Parole nuove per la politica

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A cura di don Virginio Colmegna e Maria Grazia Guida

Parole nuove per la politica Etica, democrazia, giustizia. Speranza, fraternitĂ , legalitĂ .


Si ringrazia la Fondazione Sasso di Maremma, promossa da don Virginio Colmegna e don Enzo Capitani, per aver messo a disposizione gli spazi in occasione di questo simposio di studio. La Fondazione è nata nel 2006 dall’esperienza di diverse persone che hanno promosso, insieme ai due sacerdoti, occasioni di ospitalità, condivisione, momenti di silenzio, di impegno formativo, culturale e di impresa sociale. Sede della Fondazione è il comune di Cinigiano in località Le Pille (gr). Per maggiori informazioni: www.sassodimaremma.it www.saggiatore.it © il Saggiatore s.p.a., Milano 2010


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Sommario

1. Una premessa stravagante Riflessioni di don Virginio Colmegna

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2. Le sfide della politica in una società globale di Romano Prodi

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3. La fraternità di Massimo Toschi

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4. Politica e dintorni: pensieri sparsi di Maria Grazia Guida

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5. Come cambia il rapporto tra etica e politica di Giovanni Bianchi

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6.

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La donna portatrice di parole nuove per la politica: sororità, reponsabilità, solidarietà – Parole di donne: natalità, vulnerabilità, margine di Gemma Di Marino e Claudia Poggi

7. Comunicare per condividere di Alberto Ferrari

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8.

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Fraternità, riconciliazione, gratuità, generatività, Costituzione: c’è rapporto fra queste parole e il lessico professionale? di Angelo Lippi


9. Brevissime note di Gloria Pescarolo

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10. Epilogo in ricerca di Massimo Toschi

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11. Parole antiche e nuove a cura di Grazia Villa

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Note Gli autori

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1. Una premessa stravagante

Riflessioni di don Virginio Colmegna

Ho deciso di avviare una riflessione partendo dal mio credere inquieto, interrogato dalla Parola, custodito nel silenzio dell’ascolto, quasi anonimo, sofferente verso ritualismi e appartenenze di apparenza segnate dalla convenienza, ma consapevole di un cammino di comunità. Il mio credere quotidiano e inquieto, ma anche appassionato di dialogo, di fraternità è sempre pieno di stupore. Ecco perché ho ripensato ad alcuni simboli. Fin dall’età primitiva aleggia sulla storia umana un interrogativo, leggero (come l’alito di vento che è in questa terra maremmana) e anche violento come una tempesta. A mano a mano che la coscienza umana si amplia, tanto più chiaramente la morte, il limite si fanno problema. Alcuni tentano di allontanarli, rimuoverli, possederli anche se tutto ciò restituisce angoscia o attivismo con vuoti di senso. Ma quanto più maturiamo nella scoperta della nostra soggettività, tanto più ci sentiamo smarriti nella vastità dell’universo e si abbozzano, quasi balbettando, domande alle quali il mondo, l’agire umano non danno risposte esaustive. L’agire politico, l’agire umano non esauriscono questa pretesa di risposta, hanno di fronte il proprio limite. Ecco perché l’umanità, fin dai suoi primordi, fa appello ai sensi, ai sentimenti, ai legami, alla memoria perché portino testimonianza contro l’apparente onnipotenza della morte e l’illusione di essere senza limiti. Ecco il simbolismo della vita che in millenni di storia umana fa breccia nella nostra esistenza, apre varchi di futuro, ci fa guardare all’esistenza degli uomini come vissuta sulla terra di cui non si è padroni, ma parla


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anche, invoca una «capacità» che chiamo «poetica». Ecco il miracolo del sole che ogni sera sembra morire rosseggiante in tramonti infuocati, facendo avvertire la sensazione della fine. Ma sempre la luce ritorna nel mondo ogni mattino, dando il coraggio di credere che la notte della vita cederà alla luce di un nuovo giorno. Mantengo in me l’immagine evangelica delle donne che al mattino di Pasqua si dirigono al sepolcro di Gesù. Sorge veramente il sole. E anche l’agire umano, politico sta nel limite, che sembra raccontare dolore e tristezza, ha uno squarcio di futuro, di luce che proprio perché «di buon mattino» ci consegna un tempo di speranza e coraggiosa attesa. Si pensi anche al fascino della luna, che entra nel sacro ciclo del tempo, ringiovanisce e diventa più bella. Il paragone della vita pulsante delle donne con i ritmi dell’apparire e scomparire della luna nel cielo si è affermato molto presto nella storia dell’umanità. La luna stessa fu considerata una divinità femminile. Ancora oggi è la domenica dopo la luna piena di primavera quella in cui si festeggia la Pasqua, un mistero che fin dai tempi più remoti è inscritto, letteralmente, nel corpo della donna. Così come la primavera che è un rinascere della vita dopo il freddo dell’inverno. Tutto ciò che è legato alla nascita fu considerato come segreto appartenente alle donne: la terra stessa era come una Grande Madre e tutti i fiori erano le sue creature. Tutte le piante che danno nutrimento all’umanità erano considerate, nei miti dei popoli, come divinità femminili. Insomma, l’agire umano, l’agire politico che ci riportano all’origine della vita, delle relazioni, del suo morire e rinascere rivelano l’esistenza di un segreto con il quale le donne sono più in confidenza degli uomini. Se la politica non imbocca questa priorità non appassiona, perché esce dalle passioni umane, si fa mestiere soltanto; questo calore della politica, però, questo sapore dell’amore è fuoco, l’invenzione di gran lunga più importante dell’umanità. In tutta l’antichità il fuoco è affidato alla custodia delle donne. Ogni notte di Pasqua nelle chieste cristiane vi è il simbolismo del cero pasquale che riporta a una delle esperienze più antiche dell’umanità, nell’epoca glaciale. Due pezzetti di legno strofinati, legno seccato da cui è sfuggita ogni forma di vita, vengono raggiunti da un soffio che riattiva luce e calore. Battendo tra loro pietre fredde e dure è possibile veder uscire scintille di luce. Erano le donne che dovevano custodire e conservare la fiamma del focolare.


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Un agire politico che accende ascoltando i cuori deve essere conservato e custodito; senza luoghi «utopici», caldi e capaci di attrarre, di vederci seduti a ricevere calore non si attinge futuro. Questo vale anche per il mistero dell’acqua, che è il simbolo più forte della liturgia pasquale. Tutta la vita sulla terra deriva dall’acqua e ovunque sulla terra l’acqua può destare le forze della vita che sono assopite nel terreno. L’acqua è un bene non commerciabile e soggetto a proprietà umane, non è un bene mercantile. L’agire politico deve rispettare questa gratuità dell’acqua, per eccellenza simbolo di nascita e rigenerazione e per questo simbolo squisitamente femminile. Ecco, tutte queste immagini della religione, ma anche del vivere umano che lascia spazio alla poesia dello sguardo, sono dei ponti che si slanciano verso l’infinito, il futuro. Eugen Drewermann conclude così la sua presentazione (da cui ho raccolto molte suggestioni): È impressionante vedere come in millenni di storia della civiltà umana prenda forma, come in un inno che va lentamente maturando, questa certezza che la vita è indistruttibile. Sorge una solida fiducia del tutto materna che vuole farci vedere ciò che sta sullo sfondo del cosmo come benevolo e benigno, come un potere che vuole che noi viviamo; ed è unicamente questa la speranza che ci rende possibile vivere da esseri umani.1

1. Politica e mistica Sì, è proprio un’introduzione apparentemente fuori luogo, ma è un pensiero che mi ha sollecitato a ripensare alla politica che chiede un legame con la contemplazione, con la mistica, la quale trattiene e spiega l’agire etico e gratuito. Non svuotiamo questo legame: qualsiasi educazione alla politica non può prescindere da questa intensità emotiva, da questa dimensione contemplativa. Il richiamo a Dossetti qui si impone. Per noi che assistiamo a un fenomeno pseudoculturale, dove la speranza dell’immortalità di matrice religiosa cerca di essere rimpiazzata da quella di una longevità senza fine, come utopia scomposta e agitata che vuole diventa-


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re utopia concreta e verificabile di prolungamento della vita, ritorna il bisogno, l’urgenza del limite come realtà e risorsa.

2.  Politica e limite La politica sta nel limite e qui esprime la sua necessità e il suo fascino, la sua urgenza. Riposa anche nella dignità di ogni vita, nel riconoscimento del valore di ogni individuo come nell’autonomia politica del soggetto di ogni persona. È tutto il pensiero di Mounier che ritorna attuale. Ecco perché vi è un legame fondante tra fede e impegno politico. Come ha scritto Hannah Arendt, «questa immortalità cristiana conferisce alla persona, che nella sua unicità comincia la sua vita nascendo sulla terra, non solo come risultato l’intensificazione evidente della preoccupazione per l’altro mondo, ma ha enormemente accresciuto l’importanza della vita sulla terra». Ecco perché le vittime della violenza sono l’indicatore di priorità vere. Ma allora vi è anche un legame profondissimo tra politica e cultura, meglio, culture. La politica, come capacità di far crescere convivenza fraterna, deve restituire un futuro plurale, dove le identità si arricchiscono, si meticciano, si innovano. Senza la passione per un’innovazione, per ritrovarsi impastati di novità, si vive la noia dell’indifferenza che viene posseduta da uno sviluppo quotidiano rassegnato, senza sussulti. Robert Lowie, antropologo americano degli anni quaranta, a conclusione del suo libro più bello scrisse che le culture sono un insieme di «toppe e stracci». All’epoca fece scalpore perché si aveva una visione della cultura molto organizzata; in realtà era un’immagine efficace. Le culture sono insieme sempre coerenti, ma ogni cultura prende da altri, incastra, fonde per dar vita e forme sempre nuove.2 Così concludeva la sua intervista Marco Aime: «ogni cultura è un cantiere sempre aperto». E questo sguardo complesso e innovativo non irrigidisce il rapporto tra ideologie rigide (oggi retoriche utilitaristiche), ma fa lievitare le ispirazioni di fondo che sono opzioni e scelte di vivere nel confronto con altre visioni, cerca punti comuni, accetta di avere la pazienza del cambiare, di fare tratti comuni dove le diversità convivono a volte con sofferenza, lasciando alle spalle sicurezze urlate e accettando il coraggio, bello, dello «stare con». È la categoria


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del coraggio l’antidoto alla paura, virtù che, se appresa e vissuta intelligentemente, può rigenerare la democrazia.

3.  Politica e paura Certamente vivendo anche la paura come la «linfa stessa della libertà e del desiderio di riscatto». Hannah Arendt denunciava il terrore come fattore che annichilisce le persone, ma salvava il «liberismo delle paure» come lo chiama Judith Shklar, docente di teoria politica di Harvard che ha pubblicato un libro con questo titolo (1989) ispirandosi al pensiero di Montesquieu. Il «non abbiate paura» di ispirazione evangelica qui diventa principio politico che libera dalla paura. E allora prende corpo la domanda di quale senso e futuro affidare alla politica. Peter Berger afferma: «Abbiamo bisogno di un nuovo metodo per affrontare i problemi di etica politica e di trasformazione sociale. Per esso occorrerà associare due cose di solito separate: analisi realistica e immaginazione utopica».3

4.  Politica e democrazia Fondare il bisogno della politica, il valore umano della prassi politica, creare i criteri per conferirle il giusto respiro. Quando si inaridiscono le fonti culturali e motivazionali, si assiste a una colonizzazione di interessi particolari che sono portatori di logiche estranee alla sua funzione umana e storica. E ciò è particolarmente evidente in Italia, dove le tradizioni che avevano contribuito alla nascita della carta costituzionale hanno conosciuto una sorta di implosione che le ha rese sterili. È la grande degenerazione culturale a cui stiamo assistendo. La rottura della cultura politica che ha prodotto la carta costituzionale è la grande ambiguità che stiamo vivendo. L’isterilimento culturale e politico delle tradizioni che si erano incontrate per la ricostruzione democratica dell’Italia non è l’unico fenomeno rilevante nella percezione collettiva del valore della politica. Anzi è proprio la degenerazione della politica, come traduzione dei sentimenti collettivi costruiti dai mass-media, che svuota il dibattito e la


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passione di innovare, cambiando anche stili di vita e rendendo quasi superfluo il legame tra vita politica ed etica personale. In questo periodo sono sorti, per poi declinare e attestarsi su una capacità di presenza ridotta, diversi movimenti portatori di istanze di ripensamento complessivo della società: da quello femminista, pacifista a quello no-global, dall’arcipelago di associazioni a quello di rappresentanza degli interessi sociali e del lavoro (soggetti sindacali in primis). Ma tutta questa presenza non raggiunge le istituzioni e non ha la forza di ridefinire l’agenda politica. Si assiste al contrario a una comunione forte tra sentimenti identitari assunti tout court. L’alternativa non è una diversa progettualità ma è uno stabilizzarsi nel presente difensivo, basato sulla costruzione del nemico e del capro espiatorio consegnando a questo schema tutta la carica emotiva e di difesa individuale.

5.  Politica e difesa identitaria La politica si consegna a questa soggettività che è permeata di difesa di interessi e si allontana da quella visione di aprire futuro e di consegnarsi alla gratutità di valore della politica come impegno per gli altri. È a servizio di interessi spesso privati e non cerca di mediare il valore della politica comune utopia del possibile. Vi è, a me pare almeno, una via per rigenerare il gusto della politica. È urgente riconoscerlo, condividendo quella fiducia che libera le energie dell’intelligenza, del prendere la parola.

6.  Politica e speranza Si tratta di sviluppare un’analisi critica della globalizzazione come contesto e processo determinante per l’evoluzione della società contemporanea. Vederne tutti i riposizionamenti, anche culturali, ideali, che questa realtà produce nei comportamenti, nell’economia, nella crescita demografica, nello sviluppo delle città contemporanee, nel dramma della povertà crescente. La globalizzazione ripropone la potenzialità della comunicazione ma insieme la visione più esplosiva delle disuguaglianze e della povertà. Vi è una sfida su come la lotta alla povertà viene gestita,


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se come cambiamento dal basso o sacrificata e utilizzata in modo strumentale dai fondamentalismi, che alimentano spesso culture conflittuali che degenerano anche in violenza, o dagli assistenzialismi benevoli, che impoveriscono la consapevolezza dei diritti di cittadinanza e della dignità ugualitaria di ogni persona. Fu la grande sfida che la Populorum progressio lanciò dopo la grande intuizione della Pacem in terris di papa Giovanni xxiii. Pace e giustizia sociale devono essere riconquistati nell’agenda politica della non violenza, del rifiuto della guerra come strumento necessario. Sono tematiche che debbono entrare in una visione della necessità della politica che si abbevera a domande di senso. È utile alimentare la riflessione sul senso e sullo statuto antropologico ed etico della società, sul valore umano della prassi politica. Una simile riflessione deve inoltrarsi nell’analisi dei fenomeni più influenti del presente, cercando un quadro interpretativo preciso e aperto del cammino storico dell’umanità nell’epoca attuale.

7.  Politica e competenze Non si agisce politicamente senza competenze, senza educarsi alla complessità: vi è un bisogno di studio e di ricerca che si attesta anche e soprattutto a queste aree di riflessione. La classe dirigente non si improvvisa come si sta facendo. È un processo formativo nuovo, di formazione di classe dirigente, che non può rifugiarsi solo nelle competenze operative che il sociale, anche impegnato, le affida. La grande spinta partecipativa dell’agire sociale ora deve entrare in una visione di urgenza, deve caratterizzarsi come pensiero politico. Il passo successivo sarà quello della ricostruzione di una possibilità di ritrovare nell’etica una fonte di riferimento e orientamento normativo e propulsivo per la prassi politica.

8.  Politica e stili di vita E qui va superato quel falso giudizio di moralismo che aveva caratterizzato qualsiasi approccio che coniugava impegno politico e stile di vita personale. Questa dissociazione o irrilevanza apparente della condotta


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personale rispetto al bene collettivo cui si prestava impegno ha creato una degenerazione che è sotto gli occhi di tutti. È urgente riprendere il tema del rapporto tra vocazione al servizio comune e politica, tra gratuità coerente e impegno, liberandoci dalla paura del moralismo. E per questo la qualità del vivere, del proporsi di promuovere ricchezza sociale giusta e felicità deve far intravedere il valore di una politica portata avanti con sobrietà di vita, con trasparenza etica. L’aver intravisto un’arrendevolezza meschina su questo legame, addirittura teorizzando la possibilità di separare impegno pubblico anche dichiarato sui valori e coerenza personale, ha minato alla base la capacità propulsiva e di promozione degli stili di vita e dell’etica che è prima di tutto un impegno personale e di coscienza, non una convenzione esterna. Questo nesso profondo riporta al centro la questione della giustizia sociale, della solidarietà come esigenza per una cultura politica alimentata da ideali di fraternità. E questo riferirsi al noi e non all’io, che non è una retorica, ma un principio originante il senso e il perché dell’agire e del gusto della politica.

9.  Politica e migrazione È anche qui che si deve riproporre una fondazione teoretica e di riconoscibilità sociale di un’etica politica interculturale. E il tema migratorio, il rapporto tra migrazione e politica va affrontato senza reticenze, e per questo allego alcune considerazione più dettagliate. La complessità del fenomeno migratorio, infatti, chiede alla politica di ripensarsi e di ritrovare le ragioni profonde della sua necessità, della sua riforma e anche dell’indispensabile legame tra politica e cultura, tra etica e politica, tra prassi e visioni più ampie. Siamo dentro la più grande trasformazione che la storia umana abbia vissuto. In ogni epoca i cambiamenti sono stati sempre incrociati con l’incontro-scontro fra culture e la stabilizzazione è arrivata facendo spesso crescere un nuovo meticciato, un’osmosi di culture che non hanno portato mai a negazioni d’identità, ma le hanno trasformate, hanno lasciato tracce di nuove prospettive, di visioni integrate che hanno pur sempre ricostruito e rinnovato civiltà anche dopo tragedie, segnate da violenze. Oggi la globalizzazione, lo sviluppo della rete tele-


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matica, la rivoluzione mass-mediatica, la crescita del virtuale, le dimensioni dell’economia e della finanza, il cambiamento delle concezioni di spazio e di tempo, un investimento mai visto sui desideri di natura quantitativa che entrano e si infiltrano dovunque anche laddove vi è esclusione e marginalità, offrono uno scenario inedito, spesso traumatico ma anche di straordinaria urgenza. Bisogna rompere la schizofrenia e trasformare il globale in una nuova cultura di fraternità umana, rinnovando anche il rapporto con la natura, con uno sviluppo equo e compatibile, non più misurato semplicemente dalla quantità, ma da una nuova capacità di saldare visioni etiche con lo sviluppo, con un nuovo e straordinario bisogno di pace. La novità strategica è che il racconto, la narrazione globale non può più poggiare su dimensioni conflittuali, ideologicamente arroccate sulla necessità dello scontro, ma su una visione di fraternità che non neghi i conflitti, ma se ne voglia far carico, attraversandoli. Non è neppure più sufficiente la classica visione della difesa dei deboli come parametro positivo, cui consegnare il senso profondo dell’impegno, anzi, può essere addirittura controproducente se non cresce una nuova visione della politica e della cultura delle relazioni tra le persone e tra gruppi sociali. Il cambiamento è urgente proprio perché manca una cultura della fraternità, della dimensione umana della dignità di ogni uomo e donna visti non semplicemente come individui, ma come persone in relazione con altri, antropologicamente chiamate all’incontro con l’altro che ci rende un po’ tutti stranieri e in ricerca. Questa visione non è calata dall’alto con visioni metafisico-ideologiche, ma va riconquistata come dovere, anche dalla politica. Una politica globale che incontra tante forme di governo del territorio, la soggettività che lì vi abita, spesso scossa dalle tante diversità e ambiguità dello sviluppo. Per questo la «questione sicurezza» è il terreno culturale da coltivare e da condividere, facendo emergere sempre più una necessaria visione della politica come forma di governo indispensabile. Si chiede quindi una centralità della sicurezza politica e non della sicurezza vista solo come ordine pubblico. Per questo va allontanata la logica dello scontro dettata da altri, da quelli che hanno una visione riduttiva della politica, basata soltanto sul consenso, incrementata dalla paura degli individui che chiedono risposte che poi non si traducono in una pratica reale e positiva. Ecco allora che diventa necessario rimettere al centro la cultura della prossimità. La dimensione partecipata


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dello stare con, del condividere non è semplicemente proteggere, sostituendo alla politica una forma di governo del territorio delegata totalmente a chi ha compiti di ordine pubblico e di repressione. Certamente la questione della sicurezza è centrale, però questa poggia su un aumento della visione fiduciaria e positiva. Solo recuperando il rapporto tra società civile e istituzioni si potrà affrontare realmente anche la necessaria questione della sicurezza. Per questo va recuperata la prossimità, l’accogliere le istanze di prevenzione vivendo politiche di legami. Questo stare con, questo moltiplicare le relazioni positive è un asse strategico. Lo straniero, cittadino fra gli altri, è la condizione politica da ricostruire: si pensi alla regolarità di presenza attiva, allo smantellamento della cultura della necessità imposta del permesso di soggiorno da avere solo in questura, ai ritardi burocratici, alla negazione di qualsiasi partecipazione politica attiva sul territorio. È necessario aumentare la visibilità positiva, la territorializzazione della questione dell’immigrazione, legalizzando e aumentando i processi di trasparenza, incentivare – quasi con un sistema di punteggi – la positività delle presenze, puntando sui ricongiungimenti familiari, su una visione familiare dell’immigrazione; anche la politica scolastica va certamente accompagnata e monitorata continuamente. Le presenze scomode vanno affrontate con una forte cultura intransigente di legalità. Dove ci sono leggi, o indicazioni politiche, che riteniamo errate anche sul piano della difesa dei singoli diritti, non dobbiamo far sì che la politica si affidi unicamente allo scontro legale sui diritti, pure indispensabile; la politica deve rinnovare lo Stato sociale, per entrare nella questione dell’abitazione, delle imprese, deve dire di no per prima alla situazione di abbandono, alle favelas. A questo proposito, dire no ai campi nomadi significa individuare, proporre, costruire una cultura della vita diversa, uno sviluppo urbanistico diverso: ma per fare questo deve essere recuperata una cultura delle relazioni e dell’etica della dignità delle persone, che deve entrare nella politica proprio perché vanno rispettati la complessità, la ricerca del consenso, la necessaria gradualità e anche lo stare nel mezzo delle situazioni da costruttori partecipi di un bisogno di socialità nuova che cresce e si promuove anche sul territorio. Noi stiamo sul territorio, viviamo cittadinanza diffusa, comunque siamo portatori di una cultura di solidarietà indipendentemente dai risultati, proprio perché è necessaria alla convivenza. Questo chiede di battere l’assistenzialismo e


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quella cultura di ospitalità affidata unicamente alle emergenze, come paradigma di intervento per qualificare con rigore le risposte che accompagnano lo sviluppo della crescita urbana e trasformare questa ospitalità in una necessità della politica, in una sussidiarietà non di delega, ma che aumenti la capacità politica di presa in carico, una capacità di dare dignità alle difficoltà, ai problemi, condividendo metodo e gradualità. E qui entra anche la necessità di sviluppare la cultura del limite che assume il disagio e lo trasforma nel bisogno della politica. Una sfida nella concretezza. Questa deve entrare nelle scelte pubbliche. Per questo si richiede che, per esempio, le imprese non sfuggano dalla politica, e questo vale anche per le realtà religiose. Poi si chiede che cresca una politica di grande livello internazionale, europea. La migrazione mette in moto questa necessità della politica di avere uno sguardo mondiale. Ecco allora che il controllo della migrazione, il contrasto della criminalità senza tregua diventano necessari. Ritorna la centralità dello sviluppo di una cultura di pace, di attenzione alle tante situazioni di crisi mondiale, un educarsi a non usare il disagio per far crescere un bisogno di alterità che è fraternità. L’urgenza è quella di un’etica che è anche soggettività nuova immessa nella politica delle relazioni comunitarie. E questo è un capitolo anche dell’economia, dell’urbanistica, della giustizia internazionale. Si pensi al valore delle rimesse economiche che gli immigrati portano nei loro paesi d’origine. Deve nascere anche una nuova filosofia del racconto. Eliminare il vittimismo e la cultura conflittuale ideologicamente sconfitta alla ricerca di disperazione per sopravvivere. Puntare sull’eccellenza e farla diventare una questione che riguarda anche le università, la presenza di giovani con permessi di studio, incentivare ricerche, incontro tra culture. Questi sono i nuovi poli di incontro, i piccoli «expo territoriali» che debbono esserci e moltiplicarsi. Vi è un patrimonio immenso di solidarietà e di culture fresche, giovanili che non possono essere catalogate nel capitolo della protezione civile o del buon samaritano, semplicemente. La politica va affiancata dalla cultura dei diritti, ma deve essere anche consapevole delle contraddizioni e ambiguità del fenomeno migratorio, delle crisi che mettono soggetti sociali in conflitto tra di loro, a causa della paura che domina la scena, della percezione di sicurezza molto elevata, della ricerca del capro espiatorio come forma di rassicurazione. E allora bisogna ridare forza alla capacità dell’impresa anche familiare e rifiutare


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di fare il doppio gioco, stare nella sfida, affrontare l’economia sommersa, dare fiducia al credito con forme innovative (microcredito), riaprire una circolazione del denaro non sottobanco, ma che rompa tutte le forme di illegalità. Patti di vera cooperazione internazionale e di sviluppo che sono capitoli nuovi e necessari di politica internazionale, europea. Fraternità significa non accettare ipocrite affermazioni di principio, che poi non si traducono in realtà. Abbandonare la retorica chiede di stare sul territorio e condividere una vera cultura del migrare: per esempio, aprire sul territorio biblioteche locali, sviluppare il turismo, puntando sui giovani, sull’incontro fra storie, culture. Vorrei che in ogni luogo dov’è potenzialmente presente il conflitto, nelle periferie sorgano spazi e proposte vivaci di incontro. Si intravede la solidarietà «di scambio», quando uno straniero porta sicurezza, prossimità, moltiplica la fiducia; quando sulle strade si riconosce un’opportunità d’incontro, di sano commercio equo e solidale, si spezzano le chiusure o almeno si attraversano. Quando ci sono incentivi alla crescita della coesione con presenze comunicative sul territorio si fa crescere la partecipazione. Alcune operazioni criminogene si alimentano grazie a una domanda (clienti, consumo...). È l’opportunità vera per ritrovare la serenità della domanda di coesione e prevenzione. Anche tutta la questione sanitaria va affrontata come dimensione pubblica. Per questo l’estensione indebita e confusa della criminalità, l’estensione del reato penale senza infrazioni favorisce la concentrazione della ghettizzazione e offre manovalanza alla gestione criminale del territorio e delle attività speculative. È opportuno anche qui avere uno sguardo globale, capire cosa vuol dire città metropolitana, mettere in un network comune l’esperienza (in Casa della Carità stiamo pensando al souq). Migrazione vuol dire rinnovare la politica, cambiare lo scenario. Ma perché non si è riusciti? Ecco perché è urgente una politica ricca di cultura e di motivazioni etiche. Ecco perché luoghi di pensiero. Allora sarà possibile davvero.

10.  Politica e dignità della persona Bisogna anche approfondire le implicazioni di quell’etica della dignità che è un patrimonio di incontro fra culture e teorie sedimentate anche


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nella maturazione del diritto internazionale come traiettoria fondante una politica umana. La dignità di ogni persona non è criterio da affidare al buonismo o alla retorica, ma è consegnata come necessità alla politica. Martin Buber diceva che «il mondo ordinato non è l’ordine del mondo». Qui sta il senso e il futuro della politica che può farsi accompagnare dalla profezia, ecco perché bisognerà individuare le dinamiche sociali, culturali ed economiche che promettono di rigenerare la prassi e il sistema della politica in modo che essa sia all’altezza dei suoi compiti storici. E ancora una volta cito Buber: «La storia è un’approssimarsi pieno di mistero. Ogni spirale del suo cammino ci conduce al tempo stesso ad una più profonda perdizione e a una più fondamentale conversione». In fondo la regola dell’azione non è l’efficacia a ogni costo ma anzitutto la fecondità.

11.  Politica e non violenza Per questo penso a un percorso che porti a un amore politico non violento che sembra qualcosa che non sta più su questo pianeta, avere questa umanissima guarigione dal contagio dalla violenza è il superamento della distruttività, di quel sentimento di inimicizia che chiede capri espiatori, nemici per rinserrarsi nella propria identità paurosa. E allora la società rischia, anzi è raggiunta, dalla seduzione della violenza. Per questo anche chi pensa e vanifica la capacità di un amare politico, inventando di farlo essere anche un partito, va contrastato per recuperare l’urgenza di dare passione politica a questa domanda di fraternità e sororità. Ecco perché la politica come ogni filosofia deve impegnarsi, assaggiare la sua credibilità sottoponendosi al giudizio delle vittime e di quanti sono a loro vicini. Gandhi, Capitini, Lévinas (e lasciatemi dire anche don Milani) sono autori credibili in questa prospettiva perché ci aprono alla non violenza come principio attivo, rompendo con la falsa accettazione della violenza giusta o necessaria. Qui sta la tensione creativa dei processi di umanizzazione. È un invito a respirare. È il respiro della libertà. La vita umana e quella del mondo hanno bisogno della non violenza come i polmoni dell’aria. Riportare in politica questa tensione, che oggi sembra sconosciuta, soprattutto tra gli intel-


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lettuali e ormai anche tra la gente comune, è un obiettivo strategico, ma l’energia della non violenza va liberata davvero. Ecco allora ancora una volta riportarci al grande valore del limite come risorsa e riscoprire sempre nella dinamica della vita umana il valore della ricerca. Ma la politica è questa capacità dinamica, è ristabilire le condizioni della vita democratica. Umberto Galimberti afferma che l’etica del dubbio fa onore alla verità che nessuno possiede. E questa è la laicità della politica e per noi anche il bisogno della politica.


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