Walter Molino
Protocollo fantasma Dossier, silenzi e segreti di Stato Strategia della tensione al tempo delle larghe intese
Questo libro è un romanzo, ma non di sola fantasia. Le vicende sono state rielaborate dall’autore, ma senza tradire la realtà. Tutte le persone citate coinvolte in indagini o processi, anche se condannate nei primi gradi di giudizio, sono da considerarsi innocenti fino a condanna definitiva.
Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreEd Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore © il Saggiatore S.r.l., Milano 2013
Protocollo fantasma Ad Agnese Borsellino
Sommario
Prologo
13
parte prima
Vetro
17
1. Guardami in faccia
19
2. Era mio padre
23
3. Delirio
31
4. Morti di nessuno
33
parte seconda
Potere
37
5. Inverno
39
6. L’uomo nero
53
7. Inverno
59
8. Buon Natale
69
9. Primavera
77
10. Indicibili accordi
89
11. Zozzoni
91
parte terza
Infiltrazioni
93
12. Messaggi
97
13. Suicidio, o forse no
99
14. Protocollo farfalla
105
15. Delirio
115
16. Zozzoni
119
17. La vita e la morte
121
18. Fuga di notizie
123
19. Tu chiamala se vuoi
125
parte quarta
Fantasmi
127
20. Colpi bassi
129
21. Zozzoni
131
22. La comparsa del Nano
133
23. Segreti di Stato
135
24. Il mediatore
139
25. I viaggi della speranza
145
26. Morte accidentale di un urologo
151
27. Restiamo amici
157
28. La prova
165
29. La scomparsa del Nano
173
30. La coda del diavolo
179
31. Pietre
191
parte quinta
Crepe
193
32. Zozzoni
197
33. Delirio
201
34. Sbirri
205
35. Pietre
215
36. Faide
217
37. Protocollo fantasma
221
38. A giudizio!
227
39. Zozzerie
231
40. Protocollo fantasma
235
41. Erano loro che cercavano me
243
Note
247
Archivi e documentazione
257
Ringraziamenti
259
L’agiografia santifica politici contaballe e reinventa le loro gesta opportunistiche come momenti di grande spessore morale. La nostra narrazione ininterrotta è confusa al di là di ogni verità o giudizio retrospettivo. Soltanto una verosimiglianza senza scrupoli è in grado di rimettere tutto in prospettiva. James Ellroy
Prologo
Marina di Pietrasanta (Lucca), 17 luglio 2013 Twiga Beach Club, ore 19.30 «Cin!» «Ce n’est qu’un debut…» «Ora si attaccano al cazzo.» «Avevi dubbi?» «Non si sa mai con quelli.» «Usato sicuro non tradisce: “Il fatto non costituisce reato”. Praticamente favoreggiamento a sua insaputa. Il Figlio e lo Sbirro rimandati in procura e…» «Ascoltami bene, il punto da sottolineare è questo: la sentenza non assolve solo il Generale. È un colpo mortale al processo Stato-mafia. Se il fatto non è reato e il Figlio è inattendibile, sulla trattativa non possono condannare nessuno. Hanno rimandato in procura anche il Ministro?» «Assolutamente no.» «Quindi pure la falsa testimonianza crolla. Sono fottuti: i
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giapponesi capissero che la guerra è finita. Per fare i processi ci vogliono le prove, sennò ciccia.» «Aggiungerei che la favoletta funziona sui giornali e in televisione, ma i giudici non ci hanno creduto.» «Sì, senza esagerare… Adesso gli dobbiamo cominciare a ricordare cos’era l’Italia vent’anni fa: bombe, Mani pulite e comunisti.» «Magari lo capisce pure il Buono.» «Scuiddatillo. Chiddu testa rura è.» «Continuiamo a lavorarci.» «Cosa scrivono domani?» «Le conseguenze sulla trattativa: condanna più difficile, teoremi senza prove, il Figlio sputtanato, la sconfitta dei maestrini dell’antimafia… Ah, il Grassone fa la lista di proscrizione. I cinquanta nomi colpevoli dell’inganno all’opinione pubblica: giornalisti, politici…» «Ci sono tutti?» «Sì, pure troppi, ma ne voleva cinquanta.» «Va be’, minchiate. Che dice il Talebano?» «Rosica da morire. Mezz’ora al telefono con Robespierre. Dice: “Bella figura di merda, il Generale. Investigatore di razza che non perquisisce il covo di Riina e si fa scappare Provenzano. Se non è colpevole allora è un minchione”.» «Aaaaah… questo vero è!» «E in quanto a figure di merda il Talebano è uno specialista!» «Cesare?» «Zero. Ha altri cazzi da cacare adesso, dice che la Cassazione gli fa la sentenza a Ferragosto.» «Cos’è, diritti tv, fondi neri?» «Se lo inculano a sangue a ’sto giro.» «Paese di merda.»
Il processo contro l’ex generale del Ros dei carabinieri Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu è iniziato nel 2008 a causa della denuncia dell’ex colonnello Michele Riccio. I due ufficiali sono stati accusati di avere ostacolato la cattura di Bernardo Provenzano il 31 ottobre 1995 in un casolare di Mezzojuso, nei pressi di Palermo. Secondo Riccio, quel giorno Provenzano incontrò Luigi Ilardo, un mafioso della famiglia di Caltanissetta che da mesi collaborava con lo Stato. Il 17 luglio 2013 Mori e Obinu sono stati assolti in primo grado perché «il fatto non costituisce reato. Benché non manchino aspetti che sono rimasti opachi, non è stata adeguatamente provata la volontà degli imputati di salvaguardare la latitanza di Bernardo Provenzano». La procura di Palermo aveva chiesto 9 anni di reclusione per Mori e 6 anni e mezzo per Obinu. I pm hanno annunciato il ricorso in appello. Ilardo – nome in codice «Oriente» – divenne il primo infiltrato in Cosa nostra con il compito di fare arrestare i capi dell’organizzazione. Per la delicatezza dell’operazione, avallata dall’ex capo della Dia Gianni De Gennaro, l’identità di «Oriente» rimase a lungo sconosciuta anche ai vertici del Ros. Il 2 maggio 1996 Ilardo incontrò per la prima volta il generale Mori e i magistrati Gian Carlo Caselli, Teresa Principato e Giovanni Tinebra delle procure di Palermo e Caltanissetta, con cui avrebbe formalizzato la sua collaborazione. Otto giorni dopo fu ammazzato sotto casa a Catania. I killer sono stati arrestati solo nel giugno 2013. Secondo la ricostruzione della Direzione distrettuale antimafia di Catania – confermata dalle dichiarazioni di diversi pentiti – Ilardo fu ucciso perché da ambienti istituzionali era trapelata la notizia che fosse un confidente.
PARTE PRIMA Vetro
1. Guardami in faccia
Parlatorio «Io domande non te ne ho fatte mai.» «A megghiu parola è chidda ca ’un si rice.» «Ti stai facendo vecchio, papà.» «Tuo padre è stato sempre corretto e coerente. E voi pure così dovete essere: corretti e coerenti e nessuno deve dire mai una parola sbagliata.» «Con questa correttezza e coerenza adesso sei qua dentro, papà. E noi che facciamo?» «Voi potete camminare a testa alta.» «Papà, con rispetto parlando, tu non hai manco l’idea di che cosa c’è là fuori.» «Che c’è fuori? Mali discorsi sempre si fanno, ma io vi ho tenuto sempre lontani… Vi dovevo proteggere.» «Manco il giornale facevi entrare in casa.» «Tu…»
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«Tu lo sai che i tuoi figli sono malati?» «Chi è che è malato?» «Io sono malato, papà. Malato nella testa. È buono che lo sai.» «Ma che malattia…» «Una volta alla settimana scendo a Palermo, vado dal dottore, mi stinnicchio sul lettino e lui mi comincia a fare domande: com’è stata la sua infanzia? Suo padre ci giocava con lei? E sua madre? E i compagni di scuola? Non ne avevo compagni di scuola, dottore! A scuola non ci andavo, mia madre ce la faceva, la scuola.» «Io mi dispiace che…» «Papà, guardami negli occhi.» «Parla.» «Io ti vengo a vedere ogni due mesi. Quando entro qua dentro mi siedo e aspetto che arrivi. Chiudo gli occhi e nella testa mi ripeto: è mio padre. Sono venuto a vedere mio padre.» «Tuo padre sono.» «Mio padre, mio padre. Poi parliamo: tu mi dici come ti senti e io ti dico come vanno le cose. Poi dopo un’ora ti vengono a prendere e ci salutiamo. E da quel momento, per due mesi io mi sveglio la mattina e mi ripeto: io sono io. Io sono io e basta. Passo due mesi a dimenticare che sono tuo figlio. Questo pensiero me lo devo ripetere tutti i giorni!» «I figli sono così…» «Papà, tu adesso mi devi dire una cosa.» «Parla.» «Ormai sei vecchio, non c’è niente di cui ti senti pentito?»
1. Guardami in faccia 21
«Pentito?! Se sei coerente nella vita…» «Pentito, sì, pentito! Non il pentimento degli infami, il pentimento cristiano! Ci deve essere qualche cosa che hai fatto e che non avresti voluto fare.» «Mi dispiace.» «Che cosa?»
2. Era mio padre
Angelo Provenzano l’ho conosciuto per caso. Siamo quasi alla vigilia di Natale del 2011 e mi trovo nello studio di Rosalba Di Gregorio, l’avvocato di suo padre, il famigerato zu Binnu. Sto passando in rassegna alcuni atti del nuovo processo sulla strage di via D’Amelio, quando bussano alla porta. Lo avevo visto solo in fotografia e non ne avevo un ricordo preciso. Eppure, quando entra nella piccola stanzetta ricolma di faldoni, lo riconosco subito. Profilo normanno, viso rubizzo e un po’ pacioccone, barbetta bionda sagomata, occhi chiari. In mano una confezione di dolci, forse una torta. «Entra Angelo, voglio farti conoscere una persona.» Bastano pochi minuti e il figlio maggiore dell’ultimo grande capo corleonese si scioglie in un fiume di parole. All’inizio il suo tono mi disorienta, troppo confidenziale. Mi sfiora il sospetto che quell’incontro non sia poi tanto casuale. Parla delle condizioni di salute di suo padre, già abbastanza precarie, ma senza quel vittimismo piagnucoloso tipico dei mafiosi che vogliono
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convincere l’interlocutore di essere personcine dabbene. Sostiene di volere solo una cosa: che il padre sia trattato come un qualsiasi altro detenuto. Gli spiego che, gli piaccia o meno, Bernardo Provenzano non è un detenuto qualsiasi. «Di mio padre si è detto tutto il male possibile. Ma siamo sicuri che lui sia colpevole di tutti i crimini che gli hanno imputato?» Sì, siamo sicuri. Fino al terzo grado di giudizio, in decine di processi. In cui il boss, da latitante, non si è mai neppure difeso. «Io non posso giudicarlo. Di sicuro il mito di Bernardo Provenzano ha fatto comodo a molti. Dentro lo Stato.» Ed ecco anche il giovane Provenzano mettere in scena il solito canovaccio da commedia dell’arte mafiosa. Forse l’ho sopravvalutato? «Ma come fai a non giudicarlo? Tu puoi anche rifiutarti di accettare la verità, ma tuo padre per la legge è un assassino, responsabile di stragi, di crimini orrendi. Prima o poi dovrai farci i conti con questa realtà.» «E chi ti ha detto che non ci ho fatto i conti? Mio padre è Bernardo Provenzano, il mostro. E i conti ce li faccio ogni giorno.» Il suo sguardo adesso è di ghiaccio. Forse quell’atmosfera familiare, nello studio dell’avvocato, gli aveva fatto abbassare la guardia. La mia provocazione sembra essere andata a segno. Penso che questo scambio di cortesie abbia messo fine alla nostra chiacchierata, e invece mi allunga un biglietto da visita con il suo nome: «Vedi questo? Fino a oggi facevo il rappresentante di vini. Non ha funzionato, il cognome che porto è troppo pesante. Io non ho il diritto di essere un cittadino come tutti gli altri, perché sarò sempre il figlio di Bernardo Provenzano. Oggi ne parlo perché ho fatto un percorso. Adesso vado in giro a testa
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alta e non mi interessa quello che pensano gli altri». Orgoglio ferito di un figlio con un’eredità troppo ingombrante, desideroso di sentirsi all’altezza. Come quando, in un pizzino scritto a suo padre, si lamentava che non gli era ancora stato concesso di realizzare un’idea tutta sua. Poi si intestò la lavanderia Splendor a Corleone, ma dopo un po’ lo Stato gliela fece chiudere: non si capiva bene da dove arrivassero i capitali. Anche a qualche amico di suo padre non pareva un’idea brillante aprire proprio una lavanderia, mentre l’antimafia cerca i tuoi soldi sporchi, il tesoro nascosto dei corleonesi. Per il boss, ancora latitante, un danno d’immagine difficile da digerire. Sull’acquisto dei terreni sono stato un po’ disubbidiente, in quanto sotto le feste mi sono visto con la persona interessata e siamo rimasti che dovevamo vederci per discutere, cosa che non si è verificata in quanto io non l’ho cercato. Non voglio nemmeno provare a giustificarmi ma ti prego di togliermi tutti i poteri sui nostri risparmi se non comincio a interessarmi sul serio alle nostre esigenze. Il discorso che ti sto facendo è per me molto serio, mi sto guardando allo specchio e mi sto vedendo peggio di quando ci siamo visti di presenza l’ultima volta, e la cosa non mi va, quindi se non ci riesco da solo ti prego di mettermi nelle condizioni di non fare danno, perché forse il proverbio che chi nasce tondo non può morire quadrato è molto vero. Fatta questa premessa voglio essere giudicato da te su alcune cose che ho fatto di mia iniziativa. (Pizzino di Angelo Provenzano a suo padre Bernardo)
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Il volto si è indurito, ma il tono è pacato; gli occhi lucidi tradiscono l’angoscia di quest’uomo di 36 anni con il faccione da bambino, schiacciato tra un vago desiderio di riscatto e la pesantezza delle aspettative mafiose. Una zavorra portata con più di una punta di orgoglio. Gli chiedo che cosa pensa adesso, quando guarda in faccia suo padre. «Non penso a niente. So solo che mi devo riprendere la mia vita. Ho passato i miei primi 16 anni da latitante. A casa mia non si parlava di niente. Mai la televisione, mai un giornale. Mio padre ci teneva che studiassimo, però chiusi in casa. Ogni sera una lettura, i compiti, l’aritmetica.» Ti preme conoscere i programmi relativi all’università. Mi sembra superfluo dirti che sarebbe utile che si impegnasse per portare a termine i suoi studi magari con qualche sacrificio. La laurea per lui sarà meglio di un’eredità di un feudo e potrebbe affrontare la vita con una visuale diversa, tu capirai che qualunque iniziativa commerciale o imprenditoriale sarà sempre sotto uno stretto controllo e poi ci vogliono un mare di capitali. Le agevolazioni sono tante e così pure i finanziamenti dello Stato, ma in ogni caso per come sono adesso impostate le cose prima bisogna realizzare le iniziative con i capitali propri e poi lo Stato passa all’erogazione dei finanziamenti. In buona sostanza le leggi sono fatte per chi dispone di questi requisiti. Il che a mio modesto avviso non riguarda la posizione sua e quindi sarà meglio che pensi agli studi se vorrà realizzare per come la sua intelligenza e capacità possono offrire. (Pizzino di Pino Lipari a Bernardo Provenzano)1
2. Era mio padre 27
Si è abbandonato sulla sedia, come sfiancato dal ricordo di quell’uomo troppo latitante per essere un padre e troppo pesante per consentirgli una vita normale. Divorato dall’ansia di voler essere semplicemente uno qualunque. Gli dico che ciò che ha perso non se lo può riprendere, men che meno senza una cesura netta con quello che rappresenta suo padre. «Gli hai mai chiesto perché?» «Io per anni non gli ho mai chiesto niente, e lui non mi ha mai parlato. Solo una volta mi ha guardato negli occhi e mi ha detto: “mi dispiace”.» Mi dispiace? «Mi dispiace di avere detto troppi sì. Mi è mancato il coraggio.» Michele Cavataio girava con una lista delle famiglie mafiose sempre in tasca, e andava ricattando tutti. Decidiamo che lo dobbiamo scannare. Partiamo con una macchina, un’Alfa blu. Totò Riina ci aspetta fuori. Poi siamo io ed Emanuele D’Agostino di Santa Maria del Gesù, Damiano Caruso di Riesi e i corleonesi: Calogero Bagarella e Bernardo Provenzano. Abbiamo pistole, mitra automatico Beretta e lupare. Tutti vestiti da poliziotti, solo io non lo ero… Ho detto: se devo morire non voglio morire con la divisa. Appena arriviamo lì con la macchina abbiamo fatto rumore tipo polizia, sbattendo gli sportelli… Vedo uno che affaccia la testa, io avevo una pistola e un fucile da caccia, tiro con la mano sinistra la pistola, gliela punto e gli dico: sali su che siamo poliziotti. Quando è salito l’abbiamo messo davanti a noi per entrare dentro l’ufficio: ’dda cosazza tinta di Binnu Provenzano, prima ancora che noi entriamo dentro, gli spara. Noi ci buttiamo
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dentro l’ufficio, io col fucile riesco a tirargli le prime due fucilate a Michele Cavataio, che era dietro la vetrata. Riesco a pigliarlo in una spalla, però lui spara a me con la sua Colt Cobra e io vengo ferito, che praticamente ancora c’ho del vetro nel nervo ottico dell’occhio destro… Pure Provenzano viene ferito a una mano. Io riesco a uscire fuori e gli grido a Damiano Caruso e a Calogero Bagarella: «Entrate che io non ci vedo più!». Questi entrano e cominciano a sparare. Cavataio è sanguinante, steso per terra dietro alla scrivania. Provenzano gli si avvicina per controllare, gli pare morto e lo tira per i piedi. Solo che Cavataio all’improvviso spara e ammazza Calogero Bagarella con un colpo al petto. Poi sempre da terra punta l’arma in faccia a Provenzano e spara, ma la pistola non ha più colpi. Provenzano subito va per sparargli in faccia ma gli si inceppa il mitra. Allora lo impugna per la canna e gli sfracella la testa con il calcio del mitra. Poi tira fuori la pistola e lo finisce con un colpo in faccia. Così è nata la leggenda. Da quel momento il suo soprannome fu ’u Tratturi, il trattore. Che tritura tutto quello che si trova davanti. (Testimonianza di Gaetano Grado nel processo per la strage di viale Lazio)2
«L’ultima volta che l’ho visto ho notato che aveva qualcosa di strano addosso. Gli ho chiesto che cosa fosse, si è infilato la mano dentro i pantaloni e ha tirato fuori dal pannolone una specie di quaderno: il suo diario clinico. Ha momenti di stra-
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niamento, non capisce più niente. Ma sapeva che il personale del carcere ci tiene all’oscuro delle sue condizioni di salute e nella sua mente ormai compromessa ha pensato di fare questa cosa. I secondini gliel’hanno tolto e gli hanno dato una punizione. Noi non sappiamo mai niente: anche quando lo ricoverano veniamo informati settimane dopo. Lo Stato si accanisce su di lui solo per il cognome che porta.»