Andrea Pini
Quando eravamo froci Gli omosessuali nell’Italia di una volta
La casa editrice, esperite le pratiche per acquisire i diritti di riproduzione delle immagini, rimane a disposizione di quanti avessero a vantare ragioni in proposito.
www.saggiatore.it
Š il Saggiatore s.p.a., Milano 2011
Quando eravamo froci A mio padre, che piĂš o meno ha la stessa etĂ dei miei intervistati
Sommario
Prefazione di Natalia Aspesi
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Introduzione
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prima parte
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1. L’omosessualità in Italia dal dopoguerra alla nascita del movimento gay
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2. La stampa e l’omosessualità: Lo Specchio, il Borghese e L’Espresso negli anni cinquanta e sessanta
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3. La vita gay tra pubblico e privato
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seconda parte. Testimonianze
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Maurizio Bellotti Gian Piero Bona Aldo Braibanti Mario Chinazzo Amos Colombi Vinicio Diamanti Dominot Josip Duiella
149 161 179 189 203 211 217 223
Corrado Levi Mario Sigfrido Metalli Mario Nati Elio Pecora Riccardo Peloso Paolo Poli E.S. F.S. Aldo Sebastiani (la Chierichetta) Gilberto Severini Giò Stajano Gianni Zago
233 245 253 265 279 287 297 307 317 323 335 353
Ringraziamenti Note Bibliografia essenziale Fonti iconografiche Indice dei nomi
365 367 373 375 379
Prefazione di Natalia Aspesi
Come fidanzati erano i migliori, i preferiti dalle mamme: impeccabili, gentili ed eleganti, capaci di notare la luce di un filo di perle o un nuovo ardito paio di scarpe; poi affidabili, sino all’esagerazione. Tanto che certe fidanzate si incupivano di quei baci rari e sfuggenti, e mai un corpo a corpo da cui difendersi. O no. In quegli anni, negli anni cinquanta, più o meno tutte le ragazze sul mercato matrimoniale hanno avuto un fidanzato così, almeno uno, se non di più, quando particolarmente sfortunate. Anche le più scaltre non si facevano domande: avevano sentito sussurrare che esistevano dei poveretti che si toccavano tra di loro, ma chissà se era vero, e comunque chissà dove si nascondevano, certo non se ne vedevano nel loro ambiente di maestri e professori e persino avvocati, più qualcuno che aveva scelto professioni strane e molto brillanti, tipo vetrinista o aiutoregista, o ne stava inventando altre, lo stilista, il pr, il press agent. Uomini giovani, rassicuranti, molto ambiti, non ancora fidanzati, possibili, indispensabili mariti. Gli altri, quei giovanotti di cui si sussurravano misteriose propensioni, non avevano nome, al massimo li si indicava con una strizzata d’occhi o uno sguardo al cielo, non esistevano nei romanzi alla moda, non se ne leggeva sui giornali, oppure sì, ma in terrorizzanti cronache di vergognosi balletti, o verdi o rosa, con giusti arresti e perquisizioni, e scandalizzati, indignati commenti delle più belle firme del momento. In famiglia non se ne parlava, erano mondi troppo lontani, né veniva in mente di porsi domande su certi simpatici scapoloni assolutamente perbene, spesso invitati a cena per far loro conoscere qualche ragazza molto matura e disperata, chissà mai ne nascesse qualcosa di buono. Ma loro avevano sempre da mostrare la foto ormai sdrucita di un’antica signorina, morta tanti anni prima, che era stata il loro grande insostituibile amore. Alla sua cara memoria si erano votati in solitudine, per lei avevano rinunciato a farsi una famiglia. Però si dedicavano a qualche giovane amico, come fosse un figlio, per aiutarlo negli studi e, se mai gli fosse venuto in mente il ghiribizzo di lavorare, in una professione.
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Ma certe volte questi ragazzi erano irriconoscenti, e se ne andavano nottetempo, insalutati ospiti: in quei casi le ragazze erano bravissime a consolare l’afflitto e anche la di lui madre, spesso vedova o separata, che su quei giovani contava per tenere lontano certe immancabili intruse che avrebbero potuto sottrarle, con arti vergognose e non consone a una madre, il maschio di casa, il figlio devoto rimasto con lei. Quelli erano più che altro amici di famiglia, ma nel nostro gruppo giovane abbondavano scapoli brillanti di cui non era difficile innamorarsi e che in un battibaleno si dichiaravano nostri fidanzati. A pensarci adesso fa impressione: erano tanti, più di adesso, o eravamo noi ad attirarli, perché riposanti, senza pretese, ansiose, più che di passione, di sistemazione e da quel lato là molto ignoranti? Volevano, stando con noi, mimetizzarsi, speravano davvero di farsi comunque una famiglia, oppure, come qualcuno pensava possibile, addirittura «guarire»? Comunque: la più bella e ricca tra noi rimase incinta dopo un solo veloce scontro, e fu un evento bruttissimo, che misteriosamente non fu riparato dall’ovvio matrimonio. Doveva essere successo qualcosa che non ci venne detto, perché la gravidanza fu clandestinamente interrotta, preferendo quindi quello che allora era un grave reato a continuare quel legame. Che infatti finì lì e non se ne parlò più. C’era il farfallone, non solo toccava il sedere a tutte, cosa che risultava molto sgradita, ma cambiava continuamente ragazza, le lusingava e poi scartava, crudele Don Giovanni, facendole soffrire moltissimo. La bruttina era perduta dietro il più bello che poi, abbandonato ogni tentativo etero, è diventato famoso nel mondo, e finalmente ci fu una notte tutta per loro: finì in un pianto disperato, e lei, priva di fascino, si incolpò di quel fallimento irrimediabile. Il fidanzato più simpatico e di aspetto più virile faceva ridere tutti, soprattutto la sua ragazza, non proprio innamorata, ma, per porre fine all’agonia del nubilaggio, disponibile ad accasarsi con lui, almeno si sarebbero divertiti. Poi successe una cosa strana: lui la portò a una prima dei Legnanesi, allora molto in voga, le donne erano una decina, il resto del teatro occupato da uomini anche truccati, anche con lustrini, e un bel po’ a salutare calorosamente il fidanzato più simpatico. Tra lui e lei non ci fu nessun chiarimento, lei era intelligente e capì: rimasero grandi amici e ognuno ebbe la sua vita come natura esigeva. Il più serio e colto la sua ragazza la sposò, diventando padre amoroso di due figli: ma i tempi cambiavano, e venne il momento in cui tra persone intelligenti divenne possibile parlarsi, e capirsi, e continuare a volersi bene e rispettarsi, però separandosi. Visto dalla nostra parte, dalla parte delle ragazze sceme come noi, che allora non avevano mai sentito pronunciare la parola frocio, questo libro, illuminante, importante, con le sue interviste e confessioni, che oggi leggiamo con simpatia e partecipazione, ci obbliga a rivangare tempi dimenticati, troppo lontani. E sin-
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ceramente ci si rabbuia pensando ai nostri tormenti femminili per quei fidanzati così vaghi, e i nostri complessi di inferiorità, e le lacrime notturne, e le domande senza risposta, e l’arrivo prima o poi di un ragazzo carino con gli occhi chiari che, sempre più presente, a poco a poco ci restituiva all’odiato zitellaggio. Loro avranno avuto i loro tormenti e spaventi, ma da questo libro si capisce quanto intanto si divertivano, quanti sprazzi di felicità avevano. E non con noi signorine, vittime innocenti dei tempi bigotti, e sinceramente questo, per ora, a voi che oggi siete tra i nostri migliori amici, non lo possiamo ancora perdonare!
Introduzione
Con la fine della Seconda guerra mondiale l’Italia si liberava del fascismo, dell’occupazione nazista e riacquistava la libertà che un’intera generazione non aveva mai conosciuto e che il resto della popolazione aveva vissuto in un contesto lontano e del tutto diverso. Il paese era sommerso da macerie e povertà, ma aveva l’entusiasmo di chi ricomincia da capo e vuole rimboccarsi le maniche. Dopo il dramma della guerra, gli sfollamenti, i morti, le sofferenze, i campi di prigionia, i lager, la fame, la paura, c’era una gran voglia di ricominciare a godersi la vita nella pace, senza conflitti. Anche gli omosessuali dell’epoca hanno vissuto la stessa atmosfera di allargamento dei confini della libertà, ma, come vedremo, hanno incontrato alcuni limiti ben precisi e spesso non diversi da quelli del periodo fascista. Un episodio che riguarda il pittore Filippo de Pisis è assai emblematico a proposito. De Pisis aveva forse pensato, ingenuamente, che la Liberazione avrebbe aperto le porte a un mondo dove tutto fosse possibile, compresa una meravigliosa festa pagana e dionisiaca. Invece una doccia fredda, perbenista e conservatrice lo riportò velocemente alla realtà. La vicenda è raccontata dallo studioso di letteratura Francesco Gnerre nel suo L’eroe negato: Nel 1945, a Venezia, per solennizzare la liberazione, [de Pisis] organizza nel suo studio una grande festa. I partecipanti che avrebbero dovuto essere tutti bellissimi, sarebbero stati coperti solo di gusci di granceola e i loro corpi decorati dallo stesso de Pisis. Tra gli invitati solo due donne, la scultrice Ida Cadorin e la critica d’arte Daria Guarnati. Dei tanti ragazzi che erano o erano stati i modelli di de Pisis, tutti invitati, scrive Comisso, egli ebbe l’idea poco diplomatica di scartarne uno. Questi andò a raccontare alla sezione comunista del quartiere che nello studio di de Pisis si stava preparando una grande orgia. Vestiti sommariamente, col corpo e il volto dipinti, i partecipanti alla festa vennero accompagnati in Questura dai partigiani armati.1
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Infatti anche in quei mesi, durante la Liberazione, valeva il principio del «si fa ma non si dice» e la forte carica erotica e omoerotica che accompagnava la speranza di una rinascita doveva essere vissuta senza clamori, senza esibizioni. C’erano così tanti soldati e giovani sparsi dappertutto, molto disponibili e pronti, e gli incontri omosessuali accadevano di continuo, ma non si doveva mostrare. Durante la guerra era successo qualcosa di nuovo per l’Italia di allora: la popolazione aveva sperimentato una forte mescolanza, erano cadute per necessità alcune barriere sociali, famiglie della piccolissima borghesia si erano ritrovate sfollate nello stesso paesino sperduto insieme ai signori, alle famiglie che contavano, ai benestanti. Si era sperimentata una nuova solidarietà e spesso erano nate amicizie e legami che in qualche caso sarebbero poi continuati. Ci racconta Gian Piero Bona che, durante il conflitto, la sua famiglia, per esempio, nascose e ospitò per tre anni un ragazzino ebreo, suo compagno di scuola. E sempre Gian Piero, rampollo di un’ottima famiglia della borghesia industriale torinese, ricorda che, con la Liberazione, poteva permettersi d’invitare a casa soldati americani incontrati per strada, come rientrava nello spirito di apertura del periodo. Con il medesimo spirito faceva l’amore, di nascosto, con quei soldati. Il nuovo sviluppo economico degli anni cinquanta e il boom degli anni sessanta hanno consentito che il corpo sociale, modernizzando abitudini e comportamenti, vivesse un’epoca «felice», ricca di speranze e di timide aperture. La caduta del fascismo non aveva però spazzato via le varie forme di controllo sociale sull’omosessualità, tutt’altro. La morale «pubblica» era sempre sotto la mannaia della Chiesa cattolica e dello Stato, e il potere politico voleva dire prima di tutto Democrazia cristiana, cioè, nella migliore delle ipotesi, perbenismo, ossequio al Vaticano e tradizione. Lo Stato democratico italiano aveva mantenute inalterate tutte le forme di contenimento poliziesco: le denunce per atti osceni, per offesa al pudore, per corruzione di minori (che allora erano tali fino a ventun anni, e questa soglia rimase in vigore fino all’8 marzo 1975, quando la legge portò la maggiore età a 18 anni), per resistenza a pubblico ufficiale e oltraggio, per atti di libidine violenta su minore e adescamento, per atti immorali in luogo pubblico, i fogli di via, le denunce per contravvenzione alla diffida di rientrare a…, i fermi cautelativi per persone sospette, il confino e, dopo la legge Merlin del 1958, il favoreggiamento, lo sfruttamento e l’induzione alla prostituzione. E queste misure di polizia erano diffusamente usate contro gli omosessuali, che la notte popolavano alcuni parchi e strade delle grandi città, e non certo perché la stragrande maggioranza di loro fossero delinquenti, ma semplicemente perché omosessuali. Quando qualcuno di loro veniva fermato, scattava immediata la schedatura e da quel momento finiva inserito nel casellario dei cittadini del terzo sesso, come allora venivamo definiti. Bastava poi una denuncia per atti osceni o per adescamento e l’omosessuale diventava un «pregiudicato», uno che la polizia non solo
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teneva d’occhio, ma in qualche modo poteva anche ricattare. Racconta Dominot, un artista che dalla fine degli anni cinquanta vive a Roma, di essere stato fermato dalla polizia innumerevoli volte perché «batteva» il marciapiede e di aver passato varie notti a Regina Coeli. La polizia arrivava con i suoi cellulari, che erano camioncini per il trasporto dei fermati, e faceva le sue retate portandosi via prostitute, travestiti e gay, trovati a battere sul lungotevere o in via Veneto. Questa condizione di vulnerabilità e ricattabilità degli omosessuali dell’epoca da parte delle forze dell’ordine è ben raccontata nel film Splendori e miserie di Madame Royale, di cui parleremo. Anche la magistratura esercitava un’azione repressiva e punitiva: moltissime le sentenze di condanna nei confronti di gay in quegli anni per le varie imputazioni sopra riportate, come ricorda lo studioso Gianni Rossi Barilli nel suo Il movimento gay in Italia.2 Ma la magistratura agiva anche su un altro fronte, quello della censura; non si contano i libri condannati al rogo perché ritenuti immorali, come per esempio quelli di Giò Stajano, uno degli intervistati in questo testo: Roma capovolta e Meglio l’uovo oggi sono stati entrambi sequestrati subito dopo la loro uscita, tra il 1959 e il 1960. E ancora la magistratura in quegli anni ha bloccato film, spettacoli teatrali, «ripulito» testi scomodi, sempre a danno di autori gay che osavano rappresentare «il vizio nefando» senza condannarlo in modo definitivo. Ne hanno fatto le spese fra gli altri Bernardino del Boca (il suo La lunga notte di Singapore, pubblicato da Gastaldi nel 1953, fu sequestrato e condannato al rogo), Luchino Visconti, Giovanni Testori e soprattutto Pier Paolo Pasolini. Pasolini ha subìto una serie impressionante di processi, ben trentatré a partire dal 1949 e fin dopo la sua morte, la maggior parte dei quali volti a chiudere la bocca di un intellettuale scomodo, che parlava anche di sessualità e di omosessualità, e osava rappresentarla. In Italia aveva una notevole influenza anche il Pci, il più forte partito comunista d’Europa, che aveva partecipato alla stesura della Costituzione e al governo di unità nazionale subito dopo la guerra. Dopo il 1947 era diventato il principale partito di opposizione, ma la sua cultura politica in tema di trasformazione delle abitudini sociali e di morale non si discostava da quella della maggioranza democristiana, fedelissima ai voleri del Vaticano. Il Pci aveva scelto di essere un «partito di massa», di operai e contadini, lavoratori e lavoratrici, fortemente ancorato ai valori cattolici e quindi anche a quella morale chiusa e intollerante che la Chiesa rappresentava. Non c’era spazio per ragionamenti sulla sessualità e tantomeno sull’omosessualità. Scrive a tale proposito Fabio Giovannini, in un testo che analizza il rapporto tra il Pci e l’omosessualità: «Le minoranze sessuali hanno dovuto pagare un prezzo alto al costume sociale e al livello morale e intellettuale del dopoguerra».3 È nota, fra l’altro, la condizione di Nilde Iotti, ex partigiana, deputata della Costituente e quindi co-artefice della nostra Costituzione,
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donna di potere rispettata e apprezzata, deputata del Pci, che non poteva dire di essere la compagna di Togliatti e madre di una ragazza adottata insieme al capo del suo partito, perché Togliatti era sposato, il divorzio non esisteva e le separazioni erano ritenute scandalose. Il Pci sapeva e taceva. La società italiana sapeva e taceva, o bisbigliava. In questo clima di tradizionalismo assai bigotto erano invischiati non solo gli uomini e i partiti della sinistra dell’epoca, ma anche l’intelligencija e la borghesia illuminata e progressista, gli intellettuali e gli scrittori, probabilmente senza alcuna eccezione. Quando Umberto Saba, in pieni anni cinquanta, fece leggere a Elsa Morante il suo manoscritto Ernesto, che narrava di un amore omosessuale, lei gli consigliò di non pubblicarlo. Quel romanzo rimase in un cassetto fino alla morte di Saba e fu pubblicato solo nel 1975. D’altra parte è noto che i romanzi giovanili di Pasolini scritti negli anni quaranta, Atti impuri e Amado mio, rimasero impubblicati per le stesse ragioni fino al 1982. Altrettanto nota è la vicenda che travolse Pasolini, ancora un giovane sconosciuto, quando nel 1949, segretario della sezione di partito a San Giovanni di Casarsa, fu espulso dal Pci per «indegnità morale», accusato di aver avuto rapporti sessuali con alcuni ragazzetti di un paesino friulano vicino. È assai interessante rileggere alcune righe del verbale dell’interrogatorio che Pasolini subì nell’ottobre del 1949, per capire meglio quale fosse la situazione dell’epoca. Dalle parole del poeta traspare, al di là del dramma dello scandalo e del tentativo di attenuarlo, la «banalità» dell’episodio, che non poteva certo essere un fatto eccezionale; una sagra di paese, un gruppo di giovani amici tutti maschi, il vino, il desiderio, la complicità della festa e della notte: Non posso e non devo negare che le dichiarazioni fatte dai suddetti ragazzi rispondono in parte almeno esteriormente a verità. Del resto certi particolari mi sfuggono perché essendo sera di sagra e trovandomi in compagnia di amici avevo ecceduto un po’ nel bere: è appunto da imputarsi all’euforia del vino e della festa l’aver voluto tentare questa esperienza erotica di carattere e origine letteraria accentuata dalla recente lettura di un romanzo di argomento omosessuale di Gide.4
L’episodio divenne di dominio pubblico solo perché Pasolini era un responsabile locale del Pci, inviso alle autorità ecclesiastiche e alla Dc friulane, e la denuncia fu possibile solo grazie al coinvolgimento del parroco e con il sacrilego utilizzo di una confessione di uno dei ragazzetti coinvolti. Il Pci di Udine, diretto da persone che ben conoscevano Pasolini, alcune delle quali erano amici personali, decretò la sua espulsione dal partito. Fu proprio in occasione di quell’episodio che il Pci definì, sulle pagine dell’Unità, «degenerazione borghese» il «vizio» dell’omosessualità.5 Condannato a tre mesi per atti osceni, perse anche il posto
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di insegnante, nessuno lo difese, né dentro né fuori il partito, e Pasolini fuggì dal suo Friuli per rifugiarsi a Roma. Lapidario è il commento di Aldo Braibanti alla mia domanda: «Cos’è cambiato dopo il fascismo, con l’arrivo della democrazia?». «Non è cambiato nulla per tutti gli anni cinquanta, non c’era più la persecuzione poliziesca, perché era diventata pretesca!» Da notare che la Chiesa non aveva bisogno, come invece fa oggi quasi ogni giorno, di scagliarsi pubblicamente contro l’omosessualità. Anzi, era il contrario. Ufficialmente non ne parlava affatto, ma nel segreto dei confessionali, nelle penombre delle sacrestie o dai pulpiti il messaggio che veniva trasmesso ai fedeli era chiaro: guai a certi peccati mortali! Un uomo o una donna timorati di Dio si completano nel sacramento del matrimonio. Punto e basta. Per arrivare a una prima presa di posizione ufficiale del Vaticano su (e contro) l’omosessualità bisogna aspettare il 1975. Ma l’analisi che, per la prima volta, esprime compiutamente il pensiero repressivo al riguardo è contenuta nella Homosexualitatis Problema. Lettera ai vescovi della chiesa cattolica sulla cura pastorale delle persone omosessuali del 1986, firmata dall’allora capo della Congregazione per la dottrina della fede, Joseph Ratzinger. L’attuale ossessione contro l’omosessualità di papa Ratzinger ha quindi radici lontane! Eppure accanto a tutto questo moralismo perbenista la società di allora viveva parallelamente un’epoca di fiducia e di solidarietà concrete. Racconta sempre Dominot che la Roma di fine anni cinquanta era una città povera e malmessa, ma che un piatto di pasta non mancava mai, perché c’era una grande disponibilità ad aiutarsi tra vicini, le porte delle case erano sempre aperte a tutti, non c’era la paura, non c’era la diffidenza. Anche Paolo Poli fornisce un’analoga testimonianza sulla Roma e sulla società italiana di quegli anni: Era tutto molto semplice allora, c’erano ancora le porte aperte su strada, non c’erano le paure, i ladri. Portare amici a casa era la cosa più naturale di questo mondo. Mi ricordo una fine dell’anno con Laura [Betti, N.d.A.]: si andava su nelle case, si faceva le pazze e si cantava e poi si mangiavano noccioline e whisky. Non si conoscevano neanche le persone, ma tutti ci accoglievano. «Avanti, avanti!» e arrivavamo noi, due bionde uguali, anche perché tingevamo i capelli non più malamente in casa, ma si andava da un grande parrucchiere.
E questo era altrettanto vero per le possibilità d’incontri omoerotici, che erano facili, diretti, frequenti, quasi alla luce del sole, o meglio dell’alba! Non ce lo testimoniano solo Dominot e Paolo Poli, ma anche Gian Piero Bona, Giò Stajano, Vinicio Diamanti e tutti gli altri nostri intervistati. Esistevano due Italie, come in un contesto diverso è vero ancora oggi: una
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ufficiale, quella della politica, della Chiesa, della polizia, della magistratura, dei giornali, per la quale l’omosessualità era un fatto inaccettabile, immorale, vizioso, perverso, da tenere il più possibile soffocato e innominato, e un’altra godereccia e permissiva, pronta ad approfittare degli spazi di libertà consentiti, che praticava il sesso omoerotico in gran quantità e ovunque capitasse, senza particolari problemi morali. Una doppia morale che poteva coesistere anche nella medesima persona, anche questo è un fenomeno che non ci è estraneo nel presente! Quella doppia morale che ha permesso a intere generazioni di omosessuali italiani di avere un discreto spazio di manovra e di godimento, purché nell’ombra. Naturalmente c’erano già allora le eccezioni: qualche sparuto giornalista dell’Espresso, alcuni scrittori e registi, alcuni gay coraggiosi e precorritori dei tempi, molti dei quali qui intervistati. Il presente libro vuole far emergere questa contraddizione: in anni apparentemente bui e terribili per i diritti delle persone omosessuali, accanto a una parte di loro che ha vissuto scandali, sequestri, denunce, omicidi e suicidi, la maggior parte dei gay italiani è comunque riuscita ad avere una vita complessivamente piacevole e a volte esaltante. Non possiamo giudicare la vita di un gay negli anni cinquanta o sessanta con gli occhi smaliziati e globalizzati di oggi. Dopo la rivolta dello Stonewall tutto è cambiato: in quel bar di New York, nel Greenwich Village, è partita la prima ribellione omosessuale e transessuale contro la polizia, che abitualmente faceva incursioni antigay nel quartiere. Da allora la data del 28 giugno 1969 rappresenta per i Glbt di tutto il mondo il simbolo della rivolta e della conquista di una dignità fino ad allora sconosciuta, e per questo è diventata, ogni anno, la ricorrenza delle sfilate dei Pride. I nuovi gay colti e impegnati del post-Stonewall hanno sempre guardato con sufficienza alle generazioni precedenti, spesso considerando quegli uomini gay perbenisti troppo ossequiosi al potere, non consapevoli dei propri diritti. Può darsi sia vero. Ma il contesto di quegli anni era talmente diverso da quello odierno, in tutto il mondo occidentale, che per i gay di allora era normale vivere in quel modo, così come per noi è normale chiedere il riconoscimento del matrimonio e dell’adozione. Dobbiamo provare a calarci in quell’atmosfera per cercare di capire quella complessità, dalla quale proveniamo. Vorrei accennare anche a un’altra complessità, quella del discorso sulla testimonianza. Gli intervistati a volte riportano fatti: date, luoghi d’incontro, tecniche di approccio, modalità di rapporto ecc. Mentre altre volte si raccontano, attraverso la memoria, e fanno rivivere emozioni, sentimenti, cioè raccontano quello che gli succedeva «dentro», come vivevano le esperienze che sono oggetto dell’intervista. Sono importanti entrambi gli aspetti. Il primo potremmo definirlo memoria «oggettiva» e ci interessa quale documentazione storica di quello che è avvenuto; il secondo aspetto, che potremmo chiamare memoria «soggettiva», non è meno interessante. Non è mai un caso se una persona conserva alcune
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sensazioni, emozioni, sentimenti piuttosto che altri. Per esempio, la totalità degli intervistati conserva complessivamente memorie piacevoli e positive sul modo in cui ha vissuto la propria omosessualità in quegli anni. E questo è un fatto. Alcuni critici potrebbero obiettare che in gioventù quasi tutto è roseo e la memoria tende poi a addolcire e smussare le difficoltà incontrate. Può essere vero. Ma è anche vero che queste persone, e come loro probabilmente molte altre, sono state in grado di vivere al meglio una situazione che ai nostri occhi – ma non ai loro – appare molto difficile. La soluzione magica, come afferma Arbasino, era, e per molti uomini e donne omosessuali è ancora così, non dire, non pronunciare la parola. E questo discorso era vero prima di tutto a livello sociale e poi individuale. Se non esiste la parola, non esiste neanche la cosa. A proposito di Arbasino, si è rifiutato di farsi intervistare da noi, in grande coerenza con il suo assunto: basta non dire «sono gay» e puoi fare tutto quello che ti pare. A margine voglio precisare di aver usato indifferentemente la parola «gay» come sinonimo di omosessuale per semplici ragioni di praticità, ma in realtà nel periodo considerato il termine «gay», almeno in Italia, era totalmente sconosciuto, e anche la parola «omosessuale» era poco usata. Ugualmente per semplicità ho troncato talvolta il termine in «omo». All’epoca erano moltissimi i modi per riferirsi agli omosessuali, spesso indiretti e ammiccanti, come scrive Bassani a proposito del protagonista degli Occhiali d’oro: «Un gesto, una smorfia bastava. Bastava anche dire che Fadigati era “così”, che era di “quelli”».6 La stampa si è sbizzarrita a trovare sinonimi o locuzioni allusivi, spesso apertamente offensivi, per definire gli omosessuali: invertiti, capovolti, anormali, pervertiti, orgiasti, sensibili, quelli così, quelli là, uno di quelli, velati, zie, terzo sesso ecc. I prostituti erano invece definiti ragazzi squillo o battoni. Poi c’erano i «rapporti innominabili», lo «sfondo omosessuale», la «sensibilità a ponente», «certi ambienti», «l’Italia così», lo «squallido ambiente» ecc. Nel linguaggio popolare, invece, i termini per riferirsi a un gay variavano molto da regione a regione. A Roma si usava molto frocio, trasformato in frocia dai gay stessi, in Toscana era diffusissimo finocchio, a Milano si utilizzava culattone, a Napoli ricchione e femminella o femminello ecc. Se l’Italia era in quegli anni culturalmente arretrata e assai più bigotta rispetto ad altri paesi della vicina Europa, in tutto il mondo occidentale i diritti degli omosessuali non godevano di buona salute. Anche negli Usa degli anni cinquanta un giovane omosessuale non aveva di fronte a sé prospettive allettanti, mancando qualsiasi spazio culturale o sociale in cui l’omosessualità avesse un sia pur minimo riconoscimento. Non esisteva proprio l’idea di poter accettare e vivere la propria omosessualità in modo moderno. Scrive con molta lucidità Edmund White:
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Quando eravamo froci Messi con le spalle al muro da un pubblico ministero o da uno psichiatra, che cosa potevamo dire? Che l’omosessualità era legittima? Nessuno di noi era così astuto; nessuno può sfuggire al proprio contesto storico, tanto meno io, che come ogni americano dei sedati anni Cinquanta, credevo poco o niente alla storia.7
Dalle sponde americane paradossalmente il giovane Edmund sognava un’Europa più libera e spregiudicata, e forse un po’ aveva ragione. È interessante osservare come ci vedesse lui in quegli anni, credendoci più disinibiti: Per un omosessuale come me, cresciuto negli anni Cinquanta fra Cincinnati, Chicago, il Texas e il Michigan l’Europa rappresentava un’alternativa gradevole e misteriosa alla tremenda oppressione che vivevamo in casa, in un periodo in cui negli Stati Uniti, la psichiatria e la chiesa ci perseguitavano, e la polizia ci tendeva trappole: le tre istituzioni che corrispondevano alle tre interpretazioni più comuni dell’omosessualità: malattia mentale, peccato e reato.8
Noi possiamo dire che anche la vecchia Europa e l’Italia vivevano condizioni molto simili a quelle americane, anche se di sicuro in Italia, rispetto a Germania, Francia e Inghilterra, era più facile trasgredire e fare sesso omoerotico. Noi, a differenza dei paesi europei appena citati, non abbiamo mai avuto una legislazione punitiva contro gli atti omosessuali. Ma la caccia alle streghe (frocie), benché praticata a macchia di leopardo dai nostri giornali, dalla Chiesa e dalle istituzioni, era ben radicata. Una rivista italiana del periodo scriveva un pezzo scandalizzato contro una petizione raccolta in Inghilterra da un gruppo di centodieci intellettuali, aristocratici, politici e artisti che intendevano «cancellare ogni norma legale contraria alla libertà dei pervertiti», chiosando l’articolo con parole incredibilmente simili a quelle di Edmund: «Una deviazione che in Italia per la legge è reato, per la Chiesa è peccato, per la scienza è vizio o malattia».9 Come dire: tutto il mondo è paese. Tra l’altro il giornalista scrivendo che la «deviazione» omosessuale era «un reato», aveva preso un abbaglio: in Italia non c’erano leggi direttamente punitive, ma è ben significativo che lui lo credesse. Con ogni evidenza, la pratica di comportamento della polizia e della magistratura nel controllo degli omosessuali si sviluppava in quegli anni come se esistesse una tale legge: denunce, condanne, ricatti, fogli di via, schedature, confino erano gli ingredienti ovvi e indiscussi che avvelenavano la «sfavillante» torta del sottobosco omosessuale. D’altra parte bisognerà aspettare addirittura il 17 maggio 1990 perché l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) si decida finalmente a cancellare l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali.
1. Una copertina del Borghese del 1970 ridicolizza i costumi degenerati dell’Italia che cambia.
2. Una copertina dello Specchio del 1970 rimanda a un servizio sulla prostituzione esercitata dai travestiti della capitale.
3. Vale la pena di riportare alcune righe dell’articolo: «L’individuo di sesso incerto ma ufficialmente maschile che fa commercio del proprio corpo esiste, e di lui si occupano con frequenza le “squadre buoncostume” […]. Si tratta di persone alle quali madre natura ha giocato brutti scherzi lavorando con gli ormoni […], di “uomini con cervello di donna” […] tengono accuratamente celata la loro non certo felice condizione, e si limitano a celebrare […] patetici riti travestendosi da gran dama e giocando alle signore».
4. Facile gioco di parole fra le «madame» (soprannome dei poliziotti) e i «madamin» (signorine) su un titolo del settimanale Cronaca extra del 1972. L’articolo racconta la retata della polizia durante l’elezione di Miss travestito, a Torino. Vengono mobilitati seicento uomini delle forze dell’ordine per sospendere la manifestazione dei «madamin del terzo sesso».
5. Reportage del Borghese del 29 novembre 1970 sul cosiddetto ÂŤterzo sessoÂť, etichetta molto in voga in quegli anni.
6. Copertina del primo numero di Homo, una delle prime riviste omosessuali italiane. 1971.
7. Omosessuale in abiti di scena intorno al 1955. Gli omosessuali sceglievano spesso la via del teatro e dello spettacolo per esprimersi pi첫 liberamente.
8. Avanspettacolo nell’Italia del 1947. Nel dopoguerra in diversi locali iniziarono a organizzarsi spettacoli musicali interpretati en travesti.
9. Militari americani in fila davanti a un vespasiano durante la guerra. I vespasiani erano fra i luoghi piĂš utilizzati per rimorchiare.
10. Locandina di Splendori e miserie di Madame Royale (1970) di Vittorio Caprioli, film cult che racconta il mondo omosessuale in bilico tra euforia e violenza.