una festa in casa di un emiro. Apprezzava le risposte argute, ma disprezzava le chiacchiere «vuote e insulse». Una delle passioni di Babur, nei periodi buoni e cattivi, era il costante amore per la letteratura. Ora aveva il tempo di goderne appieno. La sua biblioteca era uno dei beni più preziosi, che portava sempre con sé, e i libri erano uno dei tesori di cui si metteva in cerca in una terra conquistata. Nelle sue memorie, oltre ai sovrani e ai membri dell’alta nobiltà di un paese, elencava anche i poeti, i musicisti e gli intellettuali, che per lui erano altrettanto importanti. Era un attento conoscitore della letteratura e considerava una terribile depravazione scrivere brutte poesie. «I suoi versi sono piatti e insipidi» dice di Mahmud Mirza, sultano del Badakhshan e suo zio paterno, e aggiunge: «Non comporre è meglio che comporre versi come i suoi». Lo addolorava molto che suo figlio Humayun fosse uno scrittore negligente. «Anche se sforzandosi […] si riesce a leggere [la tua lettera], è molto enigmatica e chi ha mai visto un enigma in prosa?» lo rimproverò una volta e gli consigliò: «La tua deficienza nello scrivere sembra dovuta a ciò che ti rende poco chiaro, vale a dire, l’elaborazione. In futuro scrivi in modo piano, chiaro, con parole semplici e risparmierai fatica allo scrivente e al lettore». Babur stesso era uno scrittore acclamato. Scriveva in turco oltre che in persiano, ma in turco si esprimeva meglio e in quella lingua era un poeta «secondo soltanto ad Amir Ali Shir», affermava Mirza Haidar. Babur aveva parecchi libri a suo credito sia in prosa che in versi e persino un trattato sulla giurisprudenza e uno sulla metrica turca. Ma la sua opera più nota resta la sua autobiografia, un classico del genere. Babur scrisse parecchio dopo Khanua. La trovava una giusta consolazione per la perdita dei piaceri del vino. Inoltre, aveva la strana idea che la letteratura avesse poteri curativi: scrivere poesia irriverente, secondo lui, faceva ammalare, mentre scrivere poesia eletta guariva! Diceva che un tempo era un poetastro che metteva in versi tutto ciò che gli passava per la mente, «buono o cattivo, serio o faceto […] comunque vuoto e rozzo risultasse il verso», ma era diventato più attento mentre scriveva Mubayyin, il suo grande poema. A quell’epoca, dice Babur, «questo pensiero penetrò nella mia mente ottusa e nel mio cuore turbato: “Sarebbe un peccato se la lingua che ha la capacità di pronunciare frasi così elevate, venisse sprecata ancora in parole volgari […]”. Da allora mi sono astenuto dal comporre versi satirici o faceti». Non del tutto. Occasionalmente Babur ricadeva nelle filastrocche insulse e ne subiva le conseguenze! Pochi giorni dopo una di queste composizioni banali, annota lui stesso, «ebbi febbre e catarro, seguiti da tosse, e cominciai a sputare sangue ogni volta che tossivo. Sapevo da dove veniva il mio castigo; sapevo quale mio atto aveva causato questo malanno».
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Purtroppo, solo una piccola parte della poesia di Babur è giunta fino a noi, quindi la sua fama letteraria oggi poggia unicamente sulla sua autobiografia e anche di questa mancano ampie sezioni. Babur soleva portare il suo diario sempre con sé, anche nelle campagne militari, per lavorarci quando aveva un po’ di tempo. Quest’abitudine per poco non gli fu fatale. Babur era accampato sulla riva di un fiume ed era rimasto alzato fino a tardi per scrivere. All’improvviso, scoppiò un violento temporale. «In meno di un attimo venne giù un tale rovescio dalle dense nuvole della stagione delle piogge e si levò una tempesta di vento così forte che poche tende rimasero in piedi» annota Babur. «Ero nella tenda delle udienze, occupato a scrivere e, prima che potessi raccogliere carte e fascicoli, la tenda mi crollò in testa con tutta la veranda […]. Il libro e i fascicoli s’infradiciarono e fu molto difficile radunarli. Li posammo sul tappeto di lana del trono e li ricoprimmo di coperte […]. Rimanemmo ad asciugare fogli e fascicoli fino al sorgere del giorno, senza chiudere occhio.» Probabilmente le sezioni mancanti delle sue memorie andarono perdute in un simile incidente. Il grande fascino delle memorie di Babur nasce dalla loro schiettezza e semplicità, dalla totale mancanza di affettazione. Babur era un cronista diretto. «In questa storia mi sono attenuto strettamente alla regola che impone di giungere alla verità in ogni questione e riportare ogni atto esattamente com’è avvenuto» scrive. «Ne consegue necessariamente che ho annotato tutto ciò che di bene e di male si conosce, riguardo al padre e al fratello maggiore, al parente e all’estraneo; di tutti ho registrato accuratamente le virtù e i difetti conosciuti.» Questa era la sua regola. La pratica non era sempre conforme a questo nobile ideale. Nelle sue memorie Babur parlava di sé con gli occhi rivolti alla posterità ed era umano che accentuasse il dramma della sua vita. Le sue descrizioni degli eventi talvolta riportano dettagli differenti da quelli di altre fonti contemporanee e non si può presumere che la sua versione sia sempre giusta. Tuttavia, le discrepanze sono di poca importanza e potrebbero dipendere da differenze di percezione o capricci della memoria. A parte i libri che scrisse, Babur poteva vantare parecchi altri meriti culturali, come varie composizioni musicali e la creazione di un nuovo stile di calligrafia particolare, chiamato Baburi. Ma la sua più grande passione al di fuori della letteratura fu il giardinaggio. Interrompeva anche una difficile campagna militare per creare nuovi giardini, come avvenne sulla riva del fiume vicino a Sirhind nel Punjab, sulla via di Panipat. Ad Agra, uno dei suoi primi progetti riguardava un complesso di giardini. In seguito creò un altro giardino sul lago a Dholpur, dove fece scavare una cisterna di sei metri per sei da un unico masso, dicendo: «Quando sarà finita, la riempirò di vino». A Sikri, tornando da Khanua, ordinò di costruire una piattaforma ottagonale in mezzo al lago dove poteva riposare e gustare l’oppio; amava anche andare in barca nel lago, dice Gulbadan.
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Babur era un orticoltore appassionato. «Ho fatto portare e piantare banani [a Kabul]; sono cresciuti bene» scrive. «L’anno prima avevo piantato la canna da zucchero; anche quella è cresciuta bene.» In India, era in estasi quando l’uva e i meloni che aveva introdotto nel Giardino degli Otto Paradisi ad Agra iniziarono a dare frutti. «Coltivare uva e meloni in questo modo nell’Indostan mi riempiva di soddisfazione» scrive. Questa sua capacità di trovare una fonte di gioia in tante cose diverse era ciò che lo sosteneva durante gli anni difficili, poiché una o l’altra delle tante sfaccettature della sua personalità captava sempre la luce del sole, comunque girasse la ruota del destino. Babur era un dilettante fortunato, non un genio dominato da un’ossessione. Tutto ciò che faceva era un’espressione allegra e vigorosa della sua personalità allegra e vigorosa, aperta e spontanea. Babur godeva a essere Babur. Tutte le cose fresche e nuove lo rallegravano e andava in giro nel suo impero indiano con l’entusiasmo esuberante di un turista. «Sono edifici splendidi» scrive a proposito del complesso del forte di Gwalior, pur trovando le stanze buie e soffocanti e il palazzo in sé «pesante e asimmetrico». Nella valle sottostante, visitò i santuari giainisti lungo il lago dove, osserva, «gli idoli sono raffigurati completamente nudi con le parti intime scoperte […]. Il posto non è male […] il suo difetto sono gli idoli. Per parte mia, ho ordinato che venissero distrutti». Visitò anche i vicini templi indù, ma lì non parla di distruggere gli idoli: a quanto pare, gli idoli giainisti offendevano la sua sensibilità estetica, non i suoi sentimenti religiosi. I viaggi di Babur avevano anche uno scopo politico: servivano a prendere familiarità con il suo impero, la sua terra, il suo popolo. Quali che fossero i suoi altri interessi e attività, Babur teneva sempre un occhio puntato sulla sicurezza dello stato. Non allentava mai la vigilanza. «Nessuna schiavitù è pari a quella della sovranità» scriveva severamente a Humayun quando quel principe disinvolto voleva «ritirarsi» dal governo. «Un sovrano non può andare in pensione.» Curiosamente, malgrado tutta l’attenzione che rivolgeva agli affari di stato e la sua competenza nel campo della giurisprudenza, Babur non istituì nemmeno un sistema amministrativo rudimentale in India. Questa omissione non può essere giustificata dal fatto che governò l’India per meno di cinque anni o che durante quel periodo era continuamente impegnato in guerre perché, in condizioni praticamente uguali, Sher Khan (il capo afghano che poi scacciò il successore di Babur dall’India) diede vita a un sistema amministrativo complesso, efficiente e duraturo. D’altro canto, Sher Shah era originario di quella terra; conosceva i suoi costumi e doveva soltanto revisionare e stimolare il sistema esistente. Babur era straniero in India e non aveva avuto il tempo di conoscere le tradizioni locali. Inoltre,
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le sue idee in fatto di amministrazione erano condizionate dalla sua esperienza nel turbolento Afghanistan, che poteva essere governato solo con il saifi (spada) e non con il qalami (penna), come dice Babur. Tutto ciò che Babur fece in India in campo amministrativo fu suddividere il suo regno tra i suoi emiri, lasciando che governassero i feudi a loro piacimento. Non aveva nemmeno un sistema regolare di riscossione delle entrate. Una volta, nell’ottobre 1528, quando aveva bisogno di fondi – era a corto di soldi perché aveva dilapidato quasi tutto il bottino raccolto – dovette persino esigere contributi dai suoi emiri, ordinando «a ogni stipendiato di versare nel tesoro reale il 30 per cento della sua remunerazione da usare per materiale e apparecchiature belliche, equipaggiamento, polvere e per pagare gli artiglieri e i fucilieri». Era una procedura insolita, adottata probabilmente per fare fronte a un’emergenza. La principale fonte di reddito di Babur in India era il saccheggio. Come dichiara candidamente nelle sue memorie, le scorrerie venivano effettuate spesso con il preciso scopo di razziare bottino: annota, per esempio, che una volta aveva deciso tra varie alternative di andare a ovest da Agra perché lì c’era «tesoro utile per l’esercito». I Moghul vivevano con i proventi della guerra. Non fare la guerra era non vivere o, almeno, non avere mezzi di sostentamento. Non compiere il passaggio dai costumi di una monarchia nomade a quelli di un impero stabile fu sicuramente un errore da parte di Babur. Come osservò Sher Shah, i Moghul «non hanno ordine o disciplina e […] i loro re […] non sovrintendono personalmente al governo, ma lasciano tutti gli affari di stato ai loro nobili e ministri […]. Questi eminenti personaggi agiscono sempre per motivi disonesti». Al suo ritorno ad Agra dopo la battaglia di Khanua, Babur ricompensò adeguatamente i suoi uomini, distribuì feudi ai suoi nobili e diede il permesso di tornare a Kabul a chi lo desiderasse, come aveva promesso. Humayun venne inviato a governare il Badakhshan, che era stato conquistato da Babur nel 1520. Poi, dal momento che stava per iniziare la stagione del monsone, inviò gli ufficiali rimasti nei loro feudi a godere un ben meritato riposo e a riequipaggiare i loro contingenti. Lui rimase ad Agra, nel Giardino degli Otto Paradisi fino al Ramadan, poi si trasferì a Sikri, perché, dice, non voleva venire meno alla sua abitudine di non trascorrere mai la festa del Ramadan nello stesso luogo due anni di seguito. Quando la stagione del monsone finì, Babur riavviò la campagna, questa volta contro Medini Rai di Chanderi nel Malwa nordorientale. Qui, assisté per la prima volta al jauhar, il macabro rito dei Rajput in cui, di fronte a una sicura sconfitta, le donne e i bambini s’immolavano o venivano massacrati dai loro uomini, che poi si uccidevano a vicenda o correvano nudi a combattere e morire per salvare il loro onore. I Rajput salvarono l’onore; Babur espugnò il forte.
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Frattanto gli afghani erano di nuovo in movimento a est di Agra e sebbene in un primo momento si disperdessero senza combattere, quando Babur si volse minacciosamente contro di loro, ben presto si raggrupparono di nuovo, sotto il comando del sultano Mahmud Lodi, fratello di Ibrahim Lodi, che si era insediato sul trono di Bihar. Babur lanciò allora una seconda campagna orientale e in una battaglia che si svolse alla confluenza del Gange con il Ghaghara, vicino a Patna, il 6 maggio 1529, inflisse una sconfitta decisiva agli afghani. La battaglia di Patna fu l’ultima campagna militare importante di Babur. A quel punto, aveva rivolto di nuovo la sua attenzione ai possibili sviluppi al di là dell’Hindu Kush; in verità, anche mentre marciava contro gli afghani, i suoi occhi erano puntati sull’Asia Centrale, avendo ricevuto notizia di scontri tra uzbechi e persiani nel Khorasan. Ora nel suo sguardo riapparve un antico bagliore: forse le terre di Tamerlano potevano essere riconquistate, pensò Babur, e ordinò a Humayun di unirsi alla lotta. «Sia ringraziato Iddio! Ora è giunto il tuo momento di rischiare la vita e di incrociare la spada» scrisse. «Non trascurare il lavoro che l’occasione ti ha offerto […]. Il mondo è di chi agisce in fretta.» Poi Babur si preparò a tornare lui stesso a Kabul per essere vicino alla scena dello scontro. «Le cose si stanno sistemando nell’Indostan; c’è speranza […] che il lavoro qui sarà presto terminato» scrisse a Khwaja Kalan. «Concluso questo lavoro, Dio volendo, partirò subito.» Quei progetti non si concretizzarono mai. Nell’Asia Centrale, gli uzbechi ripresero l’iniziativa, i persiani si ritirarono e la campagna di Humayun fu un fallimento. Era destino che Babur non rivedesse più Kabul. Tuttavia, verso la fine del 1529, arrivò fino a Lahore, dove trascorse un paio di mesi. Stranamente, non colmò la breve distanza che lo separava da Kabul, che desiderava tanto visitare di nuovo. Invece, tornò ad Agra. Le sue memorie non dicono perché: terminano bruscamente a metà di una frase, il 7 settembre 1529. Anche le annotazioni riguardanti i mesi precedenti sono sommarie. Qualcosa non andava. Babur non stava bene già da parecchio tempo. Malgrado la sua fenomenale vitalità fisica, era sempre stato soggetto alle malattie e almeno una volta, nel 1498, quando aveva quindici anni, si era ammalato così gravemente da far temere per la sua vita. Le sue memorie sono cosparse di resoconti dei suoi numerosi malanni. «Era uno strano tipo di malattia» scrive Babur riferendosi a un attacco di febbre «perché ogni volta che mi svegliavo con grande fatica, i miei occhi si chiudevano di nuovo e ricadevo nel sonno. In tre o quattro giorni mi rimisi del tutto.» Nell’ultima spedizione indiana, appena varcate le montagne, si ammalò. «Quella sera ebbi febbre e catarro, seguiti da tosse, e ogni volta che tossivo, sputavo sangue» annota. In India, a causa del clima opprimente e delle fatiche delle guerre incessanti, si ammalava molto spesso, specie negli ultimi due anni della
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sua vita: soffriva di febbre ricorrente, foruncoli, diarrea, sciatica, catarro negli orecchi e sputava sangue. Sorprendentemente e malgrado la cattiva salute, Babur, anche avanti negli anni, era in grado di compiere imprese fisiche che un uomo molto più giovane avrebbe esitato ad affrontare. A quarantasei anni lo troviamo che attraversa impetuosamente il Gange a nuoto. «Ho nuotato nel fiume Gange, contando ogni bracciata» scrive. «Lo attraversai con trentatré bracciate, poi, senza riposarmi, tornai indietro. Avevo già nuotato negli altri fiumi, mi rimaneva solo il Gange.» Tuttavia l’età cominciava a farsi sentire. Era afflitto dalla noia oltre che dalla cattiva salute. Malgrado la sua grande gioia di vivere, Babur aveva una vena rinunciataria, una predilezione per il misticismo. «Sono un re, eppure sono schiavo dei dervisci» soleva dire. Aveva avuto una vita piena, aveva visto tutto, fatto tutto e ora era stanco. A volte cadeva in una profonda depressione e parlava di diventare un eremita. «Il mio capo è piegato dal peso del governo e del regno» diceva. «Cederò il trono a Humayun.» La sua volontà ferrea cominciava a vacillare. Tornò al vino. E sebbene fino a quel momento non avesse mostrato di gradire molto la compagnia delle donne, ora si affezionò a due schiave caucasiche, Gul-nar e Nar-gul, che aveva ricevuto in dono dallo scià di Persia, Tahmasp, un paio di anni prima. La morte di un figlio ancora in fasce, Alwar, in questo periodo lo addolorò molto. Sentiva la mancanza dei suoi figli e continuava a chiedere di vedere Hindal, il figlio più piccolo, che era a Kabul. C’erano segni di senilità. La sua mente spesso divagava. S’interessava poco al governo. «Passava il tempo insieme […] ad amici e compagni Moghul, divertendosi e gozzovigliando in presenza di danzatrici dalle gote rosee, che cantavano canzoni e mostravano le loro doti» riferisce Yadgar. «Mir Khalifa […] investito della massima autorità, dirigeva il governo e i suoi decreti erano pari a quelli del sultano stesso.» In questa situazione imbarazzante, Humayun tornò improvvisamente in India dal Badakhshan senza autorizzazione regale, una grave scorrettezza. Probabilmente voleva informarsi sulle condizioni del padre. Può anche darsi che gli fosse giunta voce che Mir Khalifa stesse preparando un colpo di stato: nessun contemporaneo di Humayun menziona una congiura del genere, ma gli scrittori della generazione successiva sì. Comunque, se esisteva davvero un simile complotto, sfumò all’arrivo di Humayun ad Agra. Babur rimproverò il figlio per aver lasciato il Badakhshan senza permesso, ma subito lo perdonò. Pur essendo un po’ eccentrico e meno ambizioso ed energico di quanto Babur avrebbe voluto che fosse, Humayun era un principe amabile ed estremamente colto e suo padre apprezzava moltissimo la sua compagnia. Dice Abul Fazl: «L’imperatore dichiarò molte volte che Humayun era un compagno incomparabile».
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Dopo aver trascorso alcuni giorni con suo padre ad Agra, Humayun partì per Sambhal, il suo feudo vicino a Delhi, e Babur con le sue mogli si trasferì nei suoi giardini a Dholpur. Lì ricevette poco dopo un messaggio urgente dal campo di Humayun: «Humayun Mirza è malato e in condizioni fuori dall’ordinario. Sua altezza la Begum dovrebbe venire subito a Delhi perché il Mirza è molto depresso». Babur, dice Gulbadan, fu afflitto da questa notizia. Quando la madre di Humayun, Maham Begum, lo consolò dicendo: «Non dolerti per mio figlio. Sei un re: quali pene ti affliggono? Hai altri figli. Io sono addolorata perché ho soltanto questo qui», Babur replicò: «Maham, anche se ho altri figli, non amo nessuno come il tuo Humayun. Desidero ardentemente che questo figlio diletto abbia tutto ciò che agogna e viva a lungo, e desidero che il regno sia suo e non di altri, perché non ha uguali nella raffinatezza». Babur tornò immediatamente ad Agra e ordinò che Humayun venisse trasportato in barca da Delhi ad Agra per essere curato, ma quando arrivò lì, il principe delirava ed era in condizioni critiche. Sembrava che soltanto Dio potesse salvare Humayun. Un emiro suggerì che Dio poteva essere indotto a salvare il principe se uno dei suoi beni più preziosi gli fosse stato offerto a scopo propiziatorio. Babur accolse l’idea, ma respinse la proposta di offrire un grande diamante appartenente a Humayun. Decise di offrire, invece, la sua vita, ponendo tipicamente il sentimento al di sopra della gemma e sostenendo che il bene più prezioso per un figlio fosse la vita di suo padre. Secondo la versione dei cronisti Moghul, Babur girò intorno al letto dell’ammalato, supplicando Dio di prendere la sua vita in cambio di quella di suo figlio. Scrive Abul Fazl: «Quando la preghiera fu udita da Dio […] lui [Babur] provò una strana sensazione ed esclamò: “L’abbiamo liberato! L’abbiamo liberato!”. Immediatamente uno strano attacco febbrile assalì Sua Maestà e vi fu un improvviso calo di temperatura nella persona di Sua Altezza». «Quello stesso giorno lui [Babur] cadde malato e Humayun versò acqua sul suo capo e uscì e dette udienza» dice Gulbadan, condensando il tempo in quel ricordo doloroso. «Per via della sua malattia, il re mio padre fu portato dentro e rimase a letto per due o tre mesi.» Dice Abul Fazl: «In breve tempo lui [Humayun] guarì del tutto, mentre Babur andò sempre peggiorando e segni di dissoluzione e di morte divennero palesi». Quando le condizioni di Babur si aggravarono, Humayun, che era tornato nel suo feudo, venne richiamato ad Agra. Rimase shoccato dall’aspetto del padre. «Lo avevo lasciato che stava bene, che cosa gli è successo tutto a un tratto?» chiese agli emiri. «Dissero questo e quello in risposta» scrive Gulbadan. Babur soffriva di un disturbo intestinale acuto e il suo dolore era immenso. «Giorno dopo giorno perdeva le forze e diventava sempre più emaciato» ricorda Gulbadan. «Ogni giorno il disturbo aumentava e il suo caro volto mutava.» Probabilmente in delirio, continuava a chiedere di Hindal e voleva sapere quanto era cresciuto,
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pur avendo visto il ragazzo pochi mesi prima. «Ahimè! Mille volte ahimè! Non vedo Hindal!» gemeva di continuo. Babur stava perdendo la ragione. Ma aveva ancora intervalli di lucidità durante i quali poteva prendere decisioni chiare. Il giorno dopo l’arrivo di Humayun, Babur, disteso su un giaciglio ai piedi del trono, chiamò gli emiri per impartire le sue ultime disposizioni. Poi, prendendo la mano di Humayun nella sua, chiese al principe di sedersi sul trono e chiese ai nobili di riconoscerlo come re. «Da anni avevo in cuore il desiderio di cedere il trono a Humayun e ritirarmi nel giardino dello Zarafshan (fiume dispensatore d’oro)» dice Babur. «Per grazia divina, quand’ero in salute, ho avuto tutto tranne l’adempimento di questo desiderio […]. Ora che la malattia mi ha colpito, ordino a tutti voi di riconoscere Humayun al mio posto.» Poi Babur si volse a Humayun. «Non fare niente contro i tuoi fratelli anche se dovessero meritarlo» gli consigliò. «A queste parole» annota Gulbadan «ascoltatori e spettatori piansero e gemettero. Anche i suoi cari occhi si riempirono di lacrime.» Lunedì, 26 dicembre 1530, Babur si spense. «Nero fu il giorno per i figli, per i parenti e per tutti» scrive accorata Gulbadan. Babur venne sepolto nel Giardino degli Otto Paradisi ad Agra, ora ribattezzato Aram Bagh, Giardino del Riposo, dinanzi a cui sarebbe sorto il Taj quattro generazioni dopo. Alcuni anni dopo, probabilmente intorno al 1543, durante il regno di Sher Shah, i resti mortali di Babur vennero trasferiti a Kabul e sepolti, come lui desiderava, nel suo giardino preferito sul colle Shah-i Kabul affacciato su un ruscello e un vasto prato, con le nevi del Paghman lontano all’orizzonte, in una semplice tomba aperta sotto il cielo. L’uomo delle montagne era tornato a casa.