Sfoglialibro Last Love Parade

Page 1

Marco Mancassola Last Love Parade



Last Love Parade



0 Un’introduzione a questo libro ovvero: ognuno ha di questi argomenti

Ho scelto la storia della musica elettronica e della cultura dance come filo ideale lungo cui disporre alcuni temi del sentire degli ultimi decenni del xx secolo e dell’inizio del xxi, oltre a qualche frammento di intimità. Mi interessava parlare del flusso libero e per molto tempo imprendibile che una certa musica è stata, e di tutte le reazioni che ha provocato. Chimiche, sociali e sentimentali. Diciamo allora che è un saggio contaminato fatto di storie, riletture e spunti inediti, pezzi di autobiografia e biografia altrui, inserti di romanzo, brevi accordi riflessivi, come un set musicale che confonde pezzi originali, remix e distorsioni. Ognuno di questi componenti ha qualcosa di necessario. Come disse una dj berlinese: ogni suono ha la sua giustificazione. Ogni suono fa qualcosa per qualcuno.1 Tracciare una storia più o meno personale di interi decenni attraverso la lente della dance elettronica è ovviamente riduttivo, parziale, pretestuoso. Eppure ho amato questa musica per il suo iperrealismo, e perché descriveva il mondo come lo vedevo: distorto, insonne, denso, ossessivo e romantico. A volte il suo rimbombo mi ha fatto sentire la realtà circostante come l’eco rivela a un pipistrello il mondo intorno. È successo soprattutto negli anni 90, gli anni centrali della mia formazione. 7


Ma non è solo un libro nostalgico. Né un libro fuori tempo su stupidaggini del tipo «gioventù maledetta», a meno che non si voglia banalizzare al punto da pensare che scrivere di musiche, inquietudini e chimiche corrisponda a chissà quale stanca suggestione giovanile e non, piuttosto, al fatto che questi elementi siano parte consolidata della normale, febbrile, drammatica economia del mondo. Parla anche di altro. Di macchine inevitabilmente, e di corpi inevitabilmente, e dei modi temporanei in cui certa gente ha risolto temi eterni come il piacere, la disperazione, il desiderio di spazio e il desiderio di tempo. Parla di culture e subculture che nascono e si intrecciano, come tracce di granchi sulla sabbia, di un’onda musicale che è salita con immenso fragore, e di ciò che resta dopo il suo defluire. Qualche mese dopo aver saputo che Leo era ufficialmente scomparso nel nulla, andai al party di una piccola etichetta in uno studio di Hackney. Era una cosa tranquilla, quasi snob. Il tipo di party per gente che aveva avuto troppi party, e ormai ascoltava elettronica postdance con aria consapevole, e parlava di meditazione buddista bevendo drink alla spirulina, dopo aver compiuto intorno ai trent’anni un tipico passaggio: da drug-addicted a health-addicted. A fine serata misero un classico. Lo riconobbi subito. Si era sentito molto nell’89, sebbene prodotto qualche anno prima: storicamente un pezzo predance, composto agli inizi della house, ed era un modo indovinato, del tutto complementare di chiudere la serata. Il mistero dei grandi pezzi: come poteva qualcuno aver composto un brano così forte quasi vent’anni prima? Si diceva che quando Jamie Principle aveva realizzato la prima versione e iniziato a farla sentire, a Chicago, nessuno credesse che fosse sua. Pochi pezzi hanno compiuto un’unione tanto intensa tra melodia evocativa e tempesta acido-elettronica, a partire dal titolo, «Your love», ­8


e quella strofa iper-romantica: but I need your love, I need your love.2 Quando qualcuno in pista iniziò ad abbracciarsi, sembrò naturale. In quel party così sofisticato, postdance, postrave, posthouse, post-techno, post-qualsiasi-tipo-di-cosa, la nostalgia aveva avvolto la sala. Tutti rimasero a dondolare, come si fosse trattato di un lento, mentre la voce del vocalist toccava nel petto di ognuno, con l’abilità di una sonda profonda, quel punto esatto in cui si concentrano intensità e senso di mancanza. Guardai la dj. Una donna interessante, con l’aria di avere la mia età, i lineamenti induriti dai capelli rasati. Provai ad avvicinarmi. Non mi aspettavo nulla. Volevo soltanto incrociare il suo sguardo, per il gusto di esistere agli occhi di chi aveva messo quel pezzo, e finì che più tardi, dopo il party, restammo a parlare qualche minuto, fuori, accanto alla sua macchina. Parlammo dell’anno in cui andava quel vecchio pezzo, di cose successe negli anni 90, di posti visti e altri sognati. Mi ringraziò di averle portato la cassa dei dischi. Voleva essere a casa prima che si svegliasse suo figlio: mise in moto e partì. E mentre camminavo verso casa. Mentre il giorno sbiancava l’aria, simile al riverbero di un’esplosione lontana. Mentre una parte della mia mente eseguiva complicati calcoli sul numero di minuti che potevo dormire, prima di rimettermi al lavoro… Mi sentivo incompleto. Avrei voluto tornare indietro, e che lei tornasse indietro. L’idea di non aver detto abbastanza bruciava nello stomaco, e quella specie di sistema immunitario che nella mia vita, come in quella di tutti, neutralizza il continuo insorgere dei rimpianti, a quell’ora era fuori uso. Nei miei discorsi era mancato qualcosa. Avevo parlato di certi temi senza parlare di colui al quale li legavo. Mi ero fermato in ogni frase prima di nominarlo, avevo aggirato il suo nome come si aggira un terreno: perché non si vuole 9


entrarci, o non si trova il modo. Quel mattino realizzai che Leo stava diventando un argomento vasto, ingombrante e complesso. Suppongo che ognuno abbia di questi argomenti, per affrontare i quali non esiste modo sufficiente, e ogni mossa è quella sbagliata: parlarne o non parlarne, ricordare o lasciar andare. Ad esempio, un’altra sera di qualche anno prima. Questa volta è la Thailandia, 1998, nel periodo in cui stavamo realizzando, ormai con certezza, di avere destini diversi. Nel ricordo vedo chiaramente: la baracca del piccolo ristorante, i tavoli tra la polvere lungo la strada, la luce dei neon sulle facce sudate. Dalla spiaggia dietro gli alberi viene un battito costante. Ogni cosa pulsa con lo stesso cuore, mi sembra che qualcuno dica, o forse la mia memoria ci sta mettendo troppa poesia? Leo è al banco. Beve qualcosa che somiglia a un tè. Guardo la sua faccia, dal tavolo. Continuo a studiarla, come solo ora riconoscendo in essa una forma antica, essenziale, qualcosa che mi riguarda da sempre e riguarderà sempre. La guardo, e quella della ragazza con cui ha attaccato discorso, il brillare dei loro denti e la curva dei sorrisi, fino a quando mi rendo conto, con un vago sussulto, che parlano di me. Mi alzo. Ho un capogiro, e una corona di sudore mi cinge la testa. Sono lontani, e intorno ho troppe voci, e lo strepito di qualche motorbike sulla strada, e l’ossessivo richiamo ritmato dalla spiaggia. Eppure posso intuire, dal modo in cui le parla, da come si girano entrambi a guardarmi: lo conosco da dieci anni, le sta dicendo. Lui è quello che ha equilibrio. Lui è quello che cade sempre in piedi, le sta dicendo, con un tono di affetto così pieno da sembrare sul punto, improvvisamente, di rovesciarsi in rancore. Altri si alzano. Si muovono tutti, d’un tratto, quasi in risposta a un preciso segnale. Seguo il gruppo verso la spiaggia: ­10


quel tipico misto di australiani, israeliani, europei che si forma spesso in questi posti, uniti dai vincoli superficiali e profondissimi che uniscono, ovunque, i viaggiatori. Cerco di raggiungere Leo e la ragazza, ma sembra uno di quei sogni: più acceleri, meno avanzi. La luna è un occhio impassibile. Un attimo prima che entrino tra gli alberi li vedo girarsi, brevemente, e la loro pelle quasi risplendere. Leo è bellissimo. Non l’ho mai considerato fisicamente, mai stato nulla del genere tra noi, e neppure adesso la sua bellezza è del tutto fisica: somiglia piuttosto a uno stato di intensità, un’opera della luce notturna che sembra sceglierlo, per un istante, colpendolo in modo quasi doloroso. I capelli biondicci, la pelle così chiara. Leo dice spesso che siamo diversi. Non solo fisicamente. Tu sei quello che sopravvive. Tu sei quello che non si fa coinvolgere, dice. Sembri uno dalla morale olimpica, la morale quasi di un androide. Dice che la mia forza orribile è questa: faccio le cose più differenti con la stessa indifferenza. Carezzare un fiore o un fist fucking a qualcuno. Tu sei un bravo ragazzo perverso, dice, senza mai spiegare in cosa consista la mia bravura, e in cosa la perversione, e quale dei due caratteri mi salverà la vita. Sono l’ultimo. La sabbia inghiotte i miei piedi nudi. Oltre gli alberi si intravede la spiaggia brillare nella notte, come un campo radioattivo, e la schiuma fluorescente del bagnasciuga. Si sentono i suoni del party arrivare, a ondate sempre più forti, fluidi tuoni e bassi siderali. Oh, questa musica primordiale, del tutto artificiale. È allora che intravedo Leo per l’ultima volta, svanire nella spiaggia come in una dissolvenza, e immagino quel che adesso sta dicendo alla ragazza: io non so fingere, né essere superiore, né rifugiarmi in mille storie mentali come lui. Il mondo mi morde ogni giorno alla gola… Inciampo in qualcosa di tagliente. Mi ritrovo con le mani nella sabbia, e al piede un inconfondibile bruciore. Mi 11


rialzo, confuso, e non so davvero dire altro: fuck, fuck, fuck. Non so che stare lì, ondeggiante, mentre il resto del gruppo sparisce dalla vista. Eccomi: un occidentale dall’aria sfinita, ridicolmente indignata, lasciato solo su quel lembo di sabbia. Intorno soltanto alberi, e un paio di piccole case sul limitare della spiaggia, e quando mi accorgo delle due figure su una veranda resto incerto, nella luce scarsa. Ci guardiamo in silenzio: io e una coppia del posto, un uomo e una donna anziani, seduti in una pace triste e perfetta. Distolgo lo sguardo. Mi vergogno per ogni cosa: perché sono occidentale. Perché ho venticinque anni, e il mio piede sanguina e sporcherà la loro isola. Perché sto smettendo di volere bene a un amico, e cammino un po’ zoppicante, solo, inoltrandomi nella spiaggia, verso quell’ultima festa.


Parte prima

Stavo notando che le cose non suonavano allo stesso modo quando le ascoltavi pi첫 di una volta. Anche quando qualcosa restava uguale, stava cambiando.

terry riley



1 Un’estate acida dell’89

Dicono che tutto sta cambiando. È l’estate dell’89, e di quel che accade nel mondo quell’anno ti arrivano echi confusi. Presto sentirai dire che un muro è caduto, e il mondo adesso è un’unica stanza, ma a te non sembra così diverso. Continui a non guardare la tivù, a girare senza occhiali, a guardare ogni cosa come schiacciandoci il naso: senza sentire il bisogno di chiederti da dove venga, che fine farà. Chi se ne frega. Hai sedici anni. A quell’età succede di amare ancora le cose, più che i legami che le connettono. Di notte, nella tua stanza, ascolti stazioni radio dance. Quell’anno va un pezzo che si chiama «French kiss»:3 un ipnotico loop elettronico a cui si sovrappongono, d’un tratto, i gemiti di una ragazza che viene. Forse, ascoltando quel pezzo, a volte hai sentito un impulso. Forse a volte l’hai seguito. Eppure avverti, in qualche modo, che quel pezzo non ha davvero a che fare col sesso. Farsi una sega è del tutto banale. Anni dopo, un po’ più consapevole, o solo più presuntuoso, ti capiterà di dire qualcosa del tipo: quel pezzo era una grande metafora. Una specie di orgasmo generazionale, un inno a una nuova conoscenza del corpo. In mezzo mondo la gente sta scoprendo l’ecstasy, e tu ancora non lo sai. Puoi soltanto stare sul letto, ad ascoltare beat sintetici e gemiti 15


umani, il corpo teso come aspettando un piacere promesso, ma ancora misterioso. Poi è quasi l’alba. Quando togli le cuffie senti il silenzio del mondo. Fuori niente vento, né un minimo eco, solo il tuo respiro nella stanza, e le orecchie che fischiano di nostalgia. Tutto l’inverno, di domenica pomeriggio, hai seguito degli amici in un locale dove mettevano acid house. Per la prima volta hai potuto dire: questa è la mia musica. Questi i miei amici, questa la mia scena. Per arrivare dalla stazione si camminava mezzo chilometro, lungo una strada statale, in quel tipico paesaggio: piccole fabbriche, pizzerie, banche, depositi industriali, ipermercati dai parcheggi immensi, i primi sexy shop, impianti sportivi, saloni di automobili, tabelloni pubblicitari, sperduti tabernacoli con statue della Madonna (la faccia annerita dai gas di scarico), piccole lapidi nei punti di qualche incidente mortale, stralci improvvisi di campi coltivati, e in lontananza colline cariche di villette. Il panorama della tua regione. Questo è il mio paesaggio… Leo non era tra i tuoi amici. Era uno che percorreva la stessa strada, con altra gente vagamente conosciuta, e come te non mancava mai: settimana dopo settimana, una domenica dopo l’altra. Tra voi non passava che qualche sorriso, e chiacchiere occasionali, e cauta simpatia, e una volta una canna prima di entrare. La domenica successiva, mentre camminavi, una macchina accostò. Dal finestrino uscivano bassi pompati, e il tuo stomaco vibrò come vetro, mentre la voce di Leo chiedeva, con noncuranza, se volevi un passaggio. Non ci pensasti. Accadde, semplicemente: i pochi passi verso la macchina, la tua mano sulla maniglia della portiera. In macchina, con lui e altri, c’era un solo posto. Fu così che lasciasti i vecchi amici, su quella strada, pensando di ritrovarli più tardi al locale. In un certo senso non li hai più ritrovati, e ancora non sapevi, nella tua vita, quanti altri passaggi sa­16


rebbero avvenuti così, con un tradimento piccolo o grande, e quanto infine ti sarebbe sembrato naturale: all’inizio di ogni storia, c’è sempre un tradimento. La macchina partì. Qualcuno alzò il volume… Nel locale ci sono due sale. Tu e Leo siete fedeli alla più piccola. Sala piccola ovvero musica più innovativa, gente più cool, atmosfera avvolgente. Il party migliore, lo avete già imparato, è quello più intimo. Così eccovi, ogni domenica, a salutare gli altri fedeli con baci rituali sulle guance (oh, quello è il saluto della gente che appartiene alla scena, e riconoscerla non è solo un fatto di vestiti o di modi di ballare ma qualcosa di ulteriore, quasi una specie di vibrazione). Così eccovi, con le vostre birre in mano, i sorrisi bianchi nella luce ultravioletta. Quando le bottiglie si svuotano, è l’ora di ballare. Non si è mai sentita una musica del genere. Un flusso di beat senza sosta, senza voci, solo note liquide e acide, sequenze con distorsioni ogni volta diverse, quasi le curve di un’infinita emissione elettromagnetica, o la stupefacente complessità di un frattale. Si chiama acid house, o semplicemente acid, e sarebbe impossibile chiamarla altrimenti. Si balla soprattutto con le braccia, tracciando ossessive figure con le mani. Senti i suoni del sintetizzatore. Li senti saettare, simili a scariche laser, e parlare a una parte finora sconosciuta di te, in modo intimo e violento, come nessuna voce umana ha mai fatto. Senti di credere a quella voce sintetica… Quando smette è un brusco risveglio. Non resta che supplicare il dj, perché metta un ultimo pezzo mentre la gente defluisce, o perché vi regali una registrazione del set. Poi tornare a casa, sudati, stravolti, senza nemmeno fame, e un senso di rimpianto nelle gambe, nelle braccia, come la propria carne fosse stata sul punto di trasformarsi in altro, ma non ci fosse riuscita. Detesti la domenica sera. Nella sera-senza-più-festa senti lo 17


squallore del tempo, e una settimana prendere il posto dell’altra, triste, come un autista che dà il cambio all’altro sull’autobus. Nelle foto di quel periodo porti dei jeans con bande di stoffa laterali (colori ovviamente acidi: giallo evidenziatore, verde squillante) e una maglietta con una faccina gialla sorridente (il tipico smile-logo dell’acid). Sempre vestito così, pochi soldi per comprare dell’altro. Anche Leo veste in modo simile. Avete capelli lunghi a caschetto, portate orecchini tondi ai lobi. A pensarci adesso, due veri sfigati. Ma ai tempi sembrate cool. Mentre molti usano ancora la tenuta anni 80 (pantaloni a sigaretta, giacche con spalline imbottite, cravattine del cazzo), la vostra almeno è una tenuta originale. Un look da autentici pirati. Leo, qualche volta, mette una benda nera su un occhio. Quel look viene da un’isola del Mediterraneo da cui tutto, al tempo, sembra venire: vestiti, musica, droghe. Un’isolafonte dei desideri. Ma raggiungerla sarebbe per voi proibitivo, e l’obiettivo della vostra estate diventa allora il posto che più di tutti, in Italia, le somiglia. A circa cento chilometri da casa vostra, in un lembo di costa dell’alto Adriatico, è cresciuta una piccola colonia di Ibiza. Proprio come un’invasione di antichi pirati, la rivoluzione acid parte dalle Baleari, col suo seguito di faccine sorridenti ed ecstasy, e attecchisce sulle altre coste. Jesolo è uno di quei posti dove da bambini si andava in colonia estiva, pieno di condomini per famiglie venete e tedesche, un turismo placido e massiccio come una colata di gelato. Solo di recente è diventato un luogo davvero interessante: sul finire degli anni 80 i club di Jesolo non hanno rivali, meglio persino di Riccione (che soltanto dopo un paio d’anni conquisterà il primato adriatico del clubbing). La roccaforte ibizenca di Jesolo è un posto dal nome pro­18


grammatico. Il Movida è un locale non molto grande, poco lontano dalla spiaggia, immerso nella calma di una pineta che, di notte in notte, si trasforma in un fitto manto di leggende. Su quel che accade laggiù si raccontano mille storie. Oh, il tipo di posto in cui a sedici anni bisogna andare, anzitutto, per poter dire di averlo fatto. (Leo in realtà ne ha diciassette, un vantaggio che ti farà sempre sentire in corsa, come lanciato in un inutile inseguimento.) L’avventura è difficile. Tu hai un lavoro estivo in una fabbrica, stai cercando di guadagnare per la futura università (in realtà non ci andrai, ma per ora ci credi). Al sabato ci sarebbero gli straordinari da fare. Sono facoltativi, ma chi non li accetta subirà un sacco di grane dai capiturno. Per questo ti serve una scusa complicata. Il venerdì, quando il capoturno ti viene a cercare, racconti che la tua famiglia ha avviato una gelateria in una località di mare, a Jesolo, e durante il weekend ha bisogno di te. Mescolare alla palla un po’ di verità è una vecchia tecnica, come la punta di un colore che si mescola a un altro, ma ora sudi sotto i suoi occhi, e qualunque colore abbia la verità, non può essere quello della tua faccia paonazza. Vorresti confessare: hai bisogno del lavoro in fabbrica, hai bisogno della tua avventura. Che c’è di male ad avere bisogni contrastanti? Per Leo è ancora più difficile. Lavora in un bar della città, e nei weekend ha i turni maggiori. Il venerdì sera componi il numero di casa sua: un numero di quelli di un tempo, così facile da sembrare ingenuo, niente più di sei cifre che potresti, tuttora, comporre a memoria. Leo risponde col tono distante, un po’ sospettoso di sempre, quasi la telefonata lo avesse richiamato da un mondo remoto (sai per certo che a quest’ora sta leggendo qualche fumetto, o perdendo tempo in attesa della cena). Impossibile capire il suo umore, e allora provi a chiacchierare a caso, quasi non ci fosse niente da chiedere, finché la sua voce finalmente si scioglie: mi sono libe19


rato, dice. Ha raccontato che un parente è morto (quale parente abbia sacrificato, non vorrà mai dirtelo). Resti senza parole. Non per quello che Leo racconta, ma perché in un lampo qualcosa si è compiuto, un’improvvisa trasformazione, una sorta di processo digestivo, una stupefacente reazione nella chimica della realtà: ciò che prima era solo possibile, un piatto ambiguo sulla tavola dei sogni, ora è davvero, pienamente reale. È fatta, domani partite.


2 Nessuna storia ha un inizio ovvero: Düsseldorf, primi anni 70

Tutto cominciò a Ibiza. O forse a Londra. La vera estate della svolta era stata un anno prima, e aveva avuto quei due epicentri. Era il 1988, e le cronache la chiamano «Second Summer of Love». Oppure tutto inizia anni prima, nei locali di Chicago, o in quelli di Detroit, o prima ancora a New York, le tre città dove la dance elettronica prende forma. Forse bisogna restare in Europa. Magari a Düsseldorf, dove nasce una band seminale. Oppure scavare tra i software musicali, nella loro storia stratificata come rocce di ere diverse, scovare i fossili dei primi sampler e delle prime drum machine. O risalire a inizio anni 50, al primo laboratorio di musica elettronica a Colonia, a strumenti pionieristici come l’Electronium di Raymond Scott, o il Theremin Vox, o la valvola di generazioneamplificazione di De Forest a inizio secolo. Soffermarsi su ogni sperimentatore, musicista, progettista, compositore del Novecento che abbia lavorato all’idea di una musica non strumentale, non manuale, senza materia, una musica oltre la forza delle mani e la carne delle dita, oltre il soffio delle labbra, una musica insomma, in qualche modo, sovrumana. La storia della musica elettronica ha un inizio ambiguo, insondabile, simile al punto in cui comincia a formarsi un’onda. Forse l’elettronica non è mai propriamente nata. Af21


fonda nel terreno del tempo come una vena minerale. Anche a limitarsi ai suoi esiti dance, quelli che più hanno influenzato la cultura di massa, dovremmo cercare quel punto impreciso in cui si incrociano tecnologia, musica, cultura del ballo e cultura giovanile. Individuarlo con esattezza è impossibile, si può al massimo intuire un periodo: dopo i primi movimenti studenteschi, ai primordi dell’era informatica. Di storie che abbiano un inizio definitivo, in realtà ne conosco poche. Quelle delle persone sembrano averlo, ma potrebbe essere solo una convenzione. La mia comincia alla fine del ’73. Leo è nato all’incirca un anno prima. Erano gli anni dei primi esperimenti genetici, della nascita del videogame, del colpo di stato in Cile e della crisi petrolifera. Quand’ero piccolo, mia madre racconta, di domenica era vietato circolare in macchina. La civiltà industriale stava scricchiolando. Erano anche gli anni, sì, dei primi movimenti giovanili e l’avvento dell’era informatica. E la musica? La musica è la spia del mondo. La musica è la schiuma di una società: il prodotto più leggero, e al tempo stesso rivelatore. E nella musica di quegli anni, tra le altre, successero un paio di cose. Ralf Hütter e Florian Schneider Esleben sono due studenti del conservatorio di Düsseldorf. È il 1968 e la Germania dell’Ovest, sotto il peso ancora sensibile del dopoguerra e la pressione della guerra fredda, cerca la propria voce artistica. L’intero mondo occidentale preme, alle sue spalle, contro quello dell’Est. Dai polmoni compressi del paese, esce un canto sorprendente… Anziché seguire la strada del rock anglosassone, del blues, delle chitarre e dei falsetti, i nuovi gruppi musicali tedeschi prendono quella della sperimentazione, delle sonorità meccaniche e dell’elettronica. Nascono band d’avanguardia che eserciteranno, negli anni a venire, un’influenza sulla musica di tutto il mondo: a Berlino i Tangerine Dream, a Colonia i Can, capostipiti di una corrente di ­22


rock sperimentale detta «Kraut-Rock» che comprende gruppi altrettanto storici come Neu! e Faust. In questo clima si inseriscono Hütter e Schneider. Entrambi poco più che ventenni, fanatici di effetti sonori: amano amplificazioni, effetti eco, mixare i suoni su nastro, progettare nuove «macchine del ritmo» per la produzione di bassi artificiali. Ascoltano i lavori della Musique Concrète e dei compositori d’avanguardia. Si dice sia seguendo un concerto di Stockhausen che i due decidono di formare un gruppo. Si chiama Organisation. Non hanno rapporti con il mondo musicale, piuttosto con quello artistico e il circuito delle gallerie. Forse sono performer prima che musicisti. Dopo un album di scarso successo, nel 1970 decidono di passare a un altro progetto. Riuniscono un paio di nuovi collaboratori. La composizione del nuovo gruppo varierà negli anni, il nome resterà immutato: Kraftwerk. Le turbine della «Centrale Elettrica» iniziano a girare… Il primo album è del ’71. Pare che il produttore credesse tanto alla forza del disco da lavorare gratis all’uscita. «Kraftwerk 1» pone le basi di un progetto sonoro: una musica minimalista di stampo elettronico, realizzata con l’uso di sintetizzatori e drum machine, fatta di giri ipnotici, echi industriali, filtri vocali, suoni di organo manipolati, e su tutto un alone di rigore marziale, o meglio robotico. L’anno seguente, «Kraftwerk 2» completa lo shock: un album che rinuncia alle percussioni «naturali» e si affida unicamente alla batteria elettronica. È una svolta: se la musica può rinunciare agli strumenti «live», ecco aprirsi l’estetica contraria. Ecco aprirsi, nel vasto e intatto campo del pop, lo squarcio del «morto», dell’inanimato, dell’artificiale. L’elettronica come natura morta musicale. Quando i primi due album dei Kraftwerk vengono riediti insieme da un’etichetta inglese, la copertina raffigura l’onda oscillante di un segnale elettronico. L’essenza del suono è demistificata, amata nel 23


suo lato più tecnico e freddo. È un’autopsia, ma spalanca abissi di nuove sensazioni. Quanto allo strumento preferito dei Kraftwerk, i primi modelli di sintetizzatore sono stati messi sul mercato da Robert Moog a metà anni 60, e via via perfezionati attraverso la collaborazione tra lo stesso Moog e una serie di compositori. Nel ’70 compare il più famoso dei modelli analogici. Il Minimoog costa 1495 dollari, venderà 12 000 esemplari e diverrà un oggetto leggendario. Quando nel 1981 la produzione cessa (incalzano altri marchi, e i modelli digitali), la sua storia appare parallela e intrecciata alla parabola dei Kraftwerk. Attraverso di loro, il synth ha fatto irruzione nell’immaginario musicale. Oscillatori, modulazioni e altri aspetti tecnici rimangono oscuri alla maggior parte del pubblico, ma il potere evocativo di quella tastiera, da cui scaturiscono suoni arcani… Come scienziati, come enigmatici stregoni, i Kraftwerk materializzano una nuova dimensione del suono. Dal loro studio di Düsseldorf, mitico antro tecnologico, pieno di apparecchiature d’avanguardia e sistemi da loro stessi progettati, fondano una nuova estetica musicale. Ma di se stessi danno una definizione in apparenza modesta: «MusikArbeiter». Come operai di un’immensa industria sonora… Ralf Hütter raccontò una volta di essere rimasto colpito dalla parola russa per «lavoratore»: robotnik. E raccontò che dopo un tour sfiancante, decine di fittissime date, i membri del gruppo si sentivano come automi. La fascinazione per la figura del robot, centrale nell’immaginario del gruppo, non nasce da suggestioni fantascientifiche ma dalla percezione di un’intima, banale, attualissima condizione. Quando iniziano a salire sul palco vestiti e truccati da robot (un’immagine che segna il loro successo e che si deve alla collaborazione di Emil Schult, un reduce dei movimenti studenteschi del ’68), i Kraftwerk non fanno che interpretare, con rigorosa sempli­24


cità, uno status contemporaneo fatto di perfezionismo, feticismo tecnologico e iperlavoro. Resi indistinguibili dal trucco, dai capelli a zero e dalle divise, i quattro emettono voci metalliche e impersonali. Le mosse sono rigide. C’è qualcosa di cadaverico. Nei miei ricordi di bambino, quando mi accadrà di osservarli in tivù, sono impressionato ma non del tutto impaurito: quella particolare inquietudine ispirata dalle cose a prima vista aliene, ma che in realtà ci riguardano. Mentre alle loro spalle scorrono composizioni grafiche (immagini mixate come fossero suoni: siamo agli esordi del vjing), i quattro restano alle proprie tastiere. Le postazioni sono semplici: la tecnologia non ha bisogno di vistosità. Non è spettacolare né futuribile (anche se a rivedere ora quelle immagini, potrebbero sembrare fantascienza vintage). La musica nasce da questa normalità, da questo equilibrio paradossalmente raggiunto: umani che non sembrano umani. Con l’arrivo di Wolfgang Flür alla batteria elettronica (seguito poco dopo da Karl Bartos) si completa la formazione storica. Finora il gruppo ha goduto soprattutto dell’attenzione di altri musicisti, non ancora del grande pubblico. È tempo di porre la prima pietra miliare. «Autobahn» esce nel 1974, distribuito anche in America. Ancora una volta, in tempi di band con capelli lunghi, jeans a zampa d’elefante e chitarre, lo shock è forte. Ma non è un disco violento. È quasi intimista. Da un lato pezzi che virano a una visione raggelante del mondo tecnologico, dall’altro liriche che cantano la dimensione comune, domestica della tecnologia. Il brano portante è un pezzo di ventidue minuti che racconta la monotonia di un lungo viaggio in macchina. Sono questa poetica, e il successo del disco, a consacrare i Kraftwerk come autentica formazione pop, o techno-pop, o meglio ancora: robot-pop. La loro è l’intuizione di una tecnologia intima, che striscia nel quotidiano col silenzio di un rettile, abbraccia i 25


corpi fino ad attraversarli, manda un riflesso metallico su volti e sentimenti. «I’m the Antenna, catching vibration…»4 Se al fondo di questa poetica ci sia inquietudine o celebrazione, desiderio di critica o di consumo, sovversione o resa, difficile dire. Questa la domanda a lungo irrisolta, l’ambiguità che sarà di un intero genere musicale: immaginario pop o elettronica militante?


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.