Sam Eastland La Bara Rossa Traduzione di Pietro Formenton
La Bara Rossa
La motocicletta arrivò in cima alla collina e i raggi del sole scintillarono sugli occhialoni del pilota. Per difendersi dal freddo di quell’inizio di primavera indossava un cappotto di pelle a doppiopetto e una cuffia da motociclista agganciata sotto il mento. Era sulla strada da tre giorni e si era fermato solo per fare il pieno. Le sue borse erano piene di cibo in scatola che si era portato da casa. Di notte non si fermava nelle città, ma spingeva la moto in mezzo agli alberi. Era un modello nuovo, una Zündapp K500, con telaio in acciaio stampato e forcella a parallelogramma. Di norma non avrebbe mai potuto permettersela, ma quel viaggio da solo avrebbe ripagato tutto quanto, e anche di più. Ci pensava quando sedeva solitario tra gli alberi, mangiando zuppa fredda in scatola. Prima di nascondere la moto sotto rami e frasche, toglieva la polvere dalla sella in cuoio molleggiata e dal grosso serbatoio a goccia. Sputava su tutti i graffi che trovava e li ripuliva con la manica. L’uomo dormiva per terra, avvolto in una tela cerata, senza il conforto di un fuoco e neppure di una sigaretta. 7
L’odore di fumo avrebbe potuto rivelare la sua posizione, ed era un rischio che non poteva permettersi. A volte veniva svegliato dal rombo dei camion dell’esercito polacco che passavano sulla strada. Nessuno si era mai fermato. Una volta sentì un rumore tra gli alberi. Estrasse la rivoltella dal cappotto e si sedette, mentre un cervo passava a pochi passi da lui, quasi invisibile, come se le ombre stesse avessero preso vita. Per il resto della notte l’uomo non dormì. Tormentato da incubi infantili di sagome umane con antenne sulla testa, voleva solo andarsene da quel paese. Da quando aveva attraversato il confine tedesco entrando in Polonia, aveva sempre paura, anche se a guardarlo nessuno avrebbe potuto intuirlo. Non era la prima volta che faceva quel viaggio, e sapeva per esperienza che la paura non l’avrebbe abbandonato fino a quando non fosse tornato tra la sua gente. Il terzo giorno entrò in Unione Sovietica, attraversando un solitario posto di frontiera presidiato da un soldato polacco e un soldato russo, nessuno dei quali parlava la lingua dell’altro. Entrambi uscirono ad ammirare la sua motocicletta. «Zündapp» canterellarono sottovoce, come stessero pronunciando il nome della fidanzata, e l’uomo strinse i denti mentre quelli accarezzavano le cromature. Pochi minuti dopo aver passato la frontiera, accostò al margine della strada e sollevò gli occhialoni sulla fronte, rivelando due pallide lune di pelle sul viso dove la polvere della strada non si era posata. Riparandosi gli occhi con una mano, scrutò la campagna ondulata. I campi erano arati e fangosi, e i semi di segale e orzo dormivano ancora sotto la terra. Sottili pennacchi di fumo si alzavano dai camini di isolate fattorie, i cui tetti d’ardesia erano punteggiati del verde brillante del muschio. L’uomo si chiese cosa avrebbero fatto gli abitanti di 8
quelle case se avessero saputo che il loro sistema di vita sarebbe presto finito. Probabilmente, si disse, avrebbero tirato avanti come avevano sempre fatto, sperando in qualche miracolo. Il che, pensò, era esattamente il motivo per cui meritavano di estinguersi. Il compito che era venuto a svolgere avrebbe avvicinato quel momento. Dopo quel giorno, non ci sarebbe stato più niente che potessero fare per evitarlo. Poi ripulì il manubrio dalle ditate dei doganieri e ripartì. Era vicino al luogo dell’incontro. Sfrecciava lungo strade deserte, attraverso banchi di foschia che impregnavano gli avvallamenti come macchie d’inchiostro nell’acqua. Sulle sue labbra affioravano frammenti di parole di vecchie canzoni. A parte quello non parlava, come fosse l’unico essere sulla faccia della Terra. Era così che si sentiva, guidando in quella campagna desolata. Infine arrivò nel posto che stava cercando. Era una fattoria abbandonata, dal tetto infossato come la schiena di un vecchio cavallo. Abbandonata la strada, condusse la Zündapp attraverso un’apertura nel muro di pietra che delimitava l’aia. Grossi alberi circondavano la fattoria, gli spessi tronchi coperti d’edera. Uno stormo di corvi si alzò sparpagliandosi dai rami, le loro sagome spettrali riflesse nelle pozzanghere. Quando spense il motore il silenzio lo avvolse. Togliendosi le manopole, si grattò via il fango secco che gli aveva cosparso il mento. Si staccò a scaglie, lasciando spazio alla sottostante barba di una settimana. Le persiane pendevano marce dalle finestre. La porta era stata buttata giù a calci e giaceva per terra. I denti di leone crescevano nelle fessure delle assi del pavimento. Mise la Zündapp sul cavalletto, estrasse la pistola ed entrò guardingo. Tenendo il revolver lungo il fianco, avanzò lentamente sulle assi cigolanti. Una luce grigia filtrava dalle 9
fessure delle persiane. Sul caminetto, un paio di alari a testa di drago lo squadrarono arcigni mentre passava. «Eccoti qui» disse una voce. Il pilota della Zündapp trasalì, ma non alzò la pistola. Restò immobile, scrutando nella penombra. Poi vide un uomo, seduto a un tavolo nella stanza accanto, quella che una volta era stata una cucina. Lo straniero sorrise, alzò una mano e la mosse lentamente avanti e indietro. «Bella moto» disse. Il motociclista mise via la pistola ed entrò in cucina. «In perfetto orario» disse l’uomo. Sul tavolo davanti a lui era posata una pistola automatica Tokarev e due piccole tazzine di metallo, ciascuna non più grande di un guscio d’uovo. Di fianco alle tazzine c’era una bottiglia chiusa di vodka georgiana Ustashi, il cui colore bluverdastro era dovuto all’erba della steppa che si usava per aromatizzarla. L’uomo aveva sistemato una seconda sedia sul lato opposto del tavolo, per far sedere il motociclista. «Com’è andato il viaggio?» chiese l’uomo. «Ce li hai?» disse il motociclista. «Certo.» L’uomo infilò una mano nel cappotto e tirò fuori un fascio di documenti arrotolati come un giornale. Li lasciò cadere pesantemente sul tavolo, sollevando una nuvoletta di polvere dal lurido piano di legno. «È tutto?» chiese il motociclista. L’uomo diede un colpetto rassicurante sul fascio di documenti. «Lo schema operativo completo dell’intero Progetto Konstantin.» Il pilota della Zündapp mise un piede sulla sedia e arrotolò la gamba dei pantaloni. Attaccata con un nastro al polpaccio c’era una busta di pelle. L’uomo staccò il nastro, imprecando sottovoce mentre gli strappava i peli della gamba. Poi tolse dalla busta una pila di banconote e la posò sul tavolo. «Contale» disse. 10
Compiacente, l’uomo contò il denaro, passando la punta delle dita tra le banconote. Da qualche parte sopra di loro, in mezzo alle travi della casa, alcuni stornelli cinguettarono e sbatterono i becchi. Quando l’uomo ebbe finito di contare, riempì le tazzine di vodka e ne alzò una. «A nome della Lega bianca, desidero ringraziarti. Un brindisi alla Lega, e al crollo del comunismo!» L’altro non prese la sua tazzina. «Qui abbiamo finito?» chiese. «Sì!» L’uomo tracannò la sua vodka, poi prese la seconda tazzina, la sollevò in un gesto di saluto e scolò anche quella. «Credo che abbiamo finito.» Il motociclista allungò una mano sul tavolo e prese i documenti. Dopo avere infilato l’involto nella tasca interna del cappotto, si fermò per dare un’occhiata alla stanza. Esaminò la volta di ragnatele, la carta da parati sgualcita e le crepe che riempivano il soffitto come linee di sutura su un cranio. Presto sarai a casa, penso tra sé. Poi potrai dimenticare che tutto questo sia successo. «Ti va una fumatina?» chiese l’uomo. Posò sul tavolo una scatola di sigarette e ci mise sopra un accendino di ottone. Il motociclista lo fissò, come se avesse già visto quell’uomo da qualche parte ma non ricordasse dove. «È meglio che vada» disse. «Magari la prossima volta.» L’uomo sorrise. Il pilota si voltò e fece per tornare alla sua motocicletta. Aveva fatto soltanto tre passi quando l’uomo afferrò la sua Tokarev, prese la mira con il braccio allungato e senza alzarsi dal tavolo colpì il motociclista dietro la testa. Il proiettile gli attraversò il cranio e una parte della fronte schizzò sul pavimento. Crollò a terra come una marionetta cui avessero tagliato i fili. 11
A quel punto l’uomo si alzò. Uscì da dietro il tavolo e rovesciò il cadavere con lo stivale. Il braccio del motociclista si spostò e le sue nocche sbatterono sul pavimento. L’uomo si chinò e gli tolse i documenti dalla tasca. «Berrai adesso, fascista figlio di puttana» disse. Poi prese la bottiglia di vodka e la svuotò sul motociclista, bagnando testa e spalle e versandone un rivolo sull’intera lunghezza delle gambe. Quando la bottiglia fu vuota la scaraventò dall’altra parte della stanza. Il vetro spesso andò a sbattere contro una parete marcia ma non si ruppe. L’uomo mise in tasca i soldi e i documenti. Poi raccolse la pistola, le tazzine e la scatola di sigarette. Mentre usciva di casa, girò la rotellina metallica dell’accendino e quando il fuoco divampò dallo stoppino lo lasciò cadere sul motociclista morto. L’alcol s’incendiò con il rumore di una tenda gonfiata dal vento. L’uomo uscì sull’aia e si fermò davanti alla motocicletta, facendo scorrere le dita sullo stemma Zündapp che decorava il serbatoio. Quindi si mise a cavalcioni della moto e tolse caschetto e occhialoni dal manubrio cui erano appesi. Infilò il caschetto e sistemò gli occhialoni sul viso. Le imbottiture in pelle portavano ancora il calore del corpo del motociclista. Mise in moto con il pedale d’avviamento e si riportò sulla strada, facendo ruggire la Zündapp a ogni cambio di marcia. Dietro di lui, già a una certa distanza, una colonna di fumo a forma di fungo si alzò dalle rovine della fattoria in fiamme. Ufficialmente il ristorante Borodino di Mosca, situato in una via tranquilla appena dietro a piazza Bolotnia, era aperto al pubblico. In realtà, il proprietario e direttore di sala, un uomo dal viso smunto di nome Chicherin, inqua12
drava chiunque varcasse la porta d’ingresso, i cui pannelli di vetro smerigliato erano decorati con un motivo a foglie d’edera. A quel punto Chicherin poteva offrire ai clienti un tavolo oppure condurli lungo un corridoio stretto e buio verso ciò che essi pensavano fosse un’altra sala da pranzo al di là di una porta. In realtà finivano direttamente in un vicolo di fianco al ristorante. Prima di potersi accorgere di cos’era successo la porta si era già chiusa automaticamente alle loro spalle. Se i clienti insistevano a ignorare l’allusione e decidevano di tornare nel ristorante, venivano affrontati dal barista, un ex lottatore greco di nome Niarchos, e scaraventati fuori dall’edificio. In un tetro pomeriggio di marzo, con mucchi di neve sporca ancora ammassati negli angoli più scuri della città, un giovane in uniforme militare entrò nel ristorante. Era alto, con le guance rosee sul viso magro e un’espressione d’instancabile curiosità. La casacca gymnastiorka di ottimo taglio aderiva perfettamente alle spalle e alla vita. Indossava pantaloni blu con profili rossi sull’esterno e stivali al ginocchio appena lucidati. Chicherin esaminò l’uniforme alla ricerca di una qualche traccia di grado elevato. Qualsiasi grado al di sotto del capitano qualificava il soldato per una gita lungo il corridoio, verso quella che Chicherin chiamava la Grotta Incantata. Non solo quel giovanotto non aveva un grado, ma neppure una mostrina che indicasse a quale reparto apparteneva. Chicherin era disgustato, ma sorrise e disse «Buongiorno», abbassando lievemente la testa ma senza distogliere lo sguardo dal giovane. «Buongiorno a te» rispose l’altro. L’uomo diede un’occhiata intorno ai tavoli occupati, contemplando i vari piatti di portata. «Ah» sospirò. «Shashlik.» Fece un gesto rivolto a un piatto di soffice riso bianco, sul quale un cameriere 13
stava sistemando cubetti di agnello arrosto, cipolle e pepe verde, facendoli scivolare con cura dagli spiedini sui quali erano stati arrostiti. «L’agnello è stato imbevuto nel vino rosso» annusò il vapore che gli passava sul viso «o è forse succo di melograno?» Chicherin socchiuse gli occhi. «Cerchi un tavolo?» Il giovanotto non sembrò ascoltare. «E laggiù» indicò. «Salmone all’aneto con salsa di rafano.» «Sì, esatto» Chicherin lo prese delicatamente per un braccio e lo condusse verso il corridoio. «Da questa parte, prego.» «Laggiù?» il giovane guardò di traverso il cunicolo buio del corridoio. «Sì, sì» lo tranquillizzò Chicherin. «Alla Grotta Incantata.» Il giovanotto sparì docile nel vicolo. Un attimo dopo Chicherin sentì lo scatto rassicurante della porta di metallo che si richiudeva. Poi arrivò l’impotente sbatacchiare del pomello mentre il giovanotto cercava di rientrare. Di solito le persone capivano l’antifona, e Chicherin non le rivedeva più. Questa volta però, quando il giovanotto riapparve meno di un minuto dopo, con lo stesso sorriso innocente, Chicherin fece un cenno a Niarchos. Niarchos stava passando uno straccio dall’aria sudicia dentro alcuni bicchieri utilizzati per servire il tè. Quando Niarchos incrociò lo sguardo di Chicherin, questi alzò la testa con un movimento brusco e improvviso, come un cavallo che cerchi di liberarsi dalle briglie. A quel punto, con molta attenzione, Niarchos posò il bicchiere che stava pulendo e uscì da dietro il bancone. «Ci dev’essere un errore» disse il giovanotto. «Mi chiamo Kirov e…» «È meglio che te ne vai» lo interruppe Niarchos. Lo 14
infastidiva essere stato costretto a uscire dal bancone, e abbandonare il piacevole flusso dei suoi sogni a occhi aperti mentre puliva distrattamente i bicchieri. «Credo…» cercò nuovamente di spiegare Kirov. «Certo, certo» sibilò Chicherin, apparendo all’improvviso alle sue spalle, il sorriso ormai evaporato. «Un errore, dici tu. Ma l’unico errore è che tu sia entrato qui. Non lo vedi che non è posto per te?» Gettò uno sguardo sui tavoli, popolati in gran parte da uomini con la faccia rubizza, la pappagorgia e i capelli grigi. Alcuni indossavano casacche verdeoliva di gabardine con le insegne di commissari del popolo. Altri erano in abiti civili, di taglio europeo e lana di ottima qualità, un tessuto così fine che sembrava scintillare sotto le lampade a forma d’orchidea. Sedute tra gli ufficiali e i politici c’erano donne splendide ma dall’aria annoiata, che aspiravano fumo da sigarette col filtro. «Stammi a sentire» disse Chicherin «anche se tu riuscissi a prendere un tavolo, dubito che ti potresti permettere il pranzo.» «Ma io non sono venuto a mangiare» protestò Kirov. «Tra l’altro, io mi cucino da solo, e secondo me il vostro chef si affida un po’ troppo alle salse.» Chicherin aggrottò la fronte, confuso. «Allora cerchi un lavoro?» «No» rispose il giovane. «Cerco il colonnello Nagorski.» Chicherin spalancò gli occhi. Guardò verso un tavolo all’angolo della sala dove due uomini stavano pranzando. Entrambi erano in giacca e cravatta. Uno era completamente calvo, e la grossa cupola della sua testa sembrava una sfera di granito rosa posata sull’impettito piedistallo bianco costituito dal colletto della camicia. L’altro aveva folti capelli neri pettinati all’indietro. Gli zigomi affilati erano bilanciati da una barbetta leggermente a punta che 15
gli copriva il mento. Questo faceva sembrare che gli avessero stirato la faccia su un triangolo di legno rovesciato, e in modo tanto accurato che anche la minima espressione gli avrebbe strappato la carne dalle ossa. «Vuoi il colonnello Nagorski?» chiese Chicherin. Annuì verso l’uomo con i folti capelli neri. «Be’, eccolo là, ma…» «Grazie.» Kirov fece un passo in direzione del tavolo. Chicherin lo afferrò per un braccio. «Ascolta, mio giovane amico, fai un favore a te stesso e vattene a casa. Chiunque ti abbia affidato questo incarico sta solo cercando di farti ammazzare. Hai la minima idea di quello che stai facendo? O della persona con cui hai a che fare?» Con pazienza, Kirov infilò una mano nella giacca ed estrasse un telegramma, con la delicata carta gialla marcata da una striscia rossa sulla parte superiore, il che ne indicava la provenienza da un ufficio governativo. «Dovresti dare un’occhiata a questo.» Chicherin gli prese il telegramma dalle mani. Per tutto quel tempo, il barista Niarchos era rimasto a incombere sopra il giovanotto, gli occhi scuri ridotti a due fessure. Ma ora, alla vista del telegramma, che gli sembrava tanto fragile da poter evaporare da un momento all’altro, Niarchos iniziò a innervosirsi. Nel frattempo, Chicherin aveva finito di leggere. «Mi serve, ridammelo» disse il giovane. Chicherin non rispose. Continuava a fissare il telegramma, come in attesa che si materializzassero altre parole. Kirov sfilò il fragile foglietto dalle dita di Chicherin e iniziò ad attraversare la sala da pranzo. Questa volta, Chicherin non fece nulla per fermarlo. Niarchos si spostò, ruotando di lato il corpo enorme, come se si trovasse su una sorta di cardine. Mentre si avvicinava al tavolo del colonnello Nagorski, 16
Kirov si fermò a esaminare le diverse portate, inspirando i profumi e sospirando soddisfatto oppure emettendo soffocati borbottii di disapprovazione per l’uso massiccio di panna e prezzemolo. Arrivato finalmente di fianco al tavolo di Nagorski, il giovane si schiarì la gola. Nagorski sollevò lo sguardo. La pelle tesa sugli zigomi sembrava cera lucida. «Altri blinis per il caviale!» disse, sbattendo la mano sul tavolo. «Compagno Nagorski» disse Kirov. Nagorski era tornato al suo pranzo, ma nel sentir menzionare il suo nome si bloccò. «Come sai il mio nome?» chiese sottovoce. «È richiesta la tua presenza, compagno Nagorski.» Nagorski lanciò un’occhiata verso il bar, sperando di incrociare lo sguardo di Niarchos. Ma l’attenzione di Niarchos sembrava totalmente assorbita dalla pulizia dei bicchieri da tè. Poi Nagorski si guardò attorno in cerca di Chicherin, ma il direttore non si vedeva da nessuna parte. Infine, si rivolse al giovane. «Per l’esattezza dove è richiesta la mia presenza?» chiese. «Questo ti verrà spiegato lungo la strada» disse Kirov. Il compagno di Nagorski sedeva a braccia conserte, lo sguardo fisso, l’espressione indecifrabile. Kirov non poté fare a meno di notare che mentre il piatto di Nagorski era pieno di cibo, davanti al gigante pelato c’era solo un’insalatina di cavoli sottaceto e barbabietole. «Che cosa ti fa pensare» iniziò Nagorski «che io mi alzi ed esca con te?» «Se non mi segui spontaneamente, compagno Nagorski, ho l’ordine di arrestarti.» Kirov gli porse il telegramma. Nagorski scostò il pezzo di carta. «Arrestarmi?» urlò. Un silenzio improvviso calò sul ristorante. Nagorski si pulì con un tovagliolo le labbra sottili. Poi lo scagliò sopra il piatto ancora pieno e si alzò. 17
A quel punto, tutti gli sguardi erano rivolti al tavolo d’angolo. Nagorski sfoggiò un largo sorriso, ma i suoi occhi restarono freddi e ostili. Affondando una mano nella tasca del cappotto, ne estrasse una piccola pistola automatica. Dai tavoli vicini si alzò un sussulto. Coltelli e forchette ricaddero sbatacchiando sui piatti. Kirov sbarrò gli occhi sulla pistola. «Sembri un po’ nervoso» sorrise Nagorski. Poi rigirò la pistola sul palmo in modo da rivolgere il calcio all’esterno e la porse all’altro uomo seduto al tavolo. Il suo compagno allungò una mano e la prese. «Tienila da conto» disse Nagorski. «La rivorrò indietro molto presto.» «Sì, colonnello» rispose l’uomo. Mise la pistola di fianco al piatto, come fosse un’altra posata. A quel punto Nagorski mollò una pacca sulla schiena del giovane. «Vediamo un po’ di cosa si tratta, che ne dici?» Kirov rischiò di perdere l’equilibrio sotto la spinta del palmo di Nagorski. «C’è una macchina in attesa.» «Bene!» annunciò Nagorski a voce alta. «Perché camminare se possiamo farne a meno?» Rise e si guardò attorno. Deboli sorrisi si disegnarono sulle facce degli altri avventori. I due uomini si avviarono all’uscita. Passando davanti alla cucina, Nagorski vide la faccia di Chicherin incorniciata in una delle finestrelle ovali sulla doppia porta a battente. Fuori dal Borodino, granelli di nevischio come uova di rana coprivano il marciapiede. Non appena la porta si richiuse alle loro spalle, Nagorski afferrò il giovane per il bavero e lo scaraventò contro il muro di pietra del ristorante. 18
Il giovane non oppose resistenza. Sembrava che se lo stesse aspettando. «Nessuno mi può disturbare durante il pranzo!» ringhiò Nagorski, sollevando il giovane in punta di piedi. «Nessuno sopravvive a una simile stupidaggine!» Kirov fece un cenno rivolto a una macchina nera, col motore acceso, accostata al marciapiede. «Sta aspettando, compagno Nagorski.» Nagorski diede un’occhiata alle sue spalle. Notò la sagoma di qualcuno seduto sul sedile posteriore. Non riusciva a distinguerne il viso. Poi si rivolse al giovanotto. «Chi sei tu?» chiese. «Il mio nome è Kirov. Maggiore Kirov.» «Maggiore?» Nagorski lo lasciò andare immediatamente. «Perché non me l’hai detto?» Fece un passo indietro e lisciò il bavero sgualcito di Kirov. «Avremmo potuto evitare questo malinteso.» Si diresse a grandi passi verso l’auto e salì sul sedile posteriore. Il maggiore Kirov si mise al volante. Nagorski si adagiò sul sedile. Solo allora guardò la persona seduta di fianco a lui. «Tu!» gridò. «Buon pomeriggio» disse Pekkala. «Oh, merda» rispose il colonnello Nagorski. L’ispettore Pekkala era un uomo alto e di aspetto energico, con spalle larghe e occhi lievemente allungati color mogano. Era nato a Lappeenranta, in Finlandia, quando era ancora una colonia russa. Sua madre era una lappone di Rovaniemi, al nord. All’età di diciotto anni, per desiderio del padre, Pekkala era andato a Pietrogrado per arruolarsi nella Legione finlandese, un corpo d’élite dello zar. Pochi giorni dopo l’inizio del suo addestramento, era stato scelto dallo zar come suo investigatore speciale personale. Era una posi19
zione mai esistita in precedenza, e che un giorno avrebbe conferito a Pekkala dei poteri considerati inimmaginabili prima che lo zar decidesse di crearli. Per prepararlo a quel compito era stato assegnato alla polizia, quindi alla polizia di Stato (la Gendarmeria) e infine alla polizia segreta dello zar, nota come Ochrana. In quei lunghi mesi gli erano state aperte porte delle quali erano in pochissimi a conoscere l’esistenza. Al termine dell’addestramento, lo zar aveva consegnato a Pekkala il solo distintivo che avrebbe mai portato: una pesante spilla d’oro, di larghezza pari alla lunghezza del suo mignolo. Aveva al centro una striscia di smalto bianco che iniziava in un punto, si allargava fino a occupare metà del disco e tornava a restringersi sul lato opposto. Incastonato al centro della striscia di smalto c’era un grosso smeraldo circolare. L’insieme di quegli elementi formava l’inconfondibile sagoma di un occhio. Pekkala non aveva mai dimenticato la prima volta che aveva tenuto quella spilla in mano, e il modo in cui aveva sfiorato l’occhio con la punta delle dita percependo la sporgenza levigata della gemma, come un cieco che legga in Braille. Era a causa di quel distintivo che Pekkala era diventato famoso come l’Occhio di smeraldo. A parte quello la gente sapeva pochissimo di lui. Non era permesso pubblicare sue fotografie e neppure scattarne. In mancanza di fatti, attorno a Pekkala erano sorte svariate leggende, e alcune dicerie sostenevano addirittura che non fosse umano ma una sorta di demone creato dalla magia nera di uno sciamano artico. Per tutti gli anni del suo servizio, Pekkala aveva risposto soltanto allo zar. In quell’epoca aveva conosciuto i segreti di un impero, e quando quell’impero era caduto, e chiunque altro conosceva quei segreti se li era portati nella tomba, Pekkala era rimasto sorpreso di ritrovarsi ancora vivo. 20
Catturato durante la rivoluzione, era stato spedito in Siberia al campo di lavoro di Borodok, dove aveva cercato di dimenticare il mondo che si era lasciato alle spalle. Ma era quel mondo a non essersi dimenticato di lui. Dopo nove anni passati in solitudine nella foresta di Krasnagolyana, durante i quali aveva vissuto più come un animale selvatico che come un uomo, Pekkala era stato riportato a Mosca su ordine di Stalin in persona. Da allora, in una sorta di instabile tregua con i suoi vecchi nemici, Pekkala aveva continuato nel suo ruolo di investigatore speciale. Sprofondato nelle viscere delle strade di Mosca, il colonnello Rolan Nagorski sedeva su uno sgabello di metallo in una piccola cella della prigione Lubyanka. Le pareti erano dipinte di bianco. Una sola lampadina, protetta da una gabbia di metallo polverosa, illuminava la stanza. Nagorski si era tolto la giacca e l’aveva appesa allo schienale della sedia. Le bretelle si allungavano ben tese sopra le spalle. Parlò arrotolandosi le maniche, come se si preparasse a una rissa. «Prima che inizi a farmi delle domande, ispettore Pekkala, vorrei fartene una io.» «Fa’ pure» disse Pekkala. Era seduto di fronte a lui, su un identico sgabello di metallo. La stanza era così piccola che le loro ginocchia quasi si toccavano. Malgrado il caldo soffocante della cella, Pekkala non si era tolto il cappotto. Era di vecchio taglio: nero e lungo fino al ginocchio, col bavero corto e bottoni nascosti che si allacciavano sul lato sinistro del petto. Sedeva innaturalmente diritto, come un uomo dalla schiena menomata. Questo a causa della pistola che teneva fissata al petto. La pistola era un revolver Webley .455, con una solida impugnatura d’ottone e un minuscolo foro aperto sulla canna appena dietro il mirino, per evitare che “strap21
passe” quando faceva fuoco. La modifica non era stata fatta per Pekkala ma per lo zar, che aveva ricevuto in dono il revolver da suo cugino, re Giorgio v. Lo zar aveva poi dato la Webley a Pekkala. «A me non serve un’arma del genere» gli aveva detto lo zar. «Se i miei nemici mi arriveranno tanto vicini da costringermi a usarla, sarà già troppo tardi perché serva a qualcosa.» «La domanda che volevo farti» disse Nagorski «è questa: perché credi che rivelerei il segreto della mia invenzione proprio a coloro contro i quali potremmo doverla usare?» Pekkala aprì la bocca per rispondere, ma non ne ebbe il tempo. «Vedi, io so perché mi trovo qui» continuò Nagorski. «Mi ritenete responsabile di inadempienze nel sistema di sicurezza del Progetto Konstantin. Non sono così ingenuo, né così poco informato da non sapere quello che succede attorno a me. Per questo ogni singolo stadio di sviluppo ha avuto luogo in una struttura sicura. L’intera base è inaccessibile su scala permanente e sotto il mio personale controllo. Ogni singola persona che lavora lì è stata autorizzata da me. All’interno della base non accade nulla senza che io lo sappia.» «Il che ci riporta al motivo per cui ti trovi qui oggi.» Nagorski si sporse in avanti. «Esatto, ispettore Pekkala. Proprio così, e avrei potuto evitare di far perdere del tempo a te e un costosissimo pranzo a me se solo mi avessi lasciato dire al tuo fattorino…» «Quel “fattorino”, come lo chiami tu, è un maggiore della Sicurezza interna.» «Anche gli ufficiali dell’nkvd* possono essere dei fattorini, ispettore, se i loro capi dirigono il paese. Quello che avrei detto al tuo maggiore è la stessa cosa che dico a te * Narodnyj komissariat vnutrennich del, Commissariato del popolo per gli affari interni.
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adesso, e cioè che non c’è stata alcuna inadempienza nel sistema di sicurezza.» «L’arma che tu chiami T-34 è nota ai nostri nemici» disse Pekkala. «Temo che questo sia un fatto che non puoi negare.» «Certo, ne conoscono l’esistenza. Non è possibile progettare, costruire e collaudare una macchina da trenta tonnellate e aspettarsi che rimanga invisibile. Ma non è della sua esistenza che sto parlando. Il segreto sta in quello che può fare. Ammetto che alcuni membri del mio gruppo di progettisti possano riferire frammenti di questo puzzle, ma esiste una sola persona a conoscenza del suo intero potenziale.» Nagorski si appoggiò allo schienale e incrociò le braccia. Lungo il suo viso lucido scendeva il sudore. «E quella persona sono io, ispettore Pekkala.» «C’è una cosa che non capisco» disse Pekkala. «Cos’ha di tanto speciale la tua invenzione? Non ne abbiamo già di carri armati?» Nagorski emise una risata soffocata. «Certamente! C’è il T-26.» Aprì una mano, come tenesse sul palmo un carro armato in miniatura. «Ma è troppo lento.» La mano si richiuse in un pugno. «Poi c’è la serie BT.» Aprì l’altra mano. «Ma non ha una blindatura sufficiente. Tanto varrebbe che tu mi chieda perché costruiamo armi, con tutte le pietre che possiamo raccogliere da terra e scagliare contro i nemici quando ci invaderanno.» «A quanto pare hai una grande fiducia in te stesso, compagno Nagorski.» «Ho qualcosa di più della fiducia!» gli abbaiò in faccia Nagorski. «Ho la certezza, e non solo perché sono stato io a inventare il T-34, ma perché ho affrontato i carri armati in battaglia. Solo quando li vedi muoversi verso di te, e ti rendi conto che non puoi fare nulla per fermarli, allora 23
capisci perché i carri armati possono vincere non solo una battaglia, ma una guerra.» «Quando hai affrontato i carri armati?» chiese Pekkala. «Nella guerra che abbiamo combattuto contro la Germania, e Dio ci aiuti se ne dovessimo combattere un’altra. Quando scoppiò la guerra, nell’estate del 1914, io ero a Lione a gareggiare nel Gran Premio di Francia. A quei tempi, le macchine da corsa erano tutta la mia vita. La vinsi quella gara, sai, l’unica gara automobilistica che il nostro paese abbia mai vinto. Fu il giorno più felice della mia vita, e sarebbe stato perfetto se il mio capo meccanico non fosse stato investito da un’altra macchina che era uscita di pista.» «Rimase ucciso?» chiese Pekkala. «No» rispose Nagorski «ma si ferì gravemente. Le corse sono un gioco pericoloso, ispettore, anche se non si sta dietro al volante.» «Quand’è che hai iniziato a interessarti alle auto?» Ora che l’argomento si era spostato sui motori, Nagorski iniziò a rilassarsi. «La prima occhiata a un’automobile la diedi nel 1907. Era una Rolls-Royce Silver Ghost, portata in Russia dal granduca Mikhail. Lui e mio padre andavano tutti gli anni a caccia di anatre alle paludi di Pripet. Un giorno il granduca si fermò con la macchina davanti a casa nostra, e mio padre gli chiese di vedere i meccanismi interni.» Nagorski rise. «Li chiamò proprio così. Meccanismi interni. Come se fosse una specie di orologio da mensola. Quando il granduca alzò il cofano, la mia vita cambiò in un istante. Mio padre si limitò a fissare l’interno. Per lui non era altro che uno sconcertante cumulo di tubi metallici e bulloni. Ma per me quel motore aveva un senso. Era come se l’avessi già visto prima. Non sono mai riuscito a spiegarlo con esattezza. La sola cosa che sapevo per certo 24
era che il mio futuro stava dentro quei motori. Non ci volle molto prima che me ne costruissi uno da solo. Nei successivi dieci anni vinsi più di venti gare. Se non fosse arrivata la guerra, sarebbe quello che farei ancora adesso. Ma una storia che inizia in questo modo ce l’hanno tutti, vero ispettore? Se non fosse arrivata la guerra…» «Che cosa ti è successo in guerra?» lo interruppe Pekkala. «Non potevo tornare in Russia, quindi mi arruolai nella Legione straniera francese. C’erano uomini da ogni parte del mondo, sorpresi nel paese sbagliato allo scoppio della guerra e impossibilitati a tornare a casa. Ero nella Legione da quasi due anni quando ci imbattemmo nei carri armati vicino al villaggio francese di Flers. Tutti avevamo sentito parlare di quelle macchine. Gli inglesi furono i primi a utilizzarli contro i tedeschi nella battaglia di Cambrai del 1917. L’anno successivo anche i tedeschi ne progettarono. Non ne avevo mai visto uno finché non entrammo in azione contro di loro. Il mio primo pensiero andò alla lentezza con la quale si muovevano. Sei chilometri all’ora. È un’andatura da passeggio. E non erano certo aggraziati. Era come essere attaccati da giganteschi scarafaggi di metallo. Tre su cinque andarono in panne ancora prima di raggiungerci, uno fu distrutto dall’artiglieria e l’ultimo riuscì a fuggire, anche se lo ritrovammo due giorni dopo completamente bruciato sul lato della strada, da quel che si capiva per un’avaria al motore.» «Non sembra molto esaltante come esordio.» «No, ma mentre guardavo distruggere quelle carcasse di ferro, o le vedevo fermarsi, capii che il futuro della guerra era in quelle macchine. Come strumenti di mattanza i carri armati non sono una semplice mania passeggera, come le balestre o i trabucchi. Capii subito cosa occorreva fare per migliorare il progetto. Intravidi tecnologie 25
che non erano ancora state inventate, ma che nei mesi successivi ideai nella mia testa e appuntai su ogni pezzetto di carta riuscissi a trovare. Quando la guerra finì, furono quei foglietti che riportai con me nel mio paese.» Pekkala conosceva il resto della storia; Nagorski un giorno era entrato negli uffici dell’appena costituito Ufficio brevetti sovietico di Mosca con più di venti disegni diversi, il che aveva finito per fruttargli la direzione del progetto T-34. Fino a quel momento aveva sbarcato il lunario in mezzo alla strada, lucidando gli scarponi di uomini che in seguito avrebbe comandato. «Sai quali sono i limiti di budget del mio progetto?» chiese Nagorski. «No» rispose Pekkala. «Perché non ce ne sono» disse Nagorski. «Il compagno Stalin sa perfettamente quanto è importante questa macchina per la sicurezza del nostro paese. Quindi posso spendere quanto voglio, prendere tutto quello che voglio, ordinare a chiunque io scelga di fare qualsiasi cosa io decida. Mi accusate di avere messo in pericolo la sicurezza di questo paese, ma la colpa di tutto questo è dell’uomo che ti ha mandato qui. Puoi dire al compagno Stalin da parte mia che se continua ad arrestare membri dell’esercito sovietico con questo ritmo, non ne rimarrà uno che guidi i miei carri armati anche se mi lasciasse il tempo di finire il mio lavoro!» Pekkala sapeva che l’effettiva entità del potere di Nagorski non stava nel denaro che poteva spendere, ma nel fatto di poter dire ciò che aveva appena detto senza temere di prendersi una pallottola in testa. E lo stesso Pekkala non replicò a quelle parole, non perché avesse paura di Nagorski, ma perché sapeva che Nagorski aveva ragione. Nel timore di perdere il controllo del governo, Stalin 26
aveva ordinato arresti di massa. Nell’ultimo anno e mezzo, oltre un milione di persone erano state fermate. Tra di loro c’era quasi tutto l’alto comando sovietico, i cui membri erano stati in seguito fucilati oppure mandati nei Gulag. «Forse» suggerì Pekkala «hai cambiato idea su questo tuo carro armato. Può capitare che qualcuno nella tua situazione cerchi di distruggere ciò che ha fatto.» «Svelandone i segreti al nemico, intendi dire?» Pekkala annuì lentamente. «È una possibilità.» «Sai perché è chiamato Progetto Konstantin?» «No, compagno Nagorski.» «Konstantin è il nome di mio figlio, del mio unico figlio. Vedi, ispettore, questo progetto mi è sacro quanto la mia famiglia. Non farei nulla che potesse danneggiarlo. Alcuni questo non lo capiscono. Mi descrivono come una specie di dottor Frankenstein, ossessionato solo dall’idea di dare la vita a un mostro. Non capiscono il prezzo che devo pagare per le mie imprese. Il successo può essere altrettanto pericoloso del fallimento, se stai solo cercando di tirare avanti con la tua vita. Mia moglie e mio figlio hanno sofferto moltissimo.» «Lo capisco» disse Pekkala. «Davvero?» chiese Nagorski, quasi implorante. «Davvero lo capisci?» «Abbiamo fatto entrambi delle scelte difficili» disse Pekkala. Nagorski annuì, distogliendo lo sguardo e fissandolo su un angolo della stanza, perso nei suoi pensieri. Poi all’improvviso si rivolse a Pekkala. «Allora dovresti sapere che tutto ciò che ti ho detto è la verità.» «Scusami, colonnello» disse Pekkala. Si alzò, uscì dalla stanza e si incamminò lungo il corridoio fiancheggiato da porte metalliche. I suoi passi non facevano rumore sulla grigia moquette industriale. Ogni suono era stato elimi27
nato, come se da quel posto l’aria fosse stata risucchiata. In fondo al corridoio, una porta restava leggermente socchiusa. Pekkala bussò una volta ed entrò in una stanza talmente piena di fumo che al suo primo respiro gli sembrò di inghiottire cenere. «Tutto bene, Pekkala?» disse una voce. Seduto da solo su una sedia all’angolo della stanza c’era un uomo di media statura e corporatura tarchiata, dal viso butterato e con la mano sinistra avvizzita. I capelli erano folti e scuri, pettinati all’indietro. Un paio di baffi solcati da strisce di grigio si stringevano sotto il naso. Stava fumando una sigaretta, della quale era rimasto così poco che un’altra tirata avrebbe portato la brace a contatto con la pelle. «Benissimo, compagno Stalin» disse Pekkala. L’uomo spense la sigaretta sulla suola dello stivale e soffiò fuori due ultimi sbuffi grigi dalle narici. «Cosa ne pensi del nostro colonnello Nagorski?» chiese. «Credo che dica la verità» rispose Pekkala. «Io non credo» replicò Stalin. «Forse dovrebbe interrogarlo il tuo assistente.» «Il maggiore Kirov» disse Pekkala. «So come si chiama!» la voce di Stalin si alzò rabbiosa. Pekkala capì. Era stato il sentir pronunciare il nome di Kirov a spaventare Stalin, visto che Kirov era anche il nome dell’ex capo del partito di Leningrado, assassinato cinque anni prima. La morte di Kirov era stata un colpo pesante per Stalin, non perché nutrisse un affetto particolare per lui, ma perché dimostrava che se un uomo come Kirov poteva essere ucciso, lo stesso Stalin poteva essere il prossimo. Da quell’assassinio Stalin non era mai più uscito in strada, tra la gente che governava ma di cui non si fidava. Stalin intrecciò le mani, facendo schioccare le nocche una dopo l’altra. «Il progetto Konstantin è stato compromesso, e credo che Nagorski ne sia responsabile.» 28
«Devo ancora vederne la prova» disse Pekkala. «C’è qualcosa che non mi stai dicendo, compagno Stalin? Hai qualche prova da mostrarmi? O si tratta semplicemente di un altro arresto, nel qual caso non ti mancano certo altri investigatori di cui servirti.» Stalin arrotolò tra le dita il mozzicone della sigaretta. «Sai a quanti permetto di parlarmi in questo modo?» «Non molti, suppongo» disse Pekkala. Ogni volta che incontrava Stalin, si rendeva conto del vuoto emotivo che sembrava aleggiare attorno a quell’uomo. Era qualcosa nei suoi occhi. L’espressione del viso poteva cambiare, ma quella degli occhi non cambiava mai. Quando Stalin rideva, blandiva o, se non funzionava, minacciava, per Pekkala era come assistere a un cambio di maschere nel teatro giapponese Kabuki. C’erano momenti, quando una maschera si trasformava in un’altra, nei quali a Pekkala sembrava di riuscire a intravedere cosa si nascondeva dietro. E quello che vi trovava lo riempiva di terrore. La sua unica difesa era fingere di non vederlo. Stalin sorrise, e all’improvviso la maschera era cambiata di nuovo. «Non molti, è vero. Nessuno sarebbe ancora più esatto. Hai ragione quando dici che ho altri investigatori, ma questo caso è troppo importante.» Poi si mise in tasca il mozzicone di sigaretta. Pekkala gli aveva visto fare la stessa cosa altre volte. Era una strana abitudine in un posto dove anche la gente più povera buttava i mozziconi per terra e li lasciava lì. E altrettanto strana per un uomo che non sarebbe mai restato a corto delle quaranta sigarette che fumava al giorno. Forse c’era dietro qualche aneddoto, magari risalente al suo passato di rapinatore di banche a Tbilisi. Pekkala si chiese se Stalin, come un qualsiasi mendicante di strada, togliesse il tabacco rimasto dai mozziconi e ne ricavasse sigarette nuove. Qualunque fosse la ragione, Stalin la teneva per sé. 29
«Ammiro la tua audacia, Pekkala. Mi piacciono le persone che non temono di dire quello che pensano. È uno dei motivi per cui mi fido di te.» «Ti chiedo solo di lasciarmi fare il mio lavoro» disse Pekkala. «Era questo il nostro accordo.» Stalin sbatté le mani sulle ginocchia con impazienza. «Lo sai, Pekkala, che un giorno la mia penna toccò il foglio della tua condanna a morte? Ci sono arrivato a tanto così.» Pizzicò l’aria, come stesse ancora tenendo in mano la penna, e tracciò nel vuoto il fantasma della sua firma. «Non ho mai rimpianto la mia scelta. E adesso da quanti anni è che lavoriamo insieme?» «Sei. Quasi sette.» «In tutto questo tempo, ho mai interferito con le tue indagini?» «No» ammise Pekkala. «E ti ho mai minacciato, per il semplice fatto che non eri d’accordo con me?» «No, compagno Stalin.» «E questo» disse Stalin puntando un dito su Pekkala, come se stesse prendendo la mira dalla canna di una pistola «è più di quanto tu possa dire del tuo precedente datore di lavoro, o di quell’impicciona di sua moglie, Aleksandra.»
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