Alessandro Bertante
La magnifica orda
www.saggiatore.it (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore Š il Saggiatore S.p.A., Milano 2012
LA MAGNIFICA ORDA
L’OPERA – La magnifica orda è un romanzo breve in tre mo-
vimenti. La piana è sterminata. A Oriente l’orizzonte è tagliato da una lama di luce. Il sole inizia a rischiarare la steppa, addolcendo l’aria aspra della notte. Alessio Slaviero non sa dove si trova e non ricorda neanche dove ha trascorso le ultime ore. Al suo fianco un uomo di bassa statura, lo sguardo rivolto all’ultima porta d’Europa – sembra lo spettro di Napoleone. Sarà lui a guidare il grande esercito dell’Occidente: guerrieri del Tempio e dell’Ospedale, contadini scozzesi dalle lunghe picche, cavalieri teutonici, opliti ateniesi vincitori a Maratona, centurioni romani, predoni vichinghi, giannizzeri. Braccia contro braccia, schiene a proteggere schiene, sguardi rivolti verso la magnifica orda che avanza da Oriente e tutto annullerà. Alessio Slaviero deve uscire di casa, deve attraversare una Milano allucinata. Una città grigia, stanca e incrudelita come lui in questo tempo spietato. Deve fronteggiare il suo destino di quarantenne solo e disoccupato. E il suo destino ha un nome e cognome, siede impettito dietro la scrivania di un ufficio delle risorse umane. Ma l’eco della magnifica orda rimbomba ancora nella testa di Alessio Slaviero… Parco Sempione, gennaio. L’aria è gelida. Ai piedi lo zaino carico di libri e nessuna voglia di trascinarlo a scuola: il giovane Alessio Slaviero incontra un biblico profeta metropolitano, un personaggio indimenticabile nella narrativa di questi anni. È da lui che ascolta 9
l’annuncio dell’imminente crollo della civiltà occidentale, sotto la pressione insostenibile della magnifica orda. La follia e la solitudine, la potenza visionaria e il realismo tragico sono le cifre di questo «romanzo compresso» di Alessandro Bertante che, grazie alla sua lingua immaginifica e magmatica, rende la lettura fulminea, struggente e fitta di scene memorabili. Una narrazione epica che conferma la vocazione di Bertante a percorrere strade imprevedibili per scuotere le passioni di chi legge e catturare le ossessioni più significative del nostro immaginario. L’AUTORE – Alessandro Bertante, scrittore e critico letterario, è nato ad Alessandria nel 1969, vive e lavora a Milano. Nel 2000 ha pubblicato il romanzo Malavida (Leoncavallo Libri), nel 2003 ha curato per Piemme la raccolta di racconti 10 storie per la pace, nel 2005 è uscito il saggio Re Nudo (NDA Press), nel 2007 Contro il ’68 (Agenzia X), nel 2008 il romanzo Al diavul (Marsilio), vincitore del Premio Chianti e del Premio Città di Bobbio, nel 2011 il romanzo Nina dei lupi (Marsilio), selezione Premio Strega, vincitore del Premio Rieti. Scrive per l’Unità, insegna alla Naba ed è stato condirettore artistico del festival letterario Officina Italia.
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Tutto è più difficile nell’età adulta vivere rinchiuso in sé sballottato tra sé misero pieno di ricordi non faccio questo viaggio per niente, non mi rannicchio come un cane su questo sedile per niente, salverò qualcosa, salverò me stesso nonostante il mondo. Mathias Énard
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La piana è sterminata. Radi, sparuti alberi precedono la steppa, persa verso i remoti confini dell’Est. Da pochi minuti il sole ha cominciato ad alzarsi dalla linea dell’orizzonte. La luce è tersa, l’aria ancora fresca dalla notte senza sonno. Sono in un tempo che non conosco. Dove ho trascorso le ultime ore? In cima all’altopiano un uomo di bassa statura, vestito con un elegante cappotto militare, si sposta con brevi passi frenetici, accompagnando lo sguardo lungo la pianura. La grande pianura centrale, ultima porta d’Europa. «C’est magnifique, mais ce n’est pas la guerre» l’uomo borbotta mentre si avvicina risoluto verso di me, la frangia di capelli neri viene mossa dal vento. Questa mattina non porta niente sulla testa. «Cosa ne pensi, giovane? Una frase impeccabile data la situazione» dice, giocherellando con l’elsa della sciabola che pende al suo fianco sinistro. «Chi fu a pronunciarla non ricordo, probabilmente un ufficiale venuto dopo di me. In caso contrario me lo 13
rammenterei, non vi è alcun dubbio, ero un uomo che si documentava. Splendida osservazione, comunque. Giovanotto, stai scrivendo?» «Sì, mio generale, fino all’ultima parola.» Scrivo, privo di qualsiasi motivazione. Lui continua a parlare e io riporto le sue parole. Scrivo sopra uno spesso quaderno di cuoio, impugnando una vecchia penna consumata. L’inchiostro mi sporca le mani ma non ho un calamaio, non l’ho mai avuto. Scrivo con la mano tremante e l’animo in tormento. I miei stivali sono pieni di sabbia. Come sono arrivato in questo posto? Le domande non servono a nulla. Il piccolo uomo elegante pensa al presente, all’urgenza della battaglia. «Si stanno approssimando, sono vicini e già se ne sente l’odore. Roba di bestie selvagge, di pelle sudata, di ferro vecchio, roba di merda e cuoio consumato. Un odore che conosco e che non mi fa paura. Sono una moltitudine immensa, una moltitudine magnifique. Li aspetto da secoli, li sogno ogni notte, non li ho mai affrontati, sono gli ultimi di una razza antichissima. Un’orda di barbari conquistatori, di implacabili guerrieri a cavallo, spietati, in cerca di prede e di nuovi territori di caccia. Cosa vuoi che ti dica, giovane amico mio, la guerra è una cosa tremenda, inutile sottolineare l’ovvio. Ma forse è ancora più inutile nascondersi dietro al buon senso dei cittadini che sorseggiano bevande esotiche nei caffè, ciarlando di politica per ingraziarsi le belle dame. Io non sarò mai di quella schiera, non sono venuto in questo mondo per raccontare fandonie. La verità è un’altra e certo può disturbare i millantatori. Ascoltami bene, giovanotto. Oltre il dolore, oltre la vergogna, oltre la perdita, oltre tutte le 14
ferite immaginabili, oltre tutto questo: il tempo della battaglia è sublime, lo scontro finale è sublime. Il momento è decisivo, adesso si decidono le sorti dei contendenti. La vita e la morte, ragazzo. Onore e sconfitta. «Stai scrivendo?» Annuisco ma lui non mi guarda. «Che grande disegno è mai questo? Una sfida, una burla, o meglio un regolamento di conti, non siamo certo all’osteria a tirare dei dadi. D’altra parte, io sono stato scelto per comandare il nostro glorioso esercito. Io sono il più grande, nella memoria dei secoli. E in quella futura, almeno così dicono, così scrivono nei libri.» «Così dicono, mio generale. Così hanno scritto nei libri.» «Sì, così dicono. A ogni modo, mio giovane amico, consiglierei di non fidarsi ciecamente dei libri e di chi li scrive: avanzare qualche riserva è un atteggiamento molto più prudente. L’esperienza è un’altra cosa, s’intende. Ora dobbiamo fare la storia.» Il generale allarga a semicerchio il braccio destro verso la landa. «Vedi qua, ora. Noi siamo davanti all’ultima pianura d’Europa, la battaglia si avvicina e non c’è nessun’altra scelta. Dobbiamo essere pronti, saldi, determinati a resistere fino alla fine. Anche se, devo ammetterlo, io sono un comandante da fucileria, sono stato addestrato ad agire di moschetto. La mia era la guerra del fuoco e del fragore, ma anche allora esistevano delle regole, dei codici. Fare avanzare in linea i fantaccini, tenere il quadrato, coordinare il fuoco dell’artiglieria, capire quando è il momento giusto per la carica definitiva, scatenare l’ira risolutiva degli uomini a cavallo o giocare la carta della vecchia, inossidabile guardia.» 15
Il generale fa due passi in avanti, lo sguardo rivolto verso il cielo. «Comunque oggi non si può fare. In questo piano distorto le regole della battaglia sono fin troppo chiare: arma bianca, come ai tempi antichi; che non sono i miei, figlio della rivoluzione e delle speranze luminose. Non è vero, giovanotto?» «Credo di sì, mio generale.» «Tutte sciocchezze, mi verrebbe da dire. Non importa se combatti con moschetti o alabarde, sciabole o palle di cannone o qualche altra diavoleria ancora da inventare. Niente affatto! In guerra bisogna governare le masse. La battaglia la fanno gli uomini, soldati valorosi ma ciechi, ignari del proprio destino, che avanzano, cadono, muoiono o vincono rispondendo solo agli ordini del proprio comandante. Giovane, prova a immaginarla, questa visione portentosa! Migliaia di uomini che si muovono come una cosa sola. Li hai mai visti tu, giovanotto? Hai mai ascoltato i loro respiri, i tremori dei muscoli pronti a scattare, il battito tumultuoso di tutti quei cuori che pompano? Impara a sentire la loro voce e saprai quando è il momento di agire. Dividi il nemico, affrontalo con tutte le tue forze e quindi annientalo, finché non potrà più nuocerti. C’est magnifique! Sono un direttore d’orchestra io, il più grande. O almeno così dicono. Così rammentano nei libri. Stai scrivendo, giovanotto?» «Certo, mio generale.» Napoleone Bonaparte mi guarda dritto negli occhi. «Siamo alla resa dei conti ormai, sospesi sul crinale fra storia e leggenda. Gli ufficiali della grande armata occidentale si giocano la loro eroica memoria in questa ultima battaglia. A noialtri rimane solo la memoria e i magnifici barbari dell’Est non ce la leveranno. Affron16
teremo con coraggio questa sfida impari e non ce ne lamenteremo. Dieci a uno, dicono, ma potrebbe essere anche peggio; è sempre peggio, in realtà. Ma non ci faremo sorprendere.» L’aria si fa sempre più calda, minuto dopo minuto. Sembra arrivare direttamente dai deserti della disperazione. Il vento torrido porta con sé l’afrore delle moltitudini. Il generale procede deciso verso il tavolo, io lo seguo senza indugio. Non ci sono tende, né altre strutture da campo, solo due assi rettangolari poste all’ombra di una enorme quercia. Sopra il legno stanno appoggiate le mappe della battaglia, così colorate da sembrare un gioco per bambini. Comparso dal nulla, un ufficiale con due folti baffi ricurvi e degli orecchini pendenti da zingaro porge al mio generale un lungo cannocchiale bardato d’ottone. Napoleone annuisce grave, quindi, usando entrambe le mani, impugna l’attrezzo portandoselo all’occhio destro. «L’orda è arrivata, alla fine» sussurra il generale. «Ed è spaventosa, mio giovane amico, di una bellezza spaventosa. Moltitudine, caro giovanotto, un’immensa moltitudine di barbari. Non si è mai visto niente di nemmeno paragonabile nel Vecchio continente. Sono grandi cavalieri e sono infiniti come la sabbia del deserto. Vogliono le nostre terre, vogliono le nostre case, vogliono le nostre donne, vogliono la nostra perduta grandezza. Vogliono annichilirci. Guarda i nostri nemici, perché è la visione più stupefacente che possa presentarsi a un uomo.» Ora si possono vedere anche senza cannocchiale: una scura sterminata marea che avanza implacabile. Minuto 17
dopo minuto, dilagano nella pianura i colori della guerra, delle armi, dei cavalli, delle corazze, degli uomini in battaglia. Mano a mano che l’orda si avvicina i miei pensieri diventano più cupi. Così ha inizio. «Questa è l’ultima battaglia giovanotto, con ogni probabilità non possiamo vincerla. Illudersi sarebbe da sciocchi, ma stai certo che combatteremo e moriremo nel farlo. Siamo qui per questo, io e miei fratelli d’arme, la casta guerriera di tutti i tempi gloriosi. Io comanderò i soldati che hanno conquistato il mondo. Abbiamo una storia da difendere, un rango da onorare, il resto non vale nulla, sia bandita la memoria di chi rifiuterà la battaglia, sia dimenticato il suo nome e quello dei suoi avi. Noi non combattiamo per il futuro, non combattiamo per la civiltà, non combattiamo per le magnifiche sorti progressive del vostro disgraziato poeta. A quelle illusioni abbiamo smesso di credere da tempo. E il tempo non mi riguarda più, il tempo è finito, concluso, ormai. Sono finiti gli orizzonti di qualsiasi uomo, quelli perfetti della scienza e quelli meravigliosi del sogno. Sono finiti da quando sono stato tradito, lasciato solo con i miei ricordi, la mia gloria e i miei progetti infranti, le mie piccole miserie quotidiane. Circondato da nemici, nella mesta solitudine dei grandi, invisi ai mediocri e ai traditori. Che tristezza la mia, che destino infame…» Napoleone sembra spegnersi, abbassa lo sguardo a terra. Poi subito si ridesta, e nei suoi occhi è il fuoco che arde. «Giovanotto, sono già iniziate le prime schermaglie?» «Lo ignoro, mio generale.» 18
«Bravo! Sii umile, tieni la testa bassa e le gambe salde! Oggi sarà una giornata lunghissima, tracimerà di dolore e di gloria, non mancheranno le occasioni per dimostrare coraggio. Le schermaglie dunque, che domanda! Sicuro che sono iniziate! I cavalleggeri hanno dato vita alle prime azioni di guerriglia. Incursioni per lo più innocue, di disturbo, ma utili per rinsaldare il morale delle truppe di terra. Banditi, briganti e tagliagole, sono loro i nostri guastatori. Grandi soldati, comunque. Li guida un tuo patriota, più giovane di me di alcuni decenni. Un nizzardo, testa dura, astuzia e grande coraggio. Si dice che non abbia mai perso una battaglia. Si dice che puzzi come un muflone, ma poco importa. Insieme al principe albanese Scanderbeg, all’anarchico ucraino Machno e ad altre centinaia di delinquenti par del loro, sta impegnando l’orda ai fianchi. Questi fieri giovanotti tallonano da giorni il nemico lungo la steppa. Un lavoro di grande coraggio, ma che non cambierà nulla, temo. Perché è qui, qui proprio davanti a noi il luogo dove si scatenerà la grande battaglia, qui si decide e consuma tutto, qui sarà l’inferno del ferro e del sangue. Con il ferro bruceremo la pianura, con il sangue tingeremo la terra. Continua a scrivere, giovanotto.» «Sì, mio generale.» La penna è secca, da sempre. Napoleone mi guarda mentre si appoggia al tavolo da campo. «In guerra non si improvvisa niente, giovanotto, bisogna pianificarle, le battaglie. Io sono diventato famoso per lo studio del territorio e la previsione delle circostanze avverse. Calcolo e istinto guerresco, il giusto rapporto fra i due porta alla vittoria. Dividi il nemico, affrontalo uno per volta, fai in modo che ti tema, che t’immagini 19
ovunque, che ti veda dietro ogni collina, in ogni ombra sul terreno. Ma l’istinto non te lo insegna nessuno, questo è sicuro. Qualsiasi cosa succedesse, era mia la scelta, sempre, solo mia. Non devi mai lasciare l’iniziativa al nemico, insieme alla capacità di comprendere. Questo ci vuole in battaglia, non sarà certo oggi che verrò meno alla mia fama, al mio onore di comandante.» L’orda non si ferma. È sempre più vicina, come la marea che torna alla terra. Immensa e tumultuosa. «Il loro numero è impressionante, mio generale» dico con un filo di voce. «Rimaniamo saldi nella nostra certezza di martirio, mio giovane amico. Non ti scoraggiare, non aprire la breccia a nessun rimpianto. Questo è il nostro destino, un destino di sacrificio. E ricorda che in questo piano stralunato di storia e onore tutto può succedere. Se siamo qua in questo momento ci sarà una ragione, io credo. O no, mio giovane amico? Chi ci ha convocati certo sapeva quello che faceva. Siamo la muraglia che proteggerà le nostre genti dall’orda, siamo l’ultima difesa dell’Occidente. Combattiamo per la civiltà, e per la gloria naturalmente. Si combatte sempre per la gloria.» Mi avvicino al generale, in modo da poter vedere la mappa colorata. «Osserva bene, mio giovane scrivano, e ricorda. Noi stiamo qui sulle colline, ma subito sotto di noi, a strapiombo, comincia la pianura, la pianura sterminata. Nessuno conosce i confini della landa arida. Quello che sappiamo è che proprio qui s’infrangerà l’orda con tutta la sua forza. Ma quei feroci cavalieri ignorano che gli ultimi cinque chilometri sono in leggero falsopiano. Inevitabilmente la carica subirà un rallentamento, i cavalli si 20
stancheranno e l’urto non sarà formidabile come credono. Su questo vantaggio baseremo la nostra difesa. Una difesa disperata, nonostante tutto.» Finita la frase, Napoleone si volta di scatto verso un ufficiale, comparso dal nulla. «Comandante, come procedono i preparativi della fanteria?» Un bell’uomo dal volto insolente sta ritto sull’attenti. È vestito con abiti sfarzosi e porta i lunghi capelli biondi sciolti dietro le spalle. Ricevuto il comando del riposo, si avvicina con passo marziale a Napoleone. Ha le labbra tinte di rosso vermiglio. «Molto bene mio generale, tutti i valorosi sono al loro posto.» «Il nostro condottiero è di buon umore?» «Ne dubito, mio generale.» «Lo credo bene, la guerra non è il teatro degli umoristi» sentenzia con una smorfia Napoleone. Non c’è risposta, solo un silenzio di attesa. Poi l’ufficiale parla. «Generale, chiedo il permesso di partecipare alla battaglia nelle file della cavalleria imperiale.» Bonaparte lo guarda senza mascherare il suo compiacimento. «Permesso accordato, nobile Borgia, quell’arguto imbrattacarte di Machiavelli sarebbe fiero di lei. Vada, dunque, a raggiungere il più grande, vada a procacciarsi quella gloria alla quale ha sempre ambìto. Questo è un giorno fortunato per noi. E sappia che mi onora averla conosciuta.» «La ringrazio, mio generale.» Senza girarsi, Cesare Borgia monta a cavallo e si allontana al galoppo. «Ottimo guerriero quello, forse troppo caratteriale, 21
ma forte, valoroso e davvero molto astuto. Va a combattere e a morire insieme al più grande di tutti e di sempre. Questo riempirà di onore la storia del mondo e della nostra razza antica.» «Ignoravo che lei avesse un pari grado, mio generale.» «Non poteva essere altrimenti, caro mio ingenuo giovane. La nostra storia è troppo ampia per essere rappresentata da un uomo solo. Poi lui non può temere paragoni, lui è meraviglia e stupore, nient’altro che meraviglia e stupore. Sapere di combattere al suo fianco mi ha quasi accecato di emozione. Io sono lo stratega, perché quello è il mio ruolo e la mia innata vocazione. Ma la vera gloria sarà per il condottiero. Solo per lui. L’uomo che guida gli uomini in battaglia e sparge il suo sangue in mezzo a loro, tra la polvere, il sudore, lo strazio e le grida. E questa mattina tutto può capitare, queste sono le regole che abbiamo ricevuto. Dobbiamo seguirle senza fare domande, comunque non ci saranno risposte.» «Capisco, mio generale.» «Lo spero, mio giovane amico. Ma basta con la conversazione. L’orda è sempre più vicina. Ora dobbiamo dominare il teatro di guerra, prima che non vi sia più terra fra noi e loro, e anche l’ultimo cuore smetta di battere.» Sbrigativo, il generale mi fa segno di seguirlo. Camminiamo verso il promontorio e non è rimasto nessun soldato, sono spariti tutti come fantasmi nella nebbia. Si tratta forse di un crudele inganno? Uno scherzo di questo presente folle e incomprensibile? Rimaniamo sospesi nell’indicibile attesa. 22
Due uomini su uno sperone di roccia, due uomini minuscoli e sperduti aspettano l’approssimarsi di un nemico invincibile. Intorno è solo il deserto della guerra prima della grande battaglia. Ci avviciniamo trepidanti al punto estremo della collina, dove si domina tutta la pianura. Il mio generale gonfia il petto, commosso e orgoglioso. Faccio ancora pochi passi e supero lo sperone. Napoleone mostra il suo esercito. «Osserva, figliolo, osserva la perduta grandezza dell’Occidente.» Le gambe cedono, il pensiero si svuota davanti a quella portentosa visione. Poche centinaia di metri sotto di noi è schierato l’esercito imperiale. Gli uomini coprono chilometri di terra senza lasciare sguarnito nemmeno un metro, non vi è luce fra loro, non vi è nessuna differenza, nessun rango. Braccia contro braccia, schiene a proteggere schiene, sguardi immobili rivolti verso il nemico. All’inizio della pianura le truppe dei fanti sembrano un unico, enorme corpo di acciaio. Acciaio brunito, lucidato, mai scalfito, bardato di fogge e colori sgargianti. Le alte bandiere al vento, i vessilli spianati, i simboli della casta guerriera senza tempo mostrati con forza temeraria. Decine di migliaia, forse centinaia di migliaia di uomini disposti in fitti quadrati di fanteria, aspettano immobili gli ordini. È la potenza ed è l’incanto. Il momento unico e irripetibile. Guardo stupefatto quella massa, m’illudo pensandola invincibile. 23